sabato 5 dicembre 2015

Appunti sparsi sulla DISTOPIA - a cura di Enrica Gallo


APPUNTI SPARSI SULLA DISTOPIA
 
                               

Che cosa intendiamo  quando parliamo di DISTOPIA
 

1. PRESENTAZIONE   (da Wikipedia)

 

ETIMOLOGIA E SIGNIFICATO:

Con il termine “distopia” (dal greco dis = cattivo e tòpos = luogo), coniato nel 1868 dal filosofo John Stuart Mill (un termine diverso ma con lo stesso significato, cacotopia, era già stato utilizzato nel 1818 dal filosofo Jeremy Bentham) si intende la descrizione  - in genere ambientata nel futuro, o in un presente che si è evoluto in modo diverso e peggiore di quello reale - di una società immaginaria altamente indesiderabile o spaventosa in cui alcune tendenze del presente sono esasperate e portate ad esiti negativi.

Viene dunque associato a termini come utopia negativa, antiutopia, controutopia, sebbene da punto di vista etimologico il termine “distopia” sia più precisamente opposto ad  “eutopia”, nel suo significato di “luogo eccellente”. In effetti, mentre nell’eutopia l’autore esprime le sue speranze su di un futuro positivo della società umana, indicando che un altro mondo  buono e giusto è possibile, nella distopia espone  invece i suoi timori sul futuro o critica i modi concreti in cui l’utopia realizzata si è presentata.

 

RAPPORTO FRA UTOPIA E DISTOPIA:

Approfondiamo il rapporto fra questi due termini facendo riferimento alla voce “Distopia” del dizionario filosofico on-line, in cui si evidenzia come fra il termine “distopia” e i sinonimi a cui viene spesso associato (antiutopia e controutopia) non ci sia in realtà equivalenza di significato.

In questi sinonimi si sottolinea infatti un senso di opposizione e di esclusione rispetto all’utopia, mentre fra utopia e distopia non c’è, secondo l’estensore del testo, un rapporto di contraddizione: solo in apparenza si oppongono, perché in realtà l’una non esclude l’altra.

Esse appartengono in effetti non solo ad uno stesso particolare filone della fantascienza a sfondo sociale, che descrive mondi immaginari tanto felici e virtuosi quanto temibili e invivibili, ma sono legate anche a livello filosofico  dal medesimo slancio ideale. Sia nell’uno che nell’altro caso infatti c’è la denuncia di una realtà avvertita come oppressiva, a cui l’autore vorrebbe si ponesse rimedio secondo modalità razionali.

Certo ci sono delle differenze non irrilevanti. L’utopia recide i legami con il passato e con il luogo presente, e opera una cesura incolmabile fra la storia reale e lo spazio della progettazione utopica, mentre la distopia si pone in continuità con il processo storico, amplificando e rendendo tangibili le tendenze del presente che potrebbero condurre ad esiti mortiferi se non venissero denunciate o smascherate. Entrambe peraltro ci invitano a mantenere un approccio critico con la realtà.

Esiste però un filone in cui la distopia è davvero una controutopia, intesa a smascherare l’utopia e a metterci in guardia contro di essa (pensiamo, dice il commentatore, ad autori come Huxley e Berdiaev, che insistono sulla pericolosità della realizzazione materiale di una determinata utopia, quella scientifica il primo, quella politica il secondo – anche se è simbolico il fatto che Huxley, dopo aver scritto una distopia su “Il mondo Nuovo”, abbia prodotto anch’egli uno scritto utopico ne “L’isola”).

                                                                     

PRECISAZIONI TERMINOLOGICHE SUL ROMANZO “DISTOPICO”:

Prima di presentare il percorso del romanzo distopico novecentesco, traiamo dal sito “La stamberga dei lettori” alcune precisazioni  terminologiche.

Per essere distopico, un romanzo deve contenere la rappresentazione di una società fittizia che porti ad estremi quasi fantascientifici i peggiori difetti di quella reale. Per questo, anche se alcuni commentatori fanno rientrare nei canoni del romanzo distopico quello post-apocalittico, che rappresenta un mondo desolato dopo una catastrofe spesso causata dall’uomo, secondo altri i due termini andrebbero disgiunti perché non necessariamente  un romanzo apocalittico è anche distopico. Altri due sottogeneri parzialmente sovrapponibili al distopico sono il romanzo fantapolitico, che fa riferimento ad una realtà politica reale evoluta in modo del tutto immaginario, o il romanzo ucronico che narra l’evoluzione fittizia di un determinato contesto storico reale.

 

2. IL PERCORSO DELLA NARRATIVA DISTOPICA

 

(appunti tratti liberamente  da Wikipedia, dalla voce “Letteratura distopica”,  dal sito“La stamberga del lettori” e da alcuni articoli di “Repubblica”)

 

PRIME AVVISAGLIE DELLA DISTOPIA NELL’OTTOCENTO:

Esempi di narrativa distopica si possono trovare anche nell’ottocento, quasi a controbilanciare l’imperante fede nel progresso e nel potere salvifico della scienza e della tecnologia.

Possiamo ricordare infatti alcuni romanzi che criticano  l’idea che le innovazioni tecnologiche siano di per sé capaci di far evolvere la società, come “Le monde tal qu’il serà (1845) del francese Emile Souvestre, che descrive il mondo del 3000 standardizzato e amorale a causa della rivoluzione industriale, “Erewhon e “Erewhon Revisitet” (1901)dell’inglese Samuel Butler, che applica la teoria darwiniana alle macchine satireggiandola, e ancora il racconto “ The machine stops” (1909) in cui E.M.Foster descrive un’umanità completamente asservita alle macchine, che va incontro ad una inevitabile decadenza quando esse si fermano.

Si tratta peraltro di esempi sporadici, in quanto e’ soprattutto nel novecento, dopo il crollo del mito del progresso e il fallimento delle realizzazioni politiche di molte utopie ottocentesche, che il genere distopico, con i suoi scenari cupi e angoscianti, assume una forte rilevanza.

 

LA PRIMA META’ DEL NOVECENTO E IL FILONE ANTIAUTORITARIO:

A fare da apripista, alcuni romanzi di fine secolo o del primo novecento, come “La macchina del tempo” (1895) di G.H.Wells, che descrive un mondo in cui la divisione delle classi ha prodotto la degenerazione dell’umanità, tanto che i parassitari Eloi, discendenti degli aristocratici, vengono allevati  come  carne  da  macello  dai  feroci  Morlocch, discendenti  della  classe  operaia; Il padrone del mondo” (1907), in cui Hugh Robert Benson racconta l’ascesa di un nuovo umanitarismo che predica la  tolleranza  universale, ma  che  in  nome di essa perseguita la  religione  cattolica  fino  ad eliminarla;

 Il tallone di ferro” (1908) di Jack London, che mette in scena la ribellione eroica, anche se per il momento destinata alla sconfitta, delle masse popolari contro le forze capitalistiche che instaureranno un regime oligarchico destinato a durare a lungo prima di venire  sconfitto in modo definitivo.

