Segnalo la seguente guida alla lettura del Corano trovata nell'ambito di una ricerca in Rete sul tema. Seguono indicazioni anche queste reperite in Rete, nel sito IslamItalia, sulle edizioni in italiano del testo coranico. Sono ovviamente graditi altri consigli in grado di aiutare una lettura attenta e valutativa.
Il
sacro testo del Corano. Storia, esegesi e teologia (a cura del Centro Studi Francescani)
Per capire il significato storico, giuridico,
teologico, religioso e culturale del Corano è conveniente lasciar parlare il
testo stesso. Un bel numero di sure (i capitoli in cui il libro del Corano si
divide, sono ben 114) lo presenta come il libro sacro che viene da Dio (cf.
sure 3,4.7; 4,82; 6,114.155-157; 7,2; 18,1; 20,2-4; 21,50; 29,46-49; 32,2;
38,1-8; 40,2; 41,2.41-42; 42,17; 45,2; 46,2). In alcuni passi, poi, il sacro
testo del Corano viene presentato come la “Madre del Libro”, cioè il prototipo
(o meglio, in arabo, matrice) del Corano che è già presso Dio, quasi una sorta
di Parola eterna che viene da Dio, l’Unico (cf. sure 13,39; 43,4; 56,77-78;
80,13-16; 85,21-22). Addirittura, si trovava già nei libri sacri degli antichi
(cf. sura 26,196). Esso, infatti, conferma i libri precedenti, cioè l’AT e il
NT (cf. sure 10,37; 12,111; 16,44).
Il Corano stesso, poi, offre altri elementi per
descrivere il valore unico e sacro di questo testo che non appare rivelato o
ispirato da Dio, bensì consegnato direttamente al profeta Maometto. È bene
chiarire questo dato fin dall’inizio: nella visione islamica, non si parla di
ispirazione né si riconosce l’autore umano, né si riduce il testo sacro a
un’opera letteraria che è in qualche modo legata al genio dell’autore umano,
all’artista-poeta o scrittore. Maometto, il sigillo dei profeti, lo ha ricevuto
e trasmesso attraverso la recitazione orale e un processo di memorizzazione
costante. Perciò, il Corano è, per eccellenza, “il Libro” composto da versetti
sapienti e chiari (cf. sura 11,1) e fu rivelato per mezzo dell’angelo Gabriele
(cf. sure 2,97; 26,210-211; 53,4-12). Non è inventato da Maometto né da altri
(cf. sure 10,37; 11,13.35; 16,103; 25,4; 32,3; 46,8; 69,44-47). Anzi, Maometto,
il lodato e bene amato, non ha mai recitato né copiato alcun altro libro
religioso o considerato divino (cf. sura 29,48).
Il Corano in italiano - letture di riferimento
per il musulmano taliano
Per il suo carattere sacro, non è possibile che alcun
essere umano cambi qualche parola o significato del Corano stesso (cf. sure
10,15; 18,27). Questo testo sacro svolge un ruolo fondamentale nella conoscenza
di Dio, nella pratica del culto e nell’atteggiamento pratico del fedele
musulmano. Infatti, il Corano non solo è luce e libro chiarissimo (cf. sure
5,15; 11,1; 12,1; 15,1; 26,2; 27,1; 28,2; 31,2; 45,20), e ancora sublime e
glorioso (cf. sure 15,87; 50,1), ma è anche il criterio del bene e del male
(cf. sure 3,4; 25,1), ed è la guida di Dio (cf. sure 7,203; 39,23). Per questo,
il Corano contiene vari argomenti e ogni sorta di esempi affinché gli uomini se
ne servano per la riflessione (cf. sura 17,41.89). Addirittura, il sacro Corano
contiene tutti i segreti del cielo e della terra (cf. sura 27,75) ed è donato
al credente per la recitazione e la sua memorizzazione (cf. sure 7.204; 16,198;
39,23; 73,4.20). La recitazione permette al credente di rifugiarsi in Dio e il
suo ascolto intenerisce la pelle e il cuore al ricordo stesso di Dio. La recitazione
esprime l’essenza del Corano e rinvia all’ascolto profondo della Parola divina.
I musulmani affermano con insistenza il carattere sacro del Corano appellandosi
alla bellezza dello stile e ai suoni che ne derivano dalla recitazione in arabo
classico o antico.
Da queste semplici testimonianze del Corano ex-sese
si comprende che accostarsi a questo testo sacro è possibile solamente
accogliendo quella visione culturale e religiosa che è propria della cultura
araba classica e poi della nascita dello stesso islam. Oggi è poco praticata,
ad esempio, un’esegesi coranica più attenta al dato storico-critico e al senso
letterale del testo. Anche se alcuni riformatori dell’islâm auspicano un tipo
di studio esegetico sensibile ai contesti storico-culturali del tempo e alle
analisi narrative del testo. Ciò per favorire un dialogo più proficuo e allo
stesso tempo sereno con la modernità e con le scienze della filologia e
dell’antropologia. Come pure per superare leggi e decreti che oggi non hanno
più motivo d’essere rispetto alla società beduina che è alle origini dell’islâm
e, perciò, dello stesso Corano. A volte, infatti, alcune interpretazioni
fondamentaliste e fuori tempo del Corano dipendono da un certo irrigidimento di
prospettive normative del testo sacro o di analisi lessicografiche per niente
integrate con il contesto storico-culturale e socio-politico, nonché
etico-religioso, in cui un detto, una sura, un passo del Corano è stato
formulato.
1. La struttura
Il Corano è il frutto d’una recitazione più che della semplice
compilazione scritta. I racconti al suo interno sono più attenti ai fatti
pratici, agli eventi, e non alle loro interpretazioni oggettive e sistemiche.
C’è un contenuto, poi, che è meno speculativo di quello che può sembrare:
l’ortoprassi, l’etica e il modo d’agire in una determinata situazione
costituiscono lo stile di fondo del testo coranico, il suo contenuto. Realtà e
pensiero, eventi e parole, fatti e decisioni, formano l’essenza che trova forma
in un linguaggio simbolico, a volte apocalittico, carico di metafore,
suggestivo, allegorico. La stessa parola del Corano vuole descrivere ma
soprattutto annunciare: è una realtà, un fatto, un’energia, una potenza.
1.1. I capitoli o sure
Il Corano si compone di 114 sure o capitoli (sûra).
Questi, poi, sono suddivisi in versetti (âyât) abbastanza variabili; è
possibile rintracciare una qualche unità tematica nelle sure più brevi – quelle
più antiche – mentre risulta molto complesso ogni tentativo d’ordinare i
messaggi delle sure più lunghe. Aprendo il testo sacro, ci s’accorge subito che
le sure sono sparse in ordine decrescente: dalle più lunghe a quelle più brevi,
ad eccezione della prima che è l’aprente. Forse, questo sistema di
catalogazione è stato favorito dal fatto che le sure lunghe sono le più difficili
da ricordare a memoria e, quindi, occorreva trascriverle all’inizio.
Gli studiosi hanno trovato utile la suddivisione
cronologica, distinguendo tra sure meccane e sure del periodo medinese (anche
se non tutti i versetti d’una sura sono dello stesso periodo). Oggi, la critica
occidentale riprende le più diverse teorie per il raggruppamento delle sure.
In linea generale, si tende a seguire questa
suddivisione cronologica: sure rivelate alla Mecca dall’inizio della missione
di Maometto verso il 610 d.C. fino all’egira del 622 (età del pellegrinaggio o
migrazione dalla Mecca a Medina); sure rivelate a Medina negli ultimi dieci
anni della sua vita, fino al 632. S’intravedono, poi, altre classificazioni.
Le sure del primo periodo meccano (610-614), sono
circa venti, le più brevi, presentano versetti sincopati, ritmati, e invitano
alla penitenza, annunciando il castigo e il giorno del giudizio (abbondano i
riferimenti alle minacce per gli empi), e proclamano l’unità e l’unicità di Dio. Oltre a descrivere i tormenti per l’inferno, sono narrate
anche le delizie per chi vivrà in paradiso.
Le sure del secondo periodo meccano (615-616)
insistono sull’ora della risurrezione e del giudizio e accentuano la polemica
con i miscredenti.
La sura 27, denominata “Le formiche” (An-Naml),
dopo una breve introduzione che riafferma l’autenticità del Corano (vv. 1-6), e
la ripetizione delle storie dei personaggi e dei profeti antichi, biblici e
leggendari, nonché in seguito alla riflessione sulla potenza di Dio, ripropone
il tema del giudizio finale ai vv. 59-93. S’afferma il carattere imprevedibile
dell’ora del giudizio finale e si descrive la bestia apocalittica.
Le sure del terzo periodo meccano (617-620) sviluppano
il tema dell’unità-unicità-onnipotenza di Dio, offrendo precisazioni circa la
preghiera rituale, la decima, le interdizioni alimentari.
Ritorna anche il tema dell’accusa verso i miscredenti.
Per esempio, la sura 42 (“La consultazione”), dopo aver riproposto nella prima
parte un concetto fondamentale della fede coranica – il fatto cioè che esiste
una sola vera religione, l’islâm –, si sofferma sull’ora del giudizio, sulla
bontà e giustizia divine, sulla condotta dei credenti e sulla punizione dei
miscredenti.
Le sure medinesi hanno un tono molto diverso da quelle
meccane: in esse prevale l’aspetto giuridico, normativo, legislativo, nonché le
questioni rituali e amministrative. È il caso, ad
esempio, della dichiarazione dell’illiceità, così come recita la sura 66
(“Interdizione” o At-Taḥrîm). I primi cinque versetti di questa sura
riprendono il caso d’un intrigo nell’harem del Profeta. Il personaggio chiave è
una delle mogli del Profeta, Ḥafṣa bint ‘Umar. Costei, entrando nella propria
stanza, trovò Maometto insieme a una ragazza d’origine copta donatagli dal
governatore d’Egitto. La giovane si chiamava Maria. Ḥafṣa protestò e Maometto
le giurò che non avrebbe avuto più legami con Maria. Tuttavia, il Profeta si
fece promettere di non parlarne con le altre mogli. Invece, in poco tempo,
tutto l’harem seppe dell’accaduto. La minaccia d’un divorzio generale è
contenuta al v. 5 e diventa un modo per tutelare la pace e l’ordine nell’harem,
fra le donne del Profeta. Si ha un vero e proprio caso di scioglimento di
giuramenti.
Anche se le datazioni delle sure variano da studioso a
studioso, si riscontrano, in ordine logico, tematiche particolari per ogni
periodo.
