APPUNTI SPARSI SULL’UTOPIA
Che cosa intendiamo quando parliamo di UTOPIA
1. PRESENTAZIONE (da Wikipedia)
ETIMOLOGIA:
Il
termine “utopia” deriva dal nome immaginario di un paese ideale, descritto dal
letterato e filosofo inglese Thomas More nel suo “Libellum… de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia”
(1516). Si tratta di un neologismo formato con le voci greche où (non) e tòpos (luogo): significherebbe pertanto “ luogo che non esiste”.
In
questa parola peraltro è presente, fin dall’inizio, un gioco di parole con
l’omofono inglese “eutopia”, derivato dal greco èu (buono) e tòpos
(luogo). Nell’uso corrente i due significati si sono fusi, dando alla
parola”utopia” il significato di un luogo buono e irraggiungibile (“l’ottimo luogo che non è in nessun luogo”)
SIGNIFICATO:
Secondo
l’enciclopedia on line Treccani, con il termine “utopia” si intende la
formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro
nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello. Il termine è
talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile,
astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso
situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento
sociale (in questo senso utopia è stata contrapposta a ideologia). Per
estensione, il termine utopia indica un ideale, una speranza, un’aspirazione
che non può avere attuazione.
Anche
Wikipedia presenta questo termine nella doppia accezione cui abbiamo fatto cenno,
e cioè sia come punto di riferimento su
cui orientare azioni pragmatiche praticabili sia come illusione e falso ideale.
Utopista può dunque essere tanto colui che costruisce le sue preferenze e le
sue scelte ideologiche esimendosi dal confronto con le dinamiche della realtà,
quanto colui che indica un percorso ritenendolo auspicabile e perseguibile. Si
fa inoltre presente che sebbene l’universalità non sia una componente
essenziale del concetto, molte utopie presentano caratteri universalistici, anche
se esistono utopie di natura settaria o comunque non inclusive.
UTILIZZO
NEI VARI AMBITI:
L’uso
di questa parola può riguardare vari ambiti, da quello strettamente filosofico
a quello storico-politico-economico: pensiamo per esempio al socialismo utopico,
che fu la prima corrente del moderno pensiero socialista, e alla sua
aspirazione a realizzare una società che avesse come fine la giustizia sociale
e come mezzo la statalizzazione delle risorse economiche, l’abolizione della
proprietà privata, della famiglia, del contrasto fra città e campagna. Un’aspirazione che ritroviamo in tutte quelle
utopie che ruotano attorno ad una distribuzione paritaria di beni e ad una
collettivizzazione del lavoro, che apra spazi ai cittadini per coltivare le
arti e le scienze, come quelle socialiste e comuniste, a cui si contrappongono
altre utopie di matrice individualista, che vedono invece nel libero mercato e
nella competizione i due fattori fondamentali di sviluppo della società e
dell’essere umano.
Nel
campo scientifico e tecnologico le utopie prefigurano invece un futuro in cui
scienza e tecnica avanzate creeranno le condizioni per il superamento della
sofferenza, della malattia e financo della morte, con cambiamenti migliorativi
della condizione umana, mentre nell’ambito religioso possiamo ancora
considerare utopie quelle rappresentazioni, specie a livello popolare, che
prefigurano una esistenza futura libera dal peccato e da ogni male, oltre il
potere della morte.
CRITICHE
ALL’UTOPIA:
In
generale le critiche all’utopia si basano su di una obiezione importante, e
cioè sul fatto che non esiste un criterio razionale e indiscutibile attraverso
il quale deliberare che cosa renda perfetta una società. L’utopia viene inoltre considerata
irrealizzabile in termini pratici, dal momento che non è possibile ricominciare
tutto da capo (la tradizione da cui si discende e le facoltà intellettuali
dell’individuo sono valori acquisiti dall’uomo nel corso della propria vita e
non è possibile liberarsene completamente: la stessa ragione ideale dell’utopia
è inevitabilmente frutto di una tradizione precedente).
2.
L’UTOPIA COME GENERE LETTERARIO: GENESI E SVILUPPO
(appunti
tratti dalla voce “Utopia” dell’Enciclopedia delle Scienze sociali Treccani
2006, a cura di Bronislaw Baczko e da una proposta di percorso sull’utopia
nella scuola superiore di Roberto Lolli)
UNA
DOMANDA DI CAMBIAMENTO ALL’INIZIO DELLA LETTERATURA UTOPICA:
In
generale, osserva Roberto Lolli, ciò che accomuna, nelle diverse epoche in cui
si sono succedute come ondate le opere filosofiche del genere utopico, è la
percezione di una situazione di crisi senza via d’uscita.
