sabato 5 dicembre 2015

Nel paese delle utlime cose - Libro di Paul Auster (presentazione di Enrica Gallo)


PAUL  AUSTER:

NEL PAESE DELLE ULTIME COSE

 

L’AUTORE:

 Nato nel 1947 a Newark, nel New Jersey, da una famiglia ebrea benestante di origine polacca e austriaca, Paul Auster è non solo scrittore, saggista e poeta, ma anche sceneggiatore, regista, attore e produttore cinematografico, testimoniando in questa multiforme attività un costante impegno civile e politico.

Nell’ambito narrativo è considerato uno degli esponenti più importanti della letteratura americana contemporanea e viene ascritto, con Don De Lillo e Thomas Pynchon, al cosiddetto “postmodernismo”. Nei suoi romanzi, tesi ad esplorare le nevrosi e la solitudine dell’uomo contemporaneo, fonde spunti diversi che vanno dall’esistenzialismo alla psicanalisi, dalla letteratura gialla e poliziesca alle notazioni autobiografiche (ricordiamo fra gli altri la “Trilogia di New York”, la sua opera più famosa, “La musica del caso”, “L’invenzione della solitudine”, “Follie di Brooklyn”).

Oltre a collaborare alla sceneggiatura di film come “La musica del caso”, “Smoke” e “Blue in the face”, ha diretto personalmente “Lulu on the Bridge” e  “La vita interiore di Martin Frost”.

(N.B. = tratto da Vikipedia)

 IL LIBRO:

 “Nel paese delle ultime cose” è stato pubblicato nel 1987, a due anni di distanza dall’uscita de “La città di vetro” e quasi contemporaneamente alle altre due parti della “Trilogia di New York”, che ha lanciato Paul Auster sulla scena letteraria dopo una difficile gavetta.

Si tratta di un romanzo distopico*, in cui la protagonista, Anna Blume, racconta in prima persona e in forma epistolare la sua allucinante esperienza in un luogo di cui non vengono date precise indicazioni geografiche (nel testo si allude ad esso semplicemente come alla città, facendogli assumere una funzione metaforica, in coerenza con la natura del romanzo) e in cui è stata intrappolata senza speranza di poterne uscire. Da qui scrive ad un vecchio amico, pur sapendo non solo che la sua lettera difficilmente potrà pervenirgli, ma che quanto le è dato di vedere e di vivere gli risulterà presumibilmente incomprensibile. Troppo lontano e folle e disperato è infatti questo paese perché possa comprenderlo chi vive in un mondo normale, in gran parte ordinato e prevedibile – quello in cui lei stessa ha vissuto prima di imbarcarsi in questa folle avventura. Nondimeno scrive, senza sapere bene neanche lei perché lo fa e perché si è risolta a farlo in questo preciso momento. E’ passato ormai molto tempo da quando si trova in questo luogo, anche se non saprebbe dire quanto: non si può conservare la consapevolezza dei giorni e degli anni, nel paese delle ultime cose… Ma forse, dice, scrive perché è giusto che qualcuno sappia ciò che lì accade, e per non perdere del tutto quel poco di ragione che le resta. Davvero allucinante è in effetti  la storia che Anna racconta.

                                                                                                      

                                                               

UN LUOGO METAFORICO:

 

Dopo questa presentazione sintetica che può essere utile per un primo inquadramento del testo, diamo alcune indicazioni aggiuntive che rendano comprensibili le diverse interpretazioni cui faremo accenno in seguito, pur senza sviscerare totalmente la trama narrativa per non privare chi vorrà accostarsi ad esso del piacere di una lettura diretta.

