APPUNTI SPARSI SULLA DISTOPIA
Che cosa intendiamo quando parliamo di DISTOPIA
1. PRESENTAZIONE (da Wikipedia)
ETIMOLOGIA
E SIGNIFICATO:
Con
il termine “distopia” (dal greco dis =
cattivo e tòpos = luogo), coniato nel
1868 dal filosofo John Stuart Mill (un termine diverso ma con lo stesso
significato, cacotopia, era già stato
utilizzato nel 1818 dal filosofo Jeremy Bentham) si intende la descrizione - in genere ambientata nel futuro, o in un
presente che si è evoluto in modo diverso e peggiore di quello reale - di una
società immaginaria altamente indesiderabile o spaventosa in cui alcune
tendenze del presente sono esasperate e portate ad esiti negativi.
Viene
dunque associato a termini come utopia
negativa, antiutopia, controutopia, sebbene da punto di vista
etimologico il termine “distopia” sia più precisamente opposto ad “eutopia”,
nel suo significato di “luogo eccellente”.
In effetti, mentre nell’eutopia l’autore esprime le sue speranze su di un
futuro positivo della società umana, indicando che un altro mondo buono e giusto è possibile, nella distopia
espone invece i suoi timori sul futuro o
critica i modi concreti in cui l’utopia realizzata si è presentata.
RAPPORTO
FRA UTOPIA E DISTOPIA:
Approfondiamo
il rapporto fra questi due termini facendo riferimento alla voce “Distopia” del
dizionario filosofico on-line, in cui si evidenzia come fra il termine
“distopia” e i sinonimi a cui viene spesso associato (antiutopia e
controutopia) non ci sia in realtà equivalenza di significato.
In
questi sinonimi si sottolinea infatti un senso di opposizione e di esclusione
rispetto all’utopia, mentre fra utopia e distopia non c’è, secondo l’estensore
del testo, un rapporto di contraddizione: solo in apparenza si oppongono,
perché in realtà l’una non esclude l’altra.
Esse
appartengono in effetti non solo ad uno stesso particolare filone della
fantascienza a sfondo sociale, che descrive mondi immaginari tanto felici e
virtuosi quanto temibili e invivibili, ma sono legate anche a livello
filosofico dal medesimo slancio ideale.
Sia nell’uno che nell’altro caso infatti c’è la denuncia di una realtà
avvertita come oppressiva, a cui l’autore vorrebbe si ponesse rimedio secondo
modalità razionali.
Certo
ci sono delle differenze non irrilevanti. L’utopia recide i legami con il
passato e con il luogo presente, e opera una cesura incolmabile fra la storia
reale e lo spazio della progettazione utopica, mentre la distopia si pone in
continuità con il processo storico, amplificando e rendendo tangibili le
tendenze del presente che potrebbero condurre ad esiti mortiferi se non
venissero denunciate o smascherate. Entrambe peraltro ci invitano a mantenere
un approccio critico con la realtà.
Esiste
però un filone in cui la distopia è davvero una controutopia, intesa a
smascherare l’utopia e a metterci in guardia contro di essa (pensiamo, dice il
commentatore, ad autori come Huxley e Berdiaev, che insistono sulla
pericolosità della realizzazione materiale di una determinata utopia, quella
scientifica il primo, quella politica il secondo – anche se è simbolico il
fatto che Huxley, dopo aver scritto una distopia su “Il mondo Nuovo”, abbia
prodotto anch’egli uno scritto utopico ne “L’isola”).
PRECISAZIONI
TERMINOLOGICHE SUL ROMANZO “DISTOPICO”:
Prima
di presentare il percorso del romanzo distopico novecentesco, traiamo dal sito
“La stamberga dei lettori” alcune precisazioni
terminologiche.
Per
essere distopico, un romanzo deve contenere la rappresentazione di una società
fittizia che porti ad estremi quasi fantascientifici i peggiori difetti di
quella reale. Per questo, anche se alcuni commentatori fanno rientrare nei
canoni del romanzo distopico quello post-apocalittico,
che rappresenta un mondo desolato dopo una catastrofe spesso causata dall’uomo,
secondo altri i due termini andrebbero disgiunti perché non
necessariamente un romanzo apocalittico
è anche distopico. Altri due sottogeneri parzialmente sovrapponibili al
distopico sono il romanzo fantapolitico,
che fa riferimento ad una realtà politica reale evoluta in modo del tutto
immaginario, o il romanzo ucronico
che narra l’evoluzione fittizia di un determinato contesto storico reale.
2. IL PERCORSO DELLA NARRATIVA
DISTOPICA
(appunti tratti
liberamente da Wikipedia, dalla voce
“Letteratura distopica”, dal sito“La
stamberga del lettori” e da alcuni articoli di “Repubblica”)
PRIME
AVVISAGLIE DELLA DISTOPIA NELL’OTTOCENTO:
Esempi
di narrativa distopica si possono trovare anche nell’ottocento, quasi a
controbilanciare l’imperante fede nel progresso e nel potere salvifico della
scienza e della tecnologia.
Possiamo
ricordare infatti alcuni romanzi che criticano
l’idea che le innovazioni tecnologiche siano di per sé capaci di far
evolvere la società, come “Le monde
tal qu’il serà” (1845) del francese Emile Souvestre, che
descrive il mondo del 3000 standardizzato e amorale a causa della rivoluzione
industriale, “Erewhon” e “Erewhon Revisitet” (1901)dell’inglese
Samuel Butler, che applica la teoria darwiniana alle macchine satireggiandola,
e ancora il racconto “ The machine
stops” (1909) in cui E.M.Foster descrive un’umanità completamente
asservita alle macchine, che va incontro ad una inevitabile decadenza quando
esse si fermano.
Si
tratta peraltro di esempi sporadici, in quanto e’ soprattutto nel novecento,
dopo il crollo del mito del progresso e il fallimento delle realizzazioni
politiche di molte utopie ottocentesche, che il genere distopico, con i suoi scenari
cupi e angoscianti, assume una forte rilevanza.
LA
PRIMA META’ DEL NOVECENTO E IL FILONE ANTIAUTORITARIO:
A
fare da apripista, alcuni romanzi di fine secolo o del primo novecento, come “La macchina del tempo” (1895) di
G.H.Wells, che descrive un mondo in cui la divisione delle classi ha prodotto
la degenerazione dell’umanità, tanto che i parassitari Eloi, discendenti degli
aristocratici, vengono allevati
come carne da
macello dai feroci
Morlocch, discendenti della classe
operaia; “Il padrone del mondo”
(1907), in cui Hugh Robert Benson racconta l’ascesa di un nuovo umanitarismo
che predica la tolleranza universale, ma che
in nome di essa perseguita
la religione cattolica
fino ad eliminarla;
“Il
tallone di ferro” (1908) di Jack London, che mette in scena la
ribellione eroica, anche se per il momento destinata alla sconfitta, delle
masse popolari contro le forze capitalistiche che instaureranno un regime
oligarchico destinato a durare a lungo prima di venire sconfitto in modo definitivo.