Quando
Platone delinea, nella sua”Repubblica”, la struttura dello Stato Perfetto
governato dai filosofi, dando vita al più celebre modello della letteratura
filosofica utopica, ha davanti a sé una democrazia, quella ateniese, che pur
rappresentando un correttivo alla tirannide ha potuto processare e condannare
un uomo come Socrate, il suo Maestro. Sarà per l’appunto la presa d’atto di una
contraddizione interna alla democrazia che lo spingerà a ricercare il modo di
emendarne il difetto costitutivo.
La
stessa cosa avviene quando Thomas More, all’inizio dell’età moderna, riproporrà
il tema della Città Ideale nella sua “Utopia” (1516). More ha infatti
davanti a sé un mondo in preda ad una
corruzione endemica, che tocca i Re e i Pontefici, coloro ai quali si dovrebbe
guardare per la salvezza dell’umanità, unitamente ad un quadro di ingiustizia
sociale in cui al lusso sfrenato dei ricchi si contrappone la miseria del
popolo (ricordiamo in particolare la sua denuncia delle “enclosures” destinate all’allevamento delle pecore per l’industria
della lana, a causa delle quali i
contadini erano costretti ad abbandonare le loro terre così che le pecore
davvero “divoravano gli uomini”, per usare una sua espressione diventata
famosa).
Immagina
dunque nel suo libro un mondo diametralmente opposto, giocando sull’ambiguità
del termine “utopia” e adottando un paradigma narrativo che diventerà
costitutivo della letteratura utopica, così che il nome dell’isola Utopia si
trasformerà rapidamente in un termine generico atto ad indicare tutte le
narrazioni simili (impostate cioè su di un narratore che scopre, attraverso un
viaggio, un paese e un popolo immaginari le cui istituzioni differiscono
radicalmente da quelle della società esistente, offrendo un modello di “luogo felice”).
In Utopia sono
soppresse la proprietà privata e il denaro, considerati come fonti di tutti i
mali; tutti lavorano ma solo per una parte del giorno, consacrando il tempo
libero a varie attività intellettuali e ricreative; si vive, si lavora e si
consuma in comune. Queste semplici regole assicurano a tutti un’esistenza
armoniosa su cui vegliano i Magistrati, rappresentanti di leggi che sono solo
il coronamento dei buoni costumi e della tradizione e che assicurano
l’educazione dei giovani e la tolleranza fra gli uomini. La vita che gli
utopiani conducono, secondo More che è fedele alla tradizione umanistica di
stampo erasminiano, è la vera vita secondo natura, perché secondo questa
visione è la natura che prescrive all’essere umano la ricerca di una vita
buona, pacifica e piacevole.
Con
il tema della Città Perfetta More apre la strada ad un fortunato filone del
pensiero rinascimentale che include “La città del Sole” di Tommaso
Campanella (1623), “La Nuova Atlantide” di Francis Bacon (1627), “La repubblica di Oceana” (1656) di
Jan Harrington, oltre ad altre opere minori legate al mondo protestante.
Tutte
queste opere esprimono a vari livelli di complessità e di articolazione,
attraverso la lente deformante della finzione di viaggio e della scoperta di un
luogo- altro, un’approfondita analisi delle contraddizioni del proprio tempo.
In generale, secondo Roberto Lolli, la radice della crisi in atto viene
identificata dagli autori in una condizione di patologico dissesto morale e il
luogo-non luogo, nel quale è raffigurato
il modello della Città perfetta, si caratterizza come un teatro in cui
tutto è rovesciato: l’oro, simbolo della ricchezza e del potere del nostro
mondo, nell’isola di Utopia è il marchio
distintivo dei criminali; l’ignoranza e il disinteresse verso il sapere non
hanno diritto di cittadinanza nella Nuova Atlantide di Bacon, che descrive una società
di scienziati impegnati nelle rispettive accademie a ricercare e a sperimentare
ciò che è necessario per il benessere della popolazione; il disprezzo dei
potenti per il lavoro e per la cultura scompare nella società di Campanella,
nella quale tutti lavorano e mentre lavorano imparano perché su ogni muro, su ogni mattone sono trascritte tutte le
conoscenze umane, come su un’enciclopedia di pietra, e solo chi sa di più sarà
destinato a governare.
………………………………..