Abbiamo detto che Anna è stata intrappolata in un luogo terribile da cui uscire sembra praticamente impossibile. Non possiamo dunque non chiederci intanto che cosa l’ha condotta lì, facendole perdere ogni contatto col mondo in cui è cresciuta, in cui ha avuto una famiglia, degli amici, degli amori: come sia potuto accadere che una ragazza di appena diciannove anni abbia deciso – perché sua è stata la scelta – di avventurarsi in un luogo così inospitale affrontando un viaggio gravido di pericoli, nonostante tutti abbiano cercato in ogni modo di dissuaderla.

Non è infatti totalmente sconosciuto agli abitanti del mondo a cui Anna appartiene  quello che chiameremo, sulla traccia del titolo, il paese delle ultime cose, anche se nessuno sa  fino a che punto sia davvero un mondo “altro”. Esso infatti  ha già letteralmente inghiottito non solo il fratello di Anna, un reporter d’assalto che vi è sparito da quasi un anno senza lasciare traccia, ma anche un altro giornalista  che è stato inviato per indagare sulla sua scomparsa.

E’ dunque per ritrovare il fratello che questa ragazza ostinata parte, senza farsi trattenere dalle lacrime materne né dalle appassionate perorazioni del suo amico d’infanzia, da sempre innamorato di lei – lo stesso a cui indirizza ora questa lunga lettera, portando con sé, come unico viatico, la foto di questo reporter, Sam, che assumerà nella sua storia una funzione di talismano, impedendole di precipitare completamente nella disperazione quando giungerà nel paese delle ultime cose.

 

Orrenda è infatti la città, o meglio quanto ne resta, perché un tempo non doveva poi essere tanto diversa da quella da cui Anna giunge. Molti infatti ancora ricordano che la vita era buona, c’era lavoro e amicizia e amore (pericolose memorie, spiega Anna all’amico lontano: chi vi indugia comincia inesorabilmente a trascurare i dettagli, non attiva più i sensi per guardarsi intorno e si trasforma presto in una specie di fantasma, destinato a morte certa). Perché senza questa costante concentrazione è impossibile sopravvivere a lungo in un luogo immerso in un flusso costante di dissoluzione, dove tutto muta e non esiste alcun appiglio a cui appoggiarsi mentre le cose via via spariscono, creando vuoti nelle stesse parole a cui non è più dato di associarsi a oggetti riconoscibili, e in cui occorre andare incontro ad ogni avvenimento come fosse la prima volta, perché nulla, nessun apprendimento pregresso può valere  oltre all’attimo in cui si manifesta.

Un luogo dove anche gli elementi atmosferici sembrano cospirare a rendere la città simile ad un girone infernale: spaventosi sono infatti i venti, che sferzano a morte chi non abbia un riparo – e sono in tanti a non averlo, perché pur essendoci molti alloggi disponibili, se pur fatiscenti, in qualunque momento chiunque può rivendicarne il possesso, se ha dalla sua parte il numero o la forza; violentissime e improvvise le piogge, che infradiciando coloro che si trovano in strada sono ancora più drammaticamente apportatrici di una morte meno rapida, ma ugualmente inevitabile.

Un luogo dove non esiste più un’attività produttiva capace di soddisfare bisogni e di dare vita e dove dunque la morte è onnipresente. Non si muore infatti solo per vecchiaia e per malattia, come dovunque si muore, ma per esaurimento fisico e mentale, così che ci si lascia semplicemente cadere a terra mentre subito giungono altri a depredare il cadavere dei pochi beni che uno si porta addosso, prima che i raccoglitori ufficiali di cadaveri (l’unica funzione in cui la sollecitudine di chi governa a vario titolo la città può essere colta) trasportino i morti nei forni crematori - chiamati “Centri di Trasformazione” - dove verranno riconvertiti  in energia, dando provvisoria vita per altri candidati alla morte. Una morte che viene anche in molti casi attivamente ricercata, attraverso forme dolci per chi può permettersi il ricovero in una delle molte cliniche dell’eutanasia, o altrimenti terribili, se pure  fantasiose ed eclatanti: buttarsi nel vuoto dopo un ultimo sguardo al cielo vuoto, assaporando un momento di pura gioia e libertà, fra i battimani degli astanti; correre fino a sfinirsi dopo essersi allenati a lungo per vincere, morendo, la gara dei Maratoneti; assoldare un assassino professionista per giocare  una partita in cui i destini possono anche in qualche caso rovesciarsi…

