sabato 5 dicembre 2015

Appunti sparsi sull'UTOPIA - a cura di Enrica Gallo


APPUNTI SPARSI SULL’UTOPIA

 

Che cosa intendiamo  quando parliamo di    UTOPIA

 

1. PRESENTAZIONE (da Wikipedia)

 

ETIMOLOGIA:

Il termine “utopia” deriva dal nome immaginario di un paese ideale, descritto dal letterato e filosofo inglese Thomas More nel suo “Libellum… de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia” (1516). Si tratta di un neologismo formato con le voci greche (non) e tòpos (luogo): significherebbe pertanto “ luogo che non esiste”.

In questa parola peraltro è presente, fin dall’inizio, un gioco di parole con l’omofono inglese “eutopia”, derivato dal greco èu (buono) e tòpos (luogo). Nell’uso corrente i due significati si sono fusi, dando alla parola”utopia” il significato di un luogo buono e irraggiungibile (“l’ottimo luogo che non è in nessun luogo”)

SIGNIFICATO:

Secondo l’enciclopedia on line Treccani, con il termine “utopia” si intende la formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello. Il termine è talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile, astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale (in questo senso utopia è stata contrapposta a ideologia). Per estensione, il termine utopia indica un ideale, una speranza, un’aspirazione che non può avere attuazione.

Anche Wikipedia presenta questo termine nella doppia accezione cui abbiamo fatto cenno, e cioè  sia come punto di riferimento su cui orientare azioni pragmatiche praticabili sia come illusione e falso ideale. Utopista può dunque essere tanto colui che costruisce le sue preferenze e le sue scelte ideologiche esimendosi dal confronto con le dinamiche della realtà, quanto colui che indica un percorso ritenendolo auspicabile e perseguibile. Si fa inoltre presente che sebbene l’universalità non sia una componente essenziale del concetto, molte utopie presentano caratteri universalistici, anche se esistono utopie di natura settaria o comunque non inclusive.

UTILIZZO NEI VARI AMBITI:

L’uso di questa parola può riguardare vari ambiti, da quello strettamente filosofico a quello storico-politico-economico: pensiamo per esempio al socialismo utopico, che fu la prima corrente del moderno pensiero socialista, e alla sua aspirazione a realizzare una società che avesse come fine la giustizia sociale e come mezzo la statalizzazione delle risorse economiche, l’abolizione della proprietà privata, della famiglia, del contrasto fra città e campagna.  Un’aspirazione che ritroviamo in tutte quelle utopie che ruotano attorno ad una distribuzione paritaria di beni e ad una collettivizzazione del lavoro, che apra spazi ai cittadini per coltivare le arti e le scienze, come quelle socialiste e comuniste, a cui si contrappongono altre utopie di matrice individualista, che vedono invece nel libero mercato e nella competizione i due fattori fondamentali di sviluppo della società e dell’essere umano.

Nel campo scientifico e tecnologico le utopie prefigurano invece un futuro in cui scienza e tecnica avanzate creeranno le condizioni per il superamento della sofferenza, della malattia e financo della morte, con cambiamenti migliorativi della condizione umana, mentre nell’ambito religioso possiamo ancora considerare utopie quelle rappresentazioni, specie a livello popolare, che prefigurano una esistenza futura libera dal peccato e da ogni male, oltre il potere della morte.

CRITICHE ALL’UTOPIA:

In generale le critiche all’utopia si basano su di una obiezione importante, e cioè sul fatto che non esiste un criterio razionale e indiscutibile attraverso il quale deliberare che cosa renda perfetta una società.  L’utopia viene inoltre considerata irrealizzabile in termini pratici, dal momento che non è possibile ricominciare tutto da capo (la tradizione da cui si discende e le facoltà intellettuali dell’individuo sono valori acquisiti dall’uomo nel corso della propria vita e non è possibile liberarsene completamente: la stessa ragione ideale dell’utopia è inevitabilmente frutto di una tradizione precedente).

 

2.  L’UTOPIA COME GENERE LETTERARIO:                 GENESI E SVILUPPO

 

(appunti tratti dalla voce “Utopia” dell’Enciclopedia delle Scienze sociali Treccani 2006, a cura di Bronislaw Baczko e da una proposta di percorso sull’utopia nella scuola superiore  di Roberto Lolli)

 

UNA DOMANDA DI CAMBIAMENTO ALL’INIZIO DELLA LETTERATURA UTOPICA:

In generale, osserva Roberto Lolli, ciò che accomuna, nelle diverse epoche in cui si sono succedute come ondate le opere filosofiche del genere utopico, è la percezione di una situazione di crisi senza via d’uscita.