Già da questi primi esempi possiamo cogliere una tendenza che diventerà prevalente per tutta la prima parte del secolo, con la rappresentazione di società future in cui il potere dell’autorità (politica, religiosa, tecnologica) pretende di controllare ogni aspetto della vita.

Bersagli privilegiati della narrativa distopica sono dunque le dittature, l’uguaglianza forzata con la massificazione degli individui e il conformismo dominante, che intende come negativa e perseguibile ogni manifestazione del libero pensiero, oltre alla tecnologia esasperata che viene considerata un fattore di schiavitù non meno pericoloso di quello dichiaratamente politico (dobbiamo tenere conto del fatto che alle spalle di questo genere di narrativa abbiamo i grandi avvenimenti storici del secolo, con la Rivoluzione d’ottobre del 17, che fa in un certo senso da spartiacque, con la conseguente instaurazione di un regime comunista nell’Unione Sovietica, oltre naturalmente all’ascesa del nazismo).

Contro la disumanizzazione del collettivismo si muove infatti il primo dei grandi romanzi distopici antitotalitari, scritto nel 1922 dal russo Evgenij Zamjatin, “Noi”, in cui si dipinge un’organizzazione statale che pretende di controllare matematicamente le vite  dei cittadini attraverso un sistema di efficienza e precisione industriale di stampo tayloristico. Sarà peraltro il romanzo “1984, dell’inglese George Orwell (già autore de “La fattoria degli animali”, una parodia fiabesca sulla deriva in atto nell’Unione Sovietica), a costituire nel 1948 il più radicale atto d’accusa contro la degenerazione dell’utopia comunista e a definire il paradigma della distopia antitotalitaria. In generale infatti esso si basa sulla descrizione di una società resa forzatamente uniforme attraverso l’uso sistematico della propaganda e la soppressione della memoria storica, e assoggettata pertanto al culto del partito e del capo, con agenzie governative o paramilitari impegnate nella sorveglianza continua dei cittadini e un sistema penale che non prevede  alcuna garanzia costituzionale,  specie per i dissidenti verso i quali l’uso della tortura è largamente consentito.  

Accanto a queste, che sono le opere maggiori del filone antiautoritario in chiave politica, possiamo ancora citare il romanzo fantapolitico Qui non è possibile” (1935) di Sinclair Lewis, che descrive l’ascesa del totalitarismo negli Stati Uniti, “La notte della svastica” della scrittrice britannica Katherine Burkedin, che immagina un mondo futuro in cui il totalitarismo hitleriano è risultato vincente, e infine  “Anthen della scrittrice russo americana Ayn Rand, che nel 38 presenta la vita del futuro come un immenso campo di concentramento comunista.

I pericoli dello scientismo e del razionalismo saranno invece denunciati in modo particolare da Karel Capec, scrittore e drammaturgo ceco, che nel suo R.U.R (1920) immagina una società basata sul lavoro di robot semi umani, privi di anima, che si ribellano e schiacciano gli uomini (anche se poi il romanzo  ha  un  lieto  fine, perché  i  robot  scopriranno  ad  un  certo  punto  i  sentimenti  e  l’amore).

Da notare che questo scrittore è stato il primo ad usare questo termine  - dal ceco “robota” che significa lavoro duro e forzato – immaginando i robot come esseri costituiti producendo artificialmente  e poi assemblando le diverse parti del corpo.

Anche  in questo caso  peraltro  il romanzo che detterà il  paradigma di questo filone  sarà il successivo

Il mondo nuovo (1932) dello scrittore inglese Aldous Huxley, in cui si descrive una società perfettamente pianificata secondo i principi dell’eugenetica e del controllo mentale, per assicurare il massimo dell’efficienza e della felicità agli umani.

 

LA SECONDA PARTE DEL NOVECENTO E L’ESPANSIONE DELLA PROSPETTIVA DISTOPICA:

 

- la  continuazione della prospettiva antitotalitaria:

Nella seconda metà del novecento la narrativa distopica conosce una vera e propria espansione, imperniando con le sue specifiche modalità un ampio orizzonte di opere letterarie e cinematografiche di ambientazione fantascientifica.

Nello stesso tempo anche i temi si diversificano e diventano in un certo senso più mirati, senza peraltro abbandonare il filone antiautoritario che trova ancora espressione in un’opera significativa come “Fahrenheit 451” (1953), in cui Ray Bradbury, uno dei più importanti autori di fantascienza di questo periodo, dipinge un’allucinante società del futuro in cui è affidato ad un corpo specializzato di vigili del fuoco il compito di operare una distruzione sistematica dei libri del passato, dando la caccia a chi li conserva illegalmente e che spesso è disposto a sfidare la morte per essi (notiamo che  in questo romanzo, come in quello di Orwell e in generale in molti romanzi distopici  del filone antiautoritario, assume un rilievo centrale un personaggio che rappresenta l’elemento perturbante, colui che improvvisamente prende coscienza critica della perversione della realtà che lo circonda, e cerca un modo per uscirne o per cambiare il sistema).

In questa prospettiva antiautoritaria potremo inserire diverse altre opere: qui ci limitiamo a citare  Redenzione immorale”, di Philip Dick (1956), satira di un futuro dominato da un sistema persecutorio nei confronti di ogni devianza sociale, con alcuni libri di Stephen King come “La lunga marcia” del 1979 e “ L’uomo in fuga” del 1982, in cui viene introdotto un  elemento che avrà un forte sviluppo in anni recenti, e cioè la presenza di una società militarizzata e crudele che per distogliere il suo pubblico di sudditi dalla presa di coscienza della loro sostanziale miseria organizza combattimenti crudeli a cui non ci si può sottrarre.

(su questo tema, pensiamo alla fortunatissima serie cinematografica  tratta da “Hunger Games”, scritto da  Susanne Collins nel 2008, e al violento “Battle Royal” di Koushun Tatami, del 99, che presenta un Giappone  dominato da un Egemone  in rappresentanza di una oligarchia feroce che per difendersi dal ribellismo giovanile costringe i giovani a massacrarsi fra loro, senza che gli adulti sappiano o vogliano proteggerli).

 

- le nuove piste narrative degli anni sessanta:

Torniamo ora agli anni sessanta, quando compaiono due importanti romanzi distopici che aprono nuove e inquietanti piste narrative.  Il primo, “Arancia meccanica” (1962) da cui sarà tratto l’omonimo film di Kubrick, ritrae una società non del tutto dissimile da quella contemporanea, in cui si risponde alla violenza giovanile con una violenza statale ugualmente feroce (il protagonista viene “decondizionato” alla violenza e reso del tutto inoffensivo obbligandolo a guardare scene violente mentre è sotto l’azione di un farmaco che induce una spaventosa nausea); il secondo, “Il signore delle mosche” di William Golding ( 1963), è  un romanzo crudo in cui si assiste, con un totale rovesciamento dell’utopia rousseauiana, alla rapida regressione ad uno stato primitivo e puramente istintuale di un gruppo di bambini che per via di  un incidente aereo  sono costretti a sopravvivere in un’isola deserta.