Eppure, la cosa che sorprende di più in questa città non è che così tante persone muoiano, ma che qualcosa pur tuttavia continui ad esistere, e che la disperazione più nera conviva, anzi finisca paradossalmente per alimentare una sorta di ingegnosa effervescenza, attraverso la quale si cerca di utilizzare tutto ciò che è ancora utilizzabile, di trasformare tutto ciò che ancora può essere trasformato facendo diventare risorsa preziosa ciò che in altre condizioni costituirebbe solo un problema.

Si può ben vivere infatti, rimandando una morte che tuttavia è sempre presente sullo sfondo - commenta Anna con una sorta di rassegnata presa d’atto della realtà - grazie alla merda e alla spazzatura: si può diventare spazzini, raccoglitori di immondizia da portare alla centrale elettrica più vicina (dove tutto decade l’immondizia aumenta, anziché decrescere), o altresì cercatori di oggetti da recuperare per venderli agli Agenti Restauratori, che li immetteranno nel mercato nero.

Non sono nondimeno attività facili, né prive di rischi - ciò che può permettere in qualche modo di sopravvivere è ambìto da molti, e la concorrenza è spietata. Occorre prima di tutto dotarsi di un apposito tesserino rilasciato, dietro adeguato compenso, dagli appositi uffici comunali, acquistare e tenere in ordine gli indispensabili strumenti di lavoro, il che richiede un forte sacrificio iniziale  in cui il trovare un punto d’equilibrio diventa questione di vita o di morte (i carrelli della spesa, che risultano i più funzionali alla raccolta, sono infatti quasi introvabili e molto costosi, per cui chi non ha altri mezzi  di sostentamento deve per forza sottrarre risorse al cibo, con il rischio di indebolirsi troppo e di non avere più la forza di caricarli, spingerli, difenderli dai furti e dagli assalti).

Bisogna inoltre avere buone gambe, vista acuta e notevole intelligenza operativa, soprattutto se si sceglie di diventare cercatori di oggetti da recuperare, non soltanto perché in tempi di penuria la gente non butta via quasi niente, ma perché occorre essere capaci di coglierli, per così dire,  nel  momento giusto, prima che raggiungano lo stato di completa rovina. E’ vero infatti, spiega Anna all’amico lontano, che tutto si deteriora, ma non tutto nello stesso momento per  cui occorre essere in grado di centrare, in ciò che è rovinato e che non è più capace di assolvere la sua funzione originaria, “delle piccole isole intatte, immaginarle unite ad altre isole simili, e queste ad altre ancora, e quindi creare nuovi arcipelaghi di materia” ; bisogna inoltre farlo in fretta, perché perdere tempo  per  un oggetto che può rivelarsi inutilizzabile sottrae energie preziose al cercatore.

E’ un’attività che dà alla testa, dopo un po’, osserva ancora Anna, non solo perché occorre stare tutto il tempo con la testa in giù aguzzando la vista, ma perché ci si trova ad osservare come ogni cosa si disintegri dopo un certo tempo in sozzura, polvere e rottami, lasciando sul terreno qualche agglomerato di materia che non si riesce più ad  identificare  ma che pur tuttavia rappresenta, dice Anna,  “un frammento del mondo che non c’è più: un nulla, una cifra di infinito”…   Sarà proprio questa del resto l’unica attività che consentirà ad Anna di sopravvivere nei primi angosciosi mesi, anche se sfiorerà più volte la morte, non avendo un luogo in cui ripararsi dall’addiaccio e provando ancora l’istintiva ripugnanza di chi arriva da un mondo assi diverso ad oltrepassare certe linee di demarcazione – toccare i morti, derubare i cadaveri. Sarà solo la speranza di trovare Sam a darle la forza di non lasciarsi andare alla disperazione.

