PAUL
AUSTER:
“NEL PAESE DELLE ULTIME COSE”
L’AUTORE:
Nell’ambito
narrativo è considerato uno degli esponenti più importanti della letteratura
americana contemporanea e viene ascritto, con Don De Lillo e Thomas Pynchon, al
cosiddetto “postmodernismo”. Nei suoi romanzi, tesi ad esplorare le nevrosi e
la solitudine dell’uomo contemporaneo, fonde spunti diversi che vanno
dall’esistenzialismo alla psicanalisi, dalla letteratura gialla e poliziesca alle
notazioni autobiografiche (ricordiamo fra gli altri la “Trilogia di New York”, la sua opera più famosa, “La musica
del caso”, “L’invenzione della
solitudine”, “Follie di Brooklyn”).
Oltre
a collaborare alla sceneggiatura di film come “La musica del caso”, “Smoke”
e “Blue in the face”, ha diretto personalmente “Lulu on the Bridge” e “La vita interiore di Martin Frost”.
(N.B. = tratto da Vikipedia)
Si
tratta di un romanzo distopico*, in cui la protagonista, Anna Blume, racconta
in prima persona e in forma epistolare la sua allucinante esperienza in un
luogo di cui non vengono date precise indicazioni geografiche (nel testo si
allude ad esso semplicemente come alla città, facendogli assumere una funzione
metaforica, in coerenza con la natura del romanzo) e in cui è stata
intrappolata senza speranza di poterne uscire. Da qui scrive ad un vecchio
amico, pur sapendo non solo che la sua lettera difficilmente potrà pervenirgli,
ma che quanto le è dato di vedere e di vivere gli risulterà presumibilmente
incomprensibile. Troppo lontano e folle e disperato è infatti questo paese
perché possa comprenderlo chi vive in un mondo normale, in gran parte ordinato
e prevedibile – quello in cui lei stessa ha vissuto prima di imbarcarsi in questa
folle avventura. Nondimeno scrive, senza sapere bene neanche lei perché lo fa e
perché si è risolta a farlo in questo preciso momento. E’ passato ormai molto
tempo da quando si trova in questo luogo, anche se non saprebbe dire quanto:
non si può conservare la consapevolezza dei giorni e degli anni, nel paese
delle ultime cose… Ma forse, dice, scrive perché è giusto che qualcuno sappia
ciò che lì accade, e per non perdere del tutto quel poco di ragione che le
resta. Davvero allucinante è in effetti
la storia che Anna racconta.
UN LUOGO METAFORICO:
Dopo
questa presentazione sintetica che può essere utile per un primo inquadramento
del testo, diamo alcune indicazioni aggiuntive che rendano comprensibili le
diverse interpretazioni cui faremo accenno in seguito, pur senza sviscerare
totalmente la trama narrativa per non privare chi vorrà accostarsi ad esso del
piacere di una lettura diretta.
Abbiamo
detto che Anna è stata intrappolata in un luogo terribile da cui uscire sembra
praticamente impossibile. Non possiamo dunque non chiederci intanto che cosa
l’ha condotta lì, facendole perdere ogni contatto col mondo in cui è cresciuta,
in cui ha avuto una famiglia, degli amici, degli amori: come sia potuto
accadere che una ragazza di appena diciannove anni abbia deciso – perché sua è
stata la scelta – di avventurarsi in un luogo così inospitale affrontando un
viaggio gravido di pericoli, nonostante tutti abbiano cercato in ogni modo di
dissuaderla.
Non
è infatti totalmente sconosciuto agli abitanti del mondo a cui Anna
appartiene quello che chiameremo, sulla
traccia del titolo, il paese delle ultime cose, anche se nessuno sa fino a che punto sia davvero un mondo
“altro”. Esso infatti ha già
letteralmente inghiottito non solo il fratello di Anna, un reporter d’assalto che
vi è sparito da quasi un anno senza lasciare traccia, ma anche un altro giornalista che è stato inviato per indagare sulla sua
scomparsa.