Quando Platone delinea, nella sua”Repubblica”, la struttura dello Stato Perfetto governato dai filosofi, dando vita al più celebre modello della letteratura filosofica utopica, ha davanti a sé una democrazia, quella ateniese, che pur rappresentando un correttivo alla tirannide ha potuto processare e condannare un uomo come Socrate, il suo Maestro. Sarà per l’appunto la presa d’atto di una contraddizione interna alla democrazia che lo spingerà a ricercare il modo di emendarne il difetto costitutivo.

La stessa cosa avviene quando Thomas More, all’inizio dell’età moderna, riproporrà il tema della Città Ideale nella sua “Utopia” (1516). More ha infatti davanti a sé un mondo  in preda ad una corruzione endemica, che tocca i Re e i Pontefici, coloro ai quali si dovrebbe guardare per la salvezza dell’umanità, unitamente ad un quadro di ingiustizia sociale in cui al lusso sfrenato dei ricchi si contrappone la miseria del popolo (ricordiamo in particolare la sua denuncia delle “enclosures” destinate all’allevamento delle pecore per l’industria della lana, a causa delle quali  i contadini erano costretti ad abbandonare le loro terre così che le pecore davvero “divoravano gli uomini”, per usare una sua espressione diventata famosa).

Immagina dunque nel suo libro un mondo diametralmente opposto, giocando sull’ambiguità del termine “utopia” e adottando un paradigma narrativo che diventerà costitutivo della letteratura utopica, così che il nome dell’isola Utopia si trasformerà rapidamente in un termine generico atto ad indicare tutte le narrazioni simili (impostate cioè su di un narratore che scopre, attraverso un viaggio, un paese e un popolo immaginari le cui istituzioni differiscono radicalmente da quelle della società esistente, offrendo un modello di  “luogo felice”).

In Utopia sono soppresse la proprietà privata e il denaro, considerati come fonti di tutti i mali; tutti lavorano ma solo per una parte del giorno, consacrando il tempo libero a varie attività intellettuali e ricreative; si vive, si lavora e si consuma in comune. Queste semplici regole assicurano a tutti un’esistenza armoniosa su cui vegliano i Magistrati, rappresentanti di leggi che sono solo il coronamento dei buoni costumi e della tradizione e che assicurano l’educazione dei giovani e la tolleranza fra gli uomini. La vita che gli utopiani conducono, secondo More che è fedele alla tradizione umanistica di stampo erasminiano, è la vera vita secondo natura, perché secondo questa visione è la natura che prescrive all’essere umano la ricerca di una vita buona, pacifica e piacevole.

Con il tema della Città Perfetta More apre la strada ad un fortunato filone del pensiero rinascimentale che include “La città del Sole” di Tommaso Campanella (1623), “La Nuova Atlantide” di Francis Bacon (1627),  La repubblica di Oceana” (1656) di Jan Harrington, oltre ad altre opere minori legate al mondo protestante.

Tutte queste opere esprimono a vari livelli di complessità e di articolazione, attraverso la lente deformante della finzione di viaggio e della scoperta di un luogo- altro, un’approfondita analisi delle contraddizioni del proprio tempo. In generale, secondo Roberto Lolli, la radice della crisi in atto viene identificata dagli autori in una condizione di patologico dissesto morale e il luogo-non luogo, nel quale è raffigurato  il modello della Città perfetta, si caratterizza come un teatro in cui tutto è rovesciato: l’oro, simbolo della ricchezza e del potere del nostro mondo, nell’isola di Utopia  è il marchio distintivo dei criminali; l’ignoranza e il disinteresse verso il sapere non hanno diritto di cittadinanza nella Nuova Atlantide di Bacon, che descrive una società di scienziati impegnati nelle rispettive accademie a ricercare e a sperimentare ciò che è necessario per il benessere della popolazione; il disprezzo dei potenti per il lavoro e per la cultura scompare nella società di Campanella, nella quale tutti lavorano e mentre lavorano imparano perché su ogni muro,  su ogni mattone sono trascritte tutte le conoscenze umane, come su un’enciclopedia di pietra, e solo chi sa di più sarà destinato a governare.

