“Occidente vs Oriente” si sta ormai imponendo
come il principale terreno di confronto, e di scontro, economico e politico, ma
al tempo stesso anche come, nel bene e nel male, un continuo fertile scambio di differenti esperienze
e visioni del futuro. Al riguardo molto ci sarebbe da dire, e molto di certo si
dirà nei prossimi anni, ci limitiamo nell’introdurre il seguente articolo/intervista che racconta del ruolo e delle forme della tecnologia cinese, ad una battuta: finora si è sempre detto che quello che succedeva negli USA
tempo qualche anno sarebbe arrivato ovunque, adesso è tempo di dire che quello
che succede in Cina tempo qualche mese arriverà ovunque?
Come la Cina è diventata
una superpotenza tecnologica
Intervista di Andrea Daniele Signorelli (si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica
e società. Scrive per La Stampa, Wired, Il Tascabile, Pagina99 e altri. Nel
2017 ha pubblicato “Rivoluzione Artificiale: l’uomo nell’epoca delle macchine
intelligenti” per Informant Edizioni) a Simone Pieranni (giornalista del Manifesto, ha vissuto in Cina dal
2006 al 2014, tornandoci poi diverse volte, e ha appena pubblicato per
Laterza “Red Mirror”) – sito online “Il Tascabile”
La piattaforma di
messaggistica WeChat è uno dei principali simboli del graduale rovesciamento
dei rapporti di forza, in campo tecnologico, e quindi politico, tra Cina e
Occidente. WeChat nasce a Shenzhen, in Cina, nei laboratori del colosso
digitale Tencent. In Europa fece una fugace apparizione: nel 2013, lanciato con
un pubblicità in cui Lionel Messi, numero 10 del Barcellona, registrava e
inviava un messaggio vocale. Al tempo i vocali non erano ancora stati
introdotti in quasi nessuna delle app più popolari, qui da noi, e quello spot
ci era parso una stramberia destinata a fallire, l’ennesimo tentativo di
un’azienda cinese di sbarcare in Europa – dove Whatsapp, iMessage,
Messenger stavano già saturando il mercato –, con una copia di un prodotto
occidentale. Dal ruolo sempre più dominante nel campo dell’intelligenza
artificiale alla leadership nel settore smart city; dalla capacità di
influenzare l’industria digitale del resto del mondo alle prospettive
distopiche in termini di sorveglianza, liste nere e sistemi di crediti sociali: Red
Mirror è un saggio che esplora l’avanzata digitale cinese e la sfida
politica, tecnologica ed economica che pone al resto del mondo. Ma è proprio da
WeChat che il libro inizia, con un racconto che riassume bene che cosa sia
diventata questa app, oggi, per i suoi 1,2 miliardi di utenti (non solo ma
soprattutto cinesi): WhatsApp, ApplePay, Google Maps, TripAdvisor, Groupon,
email, MyTaxy, Uber, Google News. Tutto in un unico posto. Un sistema onnipervasivo,
che riunisce in un unico ambiente ciò che noi utenti occidentali troviamo
invece sparso in decine di applicazioni diverse – consentendo un’integrazione a
noi sconosciuta – e che ha permesso alla Cina di fare un enorme salto verso la
digitalizzazione di ogni attività. WeChat, in un certo senso, per i cinesi è
internet stesso, ma più integrato, più funzionale, più efficace, più evoluto.