E’
dunque per ritrovare il fratello che questa ragazza ostinata parte, senza farsi
trattenere dalle lacrime materne né dalle appassionate perorazioni del suo
amico d’infanzia, da sempre innamorato di lei – lo stesso a cui indirizza ora
questa lunga lettera, portando con sé, come unico viatico, la foto di questo
reporter, Sam, che assumerà nella sua storia una funzione di talismano,
impedendole di precipitare completamente nella disperazione quando giungerà nel
paese delle ultime cose.
Orrenda
è infatti la città, o meglio quanto ne resta, perché un tempo non doveva poi
essere tanto diversa da quella da cui Anna giunge. Molti infatti ancora
ricordano che la vita era buona, c’era lavoro e amicizia e amore (pericolose memorie, spiega Anna all’amico
lontano: chi vi indugia comincia inesorabilmente a trascurare i dettagli, non
attiva più i sensi per guardarsi intorno e si trasforma presto in una specie di
fantasma, destinato a morte certa). Perché senza questa costante
concentrazione è impossibile sopravvivere a lungo in un luogo immerso in un
flusso costante di dissoluzione, dove tutto muta e non esiste alcun appiglio a
cui appoggiarsi mentre le cose via via spariscono, creando vuoti nelle stesse parole
a cui non è più dato di associarsi a oggetti riconoscibili, e in cui occorre
andare incontro ad ogni avvenimento come fosse la prima volta, perché nulla,
nessun apprendimento pregresso può valere
oltre all’attimo in cui si manifesta.
Un
luogo dove anche gli elementi atmosferici sembrano cospirare a rendere la città
simile ad un girone infernale: spaventosi sono infatti i venti, che sferzano a
morte chi non abbia un riparo – e sono in tanti a non averlo, perché pur
essendoci molti alloggi disponibili, se pur fatiscenti, in qualunque momento
chiunque può rivendicarne il possesso, se ha dalla sua parte il numero o la
forza; violentissime e improvvise le piogge, che infradiciando coloro che si
trovano in strada sono ancora più drammaticamente apportatrici di una morte
meno rapida, ma ugualmente inevitabile.
Un
luogo dove non esiste più un’attività produttiva capace di soddisfare bisogni e
di dare vita e dove dunque la morte è onnipresente. Non si muore infatti solo
per vecchiaia e per malattia, come dovunque si muore, ma per esaurimento fisico
e mentale, così che ci si lascia semplicemente cadere a terra mentre subito
giungono altri a depredare il cadavere dei pochi beni che uno si porta addosso,
prima che i raccoglitori ufficiali di cadaveri (l’unica funzione in cui la sollecitudine di chi governa a vario titolo
la città può essere colta) trasportino i morti nei forni crematori -
chiamati “Centri di Trasformazione” - dove verranno riconvertiti in energia, dando provvisoria vita per altri
candidati alla morte. Una morte che viene anche in molti casi attivamente
ricercata, attraverso forme dolci per chi può permettersi il ricovero in una
delle molte cliniche dell’eutanasia, o altrimenti terribili, se pure fantasiose ed eclatanti: buttarsi nel vuoto
dopo un ultimo sguardo al cielo vuoto, assaporando un momento di pura gioia e
libertà, fra i battimani degli astanti; correre fino a sfinirsi dopo essersi
allenati a lungo per vincere, morendo, la gara dei Maratoneti; assoldare un
assassino professionista per giocare una
partita in cui i destini possono anche in qualche caso rovesciarsi…
Eppure,
la cosa che sorprende di più in questa città non è che così tante persone
muoiano, ma che qualcosa pur tuttavia continui ad esistere, e che la
disperazione più nera conviva, anzi finisca paradossalmente per alimentare una
sorta di ingegnosa effervescenza, attraverso la quale si cerca di utilizzare
tutto ciò che è ancora utilizzabile, di trasformare tutto ciò che ancora può
essere trasformato facendo diventare risorsa preziosa ciò che in altre
condizioni costituirebbe solo un problema.