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Da queste prime notazioni, in cui abbiamo seguito la linea argomentativa dell’articolo di Roberto Lolli (integrandola con alcuni elementi del secondo testo, molto più esteso), si evince il significato profondamente positivo che l’autore, insegnante di filosofia alle scuole superiori, assegna a queste opere in cui la descrizione di mondi immaginari non prescinde, anzi muove direttamente dalla consapevolezza dell’inadeguatezza del presente e dalla volontà di costruire un futuro più stabile, pacifico e giusto. Certo esse non si propongono direttamente un programma di azione politico sociale (anche se - vale la pena di notarlo - Campanella cercò davvero di costruire una sorta di comunità in linea con la sua città ideale, entrando per questo in rotta di collisione con il governo spagnolo e pagando il suo tentativo con una lunghissima detenzione; allo stesso  modo  More pagherà con la vita la sua opposizione allo scisma di Enrico VIII, di cui era stato precettore e maestro di studi umanistici); pur tuttavia, in questi testi c’è a suo giudizio una sorta di lievito politico che altri testi più realistici, come quelli di Machiavelli e Bodin non hanno, perché pur convergendo sulla necessità di modificare gli assetti del presente restano ancorati alla classificazione tradizionale delle forme politiche.

Anche Bronislaw Baczko segnala con molto vigore, a partire proprio da un confronto fra l’Utopia di More e Il Principe di Machiavelli la carica profondamente innovativa del primo rispetto al secondo.

L’Utopia offre infatti a suo giudizio uno stimolo forte all’immaginazione umanistica, mostrando che la società esistente e le sue ingiustizie non sono un dato di natura immodificabile e offrendo così un contributo essenziale al grande problema della modernità politica, in cui si vuole vedere riconosciuta come legittima l’aspirazione di ciascun individuo a trovare la felicità in questo mondo: una felicità dunque profana, non derivante da un ordine superiore a quello umano, che si fonda sul libero consenso degli individui visti come capaci di autodeterminarsi (mentre Machiavelli consegna alla modernità solo uno sguardo disilluso, che mette al centro della politica la vecchia divisione fra governanti e governati e i rapporti di forza immodificabili di cui occorre prendere atto per manipolare accortamente il male che è nell’uomo).

Proprio per questa capacità di visione “laica” Baczko non condivide la posizione di chi – come lo storico delle religioni Micea Eliade -  coglie nell’utopia  una connotazione regressiva, considerandola ancorata ad una sorta di nostalgia delle origini, una forma residuale del Paradiso Perduto. Le utopie, è vero, possono riempire questo spazio simbolico, ma a giudizio di Baczko gli utopisti non sognano di ritrovare il luogo edenico perfetto e immutabile donato da Dio all’uomo: immaginano bensì un mondo umano e modificabile, sostituendo al sacro e al mitico le rappresentazioni profane di una felicità raggiungibile secondo ragione. In questo senso la sua posizione è vicina a quella di Mannheim* - a cui fa riferimento - che considera  l’utopia una visione del mondo coerente e strutturata nella quale si manifestano aspirazioni, ideali e sistemi di valori e si esprimono i bisogni profondi di un’epoca (mentre l’ideologia rappresenterebbe la coscienza sociale di gruppi o classi che difendono lo status quo).

 

DALLA  FINZIONE  ROMANZESCA AL DIVENIRE STORICO: TRASFORMAZIONE  DELL’UTOPIA  IN UCRONIA NELL’ETA’ DEI LUMI

Riprendiamo ora il nostro percorso seguendo in particolare l’analisi di Baczko. Dopo la prima grande ondata di utopie che si snodano, a partire dal testo di More, fra il 500 e il 600, l’utopia come genere narrativo e proposta di innovazione sociale entra a pieno titolo nel dibattito  letterario e filosofico-politico. Mentre sul piano letterario il termine coniato da More diventa non solo rapidamente generico, indicando tutte le opere che rientrano nel paradigma da lui inaugurato, ma anche estensivo, venendo usato anche per indicare testi precedenti in cui si siano configurati progetti di legislazione ideale (come la Repubblica di Platone), si comincia a discutere di utopia in termini valutativi, con alcune forti prese di distanza da parte di chi associa questa parola al “chimerico” (come farà Spinosa, che nel suo Tractatus critica quei sognatori le cui dottrine politiche non si applicano che “al paese di Utopia” e sono concepite per gli uomini quali dovrebbero essere e non per quello che effettivamente sono)

Queste prese di posizione peraltro non arrestano il fiorire del romanzo utopico, che come abbiamo visto continua per tutto il seicento conoscendo anche qualche innovazione significativa rispetto al modello iniziale. Nei “Viaggi di Gulliver” (1726) Jonathan Swift  parodizza infatti il genere, facendolo in un certo senso “esplodere” dall’interno e inventando così la contro utopia.