Da queste prime
notazioni, in cui abbiamo seguito la linea argomentativa dell’articolo di
Roberto Lolli (integrandola con alcuni elementi del secondo testo, molto più
esteso), si evince il significato profondamente positivo che l’autore,
insegnante di filosofia alle scuole superiori, assegna a queste opere in cui la
descrizione di mondi immaginari non prescinde, anzi muove direttamente dalla
consapevolezza dell’inadeguatezza del presente e dalla volontà di costruire un
futuro più stabile, pacifico e giusto. Certo esse non si propongono direttamente
un programma di azione politico sociale (anche se - vale la pena di notarlo -
Campanella cercò davvero di costruire una sorta di comunità in linea con la sua
città ideale, entrando per questo in rotta di collisione con il governo
spagnolo e pagando il suo tentativo con una lunghissima detenzione; allo
stesso modo More pagherà con la vita la sua opposizione
allo scisma di Enrico VIII, di cui era stato precettore e maestro di studi
umanistici); pur tuttavia, in questi testi c’è a suo giudizio una sorta di
lievito politico che altri testi più realistici, come quelli di Machiavelli e
Bodin non hanno, perché pur convergendo sulla necessità di modificare gli
assetti del presente restano ancorati alla classificazione tradizionale delle
forme politiche.
Anche Bronislaw Baczko
segnala con molto vigore, a partire proprio da un confronto fra l’Utopia di
More e Il Principe di Machiavelli la carica profondamente innovativa del primo
rispetto al secondo.
L’Utopia offre infatti
a suo giudizio uno stimolo forte all’immaginazione umanistica, mostrando che la
società esistente e le sue ingiustizie non sono un dato di natura
immodificabile e offrendo così un contributo essenziale al grande problema
della modernità politica, in cui si vuole vedere riconosciuta come legittima
l’aspirazione di ciascun individuo a trovare la felicità in questo mondo: una
felicità dunque profana, non derivante da un ordine superiore a quello umano,
che si fonda sul libero consenso degli individui visti come capaci di
autodeterminarsi (mentre Machiavelli consegna alla modernità solo uno sguardo
disilluso, che mette al centro della politica la vecchia divisione fra
governanti e governati e i rapporti di forza immodificabili di cui occorre
prendere atto per manipolare accortamente il male che è nell’uomo).
Proprio per questa
capacità di visione “laica” Baczko non condivide la posizione di chi – come lo
storico delle religioni Micea Eliade -
coglie nell’utopia una
connotazione regressiva, considerandola ancorata ad una sorta di nostalgia delle
origini, una forma residuale del Paradiso Perduto. Le utopie, è vero, possono
riempire questo spazio simbolico, ma a giudizio di Baczko gli utopisti non
sognano di ritrovare il luogo edenico perfetto e immutabile donato da Dio
all’uomo: immaginano bensì un mondo umano e modificabile, sostituendo al sacro
e al mitico le rappresentazioni profane di una felicità raggiungibile secondo
ragione. In questo senso la sua posizione è vicina a quella di Mannheim* - a
cui fa riferimento - che considera
l’utopia una visione del mondo coerente e strutturata nella quale si
manifestano aspirazioni, ideali e sistemi di valori e si esprimono i bisogni
profondi di un’epoca (mentre l’ideologia rappresenterebbe la coscienza sociale
di gruppi o classi che difendono lo status quo).
DALLA FINZIONE
ROMANZESCA AL DIVENIRE STORICO: TRASFORMAZIONE DELL’UTOPIA
IN UCRONIA NELL’ETA’ DEI LUMI
Riprendiamo
ora il nostro percorso seguendo in particolare l’analisi di Baczko. Dopo la
prima grande ondata di utopie che si snodano, a partire dal testo di More, fra
il 500 e il 600, l’utopia come genere narrativo e proposta di innovazione
sociale entra a pieno titolo nel dibattito
letterario e filosofico-politico. Mentre sul piano letterario il termine
coniato da More diventa non solo rapidamente generico, indicando tutte le opere
che rientrano nel paradigma da lui inaugurato, ma anche estensivo, venendo
usato anche per indicare testi precedenti in cui si siano configurati progetti
di legislazione ideale (come la Repubblica di Platone), si comincia a discutere
di utopia in termini valutativi, con alcune forti prese di distanza da parte di
chi associa questa parola al “chimerico” (come farà Spinosa, che nel suo
Tractatus critica quei sognatori le cui dottrine politiche non si applicano che
“al paese di Utopia” e sono concepite
per gli uomini quali dovrebbero essere e non per quello che effettivamente
sono)
Queste
prese di posizione peraltro non arrestano il fiorire del romanzo utopico, che
come abbiamo visto continua per tutto il seicento conoscendo anche qualche
innovazione significativa rispetto al modello iniziale. Nei “Viaggi di
Gulliver” (1726) Jonathan Swift
parodizza infatti il genere, facendolo in un certo senso “esplodere”
dall’interno e inventando così la contro utopia.