Già
da questi primi esempi possiamo cogliere una tendenza che diventerà prevalente
per tutta la prima parte del secolo, con la rappresentazione di società future
in cui il potere dell’autorità (politica, religiosa, tecnologica) pretende di
controllare ogni aspetto della vita.
Bersagli
privilegiati della narrativa distopica sono dunque le dittature, l’uguaglianza
forzata con la massificazione degli individui e il conformismo dominante, che
intende come negativa e perseguibile ogni manifestazione del libero pensiero,
oltre alla tecnologia esasperata che viene considerata un fattore di schiavitù
non meno pericoloso di quello dichiaratamente politico (dobbiamo tenere conto
del fatto che alle spalle di questo genere di narrativa abbiamo i grandi
avvenimenti storici del secolo, con la Rivoluzione d’ottobre del 17, che fa in
un certo senso da spartiacque, con la conseguente instaurazione di un regime
comunista nell’Unione Sovietica, oltre naturalmente all’ascesa del nazismo).
Contro
la disumanizzazione del collettivismo si muove infatti il primo dei grandi
romanzi distopici antitotalitari, scritto nel 1922 dal russo Evgenij Zamjatin, “Noi”, in cui si dipinge
un’organizzazione statale che pretende di controllare matematicamente le
vite dei cittadini attraverso un sistema
di efficienza e precisione industriale di stampo tayloristico. Sarà peraltro il
romanzo “1984”, dell’inglese
George Orwell (già autore de “La
fattoria degli animali”, una parodia fiabesca sulla deriva in
atto nell’Unione Sovietica), a costituire nel 1948 il più radicale atto
d’accusa contro la degenerazione dell’utopia comunista e a definire il
paradigma della distopia antitotalitaria. In generale infatti esso si basa
sulla descrizione di una società resa forzatamente uniforme attraverso l’uso sistematico
della propaganda e la soppressione della memoria storica, e assoggettata
pertanto al culto del partito e del capo, con agenzie governative o
paramilitari impegnate nella sorveglianza continua dei cittadini e un sistema
penale che non prevede alcuna garanzia
costituzionale, specie per i dissidenti
verso i quali l’uso della tortura è largamente consentito.
Accanto
a queste, che sono le opere maggiori del filone antiautoritario in chiave
politica, possiamo ancora citare il romanzo fantapolitico “Qui non è possibile” (1935) di Sinclair Lewis, che descrive
l’ascesa del totalitarismo negli Stati Uniti, “La notte della svastica” della scrittrice britannica
Katherine Burkedin, che immagina un mondo futuro in cui il totalitarismo
hitleriano è risultato vincente, e infine
“Anthen” della
scrittrice russo americana Ayn Rand, che nel 38 presenta la vita del futuro
come un immenso campo di concentramento comunista.
I
pericoli dello scientismo e del razionalismo saranno invece denunciati in modo
particolare da Karel Capec, scrittore e drammaturgo ceco, che nel suo “R.U.R” (1920) immagina una
società basata sul lavoro di robot semi umani, privi di anima, che si ribellano
e schiacciano gli uomini (anche se poi il romanzo ha un lieto
fine, perché i robot scopriranno ad
un certo punto
i sentimenti e
l’amore).
Da
notare che questo scrittore è stato il primo ad usare questo termine - dal ceco “robota” che significa lavoro duro
e forzato – immaginando i robot come esseri costituiti producendo artificialmente e poi assemblando le diverse parti del corpo.
Anche in questo caso peraltro
il romanzo che detterà il
paradigma di questo filone sarà
il successivo
“Il mondo nuovo” (1932) dello scrittore inglese Aldous Huxley, in cui si
descrive una società perfettamente pianificata secondo i principi
dell’eugenetica e del controllo mentale, per assicurare il massimo
dell’efficienza e della felicità agli umani.
LA
SECONDA PARTE DEL NOVECENTO E L’ESPANSIONE DELLA PROSPETTIVA DISTOPICA:
- la continuazione della prospettiva
antitotalitaria:
Nella
seconda metà del novecento la narrativa distopica conosce una vera e propria
espansione, imperniando con le sue specifiche modalità un ampio orizzonte di
opere letterarie e cinematografiche di ambientazione fantascientifica.
Nello
stesso tempo anche i temi si diversificano e diventano in un certo senso più
mirati, senza peraltro abbandonare il filone antiautoritario che trova ancora
espressione in un’opera significativa come “Fahrenheit
451” (1953), in cui Ray Bradbury, uno dei più importanti autori di
fantascienza di questo periodo, dipinge un’allucinante società del futuro in
cui è affidato ad un corpo specializzato di vigili del fuoco il compito di
operare una distruzione sistematica dei libri del passato, dando la caccia a
chi li conserva illegalmente e che spesso è disposto a sfidare la morte per
essi (notiamo che in questo romanzo,
come in quello di Orwell e in generale in molti romanzi distopici del filone antiautoritario, assume un rilievo
centrale un personaggio che rappresenta l’elemento perturbante, colui che
improvvisamente prende coscienza critica della perversione della realtà che lo
circonda, e cerca un modo per uscirne o per cambiare il sistema).
In
questa prospettiva antiautoritaria potremo inserire diverse altre opere: qui ci
limitiamo a citare “Redenzione immorale”, di Philip Dick (1956), satira di un
futuro dominato da un sistema persecutorio nei confronti di ogni devianza
sociale, con alcuni libri di Stephen King come “La lunga marcia”
del 1979 e “ L’uomo in fuga”
del 1982, in cui viene introdotto un
elemento che avrà un forte sviluppo in anni recenti, e cioè la presenza
di una società militarizzata e crudele che per distogliere il suo pubblico di
sudditi dalla presa di coscienza della loro sostanziale miseria organizza
combattimenti crudeli a cui non ci si può sottrarre.
(su
questo tema, pensiamo alla fortunatissima serie cinematografica tratta da “Hunger Games”, scritto da
Susanne Collins nel 2008, e al violento “Battle Royal” di Koushun Tatami, del 99, che presenta un
Giappone dominato da un Egemone in rappresentanza di una oligarchia feroce
che per difendersi dal ribellismo giovanile costringe i giovani a massacrarsi
fra loro, senza che gli adulti sappiano o vogliano proteggerli).
- le nuove piste
narrative degli anni sessanta:
Torniamo
ora agli anni sessanta, quando compaiono due importanti romanzi distopici che
aprono nuove e inquietanti piste narrative.
Il primo, “Arancia meccanica”
(1962) da cui sarà tratto l’omonimo film di Kubrick, ritrae una società non del
tutto dissimile da quella contemporanea, in cui si risponde alla violenza
giovanile con una violenza statale ugualmente feroce (il protagonista viene
“decondizionato” alla violenza e reso del tutto inoffensivo obbligandolo a guardare
scene violente mentre è sotto l’azione di un farmaco che induce una spaventosa
nausea); il secondo, “Il signore delle
mosche” di William Golding (
1963), è un romanzo crudo in cui si
assiste, con un totale rovesciamento dell’utopia rousseauiana, alla rapida
regressione ad uno stato primitivo e puramente istintuale di un gruppo di
bambini che per via di un incidente
aereo sono costretti a sopravvivere in
un’isola deserta.