In questo testo Swift, per dimostrare che gli uomini sono intrinsecamente malvagi, offre un’immagine caricaturale e grottesca di società umane che si considerano perfette; la sola società armoniosa e felice è in effetti quella degli Houynhnm, che però sono cavalli…

Le cose cambiano peraltro profondamente nel 700, quando l‘utopia comincia a superare la finzione romanzesca, diventata angusta, e si trasforma in progetto, in bozza per una ventata di riforme che attengono ai campi più diversi (da quello architettonico, con architetti come Claude Nicholas Ledoux che progettano le condizioni urbanistiche della Città Felice, a quello pedagogico, dove pensatori  come Comenio, Rousseau, Pestalozzi, Condorcet cominciano ad elaborare idee per un cambiamento dei sistemi educativi che li renda atti a formare cittadini illuminati, riconoscendo nell’educazione la precondizione della rigenerazione sociale): ma soprattutto si apre al divenire, ponendosi come parte integrante di un discorso sull’evoluzione della storia.

 E’ nella storia, nel progresso che si ritiene iscritto nelle sue leggi che i pensatori del 700 ripongono infatti la loro fede, nel forte convincimento che gli uomini possano determinare il loro futuro. Per gli illuministi la storia è una scienza, e il futuro appartiene al suo dominio e non più a quello delle “chimere utopiche”:

(così le definisce Condorcet, che peraltro nella parte finale del suo “ L’equisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain” - scritto nel 94, in pieno Terrore, da un uomo braccato e in punto di essere arrestato che pur tuttavia non ha perso la sua fede incrollabile nel progresso - offre la rappresentazione  di una società futura in cui gli uomini non avranno altro sovrano che la ragione e la verità. Condorcet non ritiene infatti utopica questa visione, ma la risultante di un divenire storico definito dalle leggi del progresso)

Lo spirito dell’utopia, secondo Baczko, non viene pertanto annullato, ma diventa lo spirito rivoluzionario, che per  uomini come Condorcet non ha fatto altro che accelerare l’avvento della Città Felice sognata dagli utopisti.

Questo spostamento nel futuro dell’utopia si rivela anche a livello narrativo, dando vita a delle “ucronie” in cui l’altrove sociale è  situato in un avvenire immaginario, e in cui si affida al tempo-progresso il compito di realizzare le idee illuminate del presente e di trasformare in realtà i sogni utopici:

Nel 1770 Louis - Sebastien Mercier pubblica appunto “L’an 2440”, un romanzo utopistico in cui il narratore, invece di compiere un viaggio in un luogo-altro come nel testo di More, si addormenta ritrovandosi dopo quasi sette secoli in una Parigi e in un mondo completamente trasformato, in cui la razionalità e l’armonia sono le risultanti di un progresso sociale a cui gli uomini del suo tempo hanno dato un primo fondamentale contributo.

Lo stesso farà, un secolo più tardi, lo statunitense Edward Bellamy, che nel suo “Guardando indietro: 2000-1887” adotta un paradigma simile, con un narratore che soffrendo di insonnia si fa curare con l’ipnosi e rimane addormentato per 113 anni, trovando  al suo risveglio una Boston in cui regnano la pace e la fratellanza e in cui si è realizzato una sorta di Welfare State in anteprima.

 

GLI  ULTIMI  MOMENTI “CALDI” E LA FINE  DELLE  UTOPIE:

Nell’ultima parte del testo Baczko osserva come non sia facile definire la linea storica seguita dalle utopie, perché essa non è lineare e continuativa ma vede piuttosto delle alternanze fra periodi “caldi” di creatività utopistica (quali sono stati sicuramente la prima metà del 500, segnata dal testo di More con i successivi sviluppi seicenteschi, l’età dei Lumi in cui l’utopia permane pur con un cambiamento concettuale notevole, diventando progetto mirato al futuro e trasformandosi in “ucronia”, e il secondo quarto dell’800, ricco di produzioni utopistiche da parte dei riformatori sociali come Fourier, Saint Simon, Owen) e periodi “freddi” in cui l’utopia tace o non è comunque capace di risvegliare passioni sociali.