In questo testo Swift,
per dimostrare che gli uomini sono intrinsecamente malvagi, offre un’immagine
caricaturale e grottesca di società umane che si considerano perfette; la sola
società armoniosa e felice è in effetti quella degli Houynhnm, che però sono
cavalli…
Le
cose cambiano peraltro profondamente nel 700, quando l‘utopia comincia a
superare la finzione romanzesca, diventata angusta, e si trasforma in progetto,
in bozza per una ventata di riforme che attengono ai campi più diversi (da
quello architettonico, con architetti come Claude Nicholas Ledoux che
progettano le condizioni urbanistiche della Città Felice, a quello pedagogico,
dove pensatori come Comenio, Rousseau,
Pestalozzi, Condorcet cominciano ad elaborare idee per un cambiamento dei
sistemi educativi che li renda atti a formare cittadini illuminati,
riconoscendo nell’educazione la precondizione della rigenerazione sociale): ma
soprattutto si apre al divenire, ponendosi come parte integrante di un discorso
sull’evoluzione della storia.
E’ nella storia, nel progresso che si ritiene
iscritto nelle sue leggi che i pensatori del 700 ripongono infatti la loro
fede, nel forte convincimento che gli uomini possano determinare il loro
futuro. Per gli illuministi la storia è una scienza, e il futuro appartiene al
suo dominio e non più a quello delle “chimere utopiche”:
(così le definisce
Condorcet, che peraltro nella parte finale del suo “ L’equisse d’un tableau
historique des progrès de l’esprit humain” - scritto nel 94, in
pieno Terrore, da un uomo braccato e in punto di essere arrestato che pur
tuttavia non ha perso la sua fede incrollabile nel progresso - offre la
rappresentazione di una società futura
in cui gli uomini non avranno altro sovrano che la ragione e la verità. Condorcet
non ritiene infatti utopica questa visione, ma la risultante di un divenire
storico definito dalle leggi del progresso)
Lo
spirito dell’utopia, secondo Baczko, non viene pertanto annullato, ma diventa
lo spirito rivoluzionario, che per
uomini come Condorcet non ha fatto altro che accelerare l’avvento della
Città Felice sognata dagli utopisti.
Questo
spostamento nel futuro dell’utopia si rivela anche a livello narrativo, dando
vita a delle “ucronie” in cui l’altrove sociale è situato in un avvenire immaginario, e in cui
si affida al tempo-progresso il compito di realizzare le idee illuminate del
presente e di trasformare in realtà i sogni utopici:
Nel 1770 Louis -
Sebastien Mercier pubblica appunto “L’an 2440”, un romanzo utopistico in
cui il narratore, invece di compiere un viaggio in un luogo-altro come nel
testo di More, si addormenta ritrovandosi dopo quasi sette secoli in una Parigi
e in un mondo completamente trasformato, in cui la razionalità e l’armonia sono
le risultanti di un progresso sociale a cui gli uomini del suo tempo hanno dato
un primo fondamentale contributo.
Lo stesso farà, un
secolo più tardi, lo statunitense Edward Bellamy, che nel suo “Guardando
indietro: 2000-1887” adotta un paradigma simile, con un narratore che
soffrendo di insonnia si fa curare con l’ipnosi e rimane addormentato per 113
anni, trovando al suo risveglio una
Boston in cui regnano la pace e la fratellanza e in cui si è realizzato una
sorta di Welfare State in anteprima.
GLI ULTIMI
MOMENTI “CALDI” E LA FINE
DELLE UTOPIE:
Nell’ultima
parte del testo Baczko osserva come non sia facile definire la linea storica
seguita dalle utopie, perché essa non è lineare e continuativa ma vede
piuttosto delle alternanze fra periodi “caldi” di creatività utopistica (quali
sono stati sicuramente la prima metà del 500, segnata dal testo di More con i
successivi sviluppi seicenteschi, l’età dei Lumi in cui l’utopia permane pur
con un cambiamento concettuale notevole, diventando progetto mirato al futuro e
trasformandosi in “ucronia”, e il secondo quarto dell’800, ricco di produzioni
utopistiche da parte dei riformatori sociali come Fourier, Saint Simon, Owen) e
periodi “freddi” in cui l’utopia tace o non è comunque capace di risvegliare
passioni sociali.