- la prospettiva
postapocalittica:
A
partire dagli anni sessanta peraltro comincia a comparire e a diventare sempre
più rilevante, sia a livello narrativo che a livello cinematografico, quello
che Wikipedia definisce il filone della distopia post-apocalittica, in cui
viene rappresentata la distruzione del vivere civile o la sua degradazione
dovuta a catastrofi globali, spesso causate dall’uomo stesso.
Questi
romanzi rispecchiano la percezione sempre più diffusa di essere andati, come
civiltà, troppo oltre i limiti imposti dalla natura e il sentimento diffuso,
anche a livello filosofico (vedi ”L’uomo
è antiquato” di Gustav Anders) che all’avanzamento della tecnologia non
corrisponda un pari avanzamento dell’uomo in campo etico.
In
essi si ritrovano in genere alcuni elementi “forti”: una popolazione umana
ridotta ai minimi termini, comunità sparse che tentano di ricostruire una
qualche forma di vivere civile potendo contare solo su di una tecnologia
primitiva e che devono difendersi da altri gruppi che fanno uso della forza
bruta per procacciarsi le poche risorse disponibili, la presenza di esseri
mutati geneticamente per effetto delle radiazioni e spesso altamente
pericolosi.
Fra
i molti testi di questo genere, possiamo citare:
“Io
sono leggenda” di Richard Matheson (1954), da cui sono stati tratti
diversi film, “Il pianeta delle scimmie”
di Pierre Boulle, (1963), che ha pure dato vita a numerose trasposizioni
cinematografiche, “L’Ombra dello scorpione” di Stephen King (1978),
assieme ad altri più
recenti come “I
figli degli uomini” di P.D. James (1991) cui ha fatto seguito un film
di Alfonso Cuaròn, “L’ultimo degli
uomini” (2003) di Margharet Atwood
e ancora un romanzo di grande successo e valore narrativo come “La
strada” (2005) di Cormac McCarty.
-
altre prospettive:
In
questo excursus sulle linee di tendenza della narrativa distopica nella seconda
metà del novecento, possiamo ancora
segnalare tutta una serie di romanzi intesi a demistificare l’utopia del
progresso come crescita infinita del mondo della produzione capitalistica, mettendo
in evidenza l’ossessione mercificante della società dei consumi. Pensiamo
(traendo lo spunto da un saggio molto interessante di Gianluca Cuozzo,
intitolato “Filosofia delle cose ultime”) ad autori come J.G. Ballard, che ne “L’Isola di cemento” (1974) assume il punto di vista di un
ipotetico novello Robinson, bloccato non su di un’isola deserta ma nel raccordo
anulare di Londra, dove la controparte oscura e residuale del mondo diurno
della produzione si rende drammaticamente evidente; a Philip Dick, che a
giudizio di Cuozzo ha saputo più di ogni altro far prendere coscienza della
mercificazione dell’uomo nella società dei consumi (nel testo si fa riferimento
in particolare a “Ubik”, un
romanzo del 1969, dove uno spray con questa dicitura, ottenuto attraverso un
procedimento criogenetico, sembra assicurare un allungamento indefinito della
giovinezza assurgendo a simbolo della rappresentazione utopica del desiderio);
a Don DeLillo, che in “Underword”
(1977) invita il lettore a non distogliere lo sguardo da quei rifiuti che consideriamo semplici effetti
collaterali del nostro mondo sviluppato
e da cui invece potrebbe svilupparsi, secondo Cuozzo, una presa di
coscienza capace di liberare l’uomo contemporaneo dall’asservimento ad una
malintesa idea di progresso; a Paul Auster, che nel suo “Nel paese delle ultime cose” del 1987 mette in scena, in
modo tanto drammatico quanto metaforico, le tappe di un viaggio infernale verso
questi “luoghi altri” che produciamo, con i loro moderni dannati.
LINEE
DI TENDENZA DELLE DISTOPIE
CONTEMPORANEE:
Prima
di concludere questa breve carrellata segnaliamo ancora alcuni filoni
importanti della narrativa distopica contemporanea, che riprendono temi già
presenti nella fantascienza novecentesca affrontandoli peraltro in un’ottica
diversa.
Registriamo
intanto tutta una serie di romanzi intesi a denunciare le possibilità
distruttive di una tecnologia fuori controllo e solo apparentemente al servizio
dell’umano, che si pongono sulla linea immaginativa già presente ne “Il mondo nuovo” di Uxley come nel
“Player Plano”, l’opera prima
di Kurt Vonnegut (1952), in cui si descrive un’America diventata
succube della tecnologia.
In
quelli più recenti si esprime una preoccupazione che riguarda soprattutto la
manipolazione genetica: pensiamo per esempio al film “Gattaca”,
del 99, dove si rappresenta una società futura divisa fra persone potenziate,
nate da fecondazione artificiale dopo la rimozione di ogni difetto dal Dna
embrionale e destinate alle carriere più prestigiose, e altre in cui la manipolazione genetica non è stata attuata
e che sono quindi destinate ai lavori più umili; ad un libro dolente e delicato come “Non lasciarmi” di Kazuo
Ischiguro, del 2005, in cui seguiamo la crescita di un gruppo di bambini, nati
da clonazione, che vengono allevati in uno speciale collegio inteso a formare
in loro dei perfetti donatori di organi; e ancora al romanzo di Michel Houellebecq “La
possibilità di un’isola”, sempre del 2005 , in cui, attraverso il racconto di vita del protagonista, letto e
commentato a molti anni di distanza da esseri potenziati e collegati fra loro e
allo scrivente da un comune DNA replicato, assistiamo per così dire in diretta
allo scivolamento nichilistico di una società chiusa in un individualismo
edonistico e tesa solo al mantenimento della forma fisica e dei piaceri che ne
derivano, pronta ad affidarsi a nuovi profeti e ai miraggi di una sterile
immortalità.
Testi
dunque che toccano temi non certo astratti ma già largamente presenti, almeno
in via di ipotesi, nella società attuale, di cui denunciano gli aspetti più
oscuri per attivare il nostro livello di attenzione.
Un
altro filone importante, che si collega al precedente, è invece inteso a
denunciare le possibili derive illiberali della tecnologia digitale della
comunicazione. Introdotto negli anni ottanta da un libro come “Neuromante” di William
Gibson e dalla cosiddetta fantascienza “cyberpunk” (che rappresenta un futuro
in cui alla irrilevanza dei governi nazionali corrisponderà un dominio sempre
più accentuato delle grandi corporazioni high-tech), echeggia ora in tutta una
serie di prodotti culturali di largo consumo
dedicati a riflettere su che cosa significhi abitare in un’epoca iperconnessa, in cui
tutto e tutti possono essere oggetto di controllo o destabilizzati dallo
spionaggio digitale (un’epoca “post Snowden”, come viene definita in un recente
articolo di Fabio Chiusi su
“Repubblica”).