Prima di interrogarsi sullo statuto attuale dell’utopia, l’autore segnala ancora due periodi “caldi” in cui gli animi si sono accesi e mobilitati avendo in mente un’idea e una rappresentazione di futuro: l’ultimo quarto dell’800, segnato dall’utopia socialista e dal successivo sviluppo dei movimenti operai, dalla formazione dei partiti socialisti e dei movimenti sindacali e gli anni 20 e 30 del novecento, con lo sviluppo delle utopie totalitarie:

 

Rispetto al primo periodo, ricordiamo che Marx ed Engels, pur riconoscendo la nobiltà di intenti dei socialisti del primo ottocento, giudicavano irrealistico il loro tentativo di abbreviare il cammino della storia annullando le tappe intermedie e definirono pertanto “utopiche” le loro proposte, proprio in quanto non riconoscevano le leggi oggettive della storia.  Essi intendevano differenziarsi nettamente da coloro che ritenevano dei visionari chimerici, e pertanto   si rifiutarono sempre di elaborare un progetto dettagliato di società del futuro.

Nondimeno sussisteva il bisogno di rappresentazioni motivanti di una società senza classi, che avrebbe emancipato gli individui  dallo sfruttamento economico e dall’oppressione sociale assicurando uguaglianza e libertà,  e trovò i suoi  esecutori in  molti teorici delle Seconda Internazionale  come Bebel, Jaurés e Vandervelde;

Per quanto attiene invece alle ideologie totalitarie, anch’esse ebbero le loro rappresentazioni utopiche volte al futuro, espresse sia discorsivamente che attraverso simboli e rituali che avevano grande potere seduttivo (pensiamo, dice Baczko, alle adunate di massa, volte alla dimostrazione di nuove identità e di unione sociale) recuperando, l’una, quella nazista, le tradizioni irrazionalistiche e romantiche di stampo nazionalistico, e l’altra, quella comunista, alcune delle utopie socialiste, prive però del loro afflato libertario.

Oggi lo statuto dell’utopia è fortemente in crisi. Entrambi gli autori a cui abbiamo fatto riferimento in questa ricostruzione concordano su questa constatazione, e del resto era inevitabile  che dopo le due disastrose guerre mondiali, la delusione dei socialismi “reali” e l’implosione dei regimi comunisti tutte le teorie su cui la ragione confidava per la rigenerazione della società dovessero essere messe fortemente in discussione (non a caso nella seconda metà del novecento sono cambiati  fortemente gli scenari narrativi, e le ottimistiche utopie si sono rovesciate nel loro contrario distopico, cupo e angosciante ).

Essendo venuta meno la fiducia nel progresso, si è prodotta una diffidenza paralizzante nei confronti di ogni progetto alternativo di società, anche perché, come osserva Baczko, le nostre società sono state investite da una mondializzazione dell’economia e delle comunicazioni che ha certamente contribuito ad un “disincantamento” del mondo, in cui ci si limita ad amministrare il presente.

Eppure, a giudizio di entrambi questi autori, c’è ancora bisogno di utopie capaci di illuminare il presente, di aiutarci a non considerare ineluttabile la crescita della miseria e dell’esclusione che mina le nostre società e rende le nostre democrazie più fragili, a pensare che un altro mondo, non perfetto ma migliore, sia possibile.

Per questo Lolli in particolare consiglia di rileggere Ernst Bloch (“Lo spirito dell’utopia”, “Il Principio speranza”), che nel primo novecento ha espresso la sua fiducia nell’utopia considerandola una forma critica e propulsiva, capace di muovere gli uomini a contestare l’ordine esistente nelle cose e a “camminare eretti”.

 

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* Bronislaw Baczko =  storico della filosofia, nato a Varsavia  nel 1924; studioso di Jean. J. Rousseau, dell’illuminismo e del pensiero utopico del  ‘700 francese

 

 * Roberto Lolli =  insegna Filosofia e Storia presso il liceo scientifico A. Roiti di Ferrara. Ha curato con  P. Salandrini l’opera  “Filosofia nel Tempo” - ed. Spazio Tre  2000/ 2006

 

 

* Karl Mannheim =  sociologo tedesco di origine ungherese (1883/ 1947), considerato il fondatore della sociologia della conoscenza; la sua opera più importante è “Ideologia e utopia” in cui ha analizzato quattro forme di mentalità utopica: il chiliasmo (la dottrina che predica l’avvento del regno di Cristo sulla Terra, assimilabile al millenarismo), l’umanitarismo-liberalismo; la prospettiva conservatrice e nazionale; il socialismo-comunismo

 

* Ernst Bloch = scrittore e filosofo tedesco di origine ebraica (1885/1977); di orientamento marxista, nei due testi “Lo spirito dell’utopia” (1918)  e “Il principio speranza” (1953-59) ha sostenuto che la speranza e l’utopia sono elementi essenziali dell’agire e del pensare umano, ponendo in rilievo il contenuto utopico del pensiero di Marx che viene ad assumere nella sua interpretazione una peculiare tonalità messianica