Prima
di interrogarsi sullo statuto attuale dell’utopia, l’autore segnala ancora due
periodi “caldi” in cui gli animi si sono accesi e mobilitati avendo in mente
un’idea e una rappresentazione di futuro: l’ultimo quarto dell’800, segnato
dall’utopia socialista e dal successivo sviluppo dei movimenti operai, dalla
formazione dei partiti socialisti e dei movimenti sindacali e gli anni 20 e 30
del novecento, con lo sviluppo delle utopie totalitarie:
Rispetto al primo
periodo, ricordiamo che Marx ed Engels, pur riconoscendo la nobiltà di intenti
dei socialisti del primo ottocento, giudicavano irrealistico il loro tentativo
di abbreviare il cammino della storia annullando le tappe intermedie e
definirono pertanto “utopiche” le loro proposte, proprio in quanto non
riconoscevano le leggi oggettive della storia.
Essi intendevano differenziarsi nettamente da coloro che ritenevano dei
visionari chimerici, e pertanto si
rifiutarono sempre di elaborare un progetto dettagliato di società del futuro.
Nondimeno sussisteva il
bisogno di rappresentazioni motivanti di una società senza classi, che avrebbe
emancipato gli individui dallo
sfruttamento economico e dall’oppressione sociale assicurando uguaglianza e
libertà, e trovò i suoi esecutori in
molti teorici delle Seconda Internazionale come Bebel, Jaurés e Vandervelde;
Per quanto attiene
invece alle ideologie totalitarie, anch’esse ebbero le loro rappresentazioni
utopiche volte al futuro, espresse sia discorsivamente che attraverso simboli e
rituali che avevano grande potere seduttivo (pensiamo, dice Baczko, alle
adunate di massa, volte alla dimostrazione di nuove identità e di unione
sociale) recuperando, l’una, quella nazista, le tradizioni irrazionalistiche e
romantiche di stampo nazionalistico, e l’altra, quella comunista, alcune delle
utopie socialiste, prive però del loro afflato libertario.
Oggi
lo statuto dell’utopia è fortemente in crisi. Entrambi gli autori a cui abbiamo
fatto riferimento in questa ricostruzione concordano su questa constatazione, e
del resto era inevitabile che dopo le
due disastrose guerre mondiali, la delusione dei socialismi “reali” e
l’implosione dei regimi comunisti tutte le teorie su cui la ragione confidava
per la rigenerazione della società dovessero essere messe fortemente in
discussione (non a caso nella seconda metà del novecento sono cambiati fortemente gli scenari narrativi, e le
ottimistiche utopie si sono rovesciate nel loro contrario distopico, cupo e
angosciante ).
Essendo
venuta meno la fiducia nel progresso, si è prodotta una diffidenza paralizzante
nei confronti di ogni progetto alternativo di società, anche perché, come
osserva Baczko, le nostre società sono state investite da una mondializzazione
dell’economia e delle comunicazioni che ha certamente contribuito ad un
“disincantamento” del mondo, in cui ci si limita ad amministrare il presente.
Eppure,
a giudizio di entrambi questi autori, c’è ancora bisogno di utopie capaci di
illuminare il presente, di aiutarci a non considerare ineluttabile la crescita
della miseria e dell’esclusione che mina le nostre società e rende le nostre
democrazie più fragili, a pensare che un altro mondo, non perfetto ma migliore,
sia possibile.
Per
questo Lolli in particolare consiglia di rileggere Ernst Bloch (“Lo spirito
dell’utopia”, “Il Principio speranza”), che nel primo novecento ha
espresso la sua fiducia nell’utopia considerandola una forma critica e
propulsiva, capace di muovere gli uomini a contestare l’ordine esistente nelle
cose e a “camminare eretti”.
…………………………………………………….