Poi, qualcosa cambia: noi peraltro ci fermeremo qui, senza proseguire nel racconto, dal momento che è soprattutto su questi elementi del testo che le varie interpretazioni  a cui faremo riferimento si muovono. Per chi non potesse procurarsi il testo, daremo comunque nella parte finale della relazione altri ragguagli sulla trama del libro.

 

LE  INTERPRETAZIONI:

 

Prima di presentare le interpretazioni che ci sono sembrate particolarmente interessanti, può essere utile prendere atto di alcuni rimandi del testo che vengono sottolineati, in forma più o meno accentuata, in numerose recensioni.

Molti commentatori hanno infatti visto in questa storia la rappresentazione di un moderno inferno dantesco. In effetti questa terra brutale, a volte gelida a volte ardente, sferzata da venti e da piogge incessanti, dove si aggirano senza poter far presa su nessun appiglio uomini e donne ridotti quasi ad ombre spettrali, ricorda davvero una discesa infernale nella follia e nella morte. Come Anna, chi vi arriva deve abbandonare ogni speranza di fuga e rinunciare anche al ricordo di ciò che prima chiamava “vita”: non sono chiare peraltro le colpe di questi moderni dannati e nessuna legge di contrappasso si può scorgere nel loro castigo. Quanto alle forze di dissoluzione, esse appaiono interne alla città stessa, più che imposte da un agente esterno con fattezze più o meno diaboliche (gli stessi agenti di polizia, per quanto decisamente brutali, sembrano operare in modo abbastanza casuale).

Anna inoltre è costretta a diventare il Virgilio di se stessa, anche se poi, nel prosieguo del testo, ci saranno degli accompagnatori, certo non celesti né  preposti da una qualche forma di Provvidenza – il cielo di questo mondo è totalmente vuoto -  ma  che ancora hanno conservato una traccia di umanità, il che non è poco, in un luogo siffatto.

Altri invece hanno colto, partendo da alcuni elementi del testo (il fatto che la protagonista sia ebrea e porti lo stesso nome dell’autrice del Diario, la presenza dei macabri Centri di Trasformazione, con i loro forni crematori destinati a sopperire, attraverso l’utilizzo dei cadaveri e di altri rifiuti dell’umano, alla drammatica carenza di energia) un riferimento all’orrore dei campi di concentramento nazisti, suggerito anche da un accenno a dei possibili esperimenti “scientifici” che vi verrebbero compiuti in segreto e all’esistenza di veri e propri mattatoi umani a cui parrebbe destinata la stessa Anna, quando un vicino in cui ha riposto incautamente la sua fiducia la rapisce per venderla. In questo caso il testo rappresenterebbe un monito contro il ripetersi delle atrocità della storia e in esso sarebbe presente quell’accostamento fra la modernità e i campi di sterminio che molti studiosi hanno denunciato e a cui Paul Auster, per la sua formazione intellettuale e per la storia familiare, potrebbe essere stato sicuramente interessato.

Ci sono naturalmente altri rimandi possibili a temi ben presenti nel nostro repertorio culturale: l’amore fraterno che spinge una giovane donna ad affrontare un’avventura atroce opponendo una  ferma resistenza alle ragioni di coloro che cercano di dissuaderla,  una discesa agli inferi per cercare di riportare indietro chi in quel luogo si è perduto… Echi appena accennati, ma percepibili e carichi di suggestioni mitiche, che possiamo intravedere nel testo.