Il primo periodo meccano riguarderebbe soprattutto la
contestazione globale dell’ordine stabilito, la rivendicazione della giustizia
sociale contro i mercanti e i ricchi notabili meccani che disprezzavano i
poveri, gli orfani, gli emarginati. Segue anche una denuncia per l’usura,
l’agnosticismo e una predicazione a tinta escatologica come già più volte
segnalata in precedenza. Si tende a parlare anche dei segni della risurrezione.
La sura 96, intitolata “Il grumo di sangue”, è considerata dalla tradizione
islamica come la prima rivelazione ricevuta da Maometto (vv. 1-5 o, per altri
commentatori, vv. 1-8). I versetti successivi (9-19) contengono la polemica
contro l’acerrimo nemico di Maometto, il notabile meccano Abû’l-Ḥakam,
soprannominato dai musulmani Abû Jahl (“Padre dell’ignoranza”). La sura del
grumo di sangue afferma la bontà divina e la pervicacia umana e afferma:
«Proclama [recita o leggi ad alta voce], nel nome del
tuo Signore che ha creato: ha creato l’uomo da un grumo di sangue! Proclama!
Nessuno infatti è generoso come il tuo Signore! È lui che ha insegnato a usar
la penna [ha istruito l’uomo mediante la penna], ha insegnato ciò che l’uomo
non sapeva. E l’uomo, ahimé, prevarica, appena crede d’esser ricco! Ma tutto
poi ritorna al tuo Signore» (96,1-8).
Di forte impegno, per il Profeta, sarà stato il
secondo periodo meccano: Maometto percorre continuamente il Paese per predicare
il nuovo messaggio tra successi e rifiuti. I capitoli sono grandiosi, e si
presentano con versi, prosa ritmata, metafore e parabole di sapore orientale.
Invece, quelli del primo periodo meccano sono brevi, nervosi.
È sufficiente confrontare la sura 111 del primo
periodo meccano con la sura 76 del secondo periodo meccano.
«Periscano le mani di Abû Lahab, e perisca anche lui!
A nulla gli gioveranno i suoi beni e i suoi guadagni. Arrostirà in un fuoco
fiammeggiante insieme a sua moglie, portatrice di legna, con una corda di fibre
di palma intorno al collo!» (111,1-5).
«Ci fu mai nella vita d’un uomo un solo istante in cui
Dio l’abbia dimenticato [in cui l’uomo è stato una cosa non ricordata?]. In
verità, noi abbiamo creato l’uomo da una goccia di fluidi mescolati per
metterlo alla prova e l’abbiamo dotato di udito e vista. Gli abbiamo indicato
la retta via, sia egli riconoscente o ingrato. E per i miscredenti abbiamo
preparato catene, gioghi e vampe di fuoco infernale» (76,1-4).
La sura 111 è intitolata “Le fibre di palma” e riceve
il nome dal v. 5. Il primo versetto costituisce l’unico passo di tutto il testo
sacro in cui viene citato, con tono denigratorio, il nome d’un nemico di
Maometto. È lo stesso zio del Profeta, il cui vero nome non è il dispregiativo
Abû Lahab (“Padre della fiamma o dell’inferno”), bensì ‘Abd al-‘Uzzâ. La moglie
di ‘Abd è Umm Jamîla, nemica dichiarata di Maometto.
La sura 76 reca il titolo “L’uomo” o anche “Il tempo”.
La prima parte della sura descrive il castigo dei dannati e la felicità dei
beati (vv. 1-21). La seconda (vv. 22-31) insiste sul dovere della preghiera e
riafferma il dominio assoluto di Dio.
Nelle sure del secondo periodo meccano, Maometto
racconta innumerevoli storie di profeti e di popolazioni incredule che non li
hanno accettati. Si riallaccia, poi, a una preesistente tradizione biblica
dell’Antico Testamento (Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Ismaele, Loth,
Mosè, Aronne, Davide, Salomone, Elìa, Eliseo, Giobbe) e a una del Nuovo
Testamento (Zaccaria, Giovanni Battista), ricordando volentieri le figure del
Messia Gesù e di Maryam. Si passa dalla poesia alla diatriba violenta: le
storie dei profeti servono a giustificare e a tutelare l’operato di Maometto.
È sufficiente considerare la sura 54 (“La luna”) che
si colloca tra la fine del primo periodo meccano e l’inizio del secondo. Il
grande prodigio della luna che si spacca permette di considerare altri segni di
Dio nel passato, come nel caso di Noè, degli ‘âd, dei Thamûd, di Lot e del
faraone.
«L’ora s’avvicina: s’è spaccata la luna! Ma anche se i
miscredenti vedessero un prodigio, se ne allontanerebbero dicendo: “è la solita
magia!”. Gridano alla menzogna e seguono le loro passioni, ma ogni cosa è
fissata per sempre. Eppure, han sentito raccontare storie antiche, piene di
ammonimenti e di consumata sapienza: ma a nulla servono gli ammonitori. Volta
dunque loro le spalle!» (54,1-6).
La sequenza tematica è forte nelle sure del terzo
periodo meccano: vere e proprie omelie troviamo nei capitoli, con esordi
edificanti, parentesi, esortazioni, perorazioni minacciose, rimproveri;
s’allarga anche il contenuto della predicazione.
Sicuramente i musulmani, attraverso lo studio della
critica testuale e dell’ermeneutica, dovranno convincersi del fatto che dopo la
morte del Profeta, l’islâm conobbe per diverso tempo recensioni raggruppate in
un ordine differente da quello della nostra Vulgata e che si diceva
cronologico.
L’incerta origine del vocabolo sûra viene
collegata all’ebraico post-biblico sûrâh (“serie”) con il significato di
“serie di versetti”. Ogni sura è stata contrassegnata dalla tradizione con un
titolo (a volte alternativo con altro) tratto da una parola che individua un
suo punto saliente. Per esempio, la seconda sura è denominata Della vacca:
racconta dell’episodio della vacca che Mosè ordinò agli ebrei ostili e
cavillosi di sacrificare (cf. vv. 17-19); mentre la sura terza è dedicata alla Famiglia
di ‘Imrân in quanto, al versetto 33, si estende sui casi di questa
famiglia. Al-fâtiḥa (“L’aprente o aperiente”) è il titolo della prima
sura che apre il libro sacro. Escluso il testo della nona sura, quelli dei
restanti capitoli sono preceduti dalla formula: “Nel nome di Dio clemente e
misericordioso”. L’intero Corano è racchiuso nella Fâtiḥa, e tutta la Fâtiḥa
è contenuta nella Basmala, nell’invocazione del nome di Dio, il clemente
e il misericordioso. E tutta la Basmala è contenuta nella lettera bâ,
e ogni cosa raccolta nel bâ è contenuta nel punto diacritico che serve
per scriverlo.
Alcune delle 114 sure iniziano con lettere o gruppi di
lettere di cui né i fedeli né gli studiosi orientalisti hanno saputo decifrarne
il significato o valore simbolico. Ci sono, poi, quattro sure che prendono il
titolo da queste misteriose notazioni: 20, 36, 38 e 50. Ogni sura è divisa in
versetti o segni (âyât): sono gli stessi segni con cui Dio dà prova
della sua esistenza e potenza. Il Corano, quindi, è il
segno prodigioso dell’onnipotenza divina. La divisione in versetti ha subito
diverse variazioni, così la loro numerazione cambia anche nelle edizioni
critiche del passato. Le 114 sure comprendono ben 6219 versetti: il Corano,
nella sua forma attuale, è lungo circa quattro quinti del Nuovo Testamento.
Comunque, il testo coranico non obbedisce a una
cronologia lineare del racconto fra la prima sura e l’ultima. Le diverse sure,
infatti, sono tra loro autonome, e ciascuna corrisponde a un momento della
rivelazione, e rappresenta un universo a sé. Non si può affermare che le sure
raccolte da Maometto siano assolutamente autentiche a quelle che ritroviamo ora
nel Corano. La configurazione delle sure è legata alla concezione che il Corano
ha della scrittura. Inoltre, quasi certamente, i raccoglitori delle sure hanno
cercato di sistemare il materiale lì dove ci poteva essere una continuità di
fondo. Tuttavia, non è stato sempre così. Infatti, nell’aggiungere le sure a
pezzi precedenti, o nell’integrare materiali in sure già ordinate, non appare
un ordine logico. Resta difficile pronunciarsi sull’ampiezza delle sure e sulle
relative aggiunte. Per gli studiosi musulmani, poi, ogni
sura fu lasciata attraverso i secoli nel posto in cui la prima composizione
l’aveva collocata. Le sure più brevi potrebbero anche costituire dei frammenti
di brani più lunghi andati persi e poi collocati a margine, come appendice.
Il sistema coranico, inoltre, obbedisce alla logica
della narrazione mitica, fondata sull’idea dell’eterno ritorno che ne
rappresenta un paradigma essenziale. Nella rivelazione, infatti, Dio ricorda
spesso agli uomini che tutti un giorno ritorneranno a lui. In tal senso, il
racconto mitico non è alternativo alla storia, ma ne rappresenta un suo
prolungamento. Per quanti considerano il Corano una dettatura soprannaturale da
parte di Dio a Maometto, non è ammissibile la traduzione di sura con capitolo,
perché sura significa “disposizione armoniosa di pietre”. Il Corano non è neanche un codice di leggi perché le
disposizioni di carattere legislativo non superano i 228 versetti. È, il testo
sacro, un crescendo che porta verso Dio.
1.2. I versetti
La sura 3 divide i versetti coranici in “chiari” o
“solidi” , cioè di significato ben preciso, e “oscuri” o “allegorici” che, pur
essendo riconosciuti sacri, ammettono più varianti e interpretazioni personali,
in quanto il loro significato è noto solo a Dio.
Il testo della sura 3,7 recita così:
«È lui che ti ha rivelato il libro: vi si trovano
segni espliciti – che sono la madre del libro – e altri ambigui. Le genti,
dunque, che hanno lo sviamento nel cuore, alla ricerca di dissenso e alla
ricerca d’interpretazione cercano che cosa vuol dire – mentre solo Dio ne
conosce l’interpretazione – e quelli che sono radicati nel sapere dicono: “Noi
crediamo in esso: tutto è dal Signore”. Ma solo se ne rammentano i dotati
d’intelletto».