In
effetti molti di questi prodotti, citati nel testo, hanno come protagonisti
degli hacker, come il quarto volume della serie “Millenium”, scritto da
David Lagercrantz, o si concentrano, come in “Mr. Robot” (una serie TV
che in questo momento ha molto successo negli Stati Uniti) sul potere
rivoluzionario dello hacking
collegandolo al dramma delle disuguaglianze sociali portato alla ribalta
dai movimenti tipo “Occupy Wall Street”), mentre il recente “The circle”, di Dave Eggers
(2013), sceglie la strada della satira di una grande Google iperdemocratica e
insieme ipertotalitaria che studia ogni istante delle nostre vita rendendo
obsoleta, attraverso una propaganda capillare
condotta con grande abilità manipolatoria, l’idea stessa di privacy, a
cui viene sostituito l’ideale della trasparenza perfetta e della comunione permanente e totale dei “connessi”.
Prodotti
dunque dove realtà e finzione risultano ormai strettamente intrecciate, ponendo
un problema di fondo rispetto alla potenzialità dirompente di una narrativa
distopica i cui incubi si confrontano con una realtà ancora più cupa e
angosciante, che comincia ad apparire ora, secondo Fabio Chiusi, come la vera “antiutopia”
(N.B. = riprenderemo questo discorso nell’ultima sezione)
Segnaliamo
in ultimo (facendo riferimento anche in questo caso ad un recente articolo di
Bruno Arpaia su “Repubblica”) un filone che sta diventando un vero e proprio
genere a se stante, con dignità letteraria, declinando in forme nuove e
complesse alcuni temi già presenti nella fantascienza apocalittica
novecentesca. Si tratta della cosiddetta “climate-fiction” - la narrativa che mette in scena le
potenzialità catastrofiche del cambiamento climatico - che coinvolge grandi
nomi, come Margaret Atwood, e numerosi nuovi autori attirando l’attenzione di
un pubblico vasto, con un occhio di riguardo ai cosiddetti “giovani adulti”,
senza cedere ad un catastrofismo di maniera avendo bensì alle spalle, secondo
Arpaia, uno studio non superficiale della produzione scientifica
sull’argomento.
Rispetto
alle tradizionali distopie, queste nuove fiction sono in genere ambientate in
un futuro meno remoto e sono più legate alla realtà contemporanea. Si presentano
dunque come dei veri romanzi speculativi, che usano la potenza di
coinvolgimento emotivo delle narrazione per attivare nei lettori il desiderio
di informarsi attraverso altre fonti su
problemi drammaticamente reali, rispetto ai quali una correzione di rotta
appare ancora possibile.
3. TESTI SULLA DISTOPIA
(N.B. = in questa
sezione riassumiamo alcuni saggi e articoli in cui si analizza il rapporto fra
utopia e distopia e ci si interroga sul valore formativo della narrativa
distopi
Paola Gatti -
“Discorso utopico e distopico” (ed.
Mneme)
PRESENTAZIONE:
CONTINUITA’ O ANTINOMIA?
In
questo suo interessante saggio Paola Gatti (ricercatrice presso la Pontificia
Università Gregoriana) parte da una domanda ineludibile per chi riflette sul
genere letterario della distopia, che come abbiamo visto nelle pagine
precedenti ha davvero permeato di sé gran parte della narrativa a sfondo
fantascientifico del 900: e cioè se essa vada intesa sostanzialmente come
un’antiutopia, uno smascheramento delle tendenze implicitamente totalizzanti e
perverse del discorso utopico, venendo dunque a configurarsi come una decisa
messa in guardia da ogni sua concreta realizzazione.
Questo
modo di intendere la distopia, che getta una luce inquietante sulla sua
controparte utopica, poggia a suo giudizio su di un fraintendimento sostanziale
rispetto all’impostazione concettuale delle celebri utopie che hanno segnato la
storia del pensiero filosofico. Per valutarle correttamente occorre infatti
operare una separazione metodologica fra le finalità ideali che le hanno
ispirate e le strategie che gli utopisti hanno messo in atto per rappresentare
le loro Isole felici e Città nuove, senza proiettare su di esse categorie
politiche moderne bensì inserendole nel contesto storico in cui sono nate.
Così facendo, osserva
Paola Gatti, potremo evitare, per esempio, di tacciare sbrigativamente la
Repubblica platonica di proporre un sistema politico e sociale totalitario
(frutto, secondo uno studioso dell’utopia come Cosimo Quarta, della proiezione
del nostro concetto moderno di “classe” sulle diverse categorie di cittadini
che abitano la città ideale governata dai filosofi, ossia da coloro che per
Platone meglio possono incarnare il Principio di Ragione);
allo stesso modo
potremo assolvere Tommaso Campanella dall’accusa di aver schiacciato gli
abitanti della sua immaginaria Città del Sole sotto il peso dell’assolutismo
statale - attraverso l’adozione di
criteri eugenetici nelle nascite, il lavoro obbligatorio per tutti,
l’abolizione della proprietà privata e dei legami familiari - perché
nell’impostazione del filosofo non si vuole l’annullamento del singolo nella
comunità, bensì il suo inveramento in essa, nella profonda convinzione che il
particolare e l’universale possano virtuosamente compenetrarsi e nella speranza
che l’uguaglianza fra gli uomini possa trionfare sulla spaventosa realtà di un
mondo caratterizzato dalla presenza di masse oppresse dall’ ignoranza, dallo
sfruttamento, dalla miseria; e ancora le istituzioni vigenti nell’Isola di
Utopia ci sembreranno molto meno oppressive, nella loro uniformità ordinatrice
invero alquanto accentuata, se solamente porremo mente alla situazione caotica,
confusa, arbitraria e dolente a cui Thomas More
cercava di porre rimedio
attraverso la sua riflessione…
Se
dunque l’utopia, in questa prospettiva, va vista soprattutto come la
manifestazione della speranza che un destino diverso sia possibile rispetto ad
un doloroso presente, dobbiamo chiederci come intendere la distopia, che in
apparenza si presenta come il suo rovesciamento.
In
realtà fra utopia e distopia c’è piuttosto, secondo Paola Gatti, un intreccio
complesso che può essere ben rappresentato, a livello simbolico, da una celebre
litografia di Escher, intitolata “Mani che disegnano”. In essa vediamo infatti
una mano che disegna l’altra in una sorta di vortice senza fine che crea una
sorta di tutto indivisibile. Allo stesso modo l’immagine della Città Nuova
vagheggiata dagli utopisti si unisce alla narrazione della società perversa
della distopia, componendosi, dice l’autrice, nel medesimo slancio: la denuncia
di una realtà avvertita come dolorosa e oppressiva e la sollecitazione a porvi
rimedio attraverso l’esercizio della razionalità.
Poi,
certo, ci sono differenze profonde rispetto alla posizione in cui utopia e
distopia si collocano rispetto al processo storico, che l’utopia recide, per
far posto alle sue rappresentazioni, operando una frattura sia geografica che
temporale (un luogo “altro”, un tempo “altro” ), mentre la distopia presenta la propria costruzione come il risultato
esiziale di condizioni già insidiate nel presente.