Si
può ben vivere infatti, rimandando una morte che tuttavia è sempre presente
sullo sfondo - commenta Anna con una sorta di rassegnata presa d’atto della
realtà - grazie alla merda e alla spazzatura: si può diventare spazzini,
raccoglitori di immondizia da portare alla centrale elettrica più vicina (dove tutto decade l’immondizia aumenta, anziché decrescere), o altresì
cercatori di oggetti da recuperare per venderli agli Agenti Restauratori, che
li immetteranno nel mercato nero.
Non
sono nondimeno attività facili, né prive di rischi - ciò che può permettere in
qualche modo di sopravvivere è ambìto da molti, e la concorrenza è spietata.
Occorre prima di tutto dotarsi di un apposito tesserino rilasciato, dietro
adeguato compenso, dagli appositi uffici comunali, acquistare e tenere in
ordine gli indispensabili strumenti di lavoro, il che richiede un forte
sacrificio iniziale in cui il trovare un
punto d’equilibrio diventa questione di vita o di morte (i carrelli della spesa, che risultano i più funzionali alla raccolta,
sono infatti quasi introvabili e molto costosi, per cui chi non ha altri
mezzi di sostentamento deve per forza
sottrarre risorse al cibo, con il rischio di indebolirsi troppo e di non avere
più la forza di caricarli, spingerli, difenderli dai furti e dagli assalti).
Bisogna
inoltre avere buone gambe, vista acuta e notevole intelligenza operativa,
soprattutto se si sceglie di diventare cercatori di oggetti da recuperare, non
soltanto perché in tempi di penuria la gente non butta via quasi niente, ma
perché occorre essere capaci di coglierli, per così dire, nel
momento giusto, prima che raggiungano lo stato di completa rovina. E’
vero infatti, spiega Anna all’amico lontano, che tutto si deteriora, ma non
tutto nello stesso momento per cui
occorre essere in grado di centrare, in ciò che è rovinato e che non è più
capace di assolvere la sua funzione originaria, “delle piccole isole intatte, immaginarle unite ad altre isole simili, e
queste ad altre ancora, e quindi creare nuovi arcipelaghi di materia” ;
bisogna inoltre farlo in fretta, perché perdere tempo per un
oggetto che può rivelarsi inutilizzabile sottrae energie preziose al cercatore.
E’
un’attività che dà alla testa, dopo un po’, osserva ancora Anna, non solo
perché occorre stare tutto il tempo con la testa in giù aguzzando la vista, ma
perché ci si trova ad osservare come ogni cosa si disintegri dopo un certo
tempo in sozzura, polvere e rottami, lasciando sul terreno qualche agglomerato
di materia che non si riesce più ad
identificare ma che pur tuttavia
rappresenta, dice Anna, “un frammento
del mondo che non c’è più: un nulla, una cifra di infinito”… Sarà proprio questa del resto l’unica
attività che consentirà ad Anna di sopravvivere nei primi angosciosi mesi,
anche se sfiorerà più volte la morte, non avendo un luogo in cui ripararsi
dall’addiaccio e provando ancora l’istintiva ripugnanza di chi arriva da un
mondo assi diverso ad oltrepassare certe linee di demarcazione – toccare i
morti, derubare i cadaveri. Sarà solo la speranza di trovare Sam a darle la
forza di non lasciarsi andare alla disperazione.
Poi,
qualcosa cambia: noi peraltro ci fermeremo qui, senza proseguire nel racconto,
dal momento che è soprattutto su questi elementi del testo che le varie
interpretazioni a cui faremo riferimento
si muovono. Per chi non potesse procurarsi il testo, daremo comunque nella
parte finale della relazione altri ragguagli sulla trama del libro.
