A proposito della “parola del mese”………………
Nei segreti del lessico
di Donald Trump
Articolo di Alexander Stille – La Repubblica del 03/02/2017
Q UANDO due senatori
repubblicani hanno osato criticare l'ordine di vietare l'entrata negli Usa di
immigrati provenienti da sette Paesi musulmani, il neo presidente Donald Trump
ha sparato contro di loro un paio di tweet piuttosto violenti. Li ha definiti
«tristemente deboli» e li ha accusati di volere causare addirittura una Terza
guerra mondiale. Così ha messo insieme due dei suoi insulti preferiti:
"sad" (triste) e "weak" (debole). Ha usato poi un
linguaggio simile dando della «traditrice» alla ministra ad interim della
Giustizia che ha rifiutato di eseguire l'ordine presidenziale sul bando,
accusandola di essere «molto debole» in fatto di immigrazione. Fino alla recente
citazione dei «bad hombres», per invitare le autorità messicane a controlli più
serrati sul flusso migratorio. Queste sue continue sparate possono essere
interpretate in vari modi. Da una parte sono sintomi della personalità puerile
e narcisistica di Trump, insulti da cortile della scuola da parte di chi non
lascia mai cadere neanche una critica senza rispondere per le rime. Allo stesso
tempo, certe uscite riflettono la filosofia di fondo del neo presidente; basta
pensare che nel 1987 scrisse in un libro: "Se fotti me, ti fotto dieci
volte". Tuttavia, su un piano più profondo, il lessico di Trump
rappresenta una rivoluzione. Una rivoluzione del linguaggio politico. Un
linguaggio che ha diversi aspetti caratterizzanti. È molto semplice, fatto di
frasi corte e parole monosillabiche. Secondo le analisi linguistiche, Trump usa
un vocabolario dal sesto grado delle scuole elementari. Ma dire che parla come
un sempliciotto è troppo riduttivo. Le etichette che Trump ha inventato per i
suoi avversari "Low Energy" (Bassa Energia) per Jeb Bush, "Lyin'
Ted" (bugiardo Ted) per Ted Cruz, "piccolo Marco" per Marco
Rubio e Crooked Hillary (Corrotta Hillary) - sembrano insulti adolescenziali,
ma hanno funzionato: attaccandosi alle "vittime" e funzionando
nell'opinione pubblica come delle cornici per poi vedere effettivamente tali
queste persone. Anche Winston Churchill preferiva le parole monosillabiche
anglosassoni alle parole lunghe di origine latina. Trump tende a mettere
insieme una serie di frasi corte, una dopo l'altra come una raffica di mitra:
«Il nostro Paese potrebbe funzionare molto meglio». «Abbiamo accordi
commerciali pessimi». «Il nostro Paese non funziona». «Tutti vincono tranne
noi». «Abbiamo bisogno di vittorie». «Non abbiamo più vittorie». «Il nostro Paese
sarà grande di nuovo. Ma ora il nostro Paese ha grossi problemi ». Trump
finisce le sue frasi con delle parole-chiave che vuole rimangano nella testa
dei suoi ascoltatori: non funziona, pessimi, vittorie, problemi. Queste frasi
sembrano dei cazzotti. Il neo capo della Casa Bianca è anche molto ripetitivo,
cosa che può non piacere a taluni, ma che ha una sua efficacia, come sanno bene
i pubblicitari. Ha detto il linguista George Lakoff: «Più sentiamo una parola,
più viene attivato un circuito nel cervello. Trump ripete: vincere, vincere,
vincere. Vinceremo talmente tanto che ci stancheremo di vincere». Trump divide
sempre il mondo in una serie di divisioni binarie: molto cattivo-ottimo,
stupido- intelligente, debole-forte, orribile-fantastico, perdente- vincente.
Naturalmente, lui è sempre nella seconda categoria: «Se uno è molto
intelligente, è molto intelligente come sono io». E la sua compagnia è
«fantastica», «la migliore». Il linguaggio di Trump è super iperbolico: per lui
i quartieri neri americani sono «una zona di guerra», dominati da «bande
criminali, droga e povertà »; il Paese in genere assiste ad una «mattanza
americana » dove «fabbriche arrugginite sono sparse per il paesaggio come
tombe». Un linguaggio decisamente ombroso e negativo. Il New York Times,
durante la campagna elettorale, ha analizzato una settimana di discorsi di
Trump, trovando che le parole da lui usate più spesso erano:
"stupido" (trenta volte), "orribile" (14 volte),
"debole" (13 volte). Così lui tende ad attaccare le persone e non le
istituzioni o le idee. Trump viola quasi tutte le norme di quel che molti
ritengono essere un buon linguaggio politico. Indugia in violenza, volgarità,
insulti, autocelebrazione, cattiva sintassi, eccessiva ripetitività. Esagera,
si contraddice, viene colto in menzogne facili. Trump fa e dice cose che
rappresenterebbero un suicidio politico per altri politici. Eppure, in lui,
tutto questo funziona – almeno per circa la metà degli americani. Perché?
Giusto perché il suo modo di fare lo distingue dagli altri politici,
soprattutto dai politici tradizionali. Le cadute di buon gusto rappresentano
delle rotture. Per un pubblico disilluso, i bei discorsi sembrano artefatti,
studiati e fatti per ingannare. I suoi, no. Quando, in un forum online,
qualcuno ha chiesto se il tanto vantarsi da parte di Trump potesse davvero far
riscuotere a lui successo, c'è chi ha risposto: «Amiamo un leader che mostra
sicurezza e successo, poi ci piace da morire come lui manda in bestia i liberal
e gli intellettuali che ci trattano sempre con disprezzo». Così, fiducia nelle
istituzioni, nella politica e nei media sono ad un punto particolarmente basso
negli Usa. E non solo qui. Allo stesso tempo, si assiste ad una risalita dei
valori autoritari: persone che dicono, per esempio, di apprezzare di più nei
loro figli rispetto per l'autorità piuttosto che l'indipendenza. «Gli americani
che hanno un orientamento fortemente autoritario sono più propensi a dire che
il Paese ha bisogno di un leader che infrange le regole per mettere a posto le
cose», ha scritto recentemente il commentatore Thomas Edsall. Gli italiani, in
particolare, dovrebbero capire la rivoluzione linguistica-politica del
trumpismo. Il fascismo è stato preceduto e accompagnato da una simile rottura
nei discorsi pubblici. Gabriele D'Annunzio ha coniato molte delle frasi che
sono diventate le parole d'ordine del fascismo: "Me ne frego".
"A noi!". "O giungere o spezzare". Spiegando la popolarità
di "me ne frego", D'Annunzio disse: «La mia gente non ha paura di
nulla, nemmeno delle parole».
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