 

- la prospettiva postapocalittica:

A partire dagli anni sessanta peraltro comincia a comparire e a diventare sempre più rilevante, sia a livello narrativo che a livello cinematografico, quello che Wikipedia definisce il filone della distopia post-apocalittica, in cui viene rappresentata la distruzione del vivere civile o la sua degradazione dovuta a catastrofi globali, spesso causate dall’uomo stesso.

Questi romanzi rispecchiano la percezione sempre più diffusa di essere andati, come civiltà, troppo oltre i limiti imposti dalla natura e il sentimento diffuso, anche a livello filosofico (vedi ”L’uomo è antiquato” di Gustav Anders) che all’avanzamento della tecnologia non corrisponda un pari avanzamento dell’uomo in campo etico.

In essi si ritrovano in genere alcuni elementi “forti”: una popolazione umana ridotta ai minimi termini, comunità sparse che tentano di ricostruire una qualche forma di vivere civile potendo contare solo su di una tecnologia primitiva e che devono difendersi da altri gruppi che fanno uso della forza bruta per procacciarsi le poche risorse disponibili, la presenza di esseri mutati geneticamente per effetto delle radiazioni e spesso altamente pericolosi.

Fra i molti testi di questo genere, possiamo citare:

 Io sono leggenda” di Richard Matheson (1954), da cui sono stati tratti diversi film, “Il pianeta delle scimmie” di Pierre Boulle, (1963), che ha pure dato vita a numerose trasposizioni cinematografiche,  “L’Ombra  dello  scorpione” di Stephen  King (1978),  assieme ad  altri  più  recenti  come  I figli degli uomini” di P.D. James (1991) cui ha fatto seguito un film di Alfonso Cuaròn, “L’ultimo degli uomini” (2003) di Margharet Atwood  e ancora un romanzo di grande successo e valore narrativo come  La strada” (2005) di Cormac McCarty.

 

- altre prospettive:

In questo excursus sulle linee di tendenza della narrativa distopica nella seconda metà del novecento,  possiamo ancora segnalare tutta una serie di romanzi intesi a demistificare l’utopia del progresso come crescita infinita del mondo della produzione capitalistica, mettendo in evidenza l’ossessione mercificante della società dei consumi. Pensiamo (traendo lo spunto da un saggio molto interessante di Gianluca Cuozzo, intitolato “Filosofia delle cose ultime”) ad autori come J.G. Ballard, che ne “L’Isola di cemento (1974) assume il punto di vista di un ipotetico novello Robinson, bloccato non su di un’isola deserta ma nel raccordo anulare di Londra, dove la controparte oscura e residuale del mondo diurno della produzione si rende drammaticamente evidente; a Philip Dick, che a giudizio di Cuozzo ha saputo più di ogni altro far prendere coscienza della mercificazione dell’uomo nella società dei consumi (nel testo si fa riferimento in particolare a “Ubik”, un romanzo  del 1969, dove uno spray con questa dicitura, ottenuto attraverso un procedimento criogenetico, sembra assicurare un allungamento indefinito della giovinezza assurgendo a simbolo della rappresentazione utopica del desiderio); a Don DeLillo, che in “Underword” (1977) invita il lettore a non distogliere lo sguardo da quei  rifiuti che consideriamo semplici effetti collaterali del nostro mondo sviluppato  e da cui invece potrebbe svilupparsi, secondo Cuozzo, una presa di coscienza capace di liberare l’uomo contemporaneo dall’asservimento ad una malintesa idea di progresso; a Paul Auster, che nel suo “Nel paese delle ultime cose” del 1987 mette in scena, in modo tanto drammatico quanto metaforico, le tappe di un viaggio infernale verso questi “luoghi altri” che produciamo, con i loro moderni dannati.

 

LINEE DI TENDENZA DELLE  DISTOPIE CONTEMPORANEE:

 

Prima di concludere questa breve carrellata segnaliamo ancora alcuni filoni importanti della narrativa distopica contemporanea, che riprendono temi già presenti nella fantascienza novecentesca affrontandoli peraltro in un’ottica diversa.

Registriamo intanto tutta una serie di romanzi intesi a denunciare le possibilità distruttive di una tecnologia fuori controllo e solo apparentemente al servizio dell’umano, che si pongono sulla linea immaginativa già presente ne “Il mondo nuovo” di Uxley come nel “Player Plano”, l’opera prima di  Kurt Vonnegut (1952),  in cui si descrive un’America diventata succube della tecnologia.

In quelli più recenti si esprime una preoccupazione che riguarda soprattutto la manipolazione genetica: pensiamo per esempio al film  Gattaca”, del 99, dove si rappresenta una società futura divisa fra persone potenziate, nate da fecondazione artificiale dopo la rimozione di ogni difetto dal Dna embrionale e destinate alle carriere più prestigiose, e altre  in cui la manipolazione genetica non è stata attuata e che sono quindi destinate ai lavori più umili;  ad un libro dolente e delicato come “Non lasciarmi” di Kazuo Ischiguro, del 2005, in cui seguiamo la crescita di un gruppo di bambini, nati da clonazione, che vengono allevati in uno speciale collegio inteso a formare in loro dei perfetti donatori di organi; e ancora al romanzo di  Michel Houellebecq  “La possibilità di un’isola”, sempre del 2005 , in cui, attraverso  il racconto di vita del protagonista, letto e commentato a molti anni di distanza da esseri potenziati e collegati fra loro e allo scrivente da un comune DNA replicato, assistiamo per così dire in diretta allo scivolamento nichilistico di una società chiusa in un individualismo edonistico e tesa solo al mantenimento della forma fisica e dei piaceri che ne derivano, pronta ad affidarsi a nuovi profeti e ai miraggi di una sterile immortalità.

Testi dunque che toccano temi non certo astratti ma già largamente presenti, almeno in via di ipotesi, nella società attuale, di cui denunciano gli aspetti più oscuri per attivare il nostro livello di attenzione.

Un altro filone importante, che si collega al precedente, è invece inteso a denunciare le possibili derive illiberali della tecnologia digitale della comunicazione. Introdotto negli anni ottanta da un libro come Neuromante di William Gibson e dalla cosiddetta fantascienza “cyberpunk” (che rappresenta un futuro in cui alla irrilevanza dei governi nazionali corrisponderà un dominio sempre più accentuato delle grandi corporazioni high-tech), echeggia ora in tutta una serie di prodotti culturali di largo consumo  dedicati a riflettere su che cosa significhi  abitare in un’epoca iperconnessa, in cui tutto e tutti possono essere oggetto di controllo o destabilizzati dallo spionaggio digitale (un’epoca “post Snowden”, come viene definita in un recente articolo di Fabio Chiusi su  “Repubblica”).