Peraltro, per quanto intriganti siano queste interpretazioni, in un testo così connotato non possiamo fermarci a delle immagini tutto sommato di superficie, se pure coinvolgenti. Se lo scopo di ogni distopia è infatti quello di individuare, amplificandole ed esasperandole per generare inquietudine, certe linee di tendenza della contemporaneità che possono condurre ad esiti catastrofici in un futuro più o meno prossimo (anche se in questo caso – è bene sottolinearlo - il mondo da cui Anna proviene e il paese delle ultime cose sono posti in orizzontale sull’asse del tempo), non possiamo esimerci dal cercare delle chiavi di lettura che ci portino più vicino a questo nostro oggi di quanto non facciano le notazioni precedenti.

Alcune indicazioni preziose ci possono venire intanto da un breve ma denso articolo di Alessandro Di Muro, che attraverso l’analisi delle strutture narrative e di alcuni temi ricorrenti nei romanzi di Paul Auster ci offre una prima linea interpretativa molto interessante, che verrà per certi versi ad incrociare, pur affrontando il testo solo di rimando, quella di Gianluca Cuozzo che presenteremo di seguito.  Vediamone dunque le linee essenziali.

 

ALESSANDRO  DI  MURO:

“PAUL  AUSTER  E  I  RIFIUTI. UN PERCORSO  ATTRAVERSO  LA METROPOLI  POSTMODERNA

 

Di Muro inizia la sua analisi sottolineando come il tema dei rifiuti, degli scarti, degli oggetti infranti della quotidianità ritorni in modo quasi ossessivo nella poetica austeriana, a iniziare dalla “Città di vetro” che come sappiamo precede di soli due anni l’uscita de “Nel paese delle ultime cose”.

In questo romanzo tutto ruota infatti attorno all’inseguimento, da parte del protagonista Daniel Quinn, (uno scrittore di libri gialli che sta attraversando una profonda crisi personale e artistica per effetto di un tragico lutto e che si trova ad assumere, per una sorta di equivoco, la funzione di un detective privato) di un certo Peter Stillman, una specie di filosofo archeologo paranoico che  raccoglie ciarpame in una New York  labirintica e allucinata tanto come i personaggi che la popolano e che l’autore fa muovere lungo sentieri che si biforcano e su piste che si riveleranno alquanto scivolose.

Per quanto all’inizio del romanzo ci è dato di sapere, anni prima Stillman ha sottoposto il figlio ad un atroce esperimento, menomandolo nel fisico e nella psiche per inseguire il miraggio della scoperta del linguaggio originario degli uomini.

Nel momento in cui si ripresenta a New York dopo una lunga reclusione in un ospedale psichiatrico, si teme che possa attentare nuovamente alla vita del figlio – perlomeno, è quanto racconta la moglie di questi a Quinn, che accetta l’incarico di sorvegliare Stillman, intrigato dalla storia oltre che dal fascino persuasivo della donna. Inizia così a pedinare il vecchio che peraltro non fa nulla per avvicinarsi al figlio, ma si muove instancabilmente per la città raccogliendo gli oggetti più disparati e seguendo percorsi apparentemente sconnessi, che si riveleranno peraltro volti a comporre uno stralunato messaggio all’osservazione attenta di questo detective improvvisato ma teso a cercare tutti gli indizi possibili.

Sarà lo stesso Stillman a spiegare al sempre più attonito Quinn cosa sta cercando di fare, mettendolo a parte della sua delirante impresa e del perché di questa raccolta di oggetti frantumati e dispersi. Non a caso egli ha scelto proprio New York per compierla, perché questa città si presenta ai suoi occhi come un gigantesco ammasso di rifiuti, un vero e proprio regno della disarmonia. Il suo tentativo è volto infatti a ricomporre un mondo frammentato e disperso, dove  gli uomini hanno perso non solo il senso della loro finalità ma anche le parole per esprimerlo.

