Perché la saggistica in Italia
non trova gran spazio?
non trova gran spazio?
Articolo
di Gianluca Didino
(GIANLUCA
DIDINO è nato nel 1985 in Piemonte. I suoi
articoli sono stati pubblicati su IL, Studio, Nuovi Argomenti. Ha curato la
rubrica VALIS sul Mucchio Selvaggio e attualmente collabora con Prismo e
Doppiozero)
(N.B. = di alcuni nomi citati nell’articolo
presumibilmente non conosciutissimi forniamo brevissime indicazioni e
traduzioni)
Against
Everything (contro tutto) la raccolta dei saggi pubblicati da Mark Greif (giovane scrittore e critico culturale
americano) tra il 2004 e il 2015, si apre con una passeggiata lungo il Walden
Pond. Qui da bambino
l’autore veniva portato dalla madre a ripercorrere le tracce di
chi quel luogo l’aveva reso famoso: Henry David Thoreau, (filosofo,
scrittore e poeta americano dell’800) che nella sua opera più famosa
non si era stancato di ripetere che «le cose che le persone considerano
superiori sono spesso inferiori» e che «la spazzatura è un tesoro».
Dall’esempio del suo quasi concittadino illustre, Greif impara che «un
‘filosofo’ è una mente che non ha paura di essere contro tutto. Contro tutto
ciò che è corrotto, dubbio, snervante, non veritiero per noi, ingannevole per
la felicità». Thoreau,
che Greif considera «il pensatore più importante in assoluto»
per il proprio percorso, è anche la figura centrale della sua raccolta di
saggi: la sua presenza la apre, la chiude e fa da spartiacque tra le varie
sezioni di cui è composta. Il perfezionismo dello scrittore di Concord è lo
stesso del suo discepolo di Boston, un’opera di continua messa in discussione
dell’esistente misurata sul calibro della propria personalità. Come Thoreau anche Greif è un
pensatore radicale, ma non estremista: abbandona i sentieri conosciuti
per cercare un senso più profondo, ma non si allontana dalla civiltà tanto da
smettere di farne parte. Come per Thoreau, anche per Grief tornare
periodicamente in paese a raccontare la propria esperienza è parte integrante
del lavoro filosofico. Durante le passeggiate al Walden Pond «la conversazione
era il vero obiettivo di tutto, anche della solitudine e della lettura e del
pensiero». La maniera
in cui Mark Greif ha deciso di portare avanti questa
conversazione è senza dubbio eccezionale. n+1, la rivista (semestrale di cultura e politica) che ha
contribuito a fondare con Keith Gessen, Benjamin Kunkel, Chad Harbach, Allison
Lorentzen e Marco Roth è quasi un paradosso, una sfida alla fisica del mercato
editoriale: scritta da intellettuali insoddisfatti degli spazi angusti
dell’accademia, militante senza essere ideologica, votata alla critica seria
della cultura pop e capace di autofinanziarsi da più di un decennio, diventando
il faro della letteratura d’avanguardia nella New York post 11 settembre. Quasi un unicum, comprensibilmente,
nel panorama editoriale di inizio XXI secolo – ma un esempio che dovrebbe
essere seguito più spesso, come da qualche anno hanno iniziato a fare The New
Inquiry e Jacobin (altre
due riviste statunitensi al centro del dibattito culturale e politico
americano). L’inclinazione intellettuale che presuppone una
rivista come n+1 è resa possibile nella pratica solo da una rivista come n+1,
come nel proverbiale caso del gatto che si morde la coda: Greif e compagni
hanno fondato la loro rivista allo scopo di «pubblicare il tipo di letteratura
che non esisteva altrove», ma quella letteratura (nel nostro caso: i saggi
stessi di Mark Greif) non sarebbe mai esistita se non ci fossero state riviste
pronte a commissionare articoli
da 50.000 battute sui Radiohead (famoso gruppo roch di avanguardia) , la
storia degli hipster (tradotto
come "giovani anticonformisti" o " alternativi" indica
una cultura composta da giovani americani attenti soprattutto alla scena
musicale jazz e alla moda) o l’ossessione per la sessualità
infantile, e naturalmente a pagare gli autori in modo consono. Quella che sembrava un’illusione
donchisciottesca si è rivelata una success story editoriale quando i fondatori