Come direbbero alcuni: più smart. Sono finiti i tempi in cui la Cina copiava male le innovazioni che
uscivano dai laboratori di ricerca della Silicon Valley, e oggi è Mark
Zuckerberg che studia il modello WeChat. “Si tratta però di un processo ancora in
corso”, mi racconta Pieranni. “Per ora l’unico software cinese – quindi
escludendo gli smartphone Huawei e di altri – che davvero va forte in Occidente
è TikTok (di proprietà di Bytedance, ndA). Ma già adesso sempre più
stranieri vanno in Cina a lavorare, anche perché, per esempio nel campo dell’intelligenza
artificiale, si guadagna a volte ancora meglio che in Occidente. Arrivando più
cervelli arriva anche più innovazione. La recentissima vicenda dell’ex top
manager di Disney Kevin Mayer, diventato CEO di TikTok nel maggio 2020, è un
altro esempio di come stia cambiando la dinamica e di quale sia la strategia
cinese per entrare nel nostro mercato”. Nel frattempo i tentativi di Facebook e
Google di entrare (o rientrare) sul mercato cinese non solo continuano a non
dare frutti (nonostante i due colossi statunitensi siano disposti a qualunque
compromesso pur di riuscire nell’impresa), ma sembrano ormai
anacronistici. Perché la Cina dovrebbe (ri)accettare uno scomodo intruso come
Google quando può utilizzare il motore di ricerca Baidu (la cui intelligenza
artificiale è stata sviluppata da un pioniere del deep learning come Andrew
Ng)? Perché dovrebbe aprire i confini a Facebook e Messenger quando i cinesi
già usano Weibo, QQ e altri? “E infatti questi tentativi si sono ormai
smorzati”, spiega Pieranni. “Google e Facebook avevano interesse a trovare
spazio in Cina perché avevano capito molto bene, da tempo, che lì si potevano
raccogliere enormi quantità di dati. Oggi credo che sia un’ipotesi tramontata:
un po’ perché, con la nuova legge, i dati che raccogli in Cina devono restare
su server cinesi, un po’ perché Facebook ormai coltiva buoni rapporti con la
Cina allo scopo semmai di entrare nel capitale azionario di qualche azienda
cinese”. I giganti cinesi (Baidu, Alibaba, Tencent) stanno mostrando di poter
raggiungere quelli statunitensi (Google, Amazon, Facebook, Apple) e di poter
fare a meno di parecchi di loro. Ma il successo di TikTok – forse ancor più
della rivoluzione digitale di WeChat, che rimane per ora piuttosto confinata –
è il simbolo più potente del rovesciamento in corso. Come avremmo reagito, solo
pochi anni fa, se ci avessero detto che il social network più in voga del
momento, che sta nuovamente rivoluzionando il linguaggio digitale, sarebbe
stato un prodotto cinese? Per quanto imprevisti, questi scossoni non sono stati
improvvisi o casuali. Sono anzi il frutto di una strategia inaugurata ormai più
di un decennio fa: “Il processo era già partito da molto tempo, ma la vera
svolta c’è stata nel 2008 con la crisi economica occidentale, che ha fatto
diminuire gli ordini manifatturieri in Cina spronandola a spingere
sull’innovazione”, prosegue Pieranni. “Era necessario non solo continuare a
sviluppare un mercato interno, ma anche svincolarsi almeno in parte da una
produzione manifatturiera che li teneva al livello globale più basso di
guadagno. A partire dal 2008 hanno quindi iniziato a finanziare tantissime
startup e a creare tante piccole Silicon Valley, tra cui Innoway a Pechino”. Fedeli
al detto di Deng Xiaoping, secondo cui la Cina avrebbe cambiato il mondo nel
momento in cui i cinesi all’estero sarebbero tornati a casa, il governo ha
anche promosso il ritorno di scienziati e ricercatori formati in Occidente, e
che in patria hanno trovato praterie da esplorare. Esiste un concetto, in campo
economico, chiamato del leapfrogging, usato per
descrivere il “salto della rana” che alcune economie emergenti possono fare:
costrette, all’inizio, a usare tecnologie più sostenibili e efficienti,
finiranno per saltare le tappe intermedie dello sviluppo industriale seguite
dagli altri paesi, sorpassandoli in termini di innovazione. Per esempio, i
pagamenti via smartphone in Cina hanno potuto diffondersi più rapidamente
rispetto all’Occidente anche perché le carte di credito erano ancora poco
diffuse. Una situazione che ha messo la Repubblica Popolare nella condizione di
fare un “leapfrog”, saltando un passaggio e atterrando più avanti. Ma non è
tutto. “Bisogna anche prendere in considerazione il modo in cui agisce la forte
cornice cinese, dove c’è un partito che ha la capacità di coinvolgere un’intera
nazione su alcuni progetti precisi”, precisa Pieranni. “Per esempio, a Xi
Jinping è bastato nominare l’intelligenza artificiale in un paio di discorsi e
in tempo zero sono sorti migliaia di corsi di laurea in deep learning.