Non c’è più nessuna coerenza, dice Stillman, fra le parole e le cose, perché le cose, che un tempo erano intere, ora si sono spezzate e decomposte perdendo la loro funzione originaria e le parole con cui le indichiamo non hanno più la capacità di aderire a ciò che sono diventate. Egli si propone dunque di dare alle cose che trova per via un nuovo nome che interamente le rappresenti, inventando un nuovo linguaggio che ricostituisca l’unità originaria e salvi un mondo che si è perduto…

Secondo Alessandro Di Muro, attraverso questa figura stralunata, fra il patologico e il provocatorio,  ossessionata dallo sfilacciarsi del legame fra le parole e le cose e dalla frammentazione del mondo,  Paul Auster intende porre la nostra attenzione  su una società, quella occidentale postmoderna, in cui non solo il consumismo selvaggio domina incontrastato rischiando di trasformare le metropoli odierne in gigantesche discariche, ma i sistemi culturali non sono più adeguati  ad arginare il flusso incessante della storia, che vede un’intera civiltà rotolare su se stessa producendo frammenti:  materiali da una parte, ideologici e culturali dall’altra.

Una posizione, quella di Auster, in cui possiamo cogliere, a giudizio di questo commentatore, un rimando all’ultimo Foucault, quello de “Le parole e le cose”, in cui il filosofo prospetta la fine del ruolo interpretativo del linguaggio, una consonanza col Calvino che dichiara come non sia più possibile oggi tenere in ordine il magazzino del’umanità, un riferimento forte all’idea di scrittura come progetto di riciclaggio degli scarti e delle rovine su cui si sta edificando la modernità quale è stata elaborata  da T.S. Eliot (al cui “The waste land” sembra guardare Auster quando  dalla città di vetro, in cui si muove Stillman, si  passerà con Anna Blume al paese delle ultime cose, terra desolata in cui questi scarti hanno inglobato ormai completamente il paesaggio).

E’ su questa linea culturale dunque che Paul Auster si inserisce, cercando di rendere plasticamente la frammentazione del mondo contemporaneo non solo attraverso una scrittura in cui ricicla strutture narrative della tradizione, facendo molti riferimenti testuali ad alcuni autori della metà dell’ottocento che hanno mostrato la parte oscura del sogno americano e dell’idea indefinita di progresso (come Thoreau, Wiltman, Hawthorne - citato anche nell’esergo apposto a “Nel paese delle ultime cose”), ma ponendo a tema nei suoi romanzi in modo diretto  sia gli scarti materiali prodotti dalla nostra civiltà che la dissonanza fra parole e cose.

La città desolata in cui Anna Blume viene intrappolata  va quindi colta, secondo l’analisi di Alessandro Di Muro, in questa prospettiva.

 

N.B. =  ricordiamo infatti come in essa le cose si vadano via via dissolvendo, come le parole non siano più in grado di stabilire un legame con le cose che scompaiono e finiscano con l’essere soggette a loro volta al disfacimento, privando gli abitanti di una qualsivoglia possibilità di comunicazione, come ogni volta che qualcuno crede di conoscere la risposta ad una domanda  si sia costretti a scoprire che la stessa domanda non ha più senso…

 

GIANLUCA  CUOZZO

UN CASO DI NARRATIVA APOCALITTICA:  IL PAESE DELLE ULTIME COSE DI PAUL AUSTER

 

L’analisi del libro di Paul Auster a cui facciamo ora riferimento è inserita, come appendice, in un testo molto denso e stimolante (“Filosofia delle cose ultime”) che nasce con l’intento dichiarato di demistificare quell’utopia del progresso che continuamente sposta al futuro la sua piena realizzazione, mentre di fatto mercifica ogni cosa producendo in misura ormai intollerabile, secondo il giudizio dell’autore, altrettanti scarti fisici quanto marginalità umane.