 

 

3. TESTI  SULL’UTOPIA

 

(in quest’ultima sezione presentiamo brevemente i due testi che il prof. Cuozzo ha indicato nella sua bibliografia, attingendo ai materiali presenti on line)

 

Jean Servier

Storia dell’utopia: il sogno dell’Occidente da Platone ad Aldous Huxley

Ed. Mediterranee 2003

           

1.  L’Utopia come sogno dell’Occidente, dal Paradiso Terrestre  alla Terra Promessa

Questo testo di Jean Servier, etnologo e sociologo, è stato pubblicato in Francia nel 1967 e solo nel 2003 è uscita la versione italiana. Secondo il suo curatore, Gianfranco de Turris (dalla cui introduzione al testo traiamo le note che seguono), l’opera non risulta per nulla datata, al contrario: il modo davvero originale con cui l’autore affronta il tema dell’utopia, ripercorrendo l’intera storia dell’Occidente attraverso una molteplicità di sguardi disciplinari, ci offre a suo giudizio una chiave preziosa per comprendere il nostro mondo alla svolta del terzo millennio, in cui sono state messe alla prova in modo drammatico molte delle promesse della modernità.

Vediamo dunque qual è la tesi centrale del libro.

Per Servier l’idea di una riforma radicale capace di migliorare l’umanità, che è sempre esistita esprimendosi in forme diverse attraverso i tempi, rappresenta il vero sogno dell’Occidente, in cui si  rende visibile il tentativo di riempire un vuoto fra il Paradiso Perduto, verso cui si rivolge uno sguardo nostalgico, e  una Terra Promessa a cui si tenta di giungere. Un sogno che l’Occidente non ha solo coltivato per se stesso, attraverso le nozioni di libertà individuale e di progresso collegate al continuo perfezionamento della tecnica (da cui ha tratto sicuramente la sua potenza e la sua forza e insieme la giustificazione del suo diritto di conquista), ma che vorrebbe estendere a tutto  il mondo con l’intento di renderlo uguale a sé.

Come tutti i sogni, anche questo può essere interpretato attraverso gli strumenti della psicanalisi e del simbolismo – ed è quello che farà appunto l’autore nel testo, dopo averne rintracciato le origini, che stanno a suo giudizio nell’incontro della civiltà  greco romana con la cultura religiosa  giudaica.

Ad un certo punto della sua storia, durante il cammino di Israele verso la Terra Promessa e nell’attesa del Messia, l’Occidente è stato segnato dalla doppia promessa di un Dio che l’ha distinto isolandolo dal resto dell’umanità. Questo evento originario ha avuto, secondo Servier, una duplice conseguenza:  da un lato ha condotto a pensare alla città perfetta, alla città giusta, alla città radiosa (intesa come ricordo e nostalgia del Paradiso Perduto, della mitica Città dell’Oro) dando vita sia al pensiero filosofico utopico che al pensiero riformatore politico, sociale, artistico; dall’altro ha attivato le visioni apocalittiche e le attese messianiche del millenarismo, dando l’avvio a tutti i tentativi di anticipare la fine dei tempi anche con metodi cruenti, per giungere il prima possibile alla Terra Promessa.

Due visioni, quella utopica e quella millenaristica, che rappresentano due aspetti complementari del pensiero europeo, e che hanno condotto rispettivamente alla teorizzazione di riforme sociali incruente ma comunque impositive da parte dei ceti borghesi e mercantili, e alle proposte più  decisamente rivoluzionarie che andavano incontro alle aspettative messianiche delle masse popolari.

                      

2. La rimozione del Padre come fondamento psicologico dell’utopia e del millenarismo

Nonostante questa fondamentale differenza, in entrambe queste visioni, secondo Servier, è presente la stessa matrice psicologica che consiste nella rimozione della figura paterna.

La città utopica viene infatti immaginata generalmente  come protetta da mura o separata da canali e fiumi, oppure  come un’isola circondata dal mare. In queste raffigurazioni possiamo ravvisare a suo giudizio il simbolismo della Madre che ha preso il posto del Padre: una madre possessiva e insieme nutriente, che si occupa di tutto, sollevando gli abitanti da ogni responsabilità ed escludendo nel contempo  il libero arbitrio dei singoli, da cui risulta una società chiusa e immobile, immersa in un eterno presente.