LE
INTERPRETAZIONI:
Prima
di presentare le interpretazioni che ci sono sembrate particolarmente
interessanti, può essere utile prendere atto di alcuni rimandi del testo che
vengono sottolineati, in forma più o meno accentuata, in numerose recensioni.
Molti
commentatori hanno infatti visto in questa storia la rappresentazione di un
moderno inferno dantesco. In effetti questa terra brutale, a volte gelida a
volte ardente, sferzata da venti e da piogge incessanti, dove si aggirano senza
poter far presa su nessun appiglio uomini e donne ridotti quasi ad ombre
spettrali, ricorda davvero una discesa infernale nella follia e nella morte.
Come Anna, chi vi arriva deve abbandonare ogni speranza di fuga e rinunciare
anche al ricordo di ciò che prima chiamava “vita”: non sono chiare peraltro le
colpe di questi moderni dannati e nessuna legge di contrappasso si può scorgere
nel loro castigo. Quanto alle forze di dissoluzione, esse appaiono interne alla
città stessa, più che imposte da un agente esterno con fattezze più o meno
diaboliche (gli stessi agenti di polizia,
per quanto decisamente brutali, sembrano operare in modo abbastanza casuale).
Anna
inoltre è costretta a diventare il Virgilio di se stessa, anche se poi, nel
prosieguo del testo, ci saranno degli accompagnatori, certo non celesti né preposti da una qualche forma di Provvidenza
– il cielo di questo mondo è totalmente vuoto -
ma che ancora hanno conservato
una traccia di umanità, il che non è poco, in un luogo siffatto.
Altri
invece hanno colto, partendo da alcuni elementi del testo (il fatto che la protagonista sia ebrea e porti lo stesso nome
dell’autrice del Diario, la presenza dei macabri Centri di Trasformazione, con
i loro forni crematori destinati a sopperire, attraverso l’utilizzo dei
cadaveri e di altri rifiuti dell’umano, alla drammatica carenza di energia) un
riferimento all’orrore dei campi di concentramento nazisti, suggerito anche da
un accenno a dei possibili esperimenti “scientifici” che vi verrebbero compiuti
in segreto e all’esistenza di veri e propri mattatoi umani a cui parrebbe
destinata la stessa Anna, quando un vicino in cui ha riposto incautamente la
sua fiducia la rapisce per venderla. In questo caso il testo rappresenterebbe
un monito contro il ripetersi delle atrocità della storia e in esso sarebbe
presente quell’accostamento fra la modernità e i campi di sterminio che molti
studiosi hanno denunciato e a cui Paul Auster, per la sua formazione
intellettuale e per la storia familiare, potrebbe essere stato sicuramente
interessato.
Ci
sono naturalmente altri rimandi possibili a temi ben presenti nel nostro
repertorio culturale: l’amore fraterno che spinge una giovane donna ad
affrontare un’avventura atroce opponendo una
ferma resistenza alle ragioni di coloro che cercano di dissuaderla, una discesa agli inferi per cercare di
riportare indietro chi in quel luogo si è perduto… Echi appena accennati, ma
percepibili e carichi di suggestioni mitiche, che possiamo intravedere nel
testo.
Peraltro,
per quanto intriganti siano queste interpretazioni, in un testo così connotato
non possiamo fermarci a delle immagini tutto sommato di superficie, se pure
coinvolgenti. Se lo scopo di ogni distopia è infatti quello di individuare,
amplificandole ed esasperandole per generare inquietudine, certe linee di
tendenza della contemporaneità che possono condurre ad esiti catastrofici in un
futuro più o meno prossimo (anche se in
questo caso – è bene sottolinearlo - il mondo da cui Anna proviene e il paese
delle ultime cose sono posti in orizzontale sull’asse del tempo), non
possiamo esimerci dal cercare delle chiavi di lettura che ci portino più vicino
a questo nostro oggi di quanto non facciano le notazioni precedenti.