di n+1 hanno scoperto l’imponderabile: che il loro prodotto aveva un pubblico. Ovviamente bisogna calare le
esperienze nel tempo e nello spazio, e con i suoi fondatori che
hanno varcato le soglie della maturità letteraria (Keith Gessen, Benjamin
Kunkel e Chad Harbach sono tutti diventati romanzieri tra il 2005 e il 2011)
bisognerà vedere se n+1 riuscirà a mutare, lasciandosi alle spalle l’esperienza
degli anni di Occupy Wall Street (movimento
di protesta statunitense sorto dopo la crisi finanziaria del 2007/2008) , di cui
era diventata quasi l’organo ufficiale, per confrontarsi con le problematiche
dell’epoca Trump. E
alcuni dei saggi di Against
Everything sono tanto figli del proprio tempo
da risultare quasi asfissianti – come quando Grief, cresciuto in una famiglia
ebraica di umili condizioni sociali in un sobborgo di Boston, cerca di trovare
delle giustificazioni intellettuali per usare la parola “negro” mentre impara a
rappare nella metropolitana di New York, in una guerra senza speranza contro la
propria inclinazione al politically correct. Da un altro punto di vista, però,
un’esperienza come quella di n+1 sarebbe stata semplicemente impossibile in un
contesto diverso da quello anglosassone, che ha una sintonia con la forma del
saggio che la letteratura italiana, per ragioni storiche e culturali complesse,
non ha mai avuto. La sintonia che fa sì che nelle classifiche dei libri più
venduti dell’anno in US e UK ci siano sempre diverse raccolte di saggi e in
generale molta più nonfiction che in Italia, dove il romanzo continua imperterrito a trionfare. Storicamente
parlando, l’educazione al saggio è un lascito di quei paesi
dove la presenza di una rivoluzione liberale ha contribuito alla nascita di una
cultura dell’argomentazione: il saggio moderno nasce tra il XVI e il XVII
secolo – cioè nello stesso periodo del romanzo – come strumento di indagine
filosofica (Montaigne, Thomas Browne) per diventare un’arma politica durante
l’Illuminismo (Samuel Johnson, Voltaire). Per questo la diffusione del saggio
come forma letteraria ha presupposto per secoli una fiducia nella ragione e un
contesto socio-politico dove chiunque abbia il diritto di proporre la propria
visione del mondo – uno speakers’
corner (letteralmente ”angolo degli oratori”, sono
quegli spazi pubblici dove è uso radunarsi per sentire oratori improvvisati, è
famoso è quello di Hyde Park a Londra) di
qualche natura. Negli
Stati Uniti il saggio come forma letteraria ha prodotto alcuni
dei testi più rilevanti degli ultimi cinquant’anni, dal New Journalism di
Hunter S. Thompson e Joan Didion ai reportage narrativi di John McPhee, dalla
critica culturale di Susan Sontag a quella musicale, fino ad arrivare all’ondata post-2000 di quello che David
Shields considera «la forma privilegiata della scrittura del XXI secolo», il
personal essay. In Italia alcuni di questi autori sono stati riscoperti in
questi anni (Didion–Joan Didion,
scrittrice e saggista americana), e la creative nonfiction ha
un pubblico sufficientemente ampio da permettere la traduzione, seppure
parziale, di autori come Geoff Dyer, Teju Cole o Charles D’Ambrosio, o la
pubblicazione di classici del memoir come Stop-time
di Frank Conroy (tutti
giovani saggisti americani). Ma
una tradizione italiana non si è mai davvero sviluppata. L’esistenza di una
tradizione radicata, con ramificazioni chiaramente distinguibili e
commercialmente rilevanti, fornisce al mercato anglosassone una tolleranza
eccezionale alle idiosincrasie, e dunque una possibilità di produrre saggistica
più propriamente filosofica o comunque meno facilmente incasellabile (e quindi
meno vendibile) che in Italia sarebbe semplicemente inimmaginabile. È questa
resilienza che ha permesso a Virginia Woolf di scrivere saggi su una crepa nel muro o sulla morte di una falena, a George Orwell sull'esperienza di uccidere un
elefante, ad Annie
Dillard (scrittrice e saggista americana) sull'eclisse solare, a John McPhee (saggista americano) sul Monopoli, a David Foster
Wallace sul destino
delle aragoste, a Maggie Nelson (giovane saggista americana) sul colore blu.