La stessa rimozione del Padre è presente nondimeno nel millenarismo, anche se in questo caso alla figura del padre si sostituisce quella del Messia, di colui che vuole affrettare la fine dei tempi e realizzare la preannunciata Terra Promessa per la quale non si dovrebbe attendere troppo.

Al contrario dell’utopia, che è statica, il millenarismo è infatti dinamico, si presenta come una vera e propria  tempesta destinata a travolgere gli empi in modo che nessuno di loro possa entrare nella Città dei Giusti (fa parte del millenarismo, secondo Servier, la mistica del popolo da cui hanno attinto molti rivoluzionari, da Marx a Lenin: la dittatura del proletariato, a suo giudizio, rinnova infatti gli argomenti e gli ideali di coloro che attendevano il compimento della promessa evangelica).

 

3. La radice cristiana dell’idea del Progresso e la nuova religione della scienza

A questo punto Servier introduce un’ altra considerazione  fondamentale. Secondo la sua analisi sono state ancora la rivelazione mosaica e il successivo avvento del cristianesimo a introdurre l’idea di progresso, sconosciuta alle culture tradizionali. Nel cristianesimo cambia infatti totalmente il concetto di tempo, che non è più inteso come mitico, cronologico, circolare, come nel mondo antico, ma viene pensato come lineare e rettilineo, indicando in questa prospettiva una meta da raggiungere: la fine dei tempi, con il Giudizio Universale che separerà gli empi dai buoni permettendo a questi ultimi di raggiungere la benedetta Terra Promessa. Il tempo viene così a porsi come un fattore di perfezionamento, e in effetti a partire dal mondo greco romano cristianizzato la fede nel progresso diventa via via la vera religione dell’occidente, che si farà carico in un empito missionario di annunciarla al resto del mondo (Servier ricorda come nell’ottocento l’occidente pensasse se stesso come “una fiaccola che guida gli uomini ad veritatem per scientiam”). E’ la scienza infatti, a partire da questo momento, ad essere percepita come ciò che può assicurare agli uomini  la salvezza, una sorta di nuova gnosi capace di illuminare lo schema del mondo sostituendosi alla religione (la rimozione dunque è sempre presente, perché la scienza è immaginata come una madre che può  placare  e risolvere le paure e i dubbi…).

Nondimeno, osserva Servier, in questa idea salvifica della scienza si cela pur sempre una contraddizione, che a suo giudizio spiega il disagio del tempo presente.  L’ideazione di un nuovo congegno, di una nuova macchina, costituisce infatti un’invenzione, cioè la scoperta di un’ Idea - nel senso platonico del termine - che esiste al di fuori dello spirito umano, il quale si limita a realizzarla proiettandola nella materia.  Pertanto, secondo la sua analisi, il progresso tecnico scientifico  e i relativi cambiamenti che ne derivano sfuggono di fatto all’uomo, che si sente deresponsabilizzato e incapace di controllare le forze che sfuggono al suo dominio (specialmente da quando al lavoro artigiano si è sostituito il lavoro operaio nella grande fabbrica). Non è dunque più la religione ad essere, come  pensava Freud, la nevrosi ossessiva dell’umanità:  è la scienza ora che crea all’uomo di oggi una sottile angoscia aumentando, invece che ridurre, il suo disagio esistenziale.

Concludendo la sua introduzione, Goffredo de Marchis osserva che l’analisi di Servier sul tema dell’utopia può essere molto utile per capire come non si stiano confrontando oggi due civiltà e  due culture, bensì due diversi fondamentalismi, che non rappresentano certo tutto l’Occidente e tutto l’Oriente, ma coloro che sentendosi portavoce di Dio in terra cercano di imporre la loro visione al mondo intero: due utopie dunque, e due millenarismi, due diverse Città dei Giusti e due Terre Promesse. 

Non spiega invece, a suo giudizio, il motivo per cui oggi, nonostante il male di vivere che pervade le nostre società, non emergano progetti per una diversa visione del mondo, e non si scrivano più utopie letterarie, ma solo distopie o antiutopie. Uno dei motivi sta sicuramente nel fatto che le utopie realizzate nel novecento si sono rivelate catastrofiche (anche perché, secondo Servier, c’era in esse un profondo vuoto metafisico: gli uomini hanno bisogno di qualcosa di più che l’ essere deresponsabilizzati grazie alla tecnica nel seno materno di una società utopica). Forse – qui è il curatore a parlare - l’utopia potrebbe produrre esiti diversi solo cambiando il segno sotto cui viene posta: non l’imposizione  di una società giusta, ma un atteggiamento mentale e speculativo diverso, a cui stanno in effetti lavorando  molti studiosi che cercano di ridefinire sotto una nuova accezione il concetto di utopia.