Pur
tuttavia, nonostante la diversità di collocazione rispetto al processo storico
e la differenza dei procedimenti narrativi messi in atto, esse sono da
considerarsi davvero complementari e necessarie l’una all’altra come entrambe
lo sono a noi, secondo l’autrice del saggio, perché l’utopia porge la forma
normativa a cui tendere, ma nello stesso
tempo viene richiamata dalla distopia a non permettere che l’intenzione di
realizzare una società giusta e fraterna si corrompa durante il cammino.
Non
è dunque dell’utopia che dobbiamo avere paura, ma piuttosto della carente
capacità degli uomini di oggi di proporsi percorsi “altri” da quelli esistenti,
ricordando il monito di Lewis Mumford sulla necessità di seguire con forza un
cammino di trasformazione che renda più giusta la condizione dell’uomo su
questa terra …
LE DISTOPIE DEL NOVECENTO
Nella
seconda parte del saggio l’autrice prende in esame i tre romanzi distopici più
importanti della prima parte del novecento (“Noi”, “Il mondo nuovo”,
“1984”), ravvisando in essi una comune origine nella Leggenda del
Grande Inquisitore, contenuta nei “Fratelli Karàmazov” di Fedor
Dostoveskij, che postula in modo drammatico e paradigmatico un’assoluta
antinomia fra libertà e felicità, da cui deriva che la seconda sia possibile solo al patto della
soppressione della prima.
A raccontare la storia
è Ivan, uno dei protagonisti del romanzo, che rivela al fratello Alesa di aver
scritto un poema, ambientato nel periodo più buio dell’ Inquisizione spagnola,
in cui immagina il ritorno sulla terra di un Gesù desolato per le tristi
condizioni in cui versa l’umanità e inteso ad operare una nuova salvezza. Subito riconosciuto dalla folla che assiste
ai lugubri autodafé, il Salvatore opera nuovi miracoli ma il Grande
Inquisitore, informato della sua venuta, non esita ad ordinare il suo arresto e
nella notte si reca da lui per comunicargli la sua decisione di farlo bruciare
sul rogo l’indomani.
In un lungo monologo il
gesuita pronuncia una dura requisitoria contro Gesù, accusandolo di essere
tornato solo per turbare l’operato della Chiesa che si è maternamente presa
cura in sua assenza di quel gregge umano a cui la sua proposta religiosa, se
intesa alla lettera, non avrebbe portato che danno. Non per tutti gli uomini
infatti la libertà, che Gesù ha posto alla base dell’adesione alla fede in Dio,
è un dono, anzi essa rappresenta per la massa, secondo il Grande Inquisitore,
un fardello insopportabile: non la libertà vogliono gli uomini, ma il pane e la
felicità di un’esistenza in cui siano altri ad assumersi il peso delle scelte.
A questo è inteso per l’appunto il magistero della Chiesa, che ha unito
all’autorità spirituale il potere: e per questo dunque Egli dovrà morire una
seconda volta.
In
questo apologo, osserva Paola Gatti, Dostoveskij rivela la sua totale sfiducia
nella possibilità di una conciliazione fra libertà e felicità e la
consapevolezza di come agli uomini si richieda di operare una difficile scelta:
se percorrere una via segnata dalla sottomissione ad una autorità esterna,
rinunciando alla libertà, o accettare un percorso di vita caotico, difficile,
segnato dalla sofferenza.
Lo
stesso tema, secondo l’interpretazione dell’autrice del saggio, è posto al
centro dei tre romanzi citati, esempi significativi di quella narrativa
distopica che ha imposto, a partire dall’inizio del novecento, un totale cambio
di prospettiva rispetto alla dimensione utopica precedente, creando un modello
paradigmatico per tutte le distopie antitotalitarie successive.
Imposta
dunque la sua riflessione su di essi evidenziandone il collegamento con la
Leggenda del Grande Inquisitore. (N.B. = abbiamo aggiunto al suo commento
alcune note orientative sugli autori)
“NOI”, di Evgenij Zamjatin
Questo romanzo di
Evgenij Zamjatin, scrittore e ingegnere russo, è stato scritto fra il 1919 e il 1921 in seguito alle esperienze
personali dell’autore durante la Rivoluzione del 1905 e del 1917, e
all’attività professionale svolta nei cantieri navali inglesi, dove aveva
potuto osservare la razionalizzazione del
lavoro tipica della grande industria.
E’ considerato uno dei
più lungimiranti atti d’accusa contro la spietata diffusione del taylorismo in
Unione Sovietica e contro il collettivismo esasperato e la tendenza totalitaria
che presto avrebbero stretto il paese in una duplice morsa. Per questo fu il
primo romanzo ad essere messo al bando nel 21 dal Glavlit, l’ente sovietico
proposto alla censura (sarà pubblicato poi nel 24 in lingua inglese), mentre
veniva organizzata contro l’autore una vera e propria persecuzione, privandolo
della possibilità di pubblicare i suoi scritti. Solo nel 31 gli verrà concessa
la possibilità di emigrare a Parigi,
grazie all’intercessione di Maksim Gorkij presso Stalin.
Veniamo
ora al romanzo il cui titolo è già di per sè significativo. Lo scritto si
sviluppa infatti in una serie di note in cui il protagonista, il cui nome è un
numero –D.503 – e la cui funzione è quella di Primo Costruttore dell’Integrale
(una nave interplanetaria che deve presentare alle altre civiltà, ancora ferme
ad uno stadio primitivo di libertà selvaggia, il mirabile ordine conseguito
dallo Stato Unico umano, imponendo loro la medesima organizzazione), registra
quanto accade senza presentarsi come un IO ma come un NOI.
L’IO
infatti non esiste più, in questo nuovo mondo dove l’individualità è
considerata una malattia da estirpare e i cui abitanti significativamente non
hanno più un nome ma un numero, perché quest’ultimo è più atto a definirli come
rotelle di un unico, grande e ben lubrificato ingranaggio. Nulla di ciò che è
privato esiste più, tutto è trasparente come le stesse pareti degli edifici, in
uno stato che è come un grande Leviatano volto ad assicurare, attraverso un
totale addomesticamento del popolo, un perfetto ordine matematico, il cui
garante è un capo supremo denominato “Benefattore”. A lui devono dunque andare
l’obbedienza e il rispetto assoluto dei felici abitanti dello Stato Unico
Terrestre, liberi ormai dal peso di ogni scelta.