Alcune
indicazioni preziose ci possono venire intanto da un breve ma denso articolo di
Alessandro Di Muro, che attraverso l’analisi delle strutture narrative e di
alcuni temi ricorrenti nei romanzi di Paul Auster ci offre una prima linea
interpretativa molto interessante, che verrà per certi versi ad incrociare, pur
affrontando il testo solo di rimando, quella di Gianluca Cuozzo che
presenteremo di seguito. Vediamone
dunque le linee essenziali.
ALESSANDRO DI
MURO:
“PAUL
AUSTER E I
RIFIUTI. UN PERCORSO ATTRAVERSO LA METROPOLI
POSTMODERNA”
Di
Muro inizia la sua analisi sottolineando come il tema dei rifiuti, degli scarti,
degli oggetti infranti della quotidianità ritorni in modo quasi ossessivo nella
poetica austeriana, a iniziare dalla “Città
di vetro” che come sappiamo
precede di soli due anni l’uscita de “Nel
paese delle ultime cose”.
In
questo romanzo tutto ruota infatti attorno all’inseguimento, da parte del
protagonista Daniel Quinn, (uno scrittore di libri gialli che sta attraversando
una profonda crisi personale e artistica per effetto di un tragico lutto e che
si trova ad assumere, per una sorta di equivoco, la funzione di un detective
privato) di un certo Peter Stillman, una specie di filosofo archeologo
paranoico che raccoglie ciarpame in una
New York labirintica e allucinata tanto
come i personaggi che la popolano e che l’autore fa muovere lungo sentieri che
si biforcano e su piste che si riveleranno alquanto scivolose.
Per quanto all’inizio
del romanzo ci è dato di sapere, anni prima Stillman ha sottoposto il figlio ad
un atroce esperimento, menomandolo nel fisico e nella psiche per inseguire il
miraggio della scoperta del linguaggio originario degli uomini.
Nel momento in cui si
ripresenta a New York dopo una lunga reclusione in un ospedale psichiatrico, si
teme che possa attentare nuovamente alla vita del figlio – perlomeno, è quanto
racconta la moglie di questi a Quinn, che accetta l’incarico di sorvegliare
Stillman, intrigato dalla storia oltre che dal fascino persuasivo della donna.
Inizia così a pedinare il vecchio che peraltro non fa nulla per avvicinarsi al
figlio, ma si muove instancabilmente per la città raccogliendo gli oggetti più
disparati e seguendo percorsi apparentemente sconnessi, che si riveleranno
peraltro volti a comporre uno stralunato messaggio all’osservazione attenta di
questo detective improvvisato ma teso a cercare tutti gli indizi possibili.
Sarà lo stesso Stillman
a spiegare al sempre più attonito Quinn cosa sta cercando di fare, mettendolo a
parte della sua delirante impresa e del perché di questa raccolta di oggetti
frantumati e dispersi. Non a caso egli ha scelto proprio New York per
compierla, perché questa città si presenta ai suoi occhi come un gigantesco
ammasso di rifiuti, un vero e proprio regno della disarmonia. Il suo tentativo
è volto infatti a ricomporre un mondo frammentato e disperso, dove gli uomini hanno perso non solo il senso
della loro finalità ma anche le parole per esprimerlo.
Non c’è più nessuna
coerenza, dice Stillman, fra le parole e le cose, perché le cose, che un tempo
erano intere, ora si sono spezzate e decomposte perdendo la loro funzione
originaria e le parole con cui le indichiamo non hanno più la capacità di
aderire a ciò che sono diventate. Egli si propone dunque di dare alle cose che
trova per via un nuovo nome che interamente le rappresenti, inventando un nuovo
linguaggio che ricostituisca l’unità originaria e salvi un mondo che si è
perduto…
Secondo
Alessandro Di Muro, attraverso questa figura stralunata, fra il patologico e il
provocatorio, ossessionata dallo
sfilacciarsi del legame fra le parole e le cose e dalla frammentazione del
mondo, Paul Auster intende porre la
nostra attenzione su una società, quella
occidentale postmoderna, in cui non solo il consumismo selvaggio domina
incontrastato rischiando di trasformare le metropoli odierne in gigantesche
discariche, ma i sistemi culturali non sono più adeguati ad arginare il flusso incessante della
storia, che vede un’intera civiltà rotolare su se stessa producendo
frammenti: materiali da una parte,
ideologici e culturali dall’altra.