Oggi l’intelligenza artificiale viene insegnata già alle elementari. La
capacità di mobilitazione cinese è qualcosa di cui non si può non tenere conto:
quando il presidente pronuncia le parole ‘intelligenza artificiale’ tutti si
buttano e si crea una feroce competizione, in cui la legge della giungla premia
il valore di quelli che sono sopravvissuti dopo essersi scontrati con un
mercato folle e velocissimo”. Finanziamenti, entusiasmo e capacità di
mobilitare oltre un miliardo di persone: se si prendono in considerazione
queste caratteristiche, si inizia a intuire quali siano i vantaggi strategici
della Cina. “Ma non è tutto”, prosegue Simone Pieranni. “C’è un altro aspetto
legato alla peculiarità politica della Cina. Non vorrei che passasse l’idea che
i cinesi si facciano andare bene tutto, perché non è così, ma ci sono
sicuramente meno barriere nei confronti dell’invasività tecnologica nella vita
quotidiana. Quando in Cina si è iniziato a fare tutto con il riconoscimento
facciale, nessuno ha battuto ciglio, anzi c’è stato entusiasmo nei confronti di
un’innovazione che mostrava i progressi tecnologici cinesi. È una cosa che ha a
che fare anche con alcune concezioni filosofiche cinesi, che impediscono la
formazione di barriere etiche nei confronti dell’impatto della tecnologia sulla
vita quotidiana. Tutto questo fa sì che la Cina possa procedere con balzi più
ampi dei nostri”. Un altro aspetto cruciale, restando in campo di intelligenza
artificiale, è quello dei dati: il bene primario con cui vengono nutriti gli
algoritmi di deep learning e dei quali tutti i colossi tecnologici
hanno una fame insaziabile. Anche da questo punto di vista, la Cina ha un
cruciale vantaggio strategico, in quanto le leggi sono molto più permissive in
termini di privacy e le consentono di raccogliere dati di ogni tipo da
utilizzare per l’addestramento delle intelligenze artificiali. E che, dal punto
di vista del controllo politico, un domani dovrebbero portare a quel in
grado – proprio sulla base dell’analisi dei big data – di premiare i cittadini
virtuosi e punire gli altri. Ma davvero i cinesi vivono con tale nonchalance la
completa assenza di privacy a cui sono soggetti, tanto da accettare che, negli
incroci più trafficati, dei maxischermi mostrino i volti e i nomi dei
trasgressori? “Bisogna partire da un punto fondamentale: in Cina la privacy non
è praticamente mai esistita. C’è sempre stato un controllo fisico molto forte.
Si potrebbe risalire fino all’età imperiale, ma già nel 1949, con il maoismo,
la configurazione delle città veniva immaginata affinché consentisse un
controllo sociale totale da parte dei cittadini sui cittadini”, spiega
Pieranni. “La cosa è proseguita anche con l’arrivo delle gated communities degli
anni Novanta, cittadelle fortificate cinesi che non hanno nulla da invidiare a
quelle immaginate da Ballard. Anche in questo caso, la loro progettazione è
improntata alla possibilità che un cittadino ne controlli un altro. Il concetto
di privacy non è mai stato preso più di tanto in considerazione, anche perché è
ancora valido quel patto sociale tra partito e popolazione, che accetta il
controllo e in cambio riceve città sicure”. Eppure, è proprio in quel patto
sociale che si nascondono le insidie più pericolose per questo modello
governativo. Per due ragioni. Abbiamo detto che i cinesi accettano tutta una
serie di cose, bisogna però tenere presente che nella cultura e nel diritto
cinese esiste il concetto di “revoca del mandato”: “quando chi gestisce il
potere attua a lungo pratiche che la popolazione non accetta, questa ha il
diritto di abbattere il potere: la stabilità cinese è più fragile di quanto non
si creda”. Inoltre, la nascita e diffusione di una vera e propria classe media,
tale non solo dal punto di vista economico ma anche a livello di società
civile, non può che presentare sfide inedite al governo: “Con la pandemia le