I versetti “espliciti” (muḥkamât), “solidi”,
ossia, “rinforzati”, sono precisi e chiari perché non si prestano ad ambiguità
o a dubbi interpretativi. Dal radicale ḥ-k-m, da cui derivano il verbo
di prima forma ḥakuma (“essere saggio o sapiente”), e i termini ḥikma
(“saggezza divina” o “filosofia”, “scienza profonda”) e ḥakîm (“saggio
o sapiente”, “medico”, “teosofo”); nonché i due nomi di Dio: “Il Saggio” (âl-ḥakîmu)
e “Il Giudice” (âl-ḥâkamu).
Per i commentatori, in misura abbastanza generica, i
versetti espliciti sono quelli che trattano i fondamenti dei riti, quelli che
non implicano alcuna modificazione, quelli che abrogano versetti precedenti, e
quelli che sono la base esplicita della giurisprudenza. Sono quelli che
indicano ciò che è bene e ciò che è male. Altri ve ne sono che paiono incerti,
e hanno bisogno di confermarsi gli uni con gli altri. I versetti “oscuri”,
invece, ambigui, quelli “non chiari” (mutašâbihâ), si prestano a letture
diverse. Infatti, dal radicale š-b-h, il verbo di seconda forma è šabbaha-hiya
(bi): “confrontare”, “rendere qualcosa simile a un’altra”; il verbo di
terza forma šabaha indica: “somigliare”; mentre quello di ottava forma ištabaha
‘alâ significa “essere oscuro” o “essere dubbio”. I versetti ambigui sono
quelli relativi alle sigle iniziali, i versetti abrogati, quelli apparentemente
contraddittori, quelli con termini a doppia lettura. L’affermazione esplicita
secondo la quale il Corano è in parte palese e in parte oscuro ha fatto
naturalmente versare molto inchiostro a teologi, filosofi, giuristi e sufi. In
realtà, furono questi versetti a determinare finalmente la stesura del testo
sacro affinché ci fosse un modello-tipo al quale riferirsi a proposito d’una
parola o d’una lettura d’uno dei versetti ambigui.
Il Corano riprende molte storie, specie quelle di
Mosè, dalla tradizione biblica. Tuttavia, non viene offerta una narrazione
prolungata del genere che si trova nel libro dell’Esodo o in altri testi
dell’Antico Testamento. Spesso, il Corano si dilunga sui doveri morali e legali
dei credenti: tali sure sono, quasi sempre, d’un periodo tardivo rispetto alla
prima rivelazione ricevuta dal profeta Maometto. Molti nuclei del Corano
potrebbero anche essere interpretati come predicazioni sulla falsariga dei
Vangeli, anche se la voce che parla non è Gesù bensì Dio stesso attraverso il
Profeta o l’angelo Gabriele.
Una buona parte di materiale apocrifo – di natura
giudaico-cristiana – è stata assorbita nelle collezioni arabe che poi hanno
formato il testo sacro definitivo. Secondo la tradizione più rigida dei
musulmani, il Corano non fu scritto da nessuno, neanche da Maometto: la sua
originalità linguistica e letteraria ne rivela il carattere divino o
soprannaturale. C’è, quindi, un Corano celeste, divino, nascosto, che diviene
il modello della riproduzione in terra della rivelazione celeste o soprannaturale.
È come se il Corano costituisse una sorta di Logos ab aeterno in virtù
del quale ogni cosa è stata fatta e ogni rivelazione diviene possibile in forma
umana.
In realtà, come vedremo più avanti, il Corano è il
frutto d’una lenta rielaborazione e sistematizzazione – non solo teologica, ma
pure culturale, politica ed economica – dell’esperienza religiosa maturata in
seno alla comunità musulmana ai tempi dei califfi. Quando l’islâm inizia a
produrre un testo scritto è segno chiaro e indiscusso dell’avvenuto passaggio
dall’oralità alla sedimentazione, dal messaggio del Profeta alla tradizione sul
Profeta. S’assiste a un vero e proprio cambio di paradigma: la società beduina,
formata all’oralità, al senso normativo e vincolante della traditio – di
per sé indiscutibile, inattaccabile –, prova a darsi un canone, a raccogliere
del materiale, a formare delle collezioni, a stendere questa esperienza di
salvezza e di vita comunitaria nuova, attorno alla figura del Profeta e dei
suoi compagni. Entrambi, però, già inseriti nell’ottica degli imperi, delle
dinastie, dei califfati. E, al di là di conflitti e tensioni di potere,
qualsiasi sia la lingua dei musulmani e degli stessi califfi, la Scrittura di
tutte le comunità musulmane sparse nel mondo era ed è il Corano.
2. Traduzione e linguaggio
Il testo sacro contiene il discorso divino, è parola
eterna: inalterabile e insostituibile. La rigida tradizione non permette la
traduzione del Corano: è ammessa solamente la sua
spiegazione o interpretazione fedele che mai può avvenire durante il culto. La
rivelazione, nel Corano, è chiamata scrittura (kitâb) ed è in
collegamento con la rivelazione ebraica e con quella cristiana. Da qui
l’appellativo “gente del libro o della scrittura” (ahl al-kitâb). Nella
sua essenza, la dottrina del Corano afferma l’unicità di Dio: vigorosamente
difesa contro ogni pratica di culto pagano. Poi si presentano gli attributi
principali di Dio: la sua potenza, la creazione del mondo, i benefici elargiti
all’umanità. Seguono le enumerazioni di numerosi segni di Dio nel mondo. Per
ogni questione legale e normativa è presentata una soluzione giuridica.
Considerando gli aspetti letterari e linguistici del
Corano, ci s’imbatte, innanzitutto, nella lingua araba che costituisce la forma
esteriore del testo. Il Corano afferma che Dio ha scelto la chiarezza della
lingua araba per consegnare agli uomini la sua rivelazione (cf. 26,195).
L’alfabeto arabo, come quello latino, deriva da quello fenicio; però,
diversamente dalla scrittura latina, le lettere sono orientate verso sinistra.
L’arabo, dal punto di vista demografico, è la lingua semitica più affermata nel
mondo. Perché si presenta come la lingua d’una grande civiltà mondiale. La
caratteristica più importante delle lingue semitiche è il sistema di radici triconsonantiche;
e le tipiche radici arabe sono k-t-b e q-r’: la prima riguarda lo
scrivere e la seconda il recitare. Le radici sono modificate, come per la
lingua latina, mediante suffissi e prefissi. Il processo di vocalizzazione
delle parole è stato abbastanza lento nella lingua araba: ciò ha costituito un
motivo di tensione circa il modo di recitare il Corano.
Oggi, la maggior parte delle edizioni del Corano
disponibili è abbastanza chiara dato che ha il vantaggio di essere scritta in
un arabo vocalizzato. Per questo, i dubbi sulla chiarezza del diritto islamico
espressi da certa dottrina – che denuncia il rischio d’esegesi sottoposte a
complesse dispute filologiche –, non sarebbero troppo preoccupanti, dato che il
testo del Corano riproduce il minimo dettaglio fonetico e grammaticale della
lingua araba, indicando tutte le “vocali brevi” (kasra, dhamma e
fatha) – oltre alle “vocali lunghe” (alif, ua e ia) – e senza
tralasciare nessun raddoppiamento della consonante, né il tanuin (per
un’esatta analisi logica della frase).
Nel mondo arabo si parlano tante varianti dialettali
della lingua araba, spesso molto diverse tra loro. Mentre esiste un arabo
ufficiale standard che viene usato per la comunicazione scritta e in situazioni
formali, per la comunicazione informale sono usati sempre i dialetti. Alcuni di
questi dialetti sono solo parzialmente comprensibili per arabi provenienti da
regioni diverse. In particolare, i dialetti del Maghreb sono considerati molto diversi dall’arabo
standard. Mentre le persone di buon livello culturale sono, in genere, capaci
d’esprimersi nell’arabo ufficiale, la maggioranza degli arabi usa generalmente
solo il proprio dialetto locale. Al giorno d’oggi, il dialetto egiziano è probabilmente il più conosciuto nel
mondo arabo, grazie alla grande popolarità dei film e della musica egiziana. La
lingua del Corano risente, invece, del dialetto meccano.
Quando si sente recitare il Corano si può notare la
ritmicità della lingua. Ciò si riscontra particolarmente con le sure più brevi,
ove i versetti corti permettono di seguire una certa assonanza di rima. È
sufficiente considerare la sura Aprente per comprendere la ritmicità del
linguaggio. Vi è un ritmo veloce, quasi affannoso. Ed è proprio il ritmo veloce
che a volte riduce la realtà o un evento alla sua stessa concretezza e nudità
reale. Così, nel linguaggio coranico, le realtà spazio-temporali ricevono una
collocazione circolare, meta-storica. Tutto è orientato in senso protologico o
in senso apocalittico.
In effetti, il Corano utilizza la struttura
linguistica per costruire una nuova coscienza religiosa fondata su un universo
di segni e simboli. È necessario entrare nel complesso sistema grammaticale
arabo – tra le scienze coraniche vi è la grammatica, considerata, dunque, come
una scienza sacra – per capire il senso e la partita d’una determinata
affermazione coranica. Il testo, pur se tradotto, rimane inimitabile. Il Corano
definisce un universo di relazioni e di sensibilità che solamente la lingua
araba può rendere. Quando un musulmano ascolta la recita del Corano, si sente
interpellato direttamente da Dio. L’inimitabilità (i‘jâz, cf. 10,38;
17,88) del Corano è divenuta quasi un dogma di fede tra i musulmani. È il
principio dell’irrefutabilità del Corano in quanto parola divina trasmessa a
Maometto dall’angelo Gabriele. Letteralmente, i‘jâz significa
l’impossibilità di fare altrettanto bene, d’imitare il testo sacro. Questa
inimitabilità esprime il carattere trascendente del Corano ed è una prova (borhan)
che permette di distinguere tra il vero e il falso Corano. L’i‘jâz è
relativa sia al contenuto del Corano che alla sua forma letteraria, come anche
a profezie future e ad avvenimenti misteriosi che ancora non sono stati
decifrati.
Tra i generi letterari del Corano si distinguono: gli
oracoli, le visioni apocalittiche, i salmi e le preghiere, i racconti storici e
leggendari, i testi legislativi e i documenti d’archivio. Il materiale più
cospicuo è costituito dagli oracoli pronunciati direttamente da Dio (cf. 94,5):
il credente è posto di fronte alla parola di Dio. Come già ricordato altrove,
lo stile apocalittico appare nel primo periodo, durante la predicazione alla
Mecca. Qui il linguaggio diviene enfatico, immaginoso, evocativo, esclamativo,
e offre un contenuto oscuro e misterioso.