Una
posizione, quella di Auster, in cui possiamo cogliere, a giudizio di questo
commentatore, un rimando all’ultimo Foucault, quello de “Le parole e le cose”, in cui il filosofo prospetta la fine del
ruolo interpretativo del linguaggio, una consonanza col Calvino che dichiara
come non sia più possibile oggi tenere in ordine il magazzino del’umanità, un
riferimento forte all’idea di scrittura come progetto di riciclaggio degli
scarti e delle rovine su cui si sta edificando la modernità quale è stata
elaborata da T.S. Eliot (al cui “The waste land” sembra guardare Auster quando dalla città di vetro, in cui si muove
Stillman, si passerà con Anna Blume al paese delle ultime cose, terra desolata in
cui questi scarti hanno inglobato ormai completamente il paesaggio).
E’
su questa linea culturale dunque che Paul Auster si inserisce, cercando di
rendere plasticamente la frammentazione del mondo contemporaneo non solo
attraverso una scrittura in cui ricicla strutture narrative della tradizione,
facendo molti riferimenti testuali ad alcuni autori della metà dell’ottocento che
hanno mostrato la parte oscura del sogno americano e dell’idea indefinita di
progresso (come Thoreau, Wiltman,
Hawthorne - citato anche nell’esergo apposto a “Nel paese delle ultime cose”), ma
ponendo a tema nei suoi romanzi in modo diretto
sia gli scarti materiali prodotti dalla nostra civiltà che la dissonanza
fra parole e cose.
La
città desolata in cui Anna Blume viene intrappolata va quindi colta, secondo l’analisi di
Alessandro Di Muro, in questa prospettiva.
N.B.
= ricordiamo infatti come in essa le
cose si vadano via via dissolvendo, come le parole non siano più in grado di
stabilire un legame con le cose che scompaiono e finiscano con l’essere
soggette a loro volta al disfacimento, privando gli abitanti di una
qualsivoglia possibilità di comunicazione, come ogni volta che qualcuno crede
di conoscere la risposta ad una domanda
si sia costretti a scoprire che la stessa domanda non ha più senso…
GIANLUCA CUOZZO
UN CASO DI NARRATIVA APOCALITTICA: IL PAESE DELLE ULTIME COSE DI PAUL AUSTER
L’analisi
del libro di Paul Auster a cui facciamo ora riferimento è inserita, come
appendice, in un testo molto denso e stimolante (“Filosofia delle cose ultime”) che nasce con l’intento dichiarato di
demistificare quell’utopia del progresso che continuamente sposta al futuro la
sua piena realizzazione, mentre di fatto mercifica ogni cosa producendo in
misura ormai intollerabile, secondo il giudizio dell’autore, altrettanti scarti
fisici quanto marginalità umane.
Nel
porre la sua attenzione su questi scarti, che tendiamo a considerare semplici
“effetti collaterali” e da cui spesso
distogliamo lo sguardo, senza assumere su di noi la responsabilità etica verso
un pianeta che non è più per troppe persone una casa abitabile, Gianluca
Cuozzo salda in modo molto intrigante la
riflessione filosofica e l’analisi sociopolitica con suggestioni narrative e
filmiche, facendo intervenire via via nel discorso fra i più titolati
osservatori di questo mondo posto sullo scivoloso confine fra utopia e
distopia: dal Ballard de “ L’isola
di cemento” al Don DeLillo di “Rumore
bianco” e di “Underworld”, dal
Philip Dick di “Ubik” al Cormac McCarthy de “La
strada”. Riserva peraltro al Paul Auster de “Nel paese delle ultime cose” un’attenzione particolare, rilevando
in questo testo una forte consonanza con la sua visione del
mondo contemporaneo.