Il
riferimento alla Leggenda, secondo Paola Gatti, è assai palese, per quanto non
esplicitato, e per darne prova riporta un dialogo fra il Benefattore e il
protagonista – di fatto un monologo, come nel caso del Grande Inquisitore con
Gesù - in cui il primo afferma come l’unico amore possibile nei confronti degli
uomini sia l’amore crudele, che li sottomette legando loro mani e piedi con i
lacci della felicità ponendoli dunque in una situazione simile, egli dice, a
quella del Paradiso terrestre, dove la beatitudine non conosce desideri al di
là del servizio a Dio. Un ritorno che rappresenta dunque la fine della storia,
il suo ultimo atto dal momento che non ci sarà più, dopo, alcun bisogno di
storia. (naturalmente, poi, per garantire a tutti questa radiosa felicità, occorrerà stare molto attenti a che
non si manifestino voci dissonanti – i
guardiani della compiuta rivoluzione sono infatti sempre in ascolto – e qualche
pubblica esecuzione degli eventuali dissidenti ricorderà a tutti che la morale
fondata sul libero arbitrio è un residuo primitivo…).
Come
nella Leggenda dunque siamo di fronte ad un totalitarismo assoluto che
distrugge gli individui pretendendo di essere al loro servizio: ed è contro
questa pretesa che si leva la vo“L’Isola ce di Zamjatin,
profondamente convinto, dice Paola Gatti, che nessuna rivoluzione, nessun
cambiamento può essere l’ultimo, come non ci può essere un ultimo numero nella
serie infinita degli stessi: fra il polo della libertà e il polo dell’ordine ci
può essere soltanto tensione dialettica, perché questa riflette la natura
stessa dell’universo che si dibatte costantemente tra due forze – l’entropia e
l’energia – l’una delle quali porta alla pace e all’equilibrio mentre l’altra
al movimento senza fine.
“IL MONDO NUOVO”, di Aldous Uxley
Aldous Uxley (
1894-1963), scrittore, giornalista e polemista appartenente ad una eminente
famiglia inglese, è stato riconosciuto come uno degli intellettuali più
influenti del 900 ( le sue idee sono state alla base dell’ Human Potential
Mouvement).
Di tendenze umaniste e
pacifiste, interessato al misticismo orientale e all’uso delle droghe
psichedeliche, ha inteso denunciare, con questo romanzo pubblicato nel 32, le
possibili derive disumanizzanti del progresso scientifico, immaginando un mondo
nuovo apparentemente utopico di cui viene sottolineata la totale sterilità
esistenziale. Peraltro, benché la sua sia una “antiutopia”, ha scritto anche
lui un romanzo utopico, intitolato ”L’isola”, in cui, utilizzando il
paradigma di More, immagina un luogo felice e appartato i cui abitanti sono
riusciti a coniugare la scienza con l’arte.
Vediamo
dunque come è organizzato questo Mondo Nuovo (in realtà l’aggettivo “Brave” del
titolo ha in inglese il significato di “eccellente”) che intende assicurare ai
suoi abitanti il massimo della felicità, coniugandola con la perfetta
efficienza del sistema. In effetti perviene davvero a questo risultato,
utilizzando un sistema più “scientifico”
e apparentemente più umano di quello che abbiamo visto nello Stato Unico
immaginato da Zamjatin: qui in effetti non c’è alcun bisogno di esecuzioni
pubbliche per i dissidenti, in quanto si è operato bene alla radice di modo che
i dissidenti non possano davvero esistere…
Si
usa a questo scopo semplicemente la manipolazione genetica, che viene attuata
nell’Istituto di Incubazione e di Condizionamento (sulla cui descrizione Uxley,
che aveva fatto studi scientifici oltre che letterari, si ferma a lungo). Attraverso un complicato sistema, denominato
Processo Bokanovsky, la riproduzione umana viene attuata in laboratorio in modo
da produrre cinque diversi gruppi umani con caratteristiche genetiche coerenti
con i compiti che questi individui dovranno svolgere: cancellando pertanto ogni
singolarità in quelli inferiori – i Gamma, i Delta e gli Ypsilon - e mantenendo invece qualche barlume di
individualità negli Alfa e nei Beta, che
assumeranno compiti di maggiore responsabilità in cui occorre operare qualche
scelta per far fronte ad eventi imprevisti.
Poi,
naturalmente, su questi individui nati in provetta viene operato un condizionamento educativo di
rinforzo, per cui essi non solo svolgeranno al meglio le loro funzioni, ma
saranno estremamente felici di farlo, trovandole del tutto rispondenti alle
loro doti “naturali”:
(si va dall’ipnopedia,
ossia dai messaggi subliminali trasmessi durante il sonno, a forme di
condizionamento di tipo pavloviano – vedi il nutrimento dato a testa in giù ai
neonati che dovranno diventare riparatori di jet in volo, in modo di associare
questa posizione al benessere, oppure le scosse elettriche somministrate ai
bambini che si avvicinano ai fiori, in modo da suscitare in loro l’odio per
tutto ciò che è naturale: lo sviluppo economico del mondo nuovo punta infatti
tutto sul consumo di beni materiali, la bellezza in quanto gratuita è
considerata inutile…)
Felici
e appagati dunque vivranno – sani e ben formati lo sono già per nascita – in un
mondo dove non ci sono guerre né miseria e i beni materiali abbondano, potendo
godere di una sessualità libera che esula dai legami familiari, considerati
fonte di distorsioni emotive, e potendo contare in aggiunta di droghe
chimiche come la “soma”, che
contribuiscono ad aumentare la sensazione di piacere e di euforia.
Un
mondo perfetto, dunque?
Beh,
qualche piccolo difetto c’è, in effetti, e a riconoscerlo è lo stesso
Governatore dello Stato Mondiale, in un dialogo con uno dei personaggi, John
(proveniente da un’area non civilizzata del pianeta che è stata mantenuta tale
per ragioni turistiche e antropologiche), il cui sguardo su questo mondo nuovo
è insieme affascinato e perplesso. Alcune cose si sono dovute sacrificare –
ammette infatti il Governatore che ha
compiuto personalmente questo sacrificio, avendo potuto attingere in età
giovanile alle più alte espressioni della natura umana: l’arte, la bellezza, la
conoscenza della storia, la tensione verso il
trascendente, il diritto stesso di soffrire non sono più compatibili con
l’armonia del sistema, per cui anche la ricerca scientifica è stata bloccata
perché potrebbe produrre cambiamenti pericolosi in tanta perfezione…
Attraverso
questo dialogo, commenta Paola Gatti, ritroviamo dunque l’amore crudele di cui
parla il Grande Inquisitore, cioè il supposto amore verso l’umanità da parte di
un Potere che opera scelte onerose in vista di ciò che si considera un bene
collettivo, e che considera se stesso (o finge di considerarsi tale) nobilitato
da questo fine. Una finzione che l’ultimo testo farà invece cadere, assestando
un colpo decisivo a questa mistificazione.
“1984”, di George Orwell
George Orwell (1901
-1950), pseudonimo di Eric Arthur Blair, nato a Mortihari, in India, da una
famiglia modesta di funzionari governativi, è stato giornalista, scrittore,
attivista politico. Di orientamento politico di sinistra, prese coscienza
progressivamente delle contraddizioni e degli errori del comunismo realizzato
in Unione Sovietica sotto Stalin (in particolare per la conduzione del Partito
nella guerra civile spagnola - a cui prese parte combattendo per il Partito
Operaio di Unificazione Marxista, di ispirazione trotzkista - , dove gli
anarchici e i lealisti furono dichiarati
fuorilegge dai “compagni” stalinisti).