Nel porre la sua attenzione su questi scarti, che tendiamo a considerare semplici “effetti collaterali” e  da cui spesso distogliamo lo sguardo, senza assumere su di noi la responsabilità etica verso un pianeta che non è più per troppe persone una casa abitabile, Gianluca Cuozzo  salda in modo molto intrigante la riflessione filosofica e l’analisi sociopolitica con suggestioni narrative e filmiche, facendo intervenire via via nel discorso fra i più titolati osservatori di questo mondo posto sullo scivoloso confine fra utopia e distopia:  dal Ballard  de “ L’isola di cemento” al Don DeLillo di “Rumore bianco” e di “Underworld”, dal Philip Dick di “Ubik” al  Cormac McCarthy  de “La strada”. Riserva peraltro al Paul Auster de “Nel paese delle ultime cose” un’attenzione particolare, rilevando in  questo testo  una forte consonanza con la sua visione del mondo contemporaneo.

Nell’analisi di Cuozzo, che utilizza in modo mirato  le parole che Auster fa pronunciare ad Anna e agli altri personaggi della storia e le scelte narrative dell’autore (certo interpretandole ma con un estremo rispetto per il testo), questa città apocalittica che non è immaginata nel futuro ma è vista compresente al nostro stesso mondo si configura come una potente allegoria di un mondo che sta finendo: rappresenta infatti a suo giudizio  il lato notturno del progresso, la parte ombra del giorno chiaro e scintillante della produzione di merci che macina senza sosta tutte le cose, distruggendole via via che le utilizza. Un mondo che si situa ai margini del nostro, come resto antifunzionale e pur tuttavia consustanziale ad esso, dove convergono, dice Cuozzo, tutti gli inutilizzabili espulsi dal mondo funzionale, normativo e gerarchicamente strutturato in cui viviamo.

Un’interpretazione, questa, di cui Cuozzo ravvisa un primo indizio nell’esergo apposto al romanzo – una frase tratta da un racconto del 1843/46 di Nathaniel Hawthorne intitolato “La ferrovia celeste”, in cui questo scrittore, particolarmente amato da Paul Auster, mostra come la tecnologia divinizzata che si è autoproclamata salvifica e provvidenziale abbia tolto in realtà dal mondo ogni residuo di umanità:

“Non molto tempo fa, passando attraverso il cancello dei sogni, ho visitato quella regione della Terra nella quale si trova la famosa Città della Distruzione”

In effetti, osserva Cuozzo, il Paese delle ultime cose sembra proprio una Città della Distruzione: in esso tutto è pervaso da crepe deturpanti dovute ad un processo di distruzione endogena e irreversibile e gli scarti di ciò che è stato occupano letteralmente il centro della scena, lasciando intuire i bagliori di ciò che non c’è più, che può solo essere “riciclato”. Le stesse persone sono veri e propri cadaveri ambulanti destinati a nutrirsi di resti e a diventare quanto prima resti a loro volta, in un ciclo infernale di economia di morte che li stringe in un’equazione irrisolvibile (come accade a chi deve razionare il cibo per poter accedere ad uno dei pochi lavori disponibili, rischiando di non avere poi le forze sufficienti per compierlo).

Un mondo che costituisce un inferno appena dissimulato, dove il diritto è stato sostituito dalla forza - i poliziotti, spiega Anna, prima picchiano e poi fanno domande - e dove la porta della Legge non si apre  mai per dare risposte, come accade al protagonista del racconto di Kafka “Davanti alla legge” che la trova invero aperta, ma bloccata dal guardiano; un mondo dove per sopravvivere occorre spogliarsi della propria umanità, come accade nel Lager descritto da Primo Levi, in cui si è costretti a far morire la parte di sé che prova pietà o  dei sentimenti di fratellanza verso i compagni di sventura…

Un mondo dunque in cui l’attenzione di questi esseri perduti si appunta forzatamente, in modo spasmodico e ossessivo, al residuale a cui sono letteralmente inchiodati: a ciò che resta di mondo, a ciò che resta di tempo prima che tutto finisca.

La domanda che essi si fanno non è infatti – è sempre Anna a parlare – se il mondo prima o poi finirà, ma quanto tempo impiegherà a finire, quanto manca prima che tutto manchi. Una situazione, commenta Cuozzo, simile a quella che risuona nel canto dell’esilio, nell’oracolo di Isaia:

“ Sentinella, quanto resta della notte?