In effetti molti di questi prodotti, citati nel testo, hanno come protagonisti degli hacker, come il quarto volume della serie “Millenium”, scritto da David Lagercrantz, o si concentrano, come in “Mr. Robot” (una serie TV che in questo momento ha molto successo negli Stati Uniti) sul potere rivoluzionario dello hacking  collegandolo al dramma delle disuguaglianze sociali portato alla ribalta dai movimenti tipo “Occupy Wall Street”), mentre il recente “The circle”, di Dave Eggers (2013), sceglie la strada della satira di una grande Google iperdemocratica e insieme ipertotalitaria che studia ogni istante delle nostre vita rendendo obsoleta, attraverso una propaganda capillare  condotta con grande abilità manipolatoria, l’idea stessa di privacy, a cui viene sostituito l’ideale della trasparenza perfetta e della comunione  permanente e totale dei  “connessi”.

Prodotti dunque dove realtà e finzione risultano ormai strettamente intrecciate, ponendo un problema di fondo rispetto alla potenzialità dirompente di una narrativa distopica i cui incubi si confrontano con una realtà ancora più cupa e angosciante, che comincia ad apparire ora, secondo Fabio Chiusi, come la vera “antiutopia” (N.B. = riprenderemo questo discorso nell’ultima sezione)

Segnaliamo in ultimo (facendo riferimento anche in questo caso ad un recente articolo di Bruno Arpaia su “Repubblica”) un filone che sta diventando un vero e proprio genere a se stante, con dignità letteraria, declinando in forme nuove e complesse alcuni temi già presenti nella fantascienza apocalittica novecentesca. Si tratta della cosiddetta “climate-fiction  - la narrativa che mette in scena le potenzialità catastrofiche del cambiamento climatico - che coinvolge grandi nomi, come Margaret Atwood, e numerosi nuovi autori attirando l’attenzione di un pubblico vasto, con un occhio di riguardo ai cosiddetti “giovani adulti”, senza cedere ad un catastrofismo di maniera avendo bensì alle spalle, secondo Arpaia, uno studio non superficiale della produzione scientifica sull’argomento.

Rispetto alle tradizionali distopie, queste nuove fiction sono in genere ambientate in un futuro meno remoto e sono più legate alla realtà contemporanea. Si presentano dunque come dei veri romanzi speculativi, che usano la potenza di coinvolgimento emotivo delle narrazione per attivare nei lettori il desiderio di informarsi  attraverso altre fonti su problemi drammaticamente reali, rispetto ai quali una correzione di rotta appare ancora possibile.

    

 

3. TESTI SULLA  DISTOPIA

 

(N.B. = in questa sezione riassumiamo alcuni saggi e articoli in cui si analizza il rapporto fra utopia e distopia e ci si interroga sul valore formativo della narrativa distopi

 

Paola Gatti  - “Discorso utopico e distopico”  (ed. Mneme)

 

PRESENTAZIONE: CONTINUITA’  O  ANTINOMIA?

In questo suo interessante saggio Paola Gatti (ricercatrice presso la Pontificia Università Gregoriana) parte da una domanda ineludibile per chi riflette sul genere letterario della distopia, che come abbiamo visto nelle pagine precedenti ha davvero permeato di sé gran parte della narrativa a sfondo fantascientifico del 900: e cioè se essa vada intesa sostanzialmente come un’antiutopia, uno smascheramento delle tendenze implicitamente totalizzanti e perverse del discorso utopico, venendo dunque a configurarsi come una decisa messa in guardia da ogni sua concreta realizzazione.

Questo modo di intendere la distopia, che getta una luce inquietante sulla sua controparte utopica, poggia a suo giudizio su di un fraintendimento sostanziale rispetto all’impostazione concettuale delle celebri utopie che hanno segnato la storia del pensiero filosofico. Per valutarle correttamente occorre infatti operare una separazione metodologica fra le finalità ideali che le hanno ispirate e le strategie che gli utopisti hanno messo in atto per rappresentare le loro Isole felici e Città nuove, senza proiettare su di esse categorie politiche moderne bensì inserendole nel contesto storico in cui sono nate.

Così facendo, osserva Paola Gatti, potremo evitare, per esempio, di tacciare sbrigativamente la Repubblica platonica di proporre un sistema politico e sociale totalitario (frutto, secondo uno studioso dell’utopia come Cosimo Quarta, della proiezione del nostro concetto moderno di “classe” sulle diverse categorie di cittadini che abitano la città ideale governata dai filosofi, ossia da coloro che per Platone meglio possono incarnare il Principio di Ragione);

allo stesso modo potremo assolvere Tommaso Campanella dall’accusa di aver schiacciato gli abitanti della sua immaginaria Città del Sole sotto il peso dell’assolutismo statale  - attraverso l’adozione di criteri eugenetici nelle nascite, il lavoro obbligatorio per tutti, l’abolizione della proprietà privata e dei legami familiari - perché nell’impostazione del filosofo non si vuole l’annullamento del singolo nella comunità, bensì il suo inveramento in essa, nella profonda convinzione che il particolare e l’universale possano virtuosamente compenetrarsi e nella speranza che l’uguaglianza fra gli uomini possa trionfare sulla spaventosa realtà di un mondo caratterizzato dalla presenza di masse oppresse dall’ ignoranza, dallo sfruttamento, dalla miseria; e ancora le istituzioni vigenti nell’Isola di Utopia ci sembreranno molto meno oppressive, nella loro uniformità ordinatrice invero alquanto accentuata, se solamente porremo mente alla situazione caotica, confusa, arbitraria e dolente a cui Thomas More  cercava di  porre rimedio attraverso la sua riflessione…

Se dunque l’utopia, in questa prospettiva, va vista soprattutto come la manifestazione della speranza che un destino diverso sia possibile rispetto ad un doloroso presente, dobbiamo chiederci come intendere la distopia, che in apparenza si presenta come il suo rovesciamento.

In realtà fra utopia e distopia c’è piuttosto, secondo Paola Gatti, un intreccio complesso che può essere ben rappresentato, a livello simbolico, da una celebre litografia di Escher, intitolata “Mani che disegnano”. In essa vediamo infatti una mano che disegna l’altra in una sorta di vortice senza fine che crea una sorta di tutto indivisibile. Allo stesso modo l’immagine della Città Nuova vagheggiata dagli utopisti si unisce alla narrazione della società perversa della distopia, componendosi, dice l’autrice, nel medesimo slancio: la denuncia di una realtà avvertita come dolorosa e oppressiva e la sollecitazione a porvi rimedio attraverso l’esercizio della razionalità.