Nell’analisi
di Cuozzo, che utilizza in modo mirato
le parole che Auster fa pronunciare ad Anna e agli altri personaggi
della storia e le scelte narrative dell’autore (certo interpretandole ma con un estremo rispetto per il testo), questa città apocalittica che non è
immaginata nel futuro ma è vista compresente al nostro stesso mondo si
configura come una potente allegoria di un mondo che sta finendo: rappresenta
infatti a suo giudizio il lato notturno
del progresso, la parte ombra del giorno chiaro e scintillante della produzione
di merci che macina senza sosta tutte le cose, distruggendole via via che le
utilizza. Un mondo che si situa ai margini del nostro, come resto
antifunzionale e pur tuttavia consustanziale ad esso, dove convergono, dice
Cuozzo, tutti gli inutilizzabili espulsi dal mondo funzionale, normativo e
gerarchicamente strutturato in cui viviamo.
Un’interpretazione,
questa, di cui Cuozzo ravvisa un primo indizio nell’esergo apposto al romanzo –
una frase tratta da un racconto del 1843/46 di Nathaniel Hawthorne intitolato
“La ferrovia celeste”, in cui questo scrittore, particolarmente amato da Paul
Auster, mostra come la tecnologia divinizzata che si è autoproclamata salvifica
e provvidenziale abbia tolto in realtà dal mondo ogni residuo di umanità:
“Non molto tempo fa,
passando attraverso il cancello dei sogni, ho visitato quella regione della
Terra nella quale si trova la famosa Città della Distruzione”
In
effetti, osserva Cuozzo, il Paese delle ultime cose sembra proprio una Città
della Distruzione: in esso tutto è pervaso da crepe deturpanti dovute ad un
processo di distruzione endogena e irreversibile e gli scarti di ciò che è
stato occupano letteralmente il centro della scena, lasciando intuire i
bagliori di ciò che non c’è più, che può solo essere “riciclato”. Le stesse
persone sono veri e propri cadaveri ambulanti destinati a nutrirsi di resti e a
diventare quanto prima resti a loro volta, in un ciclo infernale di economia di
morte che li stringe in un’equazione irrisolvibile (come accade a chi deve razionare il cibo per poter accedere ad uno dei
pochi lavori disponibili, rischiando di non avere poi le forze sufficienti per
compierlo).
Un
mondo che costituisce un inferno appena dissimulato, dove il diritto è stato
sostituito dalla forza - i poliziotti, spiega Anna, prima picchiano e poi fanno
domande - e dove la porta della Legge non si apre mai per dare risposte, come accade al protagonista
del racconto di Kafka “Davanti alla legge”
che la trova invero aperta, ma bloccata dal guardiano; un mondo dove per
sopravvivere occorre spogliarsi della propria umanità, come accade nel Lager
descritto da Primo Levi, in cui si è costretti a far morire la parte di sé che
prova pietà o dei sentimenti di
fratellanza verso i compagni di sventura…
Un
mondo dunque in cui l’attenzione di questi esseri perduti si appunta
forzatamente, in modo spasmodico e ossessivo, al residuale a cui sono
letteralmente inchiodati: a ciò che resta di mondo, a ciò che resta di tempo
prima che tutto finisca.
La
domanda che essi si fanno non è infatti – è sempre Anna a parlare – se il mondo
prima o poi finirà, ma quanto tempo impiegherà a finire, quanto manca prima che
tutto manchi. Una situazione, commenta Cuozzo, simile a quella che risuona nel
canto dell’esilio, nell’oracolo di Isaia:
“ Sentinella, quanto
resta della notte?