Questo lo portò ad assumere una posizione di radicale opposizione all’ideologia
comunista, scontandola con le accuse di tradimento degli ideali rivoluzionari
che gli vennero rivolte da molti degli ex compagni di fede.
E’ autore, oltre del
libro che Paola Gatti presenta e che costituisce una delle più celebri distopie
a sfondo antitotalitario (il titolo è dovuto ad una inversione della data di
pubblicazione, il 1948), de “La
fattoria degli animali”, una parodia grottesca della deriva totalitaria
dell’Unione Sovietica scritta in forma di favola, e di altri numerosi romanzi e saggi, spesso
ispirati alle sue vicende biografiche come ”Giorni in Birmania”, dove
rese testimonianza dell’esperienza traumatica compiuta a vent’anni nella
Polizia Imperiale inglese, da cui si dimise quasi subito, disgustato dalla
funzione repressiva cui era stato costretto, e
“Omaggio alla Catalogna”,
un diario –reportage scritto nel 38
durante la guerra civile spagnola.
Osserva
Paola Gatti che mentre nei due romanzi precedenti i personaggi in cui si
incarna il Potere Assoluto mostrano di intendere il potere non come fine, ma
come mezzo - se pure non privo di aspetti sgradevoli e in certi casi crudeli -
per assicurare ordine, armonia, efficienza al sistema e felicità agli abitanti
dei loro mondi, sollevandoli dalla
responsabilità delle scelte nel presupposto che il peso della libertà sia per
essi eccessivo e fuorviante (una forma di amore dunque, a cui per se stessi
affermano di aver rinunciato sacrificando la loro vita a questo alto compito),
in questo terzo e ultimo romanzo questa parvenza di nobiltà, questa ipocrisia
di fondo viene fatta letteralmente “esplodere” al suo interno. George Orwell
intende infatti svelare, in un testo estremamente potente dal punto di vista
narrativo che si presenta come una vera e propria fenomenologia del potere, il
suo vero volto, la sua vera natura.
Anche
in questo caso la rivelazione avviene attraverso un dialogo, ammesso che si
possa chiamare dialogo quello che si realizza fra il protagonista del romanzo,
Winston Smith – che assume nel testo il ruolo di “perturbante”- e il suo
antagonista O’Brien nel “Ministero dell’
Amore”, che è il luogo deputato alla tortura dei dissidenti:
(una tortura che non
vuole solo piegare i corpi, ma le menti: non ci si accontenta, tanto per fare
un esempio, che la persona straziata dalle scosse elettriche dichiari con tutta
la sua residua, disperata forza, di vedere nero il bianco e viceversa, a
seconda di ciò che il suo torturatore afferma , ma che lo “veda” davvero, come
bianco o come nero; non ci si limita ad uccidere i dissidenti, ma si vuole
riportare su di loro l’ultima vittoria, privandoli financo della possibilità di
morire maledicendo il Grande Fratello)
Dice
infatti O’Brien con brutale franchezza (è finito il tempo in cui giocava con
Winson come il gatto col topo, celandogli il suo vero ruolo e attirandolo
gradatamente nella sua trappola) che il Partito di cui entrambi ben conoscono
le strategie adottate per mantenersi al
potere non lo fa per qualche supposto benessere collettivo, e meno che mai per
assicurare ai suoi funzionari e ai suoi capi la possibilità di condurre una
vita più ricca, o lunga, o felice
rispetto ad altri.
Lo
fa bensì per il gusto puro del potere, proclamando in questo la sua superiorità
rispetto agli ipocriti nazisti tedeschi e comunisti russi, che non ebbero mai,
secondo O’Brien, il coraggio di dichiarare
apertamente le loro vere ragioni, mentre il Partito Unico di Oceania non
ha remore nel sostenere che “non si stabilisce una dittatura nell’intento di
salvaguardare una rivoluzione, ma si fa una rivoluzione nell’intento di
stabilire una dittatura”…
Una dittatura tanto
feroce e perversa, quella messa in scena da Orwell, quanto capace di
raggiungere il fine del proprio indefinito mantenimento, per cui tutti i mezzi
diventano possibili e si operano scelte spaventose, che si diversificano
nettamente da quelle messe in atto nei mondi distopici creati da Zamjatin e da
Huxley.
Tanto ordinati,
efficienti, e almeno nel secondo caso materialmente opulenti erano quelli,
quanto caotico, misero e disperato è il mondo dell’Oceania orwelliana, immerso
in una guerra permanente con una qualsiasi delle potenze rivali (Eurasia ed
Eufrasia), forzato alla distruzione continua dei mezzi di produzione e dei
prodotti del lavoro umano, che viene fatta consapevolmente per aumentare la
povertà, ridotto ad una disperazione che non ha più sponde salvifiche in
famiglie dove ognuno è nemico all’altro e spia potenziale, e reso infine
parossistico dall’astinenza sessuale, fortemente raccomandata dal Partito per incanalare l’energia verso i due poli
dell’odio – sia verso il nemico esterno che verso il nemico interno,
rappresentato come il grande
“sabotatore” della rivoluzione – e dell’amore, come cieca sudditanza devozionale verso la figura
salvifica altrettanto mitica del “Grande Fratello” .
Un mondo terribile
dunque, dove non c’è alcuna possibilità di sottrarsi alla sorveglianza continua
che invade ogni spazio attraverso telecamere onnipresenti, per cui si è
costretti a controllare non solo ogni comportamento, ma ogni emozione, ogni
pensiero (in Oceania non si viene uccisi solo per ciò che si fa, ma anche per
ciò che si pensa: per questo esiste la psicopolizia…); un mondo alienato dove
la memoria viene costantemente manipolata per mantenere il dogma dell’infallibilità
del partito e per impedire ogni confronto col passato, per cui lo stesso
concetto di realtà diventa opinabile (se
il Partito dice che 2+2 è uguale a 5 questo diventa per tutti vero) e dove si
cerca di annichilire la stessa possibilità del pensiero attraverso la
compilazione di una “neolingua” che incorpori l’ortodossia nelle parole stesse,
estinguendo alla radice ogni dissidenza.
Il Partito sa bene
infatti che il dominio sui corpi non basta come non basta la paura per dominare
le menti, ma occorre lavorare direttamente sulla memoria, sul linguaggio, sul
pensiero così da distorcere i sentimenti e le emozioni (anche Winston Smith, alla fine, amerà il
Grande Fratello).
Un mondo folle e
insieme coerente, dove un pugno di intellettuali di partito, estremamente
minoritari rispetto alla sterminata massa dei “prolet”, ma abilissimi nel
manipolarne le emozioni, compie il suo spaventoso lavoro con perfetta onestà e
purezza di cuore grazie al meccanismo perverso del “bipensiero”, che consente
di poter tranquillamente alterare la
realtà sapendo di farlo e nello stesso tempo credendoci fino in fondo…
Questo,
dunque, è il vero volto del potere, secondo Orwell, che come gli autori
precedenti ci mette in guardia dal pericolo insito nella privazione della libertà
e dai discorsi insidiosi di ogni Grande Inquisitore che affermi di agire per il
bene del popolo.