Poi, certo, ci sono differenze profonde rispetto alla posizione in cui utopia e distopia si collocano rispetto al processo storico, che l’utopia recide, per far posto alle sue rappresentazioni, operando una frattura sia geografica che temporale (un luogo “altro”, un tempo “altro” ), mentre la distopia presenta la  propria costruzione come il risultato esiziale di condizioni già insidiate nel presente.

Pur tuttavia, nonostante la diversità di collocazione rispetto al processo storico e la differenza dei procedimenti narrativi messi in atto, esse sono da considerarsi davvero complementari e necessarie l’una all’altra come entrambe lo sono a noi, secondo l’autrice del saggio, perché l’utopia porge la forma normativa a cui tendere,  ma nello stesso tempo viene richiamata dalla distopia a non permettere che l’intenzione di realizzare una società giusta e fraterna si corrompa durante il cammino.

Non è dunque dell’utopia che dobbiamo avere paura, ma piuttosto della carente capacità degli uomini di oggi di proporsi percorsi “altri” da quelli esistenti, ricordando il monito di Lewis Mumford sulla necessità di seguire con forza un cammino di trasformazione che renda più giusta la condizione dell’uomo su questa terra …

 

LE DISTOPIE  DEL NOVECENTO

Nella seconda parte del saggio l’autrice prende in esame i tre romanzi distopici più importanti della prima parte del novecento (“Noi”, “Il mondo nuovo”, “1984”), ravvisando in essi una comune origine nella Leggenda del Grande Inquisitore, contenuta nei “Fratelli Karàmazov” di Fedor Dostoveskij, che postula in modo drammatico e paradigmatico un’assoluta antinomia fra libertà e felicità, da cui deriva che  la seconda sia possibile solo al patto della soppressione della prima.

A raccontare la storia è Ivan, uno dei protagonisti del romanzo, che rivela al fratello Alesa di aver scritto un poema, ambientato nel periodo più buio dell’ Inquisizione spagnola, in cui immagina il ritorno sulla terra di un Gesù desolato per le tristi condizioni in cui versa l’umanità e inteso ad operare una nuova salvezza.  Subito riconosciuto dalla folla che assiste ai lugubri autodafé, il Salvatore opera nuovi miracoli ma il Grande Inquisitore, informato della sua venuta, non esita ad ordinare il suo arresto e nella notte si reca da lui per comunicargli la sua decisione di farlo bruciare sul rogo l’indomani.

In un lungo monologo il gesuita pronuncia una dura requisitoria contro Gesù, accusandolo di essere tornato solo per turbare l’operato della Chiesa che si è maternamente presa cura in sua assenza di quel gregge umano a cui la sua proposta religiosa, se intesa alla lettera, non avrebbe portato che danno. Non per tutti gli uomini infatti la libertà, che Gesù ha posto alla base dell’adesione alla fede in Dio, è un dono, anzi essa rappresenta per la massa, secondo il Grande Inquisitore, un fardello insopportabile: non la libertà vogliono gli uomini, ma il pane e la felicità di un’esistenza in cui siano altri ad assumersi il peso delle scelte. A questo è inteso per l’appunto il magistero della Chiesa, che ha unito all’autorità spirituale il potere: e per questo dunque Egli dovrà morire una seconda volta.

In questo apologo, osserva Paola Gatti, Dostoveskij rivela la sua totale sfiducia nella possibilità di una conciliazione fra libertà e felicità e la consapevolezza di come agli uomini si richieda di operare una difficile scelta: se percorrere una via segnata dalla sottomissione ad una autorità esterna, rinunciando alla libertà, o accettare un percorso di vita caotico, difficile, segnato dalla sofferenza.

Lo stesso tema, secondo l’interpretazione dell’autrice del saggio, è posto al centro dei tre romanzi citati, esempi significativi di quella narrativa distopica che ha imposto, a partire dall’inizio del novecento, un totale cambio di prospettiva rispetto alla dimensione utopica precedente, creando un modello paradigmatico per tutte le distopie antitotalitarie successive.

Imposta dunque la sua riflessione su di essi evidenziandone il collegamento con la Leggenda del Grande Inquisitore. (N.B. = abbiamo aggiunto al suo commento alcune note orientative sugli autori)

                  

NOI”, di Evgenij Zamjatin

 

Questo romanzo di Evgenij Zamjatin, scrittore e ingegnere russo, è stato scritto fra il 1919  e il 1921 in seguito alle esperienze personali dell’autore durante la Rivoluzione del 1905 e del 1917, e all’attività professionale svolta nei cantieri navali inglesi, dove aveva potuto osservare la razionalizzazione del  lavoro tipica della grande industria.

E’ considerato uno dei più lungimiranti atti d’accusa contro la spietata diffusione del taylorismo in Unione Sovietica e contro il collettivismo esasperato e la tendenza totalitaria che presto avrebbero stretto il paese in una duplice morsa. Per questo fu il primo romanzo ad essere messo al bando nel 21 dal Glavlit, l’ente sovietico proposto alla censura (sarà pubblicato poi nel 24 in lingua inglese), mentre veniva organizzata contro l’autore una vera e propria persecuzione, privandolo della possibilità di pubblicare i suoi scritti. Solo nel 31 gli verrà concessa la possibilità di emigrare a Parigi,  grazie all’intercessione di Maksim Gorkij presso Stalin.

Veniamo ora al romanzo il cui titolo è già di per sè significativo. Lo scritto si sviluppa infatti in una serie di note in cui il protagonista, il cui nome è un numero –D.503 – e la cui funzione è quella di Primo Costruttore dell’Integrale (una nave interplanetaria che deve presentare alle altre civiltà, ancora ferme ad uno stadio primitivo di libertà selvaggia, il mirabile ordine conseguito dallo Stato Unico umano, imponendo loro la medesima organizzazione), registra quanto accade senza presentarsi come un IO ma come un NOI.

L’IO infatti non esiste più, in questo nuovo mondo dove l’individualità è considerata una malattia da estirpare e i cui abitanti significativamente non hanno più un nome ma un numero, perché quest’ultimo è più atto a definirli come rotelle di un unico, grande e ben lubrificato ingranaggio. Nulla di ciò che è privato esiste più, tutto è trasparente come le stesse pareti degli edifici, in uno stato che è come un grande Leviatano volto ad assicurare, attraverso un totale addomesticamento del popolo, un perfetto ordine matematico, il cui garante è un capo supremo denominato “Benefattore”. A lui devono dunque andare l’obbedienza e il rispetto assoluto dei felici abitanti dello Stato Unico Terrestre, liberi ormai dal peso di ogni scelta.