 

 

Lewis Mumford  - “Storia dell’utopia” Ed. Donzelli

 

(N.B. = anche in questo caso, non avendo letto direttamente il testo, ci siamo limitati ad assemblare le brevi tracce che abbiamo potuto recuperare in rete, dalle quali peraltro è già possibile rendersi conto dell’importanza della riflessione di questo autore per il tema di cui ci stiamo occupando

 L ’uomo cammina con i piedi in terra e la testa per aria e la storia di ciò che è accaduto sulla terra - la storia delle città, degli eserciti e di tutte quelle cose che hanno avuto corpo e formaè soltanto la metà della storia dell’uomo

 

Lewis Mumford ( 1895/1996) è stato un importante sociologo e urbanista statunitense. Culturalmente legato a Patrik Geddes, Henry Wright ed Ebenezer Howard (l’urbanista inglese a cui si deve uno dei più importanti testi sulla teorizzazione delle città utopiche, “A peaceful Path to Real Reforme”), si è occupato, non solo in un’ottica storica ma anche regolativa, della città e del territorio, collaborando all’attuazione della  New Town inglese.

Il suo testo sull’utopia, pubblicato nel 22, è nato – come ha spiegato egli stesso – dall’esigenza interiore di un uomo che pochi anni dopo la prima guerra mondiale viveva ancora nel clima di speranza delle generazioni passate, pur rendendosi conto che l’entusiasmo utopico del secolo precedente era giunto alla fine. Nell’esaminare il percorso storico delle utopie intendeva dunque chiarire che cosa in esse fosse andato perduto, che cosa occorresse rifiutare e che cosa fosse invece ancora valido e degno di essere conservato per i tempi nuovi.

Nella sua ricostruzione Mumford sostiene che molte cose, sicuramente, devono essere abbandonate: noi dobbiamo ignorare, dice, “tutte le false utopie e i miti sociali che si sono dimostrati così sterili e così disastrosi nel corso degli ultimi secoli”  (il mito dello Stato nazionale, il mito del proletariato) e più in generale dobbiamo lasciare da parte l’idea che “ci possa essere una sola utopia,  per una sola unità che chiamiamo umanità”.

Nel nostro allontanarci da questi miti, non dobbiamo peraltro abbandonare l’abitudine di creare miti, poiché, nel bene e nel male, questa abitudine fa parte della natura stessa dell’uomo. Non dobbiamo temere, dice Mumford con forza, di costruire, ancora e ancora, “castelli in aria”, anzi questo è proprio il nostro compito: dobbiamo però proporci di edificare utopie genuine avendo ben presente il doppio significato che Thomas More ha assegnato a questo termine, da cui deriva che l’utopia è un modello ideale da perseguire (eutopia= ottimo luogo) ma che nello stesso tempo essa è irraggiungibile per definizione (outopia= nessun luogo).

Questo ci metterà al riparo da una doppia illusione, ugualmente pericolosa: quella di pensare da un lato che l’esistente sia un dato assoluto (quando si discredita l’utopia, dice Mumford, si apre la strada “al trionfo del reale”, facendoci “chiudere nel presente le risorse del nostro immaginario creativo e della speranza”) e dall’altro quella di intendere l’utopia come un’impostazione sociale determinata da realizzarsi una volta per tutte, perché questo la cristallizzerebbe rendendola  sterile.

L’utopia deve essere invece una tensione espansiva, l’opposto dunque di un pensiero “partigiano, unilaterale, specialistico”, perché in questo sta la sua peculiare virtù che i grandi utopisti classici, secondo Mumford, avevano colto, trattando la società come un tutto unico e tenendo conto dei rapporti esistenti tra funzioni, istituzioni e fini dell’uomo, mentre la nostra società ha diviso la vita in compartimenti condannandoci a scenari angusti.

Proprio per questo, nel suo testo Mumford cerca di ricomporre in un’immagine ordinata e significativa i frammenti dello spirito utopico, spaziando attraverso autori e opere ed evidenziando la loro funzione di sprone al miglioramento,  ben sapendo peraltro che queste teorizzazioni resteranno lettera morta  se non si troveranno uomini disposti ad accoglierne consapevolmente lo spirito, adattandolo ai tempi nuovi.

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(N.B. = appunti tratti dalla presentazione di Federico Sollazzo, dalla scheda libri della casa editrice Donzelli  e da alcuni estratti del testo curati da Franco Sicco)

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