“Viene il mattino, e
poi anche la notte: se volete domandare, tornate un’altra volta”
Inchiodati
come sono sulla soglia della fine, su quel che resta dalla fine, gli abitanti
del paese delle ultime cose non fanno altro che aspettare la morte, pensare
alla morte (una morte che diventa quasi
per loro l’unico motivo di interesse, come dice Anna definendo la morte “ la
nostra forma d’arte, l’unico modo per esprimere noi stessi”), in una sorta
di incanto teologico in cui le ultime cose, osserva Cuozzo, sono di fatto
sempre le penultime: fino a che tutto trapassa e muore noi siamo infatti quel
resto del mondo che ancora manca alla fine.
Nel
processo di progressiva e inarrestabile sottrazione della realtà che in questo
luogo si produce, senza che nessuno sappia dire quando, come, perché si è
verificato, essi restano avvolti in un vuoto di senso in cui Dio sembra
latitare anche agli occhi di chi, come il rabbino che Anna incontrerà nella
Biblioteca Nazionale, ancora rivolge a lui le sue preghiere (“noi parliamo con lui – dice - ma se ci
sente o no è un’altra questione). Pur tuttavia diventano loro malgrado una
sorta di monaci senza verità, il cui sguardo, osserva Cuozzo, è fisso non
sull’aldilà ma su di un aldiqua eroso fin dalle fondamenta e in cui non resta
altro che trasformarsi in asceti, estirpando da sé ogni desiderio e
concentrando la volontà residua su quei granelli di mondo che ancora restano
perché in essi può ancora esserci, per Anna che sa vederla, “una cifra di
infinito”…
Ed
è proprio a partire da questi bagliori di senso che la sensibilità dello
scrittore Paul Auster, persuaso che dai frammenti degli oggetti come dagli
interstizi fra le parole si possa partire, per imbastire attraverso un
“coscienzioso rammendo” una nuova possibilità di narrazione, incontra quella
del filosofo Gianluca Cuozzo, che sul tema del residuale ha elaborato una
proposta filosofica molto interessante*.
Secondo Cuozzo infatti è da questo sguardo su ciò che resta del mondo
che può aprirsi una possibilità di salvezza anche per la nostra civiltà, che
nel suo Altro descritto magistralmente da Paul Auster può imparare a leggere meglio se stessa; è da questi frammenti di mondo, da queste
cifre di infinito, da questi resti di speranza che un altro mondo può forse
rinascere, consentendo all’uomo di oggi di accedere a quel resto di utopia che
manca alla salvezza e che può trasformare una civiltà che ha puntato tutto sulla
produzione fantasmagorica delle merci, promettendoci di realizzare attraverso
di essa una sorta di paradiso in terra, ma che di fatto ci ha portati vicino ad un punto di non ritorno.
In
questa speranza il filosofo ravvisa una profonda unità di intenti non solo con Paul Auster, ma con gli altri
scrittori, come Don DeLillo, che ci aiutano, dice, a “leggere in contropelo il tessuto urbano, gerarchico e oppressivo, a
partire dalle macerie dell’esistente, dai frammenti delle parole, liberando
così la speranza dalla gabbia d’acciaio di Ananke”.
Un
obiettivo alto, forse smisurato, dice Cuozzo, che nondimeno anche la filosofia
a suo giudizio deve porsi, cercando di dare vita ad una nuova topografia di
senso, a nuove e ambiziose possibilità di pensiero.
N.B. = per chi volesse approfondire la proposta
filosofica di Gianluca Cuozzo
relativamente al residuale, si consigliano i testi:
*
“Filosofia delle cose ultime- Da Walter
Benjamin a Wall-E” – ed. Moretti e Vitali
* “A
spasso fra i rifiuti. Tra ecosofia, realismo e utopia” – ed. Mimesis
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