Il riferimento alla Leggenda, secondo Paola Gatti, è assai palese, per quanto non esplicitato, e per darne prova riporta un dialogo fra il Benefattore e il protagonista – di fatto un monologo, come nel caso del Grande Inquisitore con Gesù - in cui il primo afferma come l’unico amore possibile nei confronti degli uomini sia l’amore crudele, che li sottomette legando loro mani e piedi con i lacci della felicità ponendoli dunque in una situazione simile, egli dice, a quella del Paradiso terrestre, dove la beatitudine non conosce desideri al di là del servizio a Dio. Un ritorno che rappresenta dunque la fine della storia, il suo ultimo atto dal momento che non ci sarà più, dopo, alcun bisogno di storia. (naturalmente, poi, per garantire a tutti questa radiosa  felicità, occorrerà stare molto attenti a che non si manifestino voci dissonanti  – i guardiani della compiuta rivoluzione sono infatti sempre in ascolto – e qualche pubblica esecuzione degli eventuali dissidenti ricorderà a tutti che la morale fondata sul libero arbitrio è un residuo primitivo…).

Come nella Leggenda dunque siamo di fronte ad un totalitarismo assoluto che distrugge gli individui pretendendo di essere al loro servizio: ed è contro questa pretesa  che si leva la vo“L’Isola ce di Zamjatin, profondamente convinto, dice Paola Gatti, che nessuna rivoluzione, nessun cambiamento può essere l’ultimo, come non ci può essere un ultimo numero nella serie infinita degli stessi: fra il polo della libertà e il polo dell’ordine ci può essere soltanto tensione dialettica, perché questa riflette la natura stessa dell’universo che si dibatte costantemente tra due forze – l’entropia e l’energia – l’una delle quali porta alla pace e all’equilibrio mentre l’altra al movimento senza fine.

 

  IL MONDO NUOVO”, di Aldous Uxley

 

Aldous Uxley ( 1894-1963), scrittore, giornalista e polemista appartenente ad una eminente famiglia inglese, è stato riconosciuto come uno degli intellettuali più influenti del 900 ( le sue idee sono state alla base dell’ Human Potential Mouvement).

Di tendenze umaniste e pacifiste, interessato al misticismo orientale e all’uso delle droghe psichedeliche, ha inteso denunciare, con questo romanzo pubblicato nel 32, le possibili derive disumanizzanti del progresso scientifico, immaginando un mondo nuovo apparentemente utopico di cui viene sottolineata la totale sterilità esistenziale. Peraltro, benché la sua sia una “antiutopia”, ha scritto anche lui un romanzo utopico, intitolato ”L’isola”, in cui, utilizzando il paradigma di More, immagina un luogo felice e appartato i cui abitanti sono riusciti a coniugare la scienza con l’arte. 

Vediamo dunque come è organizzato questo Mondo Nuovo (in realtà l’aggettivo “Brave” del titolo ha in inglese il significato di “eccellente”) che intende assicurare ai suoi abitanti il massimo della felicità, coniugandola con la perfetta efficienza del sistema. In effetti perviene davvero a questo risultato, utilizzando un sistema  più “scientifico” e apparentemente più umano di quello che abbiamo visto nello Stato Unico immaginato da Zamjatin: qui in effetti non c’è alcun bisogno di esecuzioni pubbliche per i dissidenti, in quanto si è operato bene alla radice di modo che i dissidenti non possano davvero esistere…

Si usa a questo scopo semplicemente la manipolazione genetica, che viene attuata nell’Istituto di Incubazione e di Condizionamento (sulla cui descrizione Uxley, che aveva fatto studi scientifici oltre che letterari, si ferma a lungo).  Attraverso un complicato sistema, denominato Processo Bokanovsky, la riproduzione umana viene attuata in laboratorio in modo da produrre cinque diversi gruppi umani con caratteristiche genetiche coerenti con i compiti che questi individui dovranno svolgere: cancellando pertanto ogni singolarità in quelli inferiori – i Gamma, i Delta e gli Ypsilon -  e mantenendo invece qualche barlume di individualità  negli Alfa e nei Beta, che assumeranno compiti di maggiore responsabilità in cui occorre operare qualche scelta per far fronte ad eventi imprevisti.

Poi, naturalmente, su questi individui nati in provetta  viene operato un condizionamento educativo di rinforzo, per cui essi non solo svolgeranno al meglio le loro funzioni, ma saranno estremamente felici di farlo, trovandole del tutto rispondenti alle loro doti “naturali”:  

(si va dall’ipnopedia, ossia dai messaggi subliminali trasmessi durante il sonno, a forme di condizionamento di tipo pavloviano – vedi il nutrimento dato a testa in giù ai neonati che dovranno diventare riparatori di jet in volo, in modo di associare questa posizione al benessere, oppure le scosse elettriche somministrate ai bambini che si avvicinano ai fiori, in modo da suscitare in loro l’odio per tutto ciò che è naturale: lo sviluppo economico del mondo nuovo punta infatti tutto sul consumo di beni materiali, la bellezza in quanto gratuita è considerata inutile…)    

Felici e appagati dunque vivranno – sani e ben formati lo sono già per nascita – in un mondo dove non ci sono guerre né miseria e i beni materiali abbondano, potendo godere di una sessualità libera che esula dai legami familiari, considerati fonte di distorsioni emotive, e potendo contare in aggiunta di droghe chimiche  come la “soma”, che contribuiscono ad aumentare la sensazione di piacere e di euforia.

Un mondo perfetto, dunque?

Beh, qualche piccolo difetto c’è, in effetti, e a riconoscerlo è lo stesso Governatore dello Stato Mondiale, in un dialogo con uno dei personaggi, John (proveniente da un’area non civilizzata del pianeta che è stata mantenuta tale per ragioni turistiche e antropologiche), il cui sguardo su questo mondo nuovo è insieme affascinato e perplesso. Alcune cose si sono dovute sacrificare – ammette infatti il  Governatore che ha compiuto personalmente questo sacrificio, avendo potuto attingere in età giovanile alle più alte espressioni della natura umana: l’arte, la bellezza, la conoscenza della storia, la tensione verso il  trascendente, il diritto stesso di soffrire non sono più compatibili con l’armonia del sistema, per cui anche la ricerca scientifica è stata bloccata perché potrebbe produrre cambiamenti pericolosi in tanta perfezione…

Attraverso questo dialogo, commenta Paola Gatti, ritroviamo dunque l’amore crudele di cui parla il Grande Inquisitore, cioè il supposto amore verso l’umanità da parte di un Potere che opera scelte onerose in vista di ciò che si considera un bene collettivo, e che considera se stesso (o finge di considerarsi tale) nobilitato da questo fine. Una finzione che l’ultimo testo farà invece cadere, assestando un colpo decisivo a questa mistificazione.