cose si sono un po’ arenate e, anzi, si è di nuovo potuta mostrare l’efficacia
del controllo sociale nel tenere a bada il coronavirus. Nonostante questo, sta
comunque nascendo una riflessione sulla privacy, anche in seguito all’ingresso
del riconoscimento facciale in tutte le scuole, tutti gli uffici e anche nelle
case. Eric Lee, che è il boss di Baidu, aveva per esempio iniziato da qualche
tempo a porre problemi di etica dell’intelligenza artificiale e della raccolta
dati”. Problemi che diventeranno sempre più pressanti, visto che la Cina è
all’avanguardia anche nella progettazione delle smart city del
futuro. Terminus, società di Pechino che si occupa della gestione digitale e
intelligente di quartieri e compound, avrebbe già portato a termine oltre
seimila progetti di smart city: città inevitabilmente verdi e
sostenibili, rese intelligenti dall’uso della tecnologia, della raccolta dati,
del dispiegamento di algoritmi in grado di regolare il traffico e di centrali
di controllo che tutto analizzano. E in cui, ovviamente, le potenzialità di
sorvegliare la popolazione aumentano a dismisura. La visione d’insieme, che
unisca le città smart al progetto dei crediti sociali, mostra
però come in Cina sia un corso un colossale esperimento di ingegnerizzazione
della società. “È evidente come la Cina non stia proponendo solo dei nuovi
sistemi urbanistici, ma dei veri e propri nuovi modelli di cittadinanza.
Nelle smart city ci potrà vivere solo chi è ricco, ma tra i
ricchi vi potranno accedere solo quelli che hanno un miglior punteggio.
Attraverso le smart city si creano nuovi modelli sociali”.
Grazie all’assenza di privacy, in poche parole, la Cina è avvantaggiata nella
progettazione di dispositivi tecnologici che spesso vengono poi utilizzati per
aumentare ulteriormente la sorveglianza, per esempio attraverso progetti
scintillanti di città che sono in realtà un modello di sorveglianza totale in
versione “verde” e digitale. Il fatto
di essere uno stato autoritario ha fornito alla Cina alcuni vantaggi
strategici, a partire dalla raccolta dati necessaria per lo sviluppo degli
algoritmi di intelligenza artificiale. C’è ovviamente un elefante nella
stanza: dal punto di vista della competizione tecnologica internazionale, il
fatto di essere uno stato autoritario ha fornito alla Cina alcuni vantaggi
strategici. “La conclusione che si può trarre è che la globalizzazione così
com’è concepita oggi viene gestita meglio da un governo autoritario che da una
democrazia, almeno a livello di competizione economica”, spiega Pieranni. “Non
è necessario fare tutta una serie di compromessi con la società civile o con
l’istituzione parlamentare a cui invece si è soggetti in democrazia. In
effetti, se osservi ciò che avviene in Occidente in materia di governo, anche
al di là delle emergenze gestite a colpi di decreto, è chiaro che questa
dinamica è in atto da tempo anche da noi, e si vede anche dalle tante richieste
di presidenzialismo o semipresidenzialismo. La Cina è ciò che molti paesi
vorrebbero ma, per nostra fortuna, non possono essere”. L’impatto della Cina
sul resto del mondo, però, non si limita all’innovazione tecnologica. Come gli
Stati Uniti insegnano, una vera superpotenza che aspira all’egemonia deve
puntare anche sull’industria culturale. Qualche segnale inizia a vedersi anche
qui: come scrive Pieranni nel libro, il kolossal di fantascienza più importante
degli ultimi anni è forse The Wandering Earth, di produzione e con
attori cinesi; lo scrittore di fantascienza più famoso al mondo è il cinese Liu
Cixin (da cui The Wandering Earth è stato peraltro tratto),
mentre un’autrice sempre di fantascienza come Hao Jingfang è giunta fino in
Italia con il suo Pechino Pieghevole (senza dimenticare il
successo di parecchi videogiochi cinesi). Il dominio sulla cultura pop della
Cina parte quindi dalla fantascienza? “Ci stanno puntando molto ed è anche
merito di un fenomeno di massa come la vangluo wenxue,