* Bronislaw Baczko =
storico della filosofia, nato a Varsavia
nel 1924; studioso di Jean. J. Rousseau, dell’illuminismo e del pensiero
utopico del ‘700 francese
* Roberto Lolli = insegna Filosofia e Storia presso il liceo
scientifico A. Roiti di Ferrara. Ha curato con
P. Salandrini l’opera “Filosofia
nel Tempo” - ed. Spazio Tre 2000/ 2006
* Karl Mannheim =
sociologo tedesco di origine ungherese (1883/ 1947), considerato il
fondatore della sociologia della conoscenza; la sua opera più importante è
“Ideologia e utopia” in cui ha analizzato quattro forme di mentalità utopica:
il chiliasmo (la dottrina che predica l’avvento del regno di Cristo sulla
Terra, assimilabile al millenarismo), l’umanitarismo-liberalismo; la
prospettiva conservatrice e nazionale; il socialismo-comunismo
* Ernst Bloch = scrittore e filosofo tedesco di origine ebraica
(1885/1977); di orientamento marxista, nei due testi “Lo spirito dell’utopia”
(1918) e “Il principio speranza”
(1953-59) ha sostenuto che la speranza e l’utopia sono elementi essenziali
dell’agire e del pensare umano, ponendo in rilievo il contenuto utopico del
pensiero di Marx che viene ad assumere nella sua interpretazione una peculiare
tonalità messianica
3. TESTI SULL’UTOPIA
(in quest’ultima
sezione presentiamo brevemente i due testi che il prof. Cuozzo ha indicato
nella sua bibliografia, attingendo ai materiali presenti on line)
Jean Servier
Storia dell’utopia: il sogno dell’Occidente
da Platone ad Aldous Huxley
Ed. Mediterranee 2003
1. L’Utopia come sogno dell’Occidente, dal
Paradiso Terrestre alla Terra Promessa
Questo
testo di Jean Servier, etnologo e sociologo, è stato pubblicato in Francia nel
1967 e solo nel 2003 è uscita la versione italiana. Secondo il suo curatore,
Gianfranco de Turris (dalla cui
introduzione al testo traiamo le note che seguono), l’opera non risulta per
nulla datata, al contrario: il modo davvero originale con cui l’autore affronta
il tema dell’utopia, ripercorrendo l’intera storia dell’Occidente attraverso
una molteplicità di sguardi disciplinari, ci offre a suo giudizio una chiave preziosa
per comprendere il nostro mondo alla svolta del terzo millennio, in cui sono
state messe alla prova in modo drammatico molte delle promesse della modernità.
Vediamo
dunque qual è la tesi centrale del libro.
Per
Servier l’idea di una riforma radicale capace di migliorare l’umanità, che è
sempre esistita esprimendosi in forme diverse attraverso i tempi, rappresenta
il vero sogno dell’Occidente, in cui si
rende visibile il tentativo di riempire un vuoto fra il Paradiso
Perduto, verso cui si rivolge uno sguardo nostalgico, e una Terra Promessa a cui si tenta di
giungere. Un sogno che l’Occidente non ha solo coltivato per se stesso,
attraverso le nozioni di libertà individuale e di progresso collegate al
continuo perfezionamento della tecnica (da
cui ha tratto sicuramente la sua potenza e la sua forza e insieme la
giustificazione del suo diritto di conquista), ma che vorrebbe estendere a
tutto il mondo con l’intento di renderlo
uguale a sé.
Come
tutti i sogni, anche questo può essere interpretato attraverso gli strumenti
della psicanalisi e del simbolismo – ed è quello che farà appunto l’autore nel
testo, dopo averne rintracciato le origini, che stanno a suo giudizio
nell’incontro della civiltà greco romana
con la cultura religiosa giudaica.
Ad
un certo punto della sua storia, durante il cammino di Israele verso la Terra
Promessa e nell’attesa del Messia, l’Occidente è stato segnato dalla doppia
promessa di un Dio che l’ha distinto isolandolo dal resto dell’umanità. Questo
evento originario ha avuto, secondo Servier, una duplice conseguenza: da un lato ha condotto a pensare alla città
perfetta, alla città giusta, alla città radiosa (intesa come ricordo e
nostalgia del Paradiso Perduto, della mitica Città dell’Oro) dando vita sia
al pensiero filosofico utopico che al pensiero riformatore politico, sociale,
artistico; dall’altro ha attivato le visioni apocalittiche e le attese
messianiche del millenarismo, dando l’avvio a tutti i tentativi di anticipare
la fine dei tempi anche con metodi cruenti, per giungere il prima possibile
alla Terra Promessa.
Due
visioni, quella utopica e quella millenaristica, che rappresentano due aspetti
complementari del pensiero europeo, e che hanno condotto rispettivamente alla
teorizzazione di riforme sociali incruente ma comunque impositive da parte dei
ceti borghesi e mercantili, e alle proposte più
decisamente rivoluzionarie che andavano incontro alle aspettative
messianiche delle masse popolari.
2. La
rimozione del Padre come fondamento psicologico dell’utopia e del millenarismo
Nonostante
questa fondamentale differenza, in entrambe queste visioni, secondo Servier, è
presente la stessa matrice psicologica che consiste nella rimozione della
figura paterna.
La
città utopica viene infatti immaginata generalmente come protetta da mura o separata da canali e
fiumi, oppure come un’isola circondata
dal mare. In queste raffigurazioni possiamo ravvisare a suo giudizio il
simbolismo della Madre che ha preso il posto del Padre: una madre possessiva e
insieme nutriente, che si occupa di tutto, sollevando gli abitanti da ogni
responsabilità ed escludendo nel contempo
il libero arbitrio dei singoli, da cui risulta una società chiusa e
immobile, immersa in un eterno presente.
