venerdì 3 febbraio 2017

Quei fantasmi del 1917 nell'Europa tra Brexit e Trump - Articolo di Paolo Rumiz


Quei fantasmi del 1917 nell'Europa tra Brexit e Trump


Karl Kraus, negli anni Venti, parlò dello stato di sonnambulismo in cui si trovava l’Europa alla vigilia della Grande Guerra. È allora che mostrò la sua fisiologica propensione al suicidio, gettandosi nel baratro nel momento del suo massimo fulgore economico. Cent’anni dopo, nel 2017, ci troviamo nuovamente sull’orlo di un salto nel buio: è meglio pensarci, a tutto questo, per evitare il peggio
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Articolo di PAOLO RUMIZ – La Repubblica del 02/02/2017

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Dicono che il Diciassette meni gramo e allora, visto che siamo nell’anno con quel numero, forse è il caso di farsi qualche domanda sul futuro, dispiegando a scopo scaramantico tutto il pessimismo della ragione. Che Europa avremo alla fine del 2017? La riconosceremo ancora? Sarà simile oppure del tutto diversa da quella che abbiamo conosciuto finora? Che ne sarà dello spirito unitario dei padri fondatori? Che destino avranno Inghilterra, Francia, Grecia, Italia e le stesse istituzioni comunitarie dopo Brexit e l’insediamento di Trump alla presidenza americana? Saprà la nostra patria comune ricompattarsi e reagire con un soprassalto di audacia visionaria al prevedibile cortocircuito tra gli egoismi nazionali o finirà impantanata in un quadro balcanico di protezionismi incrociati, xenofobie e reticolati? È curioso notare che già un secolo fa, nel 1917, l’Europa ha conosciuto una trasformazione drammatica, tale da alterarne l’identità e renderla irriconoscibile.  

L’inglese John P. Taylor, autore di una storia affascinante del primo conflitto mondiale, scrive che se nei primi mesi di quell’anno Napoleone fosse tornato in vita, nonostante i cannoni incomparabilmente più potenti rispetto a quelli di un secolo prima e la visione apocalittica di milioni di uomini-ramarri immobili nel fango delle trincee, non avrebbe trovato nulla che non fosse in grado di comprendere. Stesse potenze in campo, stesse dinastie in lotta per l’egemonia, stesse rete di zar, re e imperatori, stessa centralità dell’Europa nei destini mondiali.

Se invece Bonaparte — scrive Taylor — fosse tornato in vita alla fine di quello stesso anno, sarebbe rimasto senza parole. Si sarebbe trovato di colpo davanti alla fine della storia d’Europa e all’inizio in grande stile della storia mondiale. A un’estremità del globo avrebbe visto trionfare il bolscevismo, ideologia utopica mai vista prima; all’altro capo del mondo avrebbe assistito all’ingresso in guerra degli Stati Uniti, potenza capace di eclissare tutte le altre messe insieme, con tramonto definitivo del Vecchio Continente. Avrebbe anche assistito al trionfo irreversibile della guerra come macchina e come business, guerra che diventa parte integrante dell’economia, non più la sua totale antitesi.

Certo, gli storici sanno che il salto di qualità è già avvenuto nel 1914. È allora che l’Europa mostra la sua fisiologica propensione al suicidio e si getta nel baratro nel momento del suo massimo fulgore economico, senza rendersi conto delle conseguenze dell’atto. È allora che governi imbecilli mandano a picco un’unione per molti aspetti già fatta, ricca di una formidabile rete bancaria e ferroviaria e di un network di commerci perfettamente integrati grazie alle Borse, ai telex e alla navigazione a vapore. Ma è nel 1917 che il mondo di ieri definitivamente collassa. È allora che finisce il tempo delle riverenze, dei walzer e della Sachertorte, e si spalanca quello dei totalitarismi, dei grandi fratelli e di una propaganda di massa fatta di slogan brevi e brutali. È soprattutto allora che il soldato-contadino, figlio di una piccola Heimat, si trova, come scrive Walter Benjamin, sbattuto col suo corpo inerme in un mondo dove tutto è mutato “tranne le nuvole”.

Cent’anni dopo, nel 2017, ci troviamo nuovamente sull’orlo di un salto nel buio. Stati Uniti che si chiudono a riccio, possibile ridimensionamento della Nato, avvicinamento fra Mosca e Washington con conseguente divisione dell’Europa in sfere di influenza, potenze circostanti che, a partire dalla Russia, fiutano avidamente il nostro vuoto politico con una voglia matta di riempirlo anche a costo di riaprire linee di faglia dormienti a cominciare dai soliti Balcani. Se a questo aggiungiamo il terrorismo islamista e la marea dei profughi, è chiaro che «l’Europa sarà chiamata a una prova cruciale », come conveniva con me giorni fa in un caffè di Trieste, il politologo americano Robert D. Kaplan, autore di “ Monsoon” e del grandioso “ The revenge of geography”.

Il quadro possibile è scoraggiante. Inghilterra che esce di scena, Scozia che dichiara la secessione, le due Irlande costrette a separarsi con un muro, la Francia che piccona i pilastri del suo laicismo in funzione anti-islamica, lanciando i lepenisti al potere e facendo in definitiva il gioco del Terrore. E poi la Turchia, sommersa di tensioni, che ci scarica milioni di profughi scatenando una reazione a catena di xenofobie nei Paesi dell’Est. E l’Italia, resa ingovernabile dai populisti del web, col razzismo che vola nella rete con parole d’ordine estreme cui nessuno osa contrapporre nulla. E la Germania, che si chiude a riccio e perde il suo ruolo di guida, e magari — perché no — il separatismo catalano che si riaccende in un generale “si salvi chi può”.

Sullo sfondo, una mutazione semantica impressionante: il definitivo svuotamento di senso della parola “Europa”, termine che non emoziona più nessuno, e ciò a fronte di una leadership incapace di serrare le file ed esprimere un linguaggio forte, alternativo a quello del disfacimento. Tutto è davvero possibile. Karl Kraus, negli anni Venti, parlò dello stato di sonnambulismo in cui si trovava l’Europa alla vigilia della Grande Guerra. Facce da clown, disse, recitarono un copione da tragedia. Immagine perfetta anche per descrivere i populisti di oggi.

È meglio pensarci, a tutto questo, per evitare il peggio. È meglio preoccuparsi che crogiolarsi nell’incoscienza. Tutte le volte che metto le mani in tasca e ne tiro fuori spiccioli di euro mi commuovo. Li guardo luccicare nel palmo della mano e penso che Paesi ieri in guerra oggi sono inquilini della stessa Unione. Ma subito dopo ho paura. Non vedo negli europei la coscienza del miracolo che hanno vissuto negli ultimi settant’anni di non belligeranza, in un continente segnato da sempre dal sangue di milioni di uomini. E allora penso alla vecchia Jugoslavia, di cui nessuno immaginava il disfacimento. E quando sento dire «Ti ricordi la vecchia Jugo?», magari con un pizzico di insana nostalgia del vecchio mondo bipolare, allora penso che non vorrei trovarmi a sentire, tra qualche tempo, parole simili sull’Unione.
Un dialogo del tipo: «Ti ricordi dell’Europa?». «Non era poi male la nostra vecchia casa comune». Non vorrei trovarmi a dire ai miei nipotini cose come: «Era bella l’Europa, bambini. Era bella e l’ho amata. Ma non so dirvi come ce la siamo lasciata scappare di mano».

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