È, forse, il “momento acustico” dell’audizione della
parola in cui s’inseriscono le pesanti immagini sul giudizio. Tipica della
letteratura d’Oriente è la salmodia, mentre i racconti storici riprendo fatti
accaduti a personaggi biblici e a testimoni della fede, nonché a predicatori
dell’unicità divina. I testi legislativi, invece, riflettono i primi passi
della comunità musulmana a Medina e riguardano la vita quotidiana, come pure il
culto, le regole morali, l’amministrazione economica, norme giuridiche.
In ultimo, i documenti d’archivio non sono altro che
l’insieme di testi occasionali legati ad avvenimenti della vita sociale, ad
esempio, ordini militari, le strategie belliche, i proclami di guerra, etc…
Alcuni critici occidentali hanno posto attenzione altresì a un altro gruppo
letterario formato dalle leggende del castigo (al-mathânî) contenente
sia materiale biblico che arabo non biblico. Si tratta di racconti che seguono
un medesimo modello: si fa riferimento a un popolo o a una tribù a cui è
inviato un profeta che resta inascoltato. Di conseguenza, quella comunità
riceve il castigo divino, mentre coloro che hanno ascoltato il profeta si
salvano.
Sicuramente, l’approccio teologico al Corano,
tipicamente occidentale, non permette di comprendere molto dei contenuti della
rivelazione coranica che è più attenta all’ortoprassi e non all’ortodossia. Il
Corano ha una funzione pratica: orientare il credente al suo status
originario, alla condizione protologica della fede. In questa prospettiva, più
che rivelazione, il Corano è una comunicazione celeste che proclama la
giustizia divina ed esprime l’economia dei segni di Dio. Il fedele musulmano è
pervaso dall’idea che a parlare sia sempre Dio. In alcuni passi, però, è
Maometto a parlare al posto di Dio. Ciò viene evidenziato dalla formula
introduttiva “di” (qul). A volte Dio parla in prima persona singolare
(cf. 74,11-15). Spesso, però, comunica in prima persona plurale, secondo la
classica forma del plurale majestatis. Dio parla anche in terza persona.
In alcuni casi, a Maometto viene rivolta direttamente la parola con
l’espressione: “Voi uomini!”, “Voi figli d’Israele!”; “Voi gente dello scritto
o del libro”.
3. Questioni di critica testuale
Per la tradizione, Maometto dettava ai suoi segretari
le rivelazioni ricevute senza curare, però, la distribuzione d’un testo unico.
Il Corano, quindi, restò affidato completamente alla memoria dei fedeli. Da qui
il suo significato principale di Qur’ân (“recitazione ad alta voce”),
nonché il senso primario del vero arabo qara’a, di cui qur’ân è
il nome d’azione, dalla radice semitica qr’ che vale per gridare,
chiamare (clamare in latino). Il più moderno significato di “leggere” è
secondario perché derivato dall’essere la lettura, in origine, la recitazione a
voce alta.
La tradizione considera completata la rivelazione del
Corano prima della morte del Profeta avvenuta nel 632: Maometto avrebbe
raccolto il materiale sparso nella comunità e dato uniformità al testo. Fu
compito dei successori realizzare il passaggio dalle collezioni al testo
definitivo del Corano. La data definitiva della stesura
letteraria s’aggira attorno al 650. Come già ricordato nel capitolo precedente,
è stato sotto il periodo del califfato di ‘Uthmân che è avvenuta la raccolta
definitiva delle collezioni e la stesura del testo. Forse, una prima edizione –
che non vide la luce – fu iniziata dai segretari e funzionari del califfo Abû
Bakr nel 633, in modo particolare da Zayd ibn Thâbit. L’edizione non fu
promulgata per la morte improvvisa del califfo nel 634. In seguito al sorgere
di troppe divergenze tra testi scritti e recitati, ‘Uthmân incaricò Zayd di
procedere alla stesura finale con l’ausilio di altri segretari. Quindi,
ufficialmente, il testo canonico del Corano è quello del califfo ‘Uthmân.
Comunque, per molti anni, il testo scritto servì soprattutto come supporto alla
memoria, aiuto per ricordare. Infatti, le imperfezioni della scrittura araba
d’allora, nella quale i segni consonantici si confondevano tra di loro ed erano
soltanto notate – e sempre parzialmente – le vocali lunghe, non le brevi, non
favorivano una recitazione unitaria e serena del testo.
Le letture discordanti e le differenti recensioni,
risultanti dall’insieme delle lezioni adottate da ciascuno dei capiscuola più
autorevoli, determinarono una sorta di fissazione del canone o di
riconoscimento ufficiale. Furono sette le recensioni ufficialmente riconosciute, poi ridotte solamente a due: quella di ‘Âṣîm, morto nel
774 a Kûfa, e quella di Nâfi‘, morto a Medina nel 785. La prima recensione si
diffuse in Africa e prende il nome dal suo trasmettitore Ḥafṣ, morto nell’805.
Su di essa è fatta l’edizione Fu’âd. Altrove prevale la recensione di Nâfi‘
trasmessa da Warsh che morì nell’812. Le piccole varianti non intaccano
minimamente la sostanza. Un po’ alla volta, furono aggiunti sui manoscritti i
punti diacritici e il segno di raddoppiamento per le consonanti, fino alle
precisazioni grafiche per le vocali lunghe e brevi e altri segni.
Considerando il Corano come un codice o un
manoscritto, sicuramente era composto di fogli di papiro o di pergamena, la
carta ha sostituito progressivamente questi materiali ma con molta lentezza. La
pietà popolare ha considerato sacro non solo il contenuto del Corano ma pure il
testo in quanto codice scritto e rilegato. Questo, allora, non viene mai
portato in mano, da un fedele, se non dopo le abluzioni e in una posizione che
lo pone al di sopra della cintola. È una devozione diffusa soprattutto in
Egitto: mai un vero musulmano lascerebbe il Corano al di sotto d’una pila di
libri o in qualsiasi luogo della casa!
4. Abrogazione ed esegesi
Si è formata una vera e propria scienza
dell’abrogazione che riguarda sia il Corano che la sunna. La quantità delle
varianti è enorme e molto complicata. L’abrogazione del Corano per mezzo del
Corano ha occupato, nella storia del pensiero islamico, meno spazio rispetto
alle teorie e dottrine sull’abrogazione del Corano per mezzo della tradizione o
della sunna per mezzo del Corano. È il tentativo di rendere sempre più armonica
la rivelazione coranica e d’adattare la rivelazione ai nuovi contesti o,
viceversa, di reinterpretare la situazione politica, economica, sociale, etica,
religiosa e giuridica d’una comunità alla luce del testo sacro. A tal
proposito, si pone un problema che richiama il limite e la fragilità del Corano
stesso: le opinioni dei dottori musulmani sono, molto spesso, contrastanti
circa l’abrogazione d’un determinato versetto o d’un particolare della legge.
Già l’accordo circa l’interpretazione della sura 3,7, ove si parla di versetti
solidi, abroganti e metaforici, non è facile da raggiungere.
Forse, paradossalmente, l’aspetto positivo della
dottrina dell’abrogazione è quello di rendere più dinamico il Corano e
d’introdurre al suo interno il senso della storicità. Alcune norme perdono
consistenza con il cambiamento delle circostanze. Il limite potrebbe essere
l’eccessiva frantumazione della rivelazione e il moltiplicarsi di norme e leggi
quando è la tradizione ad abrogare o a trasformare un versetto. Si può rimanere
prigionieri d’una casistica che interrompe l’unità del messaggi coranico e la
sua applicazione universale e obiettiva. Sono essenzialmente due i motivi per
cui la dottrina dell’abrogazione è stata introdotta: per ridurre le discrepanze
tra rivelazione e diritto; per valutare le nuove circostanze storiche e sociali
non contemplate nel Corano.
Questo modo di procedere favorisce, comunque, una
lettura dinamica del testo sacro, anche se apre le strade a letture e
interpretazioni fondamentaliste del Corano, come per esempio nel caso della
guerra e del dialogo con i miscredenti. Infatti, mentre la sura dell’Ape,
d’origine meccana, sembra favorire un clima sereno di dialogo e di confronto
con i miscredenti (cf. 16,22.37) – invita a chiamare gli uomini alla via del
Signore con saggezza e buone esortazioni e capacità di retorica o disputa –, la
sura del Pentimento, d’origine medinese, invece, invita a combattere
coloro che non credono in Dio e nell’ultimo giorno (cf. 9,29). Questo versetto
della sura medinese abroga quello della sura meccana sopra citato. Così, il
famoso versetto della spada (cf. 9,5: “uccidete i miscredenti ovunque li
troviate”) abroga più di centoventi versetti precedenti – alcuni più pacati – a
proposito dei miscredenti. Secondo alcuni studiosi, invece, il versetto 5 della
sura 9 abroga se stesso.
Per altro, in modo più critico, alcuni sostengono che
il Corano medinese può subire abrogazioni da parte del Corano meccano e non
viceversa. Questo perché le sure più antiche – quelle meccane – contengono il
messaggio eterno rivolto da Dio agli uomini, mentre i capitoli del periodo
medinese riprendono un messaggio contingente rivelato da Dio al Profeta per la
gestione della nuova comunità. È la tesi di Tâhâ, secondo il quale la parte più
recente del Corano non può abrogare la parte più antica.
Si tratta del tentativo di fare una lettura storico-critica del Corano, di
distinguere, cioè, tra il fatto coranico e il fatto islamico, processo
indispensabile per meglio interpretare e attualizzare il Corano alla luce del
suo messaggio profetico genuino. L’aspetto più universale del messaggio
coranico è nelle sure meccane che costituiscono il cuore o il nucleo essenziale
del Corano che è di tutti i musulmani monoteisti (qui l’islâm si presenta come
religione naturale secondo la sura 30,30).
Le sure medinesi costituiscono il Corano dei credenti,
di coloro che appartengono alla comunità islamica. Gli eredi di questo
messaggio devono annunciare la fede islamica nella sua originalità: perché i
versetti antichi furono abrogati – cioè sospesi – in relazione alla
legislazione che prendeva forma per il bene della comunità, per la sua
formazione. Ora che la comunità è costituita si deve ritornare al centro del
Corano. Di là della non condivisibiltà di questa tesi da parte delle autorità
fondamentaliste e tradizionali dell’islâm, si evince un dato di fatto: la
necessità di realizzare un approccio storico-critico e contestualizzato al
testo sacro.