 

 

1984”, di George Orwell

                                                           

George Orwell (1901 -1950), pseudonimo di Eric Arthur Blair, nato a Mortihari, in India, da una famiglia modesta di funzionari governativi, è stato giornalista, scrittore, attivista politico. Di orientamento politico di sinistra, prese coscienza progressivamente delle contraddizioni e degli errori del comunismo realizzato in Unione Sovietica sotto Stalin (in particolare per la conduzione del Partito nella guerra civile spagnola - a cui prese parte combattendo per il Partito Operaio di Unificazione Marxista, di ispirazione trotzkista - , dove gli anarchici e i lealisti  furono dichiarati fuorilegge dai “compagni”  stalinisti). Questo lo portò ad assumere una posizione di radicale opposizione all’ideologia comunista, scontandola con le accuse di tradimento degli ideali rivoluzionari che gli vennero rivolte da molti degli ex compagni di fede.

E’ autore, oltre del libro che Paola Gatti presenta e che costituisce una delle più celebri distopie a sfondo antitotalitario (il titolo è dovuto ad una inversione della data di pubblicazione, il 1948),  de “La fattoria degli animali”, una parodia grottesca della deriva totalitaria dell’Unione Sovietica scritta in forma di favola, e di  altri numerosi romanzi e saggi, spesso ispirati alle sue vicende biografiche come ”Giorni in Birmania”, dove rese testimonianza dell’esperienza traumatica compiuta a vent’anni nella Polizia Imperiale inglese, da cui si dimise quasi subito, disgustato dalla funzione repressiva cui era stato costretto, e  “Omaggio alla Catalogna”,  un diario –reportage scritto nel 38   durante la guerra civile spagnola.

Osserva Paola Gatti che mentre nei due romanzi precedenti i personaggi in cui si incarna il Potere Assoluto mostrano di intendere il potere non come fine, ma come mezzo - se pure non privo di aspetti sgradevoli e in certi casi crudeli - per assicurare ordine, armonia, efficienza al sistema e felicità agli abitanti dei loro  mondi, sollevandoli dalla responsabilità delle scelte nel presupposto che il peso della libertà sia per essi eccessivo e fuorviante (una forma di amore dunque, a cui per se stessi affermano di aver rinunciato sacrificando la loro vita a questo alto compito), in questo terzo e ultimo romanzo questa parvenza di nobiltà, questa ipocrisia di fondo viene fatta letteralmente “esplodere” al suo interno. George Orwell intende infatti svelare, in un testo estremamente potente dal punto di vista narrativo che si presenta come una vera e propria fenomenologia del potere, il suo vero volto, la sua vera natura.

Anche in questo caso la rivelazione avviene attraverso un dialogo, ammesso che si possa chiamare dialogo quello che si realizza fra il protagonista del romanzo, Winston Smith – che assume nel testo il ruolo di “perturbante”- e il suo antagonista O’Brien nel  “Ministero dell’ Amore”, che è il luogo deputato alla tortura dei dissidenti:

(una tortura che non vuole solo piegare i corpi, ma le menti: non ci si accontenta, tanto per fare un esempio, che la persona straziata dalle scosse elettriche dichiari con tutta la sua residua, disperata forza, di vedere nero il bianco e viceversa, a seconda di ciò che il suo torturatore afferma , ma che lo “veda” davvero, come bianco o come nero; non ci si limita ad uccidere i dissidenti, ma si vuole riportare su di loro l’ultima vittoria, privandoli financo della possibilità di morire maledicendo il Grande Fratello)

Dice infatti O’Brien con brutale franchezza (è finito il tempo in cui giocava con Winson come il gatto col topo, celandogli il suo vero ruolo e attirandolo gradatamente nella sua trappola) che il Partito di cui entrambi ben conoscono le strategie  adottate per mantenersi al potere non lo fa per qualche supposto benessere collettivo, e meno che mai per assicurare ai suoi funzionari e ai suoi capi la possibilità di condurre una vita più ricca, o lunga, o felice  rispetto ad altri.

Lo fa bensì per il gusto puro del potere, proclamando in questo la sua superiorità rispetto agli ipocriti nazisti tedeschi e comunisti russi, che non ebbero mai, secondo O’Brien, il coraggio di dichiarare  apertamente le loro vere ragioni, mentre il Partito Unico di Oceania non ha remore nel sostenere che “non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione, ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura”…

Una dittatura tanto feroce e perversa, quella messa in scena da Orwell, quanto capace di raggiungere il fine del proprio indefinito mantenimento, per cui tutti i mezzi diventano possibili e si operano scelte spaventose, che si diversificano nettamente da quelle messe in atto nei mondi distopici creati da Zamjatin e da Huxley.

Tanto ordinati, efficienti, e almeno nel secondo caso materialmente opulenti erano quelli, quanto caotico, misero e disperato è il mondo dell’Oceania orwelliana, immerso in una guerra permanente con una qualsiasi delle potenze rivali (Eurasia ed Eufrasia), forzato alla distruzione continua dei mezzi di produzione e dei prodotti del lavoro umano, che viene fatta consapevolmente per aumentare la povertà, ridotto ad una disperazione che non ha più sponde salvifiche in famiglie dove ognuno è nemico all’altro e spia potenziale, e reso infine parossistico dall’astinenza sessuale, fortemente raccomandata dal Partito  per incanalare l’energia verso i due poli dell’odio – sia verso il nemico esterno che verso il nemico interno, rappresentato come  il grande “sabotatore” della rivoluzione – e dell’amore, come  cieca sudditanza devozionale verso la figura salvifica altrettanto mitica del “Grande Fratello” .

Un mondo terribile dunque, dove non c’è alcuna possibilità di sottrarsi alla sorveglianza continua che invade ogni spazio attraverso telecamere onnipresenti, per cui si è costretti a controllare non solo ogni comportamento, ma ogni emozione, ogni pensiero (in Oceania non si viene uccisi solo per ciò che si fa, ma anche per ciò che si pensa: per questo esiste la psicopolizia…); un mondo alienato dove la memoria viene costantemente manipolata per mantenere il dogma dell’infallibilità del partito e per impedire ogni confronto col passato, per cui lo stesso concetto di realtà diventa opinabile  (se il Partito dice che 2+2 è uguale a 5 questo diventa per tutti vero) e dove si cerca di annichilire la stessa possibilità del pensiero attraverso la compilazione di una “neolingua” che incorpori l’ortodossia nelle parole stesse, estinguendo alla radice ogni dissidenza.

Il Partito sa bene infatti che il dominio sui corpi non basta come non basta la paura per dominare le menti, ma occorre lavorare direttamente sulla memoria, sul linguaggio, sul pensiero così da distorcere i sentimenti e le emozioni  (anche Winston Smith, alla fine, amerà il Grande Fratello).

Un mondo folle e insieme coerente, dove un pugno di intellettuali di partito, estremamente minoritari rispetto alla sterminata massa dei “prolet”, ma abilissimi nel manipolarne le emozioni, compie il suo spaventoso lavoro con perfetta onestà e purezza di cuore grazie al meccanismo perverso del “bipensiero”, che consente di poter tranquillamente  alterare la realtà sapendo di farlo e nello stesso tempo credendoci fino in fondo…

Questo, dunque, è il vero volto del potere, secondo Orwell, che come gli autori precedenti ci mette in guardia dal pericolo insito nella privazione della libertà e dai discorsi insidiosi di ogni Grande Inquisitore che affermi di agire per il bene del popolo.