“Viene il mattino, e poi anche la notte: se volete domandare, tornate un’altra volta”

Inchiodati come sono sulla soglia della fine, su quel che resta dalla fine, gli abitanti del paese delle ultime cose non fanno altro che aspettare la morte, pensare alla morte (una morte che diventa quasi per loro l’unico motivo di interesse, come dice Anna definendo la morte “ la nostra forma d’arte, l’unico modo per esprimere noi stessi”), in una sorta di incanto teologico in cui le ultime cose, osserva Cuozzo, sono di fatto sempre le penultime: fino a che tutto trapassa e muore noi siamo infatti quel resto del mondo che ancora manca alla fine.

Nel processo di progressiva e inarrestabile sottrazione della realtà che in questo luogo si produce, senza che nessuno sappia dire quando, come, perché si è verificato, essi restano avvolti in un vuoto di senso in cui Dio sembra latitare anche agli occhi di chi, come il rabbino che Anna incontrerà nella Biblioteca Nazionale, ancora rivolge a lui le sue preghiere (“noi parliamo con lui – dice - ma se ci sente o no è un’altra questione). Pur tuttavia diventano loro malgrado una sorta di monaci senza verità, il cui sguardo, osserva Cuozzo, è fisso non sull’aldilà ma su di un aldiqua eroso fin dalle fondamenta e in cui non resta altro che trasformarsi in asceti, estirpando da sé ogni desiderio e concentrando la volontà residua su quei granelli di mondo che ancora restano perché in essi può ancora esserci, per Anna che sa vederla, “una cifra di infinito”…

Ed è proprio a partire da questi bagliori di senso che la sensibilità dello scrittore Paul Auster, persuaso che dai frammenti degli oggetti come dagli interstizi fra le parole si possa partire, per imbastire attraverso un “coscienzioso rammendo” una nuova possibilità di narrazione, incontra quella del filosofo Gianluca Cuozzo, che sul tema del residuale ha elaborato una proposta filosofica molto interessante*.  Secondo Cuozzo infatti è da questo sguardo su ciò che resta del mondo che può aprirsi una possibilità di salvezza anche per la nostra civiltà, che nel suo Altro descritto magistralmente da Paul Auster  può imparare a leggere meglio se stessa;  è da questi frammenti di mondo, da queste cifre di infinito, da questi resti di speranza che un altro mondo può forse rinascere, consentendo all’uomo di oggi di accedere a quel resto di utopia che manca alla salvezza e che può trasformare una civiltà che ha puntato tutto sulla produzione fantasmagorica delle merci, promettendoci di realizzare attraverso di essa una sorta di paradiso in terra, ma che di fatto ci ha portati  vicino ad un punto di non ritorno.

In questa speranza il filosofo ravvisa una profonda unità di intenti  non solo con Paul Auster, ma con gli altri scrittori, come Don DeLillo, che ci aiutano, dice, a “leggere in contropelo il tessuto urbano, gerarchico e oppressivo, a partire dalle macerie dell’esistente, dai frammenti delle parole, liberando così la speranza dalla gabbia d’acciaio di Ananke”.

Un obiettivo alto, forse smisurato, dice Cuozzo, che nondimeno anche la filosofia a suo giudizio deve porsi, cercando di dare vita ad una nuova topografia di senso, a nuove e ambiziose possibilità di pensiero.   

 

N.B. =  per chi volesse approfondire la proposta filosofica di  Gianluca Cuozzo relativamente al residuale, si consigliano i testi:

* “Filosofia  delle cose ultime- Da Walter Benjamin a Wall-E” – ed. Moretti e Vitali

* “A spasso fra i rifiuti. Tra ecosofia, realismo e utopia” – ed.  Mimesis

 

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