L’esegesi moderna e post-moderna – a partire dal
metodo semiotico, o dall’analisi narrativa e dalla retorica
– offre buone possibilità di ricerca e d’indagine. Gli ampi successi dell’ermeneutica
sono a conoscenza di tutti, non solo in Occidente, ma pure nei centri culturali
e nelle università orientali. Di fatto, il cuore del Corano – l’esperienza
centrale del Profeta – è e resta l’unicità di Dio che trascende qualsiasi
nazionalismo arabo o religioso o anche militare e morale. Il Corano meccano è
stato riletto, quindi, giustamente, come una rivoluzione o riforma delle
coscienze e delle credenze. Questa riforma è la premessa a qualsiasi altro
cambiamento d’ordine etico e socio-politico o economico-culturale e religioso.
Qualche studioso fa notare che il Corano meccano è fondato sulla fede e non
sulla legge, anche se il fatto legislativo ritorna di riflesso nell’esperienza
religiosa di Maometto.
L’essenza del messaggio profetico alla Mecca è
racchiusa nella parola ‘ibâda (“adorazione”): consiste nella volontà
inflessibile di non servire che Dio e nell’interdizione di servire altri che
lui. L’aspetto combattivo e violento del Corano appartiene soprattutto al
periodo medinese dove l’interesse è per la costituzione e lo sviluppo della
comunità musulmana quale luogo di solidarietà e centro d’accoglienza e d’unità
di fede per il mutuo soccorso. Ciò obbliga a un commento dinamico e vivo del
Corano e a scoprire nuovi sensi della scrittura sacra per i fedeli musulmani. Anche se il tentativo di realizzare un vero e proprio
commentario scientifico al Corano ha determinato la nascita e lo sviluppo di
nuove discipline, dando il via alle teorie più complesse, resta evidente un
principio pratico: nel Corano è stato individuato un corpo normativo e
legislativo che storicamente appartiene a un periodo particolare della comunità
musulmana che deve permettere, a sua volta, l’affermazione di nuove
potenzialità di significati del testo sacro durante lo scorrere del tempo.
Così, il materiale legislativo, militare e
propagandistico emergente nel Corano medinese non ha più motivo di essere:
occorre determinarne nuovi valori o sensi prossimi alla storicità del momento.
Tale dato non è irrilevante, anzi è determinante per l’approccio critico al
testo sacro, anche se l’esegesi moderna non è sufficientemente adeguata per la
valutazione complessa del Corano come textus receptus e opera ritenuta
autentica e oggettiva per la verità a cui rimanda e da cui proviene.
Non è solamente importante capire quale ruolo occupa
il Corano nella vita dei credenti musulmani, ma anche e soprattutto come
realizzare un approccio quanto più totale, complesso e allo stesso tempo
armonico con il messaggio genuino del Profeta alla Mecca. Solo la ricerca d’un sensus
plenior permetterà il superamento di qualsiasi forma di strumentalizzazione
(politica, ideologica, etica, economica, sociale e culturale) dei versetti
sacri e del loro contenuto divino. È pur vero che un testo ha una sua storia in
quanto è portatore di un’alterità che trascende il medesimo senso letterale
come anche il significato che ne deduce il lettore. Tuttavia, un’oggettività di
fondo permane in qualsiasi composizione stilistica. Ciò rivela l’autenticità
del testo, specialmente di quelli sacri o considerati tali. In effetti, il
Corano è un testo autentico perché raccoglie le esperienze del Profeta e della
sua comunità nel giro d’un ventennio dalla morte dello stesso Maometto.
I filtri, le interpolazioni, le revisioni, le
rielaborazioni e le glosse rientrano nel processo di recezione del contenuto
del messaggio orale del Profeta. È lo spessore storico del testo che ne rende
viva e visibile la forma attraverso uno stile letterario ben determinato,
situato. La conoscenza di queste forme e di questi stili favorisce l’emergere
del contenuto verace del Corano. È ingenuo sostenere, come fanno alcuni esperti
islamici di esegesi, che il Corano è giunto a noi direttamente da Maometto come
Parola rivelata senza revisioni, quindi nella forma d’un dettato verbale (verbatim)
che non ammette glosse o manipolazioni.
Si può sostenere o difendere l’idea della rivelazione
verbale del Corano. Tuttavia, come afferma lo studioso pakistano Fazlur Rahman,
morto negli Stati Uniti il 1988, i racconti resi ortodossi e standardizzati
della rivelazione coranica danno un’immagine meccanica ed esternalizzata della
relazione tra il Profeta e il Corano. Rahman sostiene che il Corano è
interamente la parola di Dio nella misura in cui è infallibile e totalmente
scevro da menzogna, o in quanto è giunto nel cuore del Profeta e poi sulla sua
lingua. Si tratta di recuperare il senso d’una rivelazione dinamica rispetto al
carattere verbale della rivelazione coranica. Maometto stesso ha avuto un ruolo
attivo nella rivelazione divina in quanto destinatario. Solo così si può
rendere possibile un rinnovamento (tajdîd) e una vera riforma
all’interno della comunità musulmana.
Il Corano dev’essere affrontato nella sua totalità
(visione del mondo insita al testo) e storicità (individuare l’emergere dei
temi particolari), evitando frammentazioni ed estrapolazioni. Inoltre,
l’aspetto etico (la teoria del bene e del male) è centrale nel Corano stesso.
Rahman, diversamente dagli autori antichi e tradizionali, si è chiesto in che
modo lo spirito del Profeta è riuscito ad entrare in contatto con la
rivelazione divina. All’opposto, l’ortodossia musulmana era solo preoccupata
d’affermare che la parola di Dio non è giunta al Profeta solamente sotto forma
d’ispirazione, ma in maniera tale che le parole stesse del Corano sono da
considerarsi rivelate. La tradizione afferma che in Dio la Parola è unica, così
il Corano è uno.
Per Rahman, il Libro è stato inviato al cuore del
Profeta, il quale lo ha espresso, di quando in quando (per ben ventitrè anni),
nella sua lingua, secondo i suoi idiomi, le espressioni e lo stile che erano
già i suoi. Il Corano porta, come testo scritto, questo patrimonio del Profeta!
Nella percezione mistica vi è sempre l’elemento cognitivo che permette di dare
forma a un’idea o all’intuizione. Anzi, la percezione si esprime in un’idea che
è l’aspetto temporale di ciò che è in temporale. Vi è una relazione organica
tra percezione e idea. È bene prendere sul serio la dimensione psicologica
della rivelazione coranica, di considerare il processo creativo della mente. La
Parola del Corano è rivelata perché la fonte risiede fuori di essa. Poiché
l’intero processo s’è prodotto all’interno stesso della mente del Profeta, è
altresì parola del Profeta. La Parola è passata dal cuore del Profeta. Tuttavia, il carattere ispirativo e divino del Corano
non si può ridurre a un processo mentale. Il segno soprannaturale sta nella sua
forza etica, negli slanci morali che rendono la rivelazione unica. La legge
morale è immutabile ed è il comandamento di Dio che l’uomo può compiere o
rifiutarsi d’assolvere.
È irrilevante pensare che la superiorità del Corano,
rispetto alla Bibbia, consista nel fatto che la trasmissione del messaggio
coranico non è distorta, mentre quella giudaico-cristiana lo è, almeno
potenzialmente, perché soggetta a passaggi, trasmissioni. Non si può sostenere
– scientificamente – che il Corano non abbia vissuto, in quanto testo scritto e
compilato, una fase di trasmissione orale prima della sua stesura. Ed è
veramente troppo ingenuo – apologeticamente superato – lo sforzo di coloro che
sostengono la stesura delle parti del Corano nel momento stesso in cui queste
sono state pronunciate.
Ci sono diverse strategie adottate dalle civiltà per
la conservazione d’un testo. Innanzitutto, la sua stesura definitiva e completa
in modo continuativo e permanente. Segue la possibilità d’affidare il testo a
più copisti del futuro con il rischio maggiore di refusi, glosse,
rimaneggiamenti anche a motivo d’incompetenza. Il testo può subire anche delle
variazioni importanti. Si riconosce, al Corano, la mancanza di errori
essenziali durante il corso della trasmissione. La fedeltà è dimostrata dal
fatto che anomalie molto antiche del testo sono state preservate fedelmente.
La trasmissione orale – la traditio – risultava
essere, anche dopo la morte del Profeta, la forma propria della comunicazione e
della conservazione dell’identità della fede o di un’esperienza rilevante, come
nel caso di quella religiosa. Fino a quando non si supererà il gap
provocato dalla teoria che considera il Corano scritto al tempo in cui è stato
proferito – e che i suoi testi contengono letteralmente le parole pronunciate
dal Profeta – ogni tentativo di dialogo con la modernità è vano e resta
inconcludente, inefficace, bloccato. Ci si può appellare, invece, a una
tradizione orale forte ed efficace, capace di rafforzare la trasmissione
scritta. I punti discordanti nelle diverse collezioni del testo coranico
riguardano soprattutto la recitazione e la fissazione delle vocali. Generalmente,
però, le variazioni toccano le singole lettere.
Un tentativo di riforma all’interno delle scienze dei
commentari del Corano è stato intrapreso, non senza limiti e blocchi, dal
movimento della salafiyya nato nella seconda metà dell’Ottocento. Jamâl
ad-Dîn al-Afghânî (1839-1897) ne è stato l’iniziatore. Questi auspicava: un
ritorno alle fonti dell’islâm (Corano e Sunna), il rinnovamento etico, il
recupero della storicità per i musulmani attraverso l’impegno socio-politico e
civile. Ciò che a volte non ha favorito l’idea d’una certa flessibilità storica
del Corano e del messaggio del Profeta è stato il riferimento statico alla
tradizione e il passaggio per la razionalità intesa come principio ermeneutico
fondante ogni commento. Non mancano, oggi, interpretazioni più attuali che si
soffermano sull’aspetto narrativo o pedagogico del Corano, come anche sulla
storicità del messaggio.
Non è assente, purtroppo, un’interpretazione
fondamentalista e radicale che fa del Corano un pensiero unico. È avviato pure
un processo d’ermeneutica filosofica al testo sacro – di per sé importante
perché è un motivo di dialogo con la modernità – ma risultante a volte troppo
verboso, razionale, lontano dal senso della storicità e dal senso interiore.