La
stessa rimozione del Padre è presente nondimeno nel millenarismo, anche se in
questo caso alla figura del padre si sostituisce quella del Messia, di colui
che vuole affrettare la fine dei tempi e realizzare la preannunciata Terra
Promessa per la quale non si dovrebbe attendere troppo.
Al
contrario dell’utopia, che è statica, il millenarismo è infatti dinamico, si
presenta come una vera e propria
tempesta destinata a travolgere gli empi in modo che nessuno di loro
possa entrare nella Città dei Giusti (fa
parte del millenarismo, secondo Servier, la mistica del popolo da cui hanno
attinto molti rivoluzionari, da Marx a Lenin: la dittatura del proletariato, a
suo giudizio, rinnova infatti gli argomenti e gli ideali di coloro che
attendevano il compimento della promessa evangelica).
3. La
radice cristiana dell’idea del Progresso e la nuova religione della scienza
A
questo punto Servier introduce un’ altra considerazione fondamentale. Secondo la sua analisi sono
state ancora la rivelazione mosaica e il successivo avvento del cristianesimo a
introdurre l’idea di progresso, sconosciuta alle culture tradizionali. Nel
cristianesimo cambia infatti totalmente il concetto di tempo, che non è più
inteso come mitico, cronologico, circolare, come nel mondo antico, ma viene
pensato come lineare e rettilineo, indicando in questa prospettiva una meta da
raggiungere: la fine dei tempi, con il Giudizio Universale che separerà gli
empi dai buoni permettendo a questi ultimi di raggiungere la benedetta Terra
Promessa. Il tempo viene così a porsi come un fattore di perfezionamento, e in
effetti a partire dal mondo greco romano cristianizzato la fede nel progresso
diventa via via la vera religione dell’occidente, che si farà carico in un
empito missionario di annunciarla al resto del mondo (Servier ricorda come
nell’ottocento l’occidente pensasse se stesso come “una fiaccola che guida gli uomini ad veritatem per scientiam”). E’
la scienza infatti, a partire da questo momento, ad essere percepita come ciò
che può assicurare agli uomini la
salvezza, una sorta di nuova gnosi capace di illuminare lo schema del mondo
sostituendosi alla religione (la
rimozione dunque è sempre presente, perché la scienza è immaginata come una
madre che può placare e risolvere le paure e i dubbi…).
Nondimeno,
osserva Servier, in questa idea salvifica della scienza si cela pur sempre una
contraddizione, che a suo giudizio spiega il disagio del tempo presente. L’ideazione di un nuovo congegno, di una
nuova macchina, costituisce infatti un’invenzione, cioè la scoperta di un’ Idea
- nel senso platonico del termine - che esiste al di fuori dello spirito umano,
il quale si limita a realizzarla proiettandola nella materia. Pertanto, secondo la sua analisi, il
progresso tecnico scientifico e i
relativi cambiamenti che ne derivano sfuggono di fatto all’uomo, che si sente
deresponsabilizzato e incapace di controllare le forze che sfuggono al suo
dominio (specialmente da quando al lavoro artigiano si è sostituito il lavoro
operaio nella grande fabbrica). Non è dunque più la religione ad essere, come pensava Freud, la nevrosi ossessiva
dell’umanità: è la scienza ora che crea
all’uomo di oggi una sottile angoscia aumentando, invece che ridurre, il suo
disagio esistenziale.
Concludendo la sua
introduzione, Goffredo de Marchis osserva che l’analisi di Servier sul tema
dell’utopia può essere molto utile per capire come non si stiano confrontando
oggi due civiltà e due culture, bensì
due diversi fondamentalismi, che non rappresentano certo tutto l’Occidente e
tutto l’Oriente, ma coloro che sentendosi portavoce di Dio in terra cercano di
imporre la loro visione al mondo intero: due utopie dunque, e due millenarismi,
due diverse Città dei Giusti e due Terre Promesse.
Non spiega invece, a
suo giudizio, il motivo per cui oggi, nonostante il male di vivere che pervade
le nostre società, non emergano progetti per una diversa visione del mondo, e
non si scrivano più utopie letterarie, ma solo distopie o antiutopie. Uno dei
motivi sta sicuramente nel fatto che le utopie realizzate nel novecento si sono
rivelate catastrofiche (anche perché, secondo Servier, c’era in esse un
profondo vuoto metafisico: gli uomini hanno bisogno di qualcosa di più che l’
essere deresponsabilizzati grazie alla tecnica nel seno materno di una società
utopica). Forse – qui è il curatore a parlare - l’utopia potrebbe produrre
esiti diversi solo cambiando il segno sotto cui viene posta: non
l’imposizione di una società giusta, ma
un atteggiamento mentale e speculativo diverso, a cui stanno in effetti lavorando molti studiosi che cercano di ridefinire
sotto una nuova accezione il concetto di utopia.