la letteratura online, con milioni di lettori ma anche di scrittori, da cui
vengono tratte anche serie tv e videogiochi”, conclude Pieranni. “La Cina deve
però ancora riuscire a fare il salto di qualità, perché al momento – anche per
via della spinta da parte del governo – questa cosa della fantascienza rischia
di trasformarsi in una bolla. In più devono liberarsi da un po’ di ‘cinesate’ e
magari anche perdere un po’ di spocchia: non è possibile che in tutti i film ci
sia la Cina che salva il mondo”. Nel libro Pieranni racconta anche la storia di
Peng Simeng, giovane scrittrice di fantascienza che, grazie a un concorso di
letteratura online, è riuscita ad abbandonare la carriera da product manager di
Tencent: un’esistenza dedicata esclusivamente al lavoro che la faceva ormai
sentire “come una macchina” capace solo di lavorare, “mangiare, bere, fare
shopping e fare shopping”. La sua vicenda non è isolata,
scrive Pieranni: gli scrittori della nuova fantascienza cinese
provengono spesso da una formazione scientifica e hanno lavorato a lungo nella
nuova filiera digitale, dove hanno vissuto un’oppressione simile a quella
di Peng Simeng. “I ritmi sono diventati insostenibili”, conferma
Pieranni. “Ormai la normalità è lavorare nove ore al giorno, che possono
diventare anche 14 con gli straordinari, per sei giorni a settimana”. Visto con
i nostri occhi di occidentali, l’aspetto più preoccupante è forse il fatto che
questa tendenza al superlavoro si stia facendo rapidamente
largo anche da noi: “C’è una sorta di sinizzazione del lavoro in Occidente: i
nostri ritmi diventano sempre più simili. Nel libro riporto anche le parole di
alcuni manager della Silicon Valley, che sottolineano come in Occidente si stia
a discutere di diseguaglianze mentre in Cina lavorano come pazzi e raccolgono i
risultati”. Anche in questo caso, la tendenza sembra quella di voler guardare
al modello cinese sforzandosi di non notarne le criticità. Chiudiamo la nostra
conversazione citando un altro caso esemplare e paradossale: quello relativo al
controllo di stato sulla circolazione dell’informazione, che in Cina non si
limita più ad affidarsi alla censura del Grande Firewall (che impedisce ai
contenuti esteri sgraditi di arrivare fino agli utenti internet cinesi), ma si
è fatto molto più sofisticato e si affida oggi all’intelligenza artificiale,
alla polizia informatica e anche al cosiddetto “esercito dei 50 cent”, utenti
pagati 50 centesimi per ogni commento favorevole al governo che postano sui
social network e altrove, dirottando, o almeno bilanciando, le conversazioni
critiche. “In questi casi non si può nemmeno parlare di censura, ma più di
‘accompagnamento’ dei dibattiti online”, precisa Pieranni. Il controllo dell’informazione si affida oggi
all’intelligenza artificiale, alla polizia informatica e al cosiddetto
“esercito dei 50 cent”, utenti pagati 50 centesimi per ogni commento favorevole
al governo. “L’abbiamo visto anche in questi giorni,
in cui Twitter ha cancellato migliaia di account cinesi di bot e troll che
cercavano di guidare il dibattito e l’informazione su alcuni temi, tra cui le
manifestazioni di Hong Kong. Anche in questo caso si tratta di metodi cinesi
utilizzati oltre i confini e che diventano quindi un esempio molto interessante
per i governi occidentali autoritari o simil-autoritari. Turchia e Russia
imparano dalla Cina a fare queste cose”. In poche parole, si tratta di “turchi
meccanici” il cui compito è di svolgere semplici e rapide operazioni sul web,
per guidare la conversazione a favore del governo di Pechino. Un sistema
talmente radicato, che “è diventato ormai uno sfogo per l’occupazione”,
racconta Pieranni. “Parliamo di centinaia di migliaia di persone impiegate. Non
è solo il governo, ogni azienda in Cina ha il suo ufficio della propaganda, che
potremmo anche definire ufficio della censura. È uno dei tanti sistemi
economici che la Cina ha messo in piedi. È diventato irrinunciabile”.