Oggi si è tentato anche di studiare il Corano alla
luce dei moderni metodi della critica letteraria, mettendo in crisi il concetto
di rivelazione coranica come tanzîl (“discesa” d’un testo preesistente
presso Dio). Il cercare nel Corano dei meccanismi letterari comuni ad altri
testi scritti da mano umana, per i fondamentalisti, sembrerebbe arrecare danno
alla trascendenza divina. Ciò fa presupporre che la rivelazione
s’impossesserebbe delle culture umane e parlerebbe attraverso di esse.
Attualmente, la critica letteraria invita a distinguere tra la causa principale
(Dio) e la causa strumentale (i profeti). Tornando indietro nel tempo, si
scoprono personaggi di grande rilievo all’interno della tradizione musulmana
che hanno provato a costruire un dialogo tra il Corano e l’esegesi. È il caso
di Muḥammad ‘Abduh (1849-1905), buon conoscitore dell’opera d’Al-Jurjânî.
I dati conclusivi della critica testuale sono i
seguenti: è forte il contrasto tra la tesi di chi riconosce un nucleo centrale
del Corano già esistente – appena formato – ai tempi del Profeta e chi invece
insiste sulle collezioni tardive del Corano. Un elemento può esser utile:
l’aspetto canonico del Corano, il suo riconoscimento ufficiale, avvenne in
tempi molto brevi rispetto al canone biblico. Durante la vita del Profeta, il
Corano rappresentava soprattutto una fonte orale visto che la rivelazione
ricevuta da Maometto era tale. Forse si può ritenere esatta l’affermazione che
vede nei primi interventi un lavoro più conservativo sul Corano e non
d’interpolazione, come anche quella che riconosce un intervento tempestivo ed
essenziale sulla revisione del testo scritto.
Sfogliando, però, opere antiche del Corano – codici, manoscritti, copie – si
evince la difficoltà circa l’ambiguità di molte parole. Tale stranezza riguarda
pure coloro che hanno una familiarità con la lingua araba. Il Corano è pieno
d’una serie di enigmi linguistici non risolvibile.
5. Il messaggio
Così recita la sura aprente che costituisce anche la
preghiera più solenne dell’islâm, nonché segno d’invocazione inaugurale e di
benedizione:
«Nel nome di Dio clemente e misericordioso. Lode a
Dio, Signore dei mondi, il clemente, il misericordioso, sovrano del giorno del
giudizio. Te adoriamo, te invochiamo in soccorso, guidaci al retto sentiero, al
sentiero di coloro a cui tu hai largito la tua grazia, non di coloro che sono
incorsi nella tua ira né di coloro che sono fuorviati» (1,1-7).
Un detto del Profeta appella il Corano con il titolo
di “banchetto di Dio” e l’islâm come la “tenda di Dio”. Il banchetto e la tenda
sono per tutti gli uomini: il Corano ci dice che Dio vuole parlare con gli
uomini, ma nessuno è obbligato a rispondere. In tal senso, il Corano s’apre con
una sura a carattere cosmico, l’Aprente, e si chiude con una sura a
carattere antropologico, gli Uomini. Mentre l’Aprente (al-Fâtiḥa)
è una resa di grazie al Signore dell’universo e una richiesta di guida per
tutti gli uomini, l’ultima sura, gli Uomini (an-Nâs), afferma che
Dio è l’unico e vero rifugio del credente. L’Aprente ci ricorda della
lode e della gratitudine dovute a Dio per i suoi attributi d’infinita bontà e
misericordia che contano molto di più nel giorno del giudizio. Dio è colui che
ha potere su tutte le cose (cf. 19,96). Perché è l’Onnipotente. I fedeli,
quindi, devono temerlo. Allâh è con chi lo teme. Tramite il timore di Dio, le
azioni e le forze dei musulmani sono rivolte completamente ad Allâh. Da qui il
senso dell’unicità e unità di Dio (tawḥîd). La parola “unico” ricorda ai
musulmani che i loro cuori devono essere consacrati all’unico Dio che non ha
posto nel corpo di nessun uomo due cuori (cf. 33,4). Dio è assoluto e, quindi,
la devozione a lui dev’essere totalmente sincera. Allâh non ha associati.
L’immagine di Dio nel Corano è innanzitutto quella
della luce e della speranza. È Dio che ha insegnato al Profeta la sapienza e la
parola, e annuncia di essere lui stesso colui che la spiegherà. Dice Dio nel
Corano: «Muḥammad, non muovere la lingua con essa per affrettarti. Certo a noi
riunirlo e recitarlo. Seguine la recitazione quando noi lo recitiamo, poi
spetta a noi spiegarlo» (75,16-20).
Il contenuto della dottrina coranica riguarda
essenzialmente il Dio unico: Allâh. Questi è il Dio supremo in senso
monoteistico. Si è già accennato, a proposito delle tappe rivelative di
Maometto, dei caratteri fondamentali della divinità: la bontà-misericordia (la
clemenza) e l’onnipotenza. La bontà di Dio è rapportata alla sua funzione di
Creatore: egli conosce la nostra debolezza strutturale, ontologica. L’uomo è
debole, fragile, perché tende a moltiplicarsi, a frantumarsi: perché il suo
essere è diviso. L’originaria creazione del mondo non è rappresentata con
particolari, né Adamo è inserito all’interno dei sei giorni biblici della
creazione divina.
Una descrizione più dettagliata della creazione è
presente in 41,9-12: mai, però, in modo sistematico e continuativo. Adamo è
stato creato dalla terra, da un grumo di sangue (cf. 3,59). Dio crea per libera
decisione, per volontà (cf. 40,68). Importante è il riferimento all’azione
creatrice permanente di Dio: rivela la sua onnipotenza. Dio, poi, agisce anche
attraverso le azioni umane (cf. 8,17); lo stesso potere umano, la volontà, è
nelle mani d’Allâh (cf. 37,96; 76,30). Queste affermazioni, tuttavia, non
permettono di elaborare un piano teologico o antropologico esaustivo e
sistematico: perché concezioni diverse appaiono nel Corano. L’uomo, infatti, è
libero e pure non lo è: Allâh lo guida se egli si lascia guidare, però lo porta
anche dove vuole. Allâh, infatti, non guida coloro che non vogliono credere ai
segni (cf. 16,104). Ci sono verità complementari nel Corano a proposito della
responsabilità dell’uomo dinanzi a Dio e dell’onnipotenza divina. Il senso di
azioni predestinate è tipico della mentalità beduina pre-islamica. Allâh è
colui che governa direttamente il mondo e non mediante cause secondo. Gli
stessi fenomeni naturali e quelli dovuti all’attività dell’uomo diventano tutti
segni d’Allâh.
Alla domanda “Chi è Dio veramente?”, si può rispondere
con la sura 2,21-22.163:
«O uomini! Adorate il vostro Signore che ha creato voi
e quelli che furono prima di voi, e così forse diventerete timorati di Dio. È
lui che vi ha fatto della terra un tappeto e del cielo una volta; è lui che dal
cielo fa scendere l’acqua per far nascere dalla terra i frutti che vi
sostentano. Non adorate dunque altri dèi insieme a lui, voi che conoscete la
verità! […]. Il vostro Dio è un Dio unico. Non c’è divinità all’infuori di lui,
il Clemente, il Misericordioso».
In 3,18 è ribadita l’unicità di Dio:
«Dio stesso è testimone che non c’è divinità
all’infuori di lui, e ne sono testimoni anche gli angeli e chi possiede la vera
scienza. Essi dicono: “Dio governa con giustizia. Non c’è divinità all’infuori
di lui, il Potente, il Saggio!”».
Allâh è il Dio unico che si eleva al di sopra degli
altri idoli. Qui il monoteismo coranico riprende quello ebraico e si spinge più
avanti, in polemica con la visione cristiana di Dio. Non vi è la possibilità di
riconoscere in Allâh una funzione procreativa, o di paternità. Il tema delle
figlie d’Allâh (banât Allâh) permette di scagliarsi contro gli idolatri
meccani per negare con la stessa alterigia disdegnosa che egli abbia potuto
avere figli. Il medesimo nome d’Allâh rende inammissibile il plurale “divinità”
(âliha), salvo che per stigmatizzare l’inanità degli dèi che i pagani o
gli oppositori s’ostinano a invocare. La sura del “culto sincero”, nominata
anche “dell’Eterno” o “dell’Unità divina”, rafforza il mistero dell’unicità di
Dio. La tradizione dichiara di essere stata rivelata in risposta a una domanda
di alcuni ebrei sulla natura divina. Il contenuto è decisamente antitrinitario:
«Di’: “Egli Dio, è uno! Dio, l’Eterno! Non generò né fu generato, e nessuno gli
è pari!» (112,1-4).
Il senso del verbo “generare” è “fisico”, “carnale”,
come risulta chiaro anche dalla sura 6,100-102. C’è un modo errato d’intendere
la paternità divina e la filiazione. Di là del problema strettamente dialogico,
ci preme sottolineare il senso dell’unicità divina (tawḥîd) nell’islâm,
visto che la sura 112 è un po’ il cuore della dottrina coranica. I musulmani la
definiscono come la sura “della purezza” o anche “della fede pura”. È ritenuta
rivelata alla Mecca ed è ventiduesima nell’ordine cronologico. Il suo nome âl-îkhlâṣ
deriva dal radicale kh-l-ṣ e riprende il verbo di prima forma khalaṣa:
“essere sincero”, “puro”, “leale”, “fedele”. La professione di fede monoteista
è una scienza: la sincerità ne è la base e la fedeltà, invece, ne costituisce
la condizione. In effetti, la fede in Allâh come “Dio unico e uno” è il primo
articolo della professione di fede islamica (la šahâda). Dio appare,
così, come la somma grandezza cosmica e non può essere colto da nessuna
speculazione filosofica o teologica. Egli è unico nella sua essenza: non si
divide, né si moltiplica. Per cui, nulla e nessuno gli
può essere pari. Egli stabilisce il corso della vita e delle cose nel mondo: in
lui si fondono vita e potenza, unità e unicità. Non essendo generato, non è
nemmeno mortale, né debole. Egli regna di eternità in eternità e fa tramontare
e di nuovo rinascere. Allâh è infinitamente perfetto perché possiede in misura
piena tutte le buone qualità. È immutabile, giusto, saggio, amorevole,
onnipresente, onnisciente, onnipotente, veritiero in sommo grado. È l’unico
ideale infallibile, che non delude alcun uomo e non arreca tormenti all’anima.
Allâh non assomiglia né alla natura viva né a quella morta. Né l’occhio né la
mente lo possono cogliere. Tuttavia, all’uomo è più vicino delle arterie (cf.