Lewis Mumford - “Storia dell’utopia” Ed. Donzelli
(N.B. = anche in questo
caso, non avendo letto direttamente il testo, ci siamo limitati ad assemblare
le brevi tracce che abbiamo potuto recuperare in rete, dalle quali peraltro è
già possibile rendersi conto dell’importanza della riflessione di questo autore
per il tema di cui ci stiamo occupando
“L ’uomo cammina con i
piedi in terra e la testa per aria e la storia di ciò che è accaduto sulla terra
- la storia delle città, degli eserciti e di tutte quelle cose che hanno
avuto corpo e forma – è soltanto la metà della storia dell’uomo”
Lewis
Mumford ( 1895/1996) è stato un importante sociologo e urbanista statunitense.
Culturalmente legato a Patrik Geddes, Henry Wright ed Ebenezer Howard
(l’urbanista inglese a cui si deve uno dei più importanti testi sulla
teorizzazione delle città utopiche, “A
peaceful Path to Real Reforme”), si è occupato, non solo in un’ottica
storica ma anche regolativa, della città e del territorio, collaborando
all’attuazione della New Town inglese.
Il
suo testo sull’utopia, pubblicato nel 22, è nato – come ha spiegato egli stesso
– dall’esigenza interiore di un uomo che pochi anni dopo la prima guerra
mondiale viveva ancora nel clima di speranza delle generazioni passate, pur
rendendosi conto che l’entusiasmo utopico del secolo precedente era giunto alla
fine. Nell’esaminare il percorso storico delle utopie intendeva dunque chiarire
che cosa in esse fosse andato perduto, che cosa occorresse rifiutare e che cosa
fosse invece ancora valido e degno di essere conservato per i tempi nuovi.
Nella
sua ricostruzione Mumford sostiene che molte cose, sicuramente, devono essere
abbandonate: noi dobbiamo ignorare, dice, “tutte
le false utopie e i miti sociali che si sono dimostrati così sterili e così
disastrosi nel corso degli ultimi secoli”
(il mito dello Stato nazionale, il mito del proletariato) e più in
generale dobbiamo lasciare da parte l’idea che “ci possa essere una sola utopia, per una sola unità che chiamiamo umanità”.
Nel
nostro allontanarci da questi miti, non dobbiamo peraltro abbandonare
l’abitudine di creare miti, poiché, nel bene e nel male, questa abitudine fa
parte della natura stessa dell’uomo. Non dobbiamo temere, dice Mumford con
forza, di costruire, ancora e ancora, “castelli
in aria”, anzi questo è proprio il nostro compito: dobbiamo però proporci
di edificare utopie genuine avendo ben presente il doppio significato che
Thomas More ha assegnato a questo termine, da cui deriva che l’utopia è un
modello ideale da perseguire (eutopia=
ottimo luogo) ma che nello stesso tempo essa è irraggiungibile per
definizione (outopia= nessun luogo).
Questo
ci metterà al riparo da una doppia illusione, ugualmente pericolosa: quella di
pensare da un lato che l’esistente sia un dato assoluto (quando si discredita
l’utopia, dice Mumford, si apre la strada “al
trionfo del reale”, facendoci “chiudere
nel presente le risorse del nostro immaginario creativo e della speranza”)
e dall’altro quella di intendere l’utopia come un’impostazione sociale
determinata da realizzarsi una volta per tutte, perché questo la
cristallizzerebbe rendendola sterile.
L’utopia
deve essere invece una tensione espansiva, l’opposto dunque di un pensiero “partigiano, unilaterale, specialistico”, perché in questo sta la sua peculiare
virtù che i grandi utopisti classici, secondo Mumford, avevano colto, trattando
la società come un tutto unico e tenendo conto dei rapporti esistenti tra
funzioni, istituzioni e fini dell’uomo, mentre la nostra società ha diviso la
vita in compartimenti condannandoci a scenari angusti.
Proprio
per questo, nel suo testo Mumford cerca di ricomporre in un’immagine ordinata e
significativa i frammenti dello spirito utopico, spaziando attraverso autori e
opere ed evidenziando la loro funzione di sprone al miglioramento, ben sapendo peraltro che queste teorizzazioni
resteranno lettera morta se non si
troveranno uomini disposti ad accoglierne consapevolmente lo spirito,
adattandolo ai tempi nuovi.
……………………………………………………
(N.B. = appunti tratti dalla presentazione di Federico Sollazzo,
dalla scheda libri della casa editrice Donzelli
e da alcuni estratti del testo curati da Franco Sicco)
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