A questo servono appunto le distopie, secondo Paola Gatti, che a conclusione del suo saggio sottolinea ancora come esse vadano intese come narrazioni complementari alle progettazioni utopiche, ugualmente utili entrambe al nostro stare nel mondo cercando di migliorarlo, ma ponendo attenzione alle derive possibili dei nostri percorsi ideali.

 

                                                            

4. LO SPAZIO DEL CONFRONTO:

 

Per chiudere questi appunti ci è parso utile mettere a confronto punti di vista parzialmente diversi sul potenziale dirompente delle narrazioni distopiche nel mondo contemporaneo. Per questo facciamo entrare in gioco un giornalista, Fabio Chiusi, esperto di “reality fiction” - cioè di narrazioni in cui realtà e finzione si compenetrano - e Paolo Bacigalupi, un autore americano di origine italiana che è fra i più  notevoli autori della cosiddetta “climate fiction”, la narrazione che si occupa con modalità distopiche ma non in senso stretto fantascientifiche dei possibili esiti catastrofici del cambiamento climati

E SE LA VERA DISTOPIA FOSSE LA CRONACA?

(N.B. = da un articolo di Fabio Chiusi  postato in rete il 12 aprile 2015)

 

 In questi ultimi anni, osserva Fabio Chiusi, si sono moltiplicate, per effetto delle pieghe prese dalla cronaca, le antiutopie narrative, sia quelle a sfondo tecnologico che quelle  attinenti ad altri ambiti. Pensiamo per esempio ad un testo come “The Circle” di Dave Eggers, inteso a metterci in guardia rispetto ai rischi di una società senza privacy attraverso la satira di una Google  tanto iperdemocratica quanto ipertotalitaria, o alla serie Tv britannica “Black Mirror” di Charlie Brooker,  in cui ogni puntata riflette, come in uno specchio nero, gli aspetti inquietanti che le nuove tecnologie infondono nella nostra attuale società; e ancora, per riferirci a temi diversi, ad una distopia generazionale come “Gli scaduti” di Lidia Ravera, in cui gli anziani vengono rottamati nel vero senso del termine per ordine del Partito Unico, o al discusso “Sottomissione” di Michel Houellebecq, dove si ipotizza la presa del potere di un partito islamista che si attua senza colpo ferire nel territorio stesso della laicissima nazione francese…

Ora, secondo Fabio Chiusi, questi romanzi, al di là del loro maggiore o minore appeal narrativo, mancano l’intento di rendere i lettori più consapevoli, più attenti, più determinati ad impedire queste derive. Questo non tanto perché a suo giudizio non appaiono in grado di delineare un vero e proprio affresco sistematico di una società distopica, limitandosi a fornire spunti e indizi se pure inquietanti, ma perché la nostra società è ormai talmente veloce e appiattita sull’istantaneo da smorzare o addirittura rendere sterile il potenziale dirompente di una narrativa che nel novecento ha invece potentemente attivato la nostra capacità di comprendere le derive autoritarie e gli esiti sociali di fenomeni apparentemente di superficie, ma gravidi di possibili conseguenze negative.

Una potenzialità che ora, secondo questo giornalista, si è decisamene spostata sul lato della cronaca: e in effetti gli esempi che vengono riportati nell’articolo sugli interventi repressivi messi in atto continuamente da stati o da organizzazioni istituzionali per impedire le manifestazioni del libero pensiero e del dissenso (a cui pure fanno da contraltare le mosse altrettanto veloci dei movimenti di opposizione, soggette peraltro a continue e pesanti azioni di contrasto), danno un forte riscontro alla sua posizione.

Che sia dunque davvero la cronaca, oggi, la vera controutopia ? Certo non possiamo negare che i fatti siano spesso decisamente più cupi e più disperati degli scritti dei narratori distopici…

(N.B. = notiamo per inciso che Fabio Chiusi, contrariamente a Paola Gatti, assume il termine “distopia” come antiutopia, e non come termine complementare ad essa)   

                            

 MA NON POSSIAMO SOTTOVALUTARE L’EFFICACIA DELLE  EMOZIONI E  DELL ’EMPATIA SUSCITATE DALLE STORIE…

(N.B. = da una intervista a Paolo Bacigalupi apparsa su “ La Repubblica” del 26 settembre 2015)

 

Alle perplessità di Fabio Chiusi, che pur rimanendo un affezionato lettore di romanzi distopici ne sottolinea i limiti attuali come promotori e attivatori di consapevolezza, fa riscontro l’appassionata difesa di questo strumento da parte di Paolo Bacigalupi. Come scrittore impegnato nella “climate fiction” è infatti un convinto assertore  dell’importanza che un approccio narrativo può avere nello smuovere le coscienze intorpidite di molti adulti, o di attivare quelle ancora inconsapevoli delle nuove generazioni rispetto ad una realtà, quella del cambiamento climatico, che sta rapidamente evolvendosi sotto i nostri occhi e i cui  conti dovranno essere pagati proprio dai più giovani, se fallirà l’impegno ad attivare l’opinione pubblica così da promuovere scelte politiche trasformative.

Non sarà certo cosa facile, osserva Bacigalupi, perché sono in gioco interessi potenti. Pur tuttavia è una strada da percorrere ad ogni costo, e le storie possono essere a suo giudizio uno strumento fondamentale.

Senza le storie, di cui non a caso gli uomini di ogni tempo e di ogni cultura si sono sempre serviti per trasmettere conoscenza ed esperienza, i dati di realtà trasmessi dai giornalisti e dagli esperti rischiano di essere talvolta frastornanti ed astratti, anche se non si può prescindere da essi, bisogna anzi usarli con rispetto ed accortezza. Le storie infatti creano empatia, suscitano la visione di quello che potrebbe accedere – anzi sta già accadendo -, impediscono a quel brivido di timore che proviamo leggendo un articolo di giornale  di essere subito rimosso, perché si fermano più a lungo e più profondamente nella coscienza.

La narrazione distopica dunque conserva a suo giudizio tutto il suo valore: certo deve assumere su di sé una responsabilità particolare, misurarsi con la conoscenza per inventare mondi plausibili, pur mantenendo  l’attitudine a  inquietare mostrando “che cosa accadrebbe – o che cosa accadrà se”…

                 

……………………………………..

 

 

Per finire in modo divertente, e per non prenderci troppo sul serio, ecco  un tweet ironico sull’utopia negativa scritto dal web-filosofo Erik Jarosinsk

(“La Repubblica” del 22 settembre 2015)

 

UTOPIA NEGATIVA =  

DISPERATA RICERCA

DI UN MONDO MIGLIORE

NELLA SPERANZA

DI NON TROVARLO MAI…

 

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