50,15).
Il Corano riporta i 99 bei nomi di Dio che sono
propriamente le sue qualità: un solo nome non permetterebbe di cogliere la sua
potenza né l’essenza. Allâh agisce secondo il principio della giustizia.
S’afferma, perciò, un rigido monoteismo a sfondo etico: Dio ripaga secondo le
proprie azioni. Un simbolo con cui il Corano presenta il mistero d’Allâh è
quello della luce. Dio è luce del cielo e della terra (cf. 24,35): chi ha fede
tende a questa luce cosmica, e rivestirsi delle qualità divine significa
rendersi degno rappresentante di Dio sulla terra. L’unicità di Dio ha degli
effetti molto pratici sul credente: esige l’abbandono, la fiducia in lui. Il
senso della vita, secondo la dottrina islamica, consiste nell’avvicinare quanto
più possibile la perfezione relativa dell’uomo alla perfezione assoluta di Dio.
In virtù della sua unicità, Allâh non subisce le nostre azioni. Il tema del pathos,
tipicamente biblico, è assente dal Corano. Non si conosce neanche il fine
ultimo della creazione. Si sa che Dio ha creato senza stancarsi (cf. 10,3;
20,5), e ha voluto gli uomini e gli jinn per la sua lode (cf. 51,56).
Continua, inoltre, a creare cose nuove (cf. 16,8; 35,1; 55,29), ed è perfetto
nelle sue opere (cf. 67,3). I caratteri più importanti di Dio riguardano la sua
onnipotenza, onniscienza e misericordia.
Prof. Edoardo Scognamiglio
Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale –
Napoli
A partire dal primo paragrafo, i
riferimenti in nota o nel testo tra parentesi riguardano sempre i capitoli del
Corano o sure. Per l’edizione critica del Corano, si considerino almeno queste
traduzioni e i seguenti commentari: Al-Qur’ân al-karîm, Beirut [decima
edizione 1407-egira]; Der Koran. Einführung
– Texte – Erläuterungen, T. Nagel (cur.),
München 1983; Il Corano, introduzione, traduzione e commento di A.
Bausani, Milano 1988; Il Corano, introduzione, traduzione e commento di
F. Peirone, I-II, Milano 1989; The Qur’ân. A new Interpretation, textual exegesis by M.B. Behbûdî, English Translagion by C. Turner,
London 1997.
In proposito, la sura 109 (“I miscredenti”
o Al-Kâfirûn), considerata lo statuto della tolleranza religiosa
nell’islâm, afferma: «Di’: “O miscredenti, io non adoro ciò che adorate voi, né
voi adorate ciò che adoro io. Io mai adorerò ciò che adorate voi, né voi mai
adorerete ciò che doro io. Tenetevi la vostra religione: io la mia!» (109,1-6).
È, così, bandito ogni possibile compromesso o accordo tra il Profeta e i
miscredenti della Mecca. Su questo punto, cf. anche la sura 53,19-23. Una della
più antiche sure meccane (“I Coreisciti” o Qurayš), rivolta ai
coreisciti, da cui proveniva Maometto in quanto appartenente al clan minore
degli Hašemiti, ordina – il tono è imperativo – di adorare il Signore della
Ka‘ba che li ha nutriti salvandoli dalla fame e li rassicurò da ogni timore
(cf. 106,1-4).
La proposta di Th. Nöeldeke, Geschichte
des Qorans, Leipzig 1860, permette di ordinare così le sure del primo
periodo meccano: 96; 74; 111; 106; 108; 104; 107; 102; 105; 92; 94; 93; 97; 86;
91; 80; 68; 87; 95; 103; 85; 101; 99; 82; 81; 53; 84; 100; 79; 77; 88; 89; 75;
83; 69; 51; 52; 56; 70; 55; 112; 109; 113; 114; 1.
Sono da considerare le seguenti sure: 54;
37; 71; 76; 44; 50; 20; 26; 15; 19; 38; 36; 43; 72; 67; 23; 21; 25; 17; 27; 18.
Le sure di questo periodo sono: 32; 41;
45; 16; 30; 11; 14; 12; 15; 28; 39; 29; 31; 42; 10; 34; 35; 7; 46; 6; 13.
Cf., per esempio, la sura 46,1-3: «Ḥâ.
Mîm. Questo Libro è rivelato da Dio, il Potente, il Saggio. Non abbiamo
creato i cieli e la terra e quanto è in mezzo ad essi se non con verità
d’intento e fino a un termine fisso. Ma quelli che non credono non si curano
dell’ammonimento che vien loro dato». La sura 46 porta il nome Al-Aḥqâf
(“Le dune” del deserto) e si riferisce a quella regione dell’Arabia meridionale
abitata anticamente dagli ‘âd. I versetti sopra citati presentano l’accusa ai
miscredenti, segue la predicazione del profeta Hûd al popolo degli ‘âd (vv.
21-28). Interessanti i riferimenti alle norme di pietà filiale verso i genitori
e il curioso episodio della conversione d’un gruppo di jinn (vv. 29-32).
Cf. queste sure: 2; 98; 64; 62; 8; 47; 3;
61; 57; 4; 65; 59; 33; 63; 24; 58; 22; 48; 66; 60; 90; 49; 9; 5.
Sull’evoluzione del termine âyât è
stato fatto notare che inizialmente tale parola indicava le rime, i versi. Ogni
verso termina con una rima o un’assonanza, e così la suddivisione in versi
corrisponde a un naturale ritmo nel senso delle frasi. Da ciò la diversa
numerazione dei versi. Esistono due sistemi di numerazione. Il primo è delle
edizioni europee di Gustav Flügel e Gustav Redslob. Il secondo dell’edizione
standard egiziana. Gli studiosi occidentali si sono soffermati molto sul
significato dei “segni”. Questi, probabilmente, hanno costituito un primo
materiale per il Corano, una specie di corpus (sign-passages)
indipendente dal resto del materiale coranico. Questo corpus insisteva
soprattutto sull’onnipotenza di Dio e sui benefici per il credente. I temi del
giudizio escatologico e della giustizia furono aggiunti successivamente. La
ripetuta menzione dei “segni” aveva diverse finalità: incitare alla fede,
all’adorazione, a vincere l’idolatria. Secondo questa teoria, i segni non
indicano semplicemente i versi del Corano, bensì i segni, cioè i fatti accaduti
in cui Dio agisce. È la prospettiva di R. Bell, Introduction to the Qur’ân,
Edimburgo 1970.
Molte ipotesi sono state formulate a
proposito del carattere enigmatico di alcune lettere arabe poste all’inizio di
alcune sure. Forse appartengono al testo originale e non sono state aggiunte
nel corso della raccolta al tempo dei califfi. In ben 29 sure, la basmala
è immediatamente seguita da una lettera o da un gruppo di lettere che non
formano una parola e vengono lette semplicemente come lettere dell’alfabeto
arabo. Forse potrebbero essere interpretate come contrazioni di parole o con
valore numerico simbolico. Altri studiosi ancora sostengono che le lettere
misteriose si riferivano al possessore del codice utilizzato dai copisti. Chi,
invece, le riconosce come proprie di Maometto, afferma che queste lettere
indicavano già un criterio di compilazione.
In effetti, le numerose traduzioni del
testo coranico nelle lingue occidentali rispecchiano i metodi e i criteri
operativi scelti nell’affrontare il testo, in particolare il criterio
filologico. Quest’ultimo non è il criterio più difficile. La stesura in lingua
occidentale dovrebbe avvenire non solo considerando l’apparato critico-filologico,
ma pure la lettura interiore della parola divina. Così, alla complessità
linguistica del Corano s’accompagna anche quella strutturale del testo. Per gli
esperti, ciò rappresenta il difficile rapporto tra Dio e l’uomo. Per la
conoscenza del linguaggio coranico, cf. G. Rizzardi, Il linguaggio religioso
dell’islâm, Milano 2004, 15-25. Si consideri pure l’articolo di J.-M.
Gaudeul, Vers une nouvelle exégèse coranique?, in Chemins de Dialogue
19 (2002) 49-83.
Così è, ad esempio, per la storia di Noè
che il Corano presenta come messaggero inviato ai suoi contemporanei: egli si
salva insieme ai credenti che lo hanno ascoltato. Situazione simile vive la
tribù degli ‘Âd, famosi costruttori: a questa popolazione fu inviato il profeta
Hûd. Gli ‘Âd non ascoltarono questo profeta e morirono a causa del vento forte
(cf. 69,6-8). Si salvarono solamente le loro opere architettoniche. Si ripete
lo stereotipo per la popolazione dei Talmud. A questa gente fu inviato il
profeta Ṣâliḥ che restò inascoltato. Gli abitanti furono puniti con un
terremoto (cf. 7,78) o da un tuono (cf. 41,17), o da un unico grido (cf.
54,31). Le storie si moltiplicano sulle vicende d’Abramo, come pure sulla città
di Lot (cf. 11,77-83; 15,57.74). La punizione, nel caso di Lot, avviene
mediante una tempesta di sabbia. Il profeta Su‘ayb, invece, fu inviato alla
gente di Midian (cf. 11,94). Seguono i racconti di altri castighi (Mosè e il
faraone, etc…).
In effetti, gli accenni del Corano a uno
scritto o libro di Maometto possono riferirsi a una stesura alquanto sommaria.
Un riferimento implicito allo scritto potrebbe esserci lì dove Maometto riceve
il comando di ricordarsi nello scritto di Maria, d’Abramo e di altri (cf.
19,16.41.51.54.56). Sicuramente, all’inizio, Maometto e i suoi compagni
conservarono nella memoria i passi rivelati, procedendo in un secondo momento a
una prima stesura. Alcune parti del Corano furono scritte in epoca
relativamente precoce, ma sempre con la mediazione della comunità e, quindi,
d’una tradizione.
La tradizione vuole che, secondo un detto
del Profeta, Gabriele recitò a Maometto il Corano in sette aḥruf
(“lettere”). Da qui il riferimento a sette lezioni o gruppi di varianti per il
Corano. È quanto segnalò lo studioso Ibn Mujâhid (839-935) nella sua opera
intitolata Le sette lezioni, rinunciando al tentativo di assemblare in
modo unitario le varianti del Corano. Questo autore identificò ben sette dotti
che avrebbe composto le sette lezioni del Corano fissando per il testo le
vocali. In realtà, le sette lezioni accettate da Ibn Mujâhid erano quelle usate
in centri urbani molto importanti, tra cui Medina, Kûfa, Damasco, Bassora,
Mecca. Il sistema delle sette lezioni, pur se confermato dai giudici sotto vari
aspetti, non trovò facile accoglienza tra gli studiosi musulmani. Alcuni
riconobbero altre tre lezioni successive oltre alle sette, per un totale di
dieci varianti. Le sette varianti canoniche non sono state considerate più di
tanto nelle edizioni coraniche occidentali.