A
questo servono appunto le distopie, secondo Paola Gatti, che a conclusione del
suo saggio sottolinea ancora come esse vadano intese come narrazioni complementari
alle progettazioni utopiche, ugualmente utili entrambe al nostro stare nel
mondo cercando di migliorarlo, ma ponendo attenzione alle derive possibili dei
nostri percorsi ideali.
4. LO SPAZIO DEL CONFRONTO:
Per chiudere questi
appunti ci è parso utile mettere a confronto punti di vista parzialmente
diversi sul potenziale dirompente delle narrazioni distopiche nel mondo
contemporaneo. Per questo facciamo entrare in gioco un giornalista, Fabio
Chiusi, esperto di “reality fiction” - cioè di narrazioni in cui realtà e
finzione si compenetrano - e Paolo Bacigalupi, un autore americano di origine
italiana che è fra i più notevoli autori
della cosiddetta “climate fiction”, la narrazione che si occupa con modalità
distopiche ma non in senso stretto fantascientifiche dei possibili esiti
catastrofici del cambiamento climati
E SE LA VERA DISTOPIA FOSSE LA CRONACA?
(N.B. = da un articolo
di Fabio Chiusi postato in rete il 12
aprile 2015)
In questi ultimi anni, osserva Fabio Chiusi,
si sono moltiplicate, per effetto delle pieghe prese dalla cronaca, le
antiutopie narrative, sia quelle a sfondo tecnologico che quelle attinenti ad altri ambiti. Pensiamo per esempio
ad un testo come “The Circle”
di Dave Eggers, inteso a metterci in guardia rispetto ai rischi di una società
senza privacy attraverso la satira di una Google tanto iperdemocratica quanto ipertotalitaria,
o alla serie Tv britannica “Black
Mirror” di Charlie Brooker, in
cui ogni puntata riflette, come in uno specchio nero, gli aspetti inquietanti
che le nuove tecnologie infondono nella nostra attuale società; e ancora, per
riferirci a temi diversi, ad una distopia generazionale come “Gli scaduti” di Lidia Ravera, in cui gli anziani vengono
rottamati nel vero senso del termine per ordine del Partito Unico, o al
discusso “Sottomissione” di
Michel Houellebecq, dove si ipotizza la presa del potere di un partito
islamista che si attua senza colpo ferire nel territorio stesso della
laicissima nazione francese…
Ora,
secondo Fabio Chiusi, questi romanzi, al di là del loro maggiore o minore
appeal narrativo, mancano l’intento di rendere i lettori più consapevoli, più
attenti, più determinati ad impedire queste derive. Questo non tanto perché a
suo giudizio non appaiono in grado di delineare un vero e proprio affresco
sistematico di una società distopica, limitandosi a fornire spunti e indizi se
pure inquietanti, ma perché la nostra società è ormai talmente veloce e
appiattita sull’istantaneo da smorzare o addirittura rendere sterile il
potenziale dirompente di una narrativa che nel novecento ha invece potentemente
attivato la nostra capacità di comprendere le derive autoritarie e gli esiti
sociali di fenomeni apparentemente di superficie, ma gravidi di possibili
conseguenze negative.
Una
potenzialità che ora, secondo questo giornalista, si è decisamene spostata sul
lato della cronaca: e in effetti gli esempi che vengono riportati nell’articolo
sugli interventi repressivi messi in atto continuamente da stati o da
organizzazioni istituzionali per impedire le manifestazioni del libero pensiero
e del dissenso (a cui pure fanno da contraltare le mosse altrettanto veloci dei
movimenti di opposizione, soggette peraltro a continue e pesanti azioni di
contrasto), danno un forte riscontro alla sua posizione.
Che
sia dunque davvero la cronaca, oggi, la vera controutopia ? Certo non possiamo
negare che i fatti siano spesso decisamente più cupi e più disperati degli
scritti dei narratori distopici…
(N.B. = notiamo per
inciso che Fabio Chiusi, contrariamente a Paola Gatti, assume il termine
“distopia” come antiutopia, e non come termine complementare ad essa)
MA NON POSSIAMO SOTTOVALUTARE L’EFFICACIA DELLE EMOZIONI E
DELL ’EMPATIA SUSCITATE DALLE STORIE…
(N.B. = da una
intervista a Paolo Bacigalupi apparsa su “ La Repubblica” del 26 settembre
2015)
Alle
perplessità di Fabio Chiusi, che pur rimanendo un affezionato lettore di
romanzi distopici ne sottolinea i limiti attuali come promotori e attivatori di
consapevolezza, fa riscontro l’appassionata difesa di questo strumento da parte
di Paolo Bacigalupi. Come scrittore impegnato nella “climate fiction” è infatti
un convinto assertore dell’importanza
che un approccio narrativo può avere nello smuovere le coscienze intorpidite di
molti adulti, o di attivare quelle ancora inconsapevoli delle nuove generazioni
rispetto ad una realtà, quella del cambiamento climatico, che sta rapidamente
evolvendosi sotto i nostri occhi e i cui
conti dovranno essere pagati proprio dai più giovani, se fallirà
l’impegno ad attivare l’opinione pubblica così da promuovere scelte politiche
trasformative.
Non
sarà certo cosa facile, osserva Bacigalupi, perché sono in gioco interessi
potenti. Pur tuttavia è una strada da percorrere ad ogni costo, e le storie
possono essere a suo giudizio uno strumento fondamentale.
Senza
le storie, di cui non a caso gli uomini di ogni tempo e di ogni cultura si sono
sempre serviti per trasmettere conoscenza ed esperienza, i dati di realtà
trasmessi dai giornalisti e dagli esperti rischiano di essere talvolta
frastornanti ed astratti, anche se non si può prescindere da essi, bisogna anzi
usarli con rispetto ed accortezza. Le storie infatti creano empatia, suscitano
la visione di quello che potrebbe accedere – anzi sta già accadendo -,
impediscono a quel brivido di timore che proviamo leggendo un articolo di
giornale di essere subito rimosso,
perché si fermano più a lungo e più profondamente nella coscienza.
La
narrazione distopica dunque conserva a suo giudizio tutto il suo valore: certo
deve assumere su di sé una responsabilità particolare, misurarsi con la
conoscenza per inventare mondi plausibili, pur mantenendo l’attitudine a inquietare mostrando “che cosa accadrebbe – o
che cosa accadrà se”…
……………………………………..
Per
finire in modo divertente, e per non prenderci troppo sul serio, ecco un tweet ironico sull’utopia negativa scritto
dal web-filosofo Erik Jarosinsk
(“La
Repubblica” del 22 settembre 2015)
UTOPIA NEGATIVA =
DISPERATA RICERCA
DI UN MONDO MIGLIORE
NELLA SPERANZA
DI NON TROVARLO MAI…
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