Cf. D. Powers, The Exegetical Genre «nâsikh al-Qur’ân wa mansûkhuhu»,
in A. Rippin (ed.), Approaches to the History of the Interpretation of the
Qur’ân, Oxford 1988, 117-138. Per approfondimenti, cf. R. Hawting – A.
Shareef, Approaches to the Qur’ân, London 1993; S. Wild (ed.), The
Qur’ân as Text, Leiden 1993; F. Sharif, A Guide to the Contents of the
Qur’ân, Reading 1995; A. Merad, L’Exégèse Coranique, Paris 1998; M.
Abdel Haleem, Understanding the Qur’ân, London 1999; A. Rippin (ed.), The
Qur’ân: Formative Interpretation, Ashgate 1999; Id. (ed.), The Qur’ân:
Style and Contents, Ashgate 2001; Id., The Qur’ân and its Interpretative
Tradition, Ashgate 2001; I.J. Boullata (ed.), Literary Structure of
Religious Meaning in the Qur’ân, Richmond 2000; M. Draz, Introduction to
the Qur’ân, London-New York 2000; N. Robinson, Discovering the Qur’ân: a
Contemporary Approach to a Veiled Text, London 2003; M. Campanini, Il
Corano e la sua interpretazione, Bari-Roma 2004.
Sull’analisi retorica applicata al Corano,
merita attenzione lo studio e il lavoro esegetico di Michel Cuypers, apprezzato
ricercatore dell’Istituto domenicano per gli studi orientali (Cairo). L’arte
della composizione del testo, che ha segnato la cultura occidentale e anche
l’esegesi biblica, permette d’individuare le simmetrie del testo (parallelismi,
chiasmi) e di dividere il testo stesso in unità semantiche e di evidenziarne la
struttura che ne orienta a sua volta l’interpretazione. Lo scopo finale di
questa tecnica è la comprensione del testo. È il tentativo di superare la
lettura discontinua, atomistica, frammentaria, delle sure. L’analisi retorica
offre una lettura contestuale e la riduzione del livello di frammentarietà del
Corano. Spesso gli esperti islamici spiegano i versetti difficili e isolati
ricorrendo ad elementi esterni al testo, alle “occasioni della rivelazione”
(aneddoti, detti del Profeta, fatti, leggende), veri espedienti letterari
costruiti post eventum per spiegare le ombre del testo. Ciò
permetterebbe di rivedere pure la teoria sui versetti abroganti e sui versetti
abrogati. Spesso, nelle letture fondamentaliste, non si perde occasione per
abrogare i versetti più antichi e più miti con quelli più recenti e più rigidi
in ambito giuridico, etico o militare. Per arrivare al cuore del Corano
occorre, oltre all’analisi retorica e alla contestualizzazione d’un brano,
anche la lettura ipertestuale d’un versetto. Cf. l’intervista realizzata da
Francesco Strazzari a fratel Michel Cuypers apparsa su Il Regno-Attualità
4 (2007) 96-100.
È la prospettiva seguita da O. Carré, Mystique
et politique. Lecture
Révolutionnaire du Coran par Sayyid Qutb, Paris 1984, 45-49.
Cf. F. Rahman, Islamic methodology in History, Islamabad 1965; Id., Islâm,
Chicago 1966; Id., Major Themes of the Qur’ân, Minneapolis 1980; Id., Islâm
and Modernity, Chicago 1984; Id., La religione del Corano, Milano
2003.
Cf. la critica di M. Cook, Il Corano,
traduzione di A. Martini, a cura di R. Tottoli, Torino 2001, 125-148.
I contenuti del Corano non riguardano
solamente l’unicità di Dio, ma anche il giorno del giudizio, la missione del
Profeta, l’etica, l’esistenza delle realtà spirituali, etc.. Per maggiori
approfondimenti, cf. B. Naaman – E. Scognamiglio, Islâm-Îmân. Verso una
comprensione, Padova 2009.
Nel Corano, l’unità di Dio è segno della
sua autosufficienza ed è interpretata come unità numerica. Solo
successivamente, per l’influenza della filosofia, è interpretata come unità di
semplicità. Da qui l’accusa di politeismo e d’idolatria rivolta ai cristiani
che adorano la Trinità. Cf. O. Loretz, L’unicità di Dio. Un modello
argomentativo orientale per l’«Ascolta, Israele!», Brescia 2008, 125-128.
Circa i caratteri della teologia islamica, cf. il contributo di J. Jomier, Introduction
à l’islâm actuel, Paris 1964; Id., L’islâm aux multiples aspects,
Kinshasa 1982; Id., Pour coinnaître l’islâm, Paris 1988; P. Branca, Introduzione
all’islâm, Cinisello Balsamo (Milano) 1995. Sempre utile il lavoro di L.
Gardet, L’islâm, religion et communauté, Paris 1967
Il Corano in italiano - letture di riferimento
per il musulmano taliano
(dal sito IslamItalia)
Il Corano in italiano
Generalmente, la
tradizione islamica ritiene che qualsiasi traduzione dal testo arabo del Corano
non possa evitare d'introdurre possibili elementi di ambiguità se non di vero e
proprio travisamento semantico, e siano pertanto tendenzialmente sfavorevoli a
qualsiasi versione del loro testo sacro in idioma diverso da quello originale,
l'estrema esiguità dei musulmani arabofoni (all'incirca il 10% dell'intera
popolazione islamica mondiale) ha condotto ad approntare traduzioni nelle più
diverse lingue del mondo anche islamico: dal persiano al turco,
dall'urdu all'indonesiano, dall'hindi al berbero. Sono veramete
pochi i musulmani che conoscono a fondo l'arabo ed abbiano elementi di
filologia e semantica antica per poter interpretare correttamente il
significato di molti verseti.
La massiccia diffusione
dell'Islam, nonostante il suo Libro sacro sia nato, si sia diffuso e sia stato
preservato proprio in arabo, non ha scoraggiato la diffusione di molteplici
traduzioni, tant'è vero che le autorità saudite riconoscono ufficialmente tutta
una serie di traduzioni tra cui oggi anche quella italiana di Piccardo.
La prima edizione
italiana del Corano la troviamo, però, in volgare toscano nel 1547 a
Venezia dal fiorentino Andrea
Arrivabene, anche se l'opera fu preceduta da quella allestita da un
tal Marco,
canonico della Cattedrale di Toledo,
che la curò tra il 1210 e il 1213.
In epoca più recente,
vale la pena ricordare la versione dell'orientalista Luigi Bonelli del 1929;
fino ad arrivare a quella dello storico, studioso dell'Islam, Alessandro Bausani,
autore di una delle più importanti versioni in italiana del Corano, edita nel
1955, convertitosi poi alla fede Bahai; di seguito ricordiamo anche quella del
1967 ad opera di un altro orientalista e diplomatico in Libano e Sudan, Martino Mario Moreno.
Tra le più famose e
diffuse traduzione usate oggi, troviamo in testa sicuramente la versione edita
nel 1994, di Hamza
R. Piccardo, scrittore italiano, ex segretario dell'UCOII,
convertito all'Islam. L'edizione è ricca di note esplicative ed è decisamente
quella più diffusa e nel 2012, è stata riconosciuta dal Regno dell'Arabia Saudita
come traduzione
ufficiale italiana del Nobile Corano, in un'edizione
appositamente riveduta accompagnata dal testo originale in arabo e stampata
dalla tipografia islamica di Medina.
E' chiaramente una versione che si stacca dalle precedenti edite da orientalisti
che, sebbene competenti e studiosi, non si spingono più di tanto ad affrontare
il tema delle fede e dei relativi sentimenti ed emozioni che suscitano nella
lettura da parte di un musulmano. Dal punto di vista linguistico, molti critici
l'hanno considerata come un approccio abbastanza letterale, in realtà, ci sono
moltissimi versetti cui ne viene spiegato il significato allegorico nascosto,
cosa del tutto assente nei tafsir classici non sufi. E' il volume di
riferimento per il neo-musulmano convertito, ma anche per colui che, spinto
dalla curiosità o altro, desira immergersi a comprendere, obbiettivamente
l'Islam, da italiano, al di fuori dell'opinioni di massa o di quello che ci
propinano i media.
Da tener presente anche
la versione del 2003, più orientata verso il misticismo e gli aspetti
spirituali del sufismo ad opera dello psicologo, archeologo, docente
universitario, artista e sheīkh sùfi (khalīfah per l'italia
dell'ordine Jerrahi) Gabriele Mandel Khan, laurea honoris causa in
scienze islamiche dall'Università Statale di Konya (Turchia). Una traduzione (con
testo arabo a fronte) caratterizzata dalle numerose note a fine dell'ultima
sura che non tralasciano certamente gli aspetti spirituali ed esoterici
del Testo, visti dal pensiero di un maestro sufi. Introduzione di Khaled Fouad Allam.
La più recente traduzione
(2010) della scrittrice, docente e ricercatrice presso le Università di Venezia Ca' Foscari
e di Genova Ida Zilio-Grandi
e curata da Aberto
Ventura, ricercatore presso l'Istituto di Studi Africani e Orientali della Facoltà di
Scienze Politiche dell'Università di Cagliari, docente di "Islamistica"
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale",
propone un nuovo punto di riferimento nel campo accademico.
Un altro volume
molto interessante per chi desidera approfondire meglio da punto di vista più
accademico, storico e filologico è quello di Mohammad
Ali Amir-Moezzi, direttore aggiunto del Centre d'Étude des Religion
du Livre e drettore dei dipartimenti di islamistica e Iranistica dell'École
Pratique des Hautes Études di Parigi, per l'edizione italiana curata sempre da Ida Zilio-Grandi. Si
tratta di un corposo dizionario analitico che raggruppa insieme tutta una vasta
serie di saggi di islamologhi da tutto il mondo, raccolti, catalogati e
commentati sui vari argomenti, nomi e fatti raccontati nel Sacro Libro. E' un
punto di riferimento in ambito accademico per chi desidera approfondire con
spirito storico-critico scientifico
- See more at:
http://www.islamitalia.it/islamologia/coranoitaliano.html#sthash.lUDGHwWO.dpuf
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