Oppure che permette a una meravigliosa narratrice come Marylinne Robinson (scrittrice e
saggista americana, alcuni suoi libri e saggi sono pubblicati in Italia)
di scrivere libri di saggi sulla grazia cristiana e il lascito del pensiero calvinista. Questo, più che tutto il resto, è il tipo di saggio di cui abbiamo bisogno – e quello di cui in Italia siamo
quasi del tutto sprovvisti: la saggistica come operazione filosofica sollevata
dall’ossessione dei filosofi di scavarsi un posto nella storia della propria
disciplina. Pochi generi letterari possono permettersi di mettere in
discussione l’esistente con tanta libertà, precisione e trasversalità
comunicativa. Vedo tre
fattori che ne frenano la diffusione in Italia. Il primo è che
questo tipo di scrittura presuppone un atteggiamento radicale nei confronti
della realtà, e questo in Italia significa un tipo di militanza partitica o
programmaticamente apartitica. n+1 è una rivista apertamente militante: è stata
la voce intellettuale di Occupy Wall Street, come dicevamo, e si è espressa
spesso a favore dell’amministrazione Obama. Ma il tipo di militanza che
traspare dagli articoli di n+1 è più una scelta di campo presa in partenza che
una dichiarazione di fedeltà a un movimento o a un’area politica. «Per me»,
dice Greif proprio nel saggio sul rap, «l’unica vera domanda politica è ‘Da che
parte stai?’ e ogni volta devo combattere per ricordarmi che tutto deriva da
questo». In Italia la
militanza culturale ha spesso significato un rifiuto, più che
una critica, dell’esistente: la costruzione di un sistema culturale parallelo
che interpreta il proprio rapporto con l’establishment solo in termini di
scontro. Questo ha portato ricchezza (la complessa galassia culturale
dell’autonomia, della stampa alternativa, dei centri sociali) ma anche
impoverimento (ad esempio il rifiuto fino a tempi recentissimi da parte di
certi ambienti di confrontarsi con la cultura pop, come ha spiegato Remo
Ceserani (Accademico
e critico letterario scomparso di recente)
nel suo Raccontare
il postmoderno. Il
secondo problema, come invece ha spiegato molto bene Francesco Guglieri
(editor per l’Einaudi
per la letteratura straniera, scrive sul blog MinimaMoralia) in un articolo apparso su Pagina 99, è la chiusura del sistema accademico
italiano nei confronti del più ampio mondo culturale di cui fa parte. In Italia
capita ancora raramente che autori accademici scrivano per un pubblico più
ampio, e quando questo avviene solitamente assume le forme della divulgazione
scientifica: una forma di insegnamento, più che di dialogo. La poca permeabilità tra i due mondi
crea una frattura: da un lato gli accademici sono costretti a
pubblicare solo all’interno dell’accademia per preservare la propria posizione
lavorativa in un contesto di risorse sempre più limitate. Dall’altro gli
scrittori che devono affidarsi alle logiche dell’editoria commerciale non sono
incentivati a produrre una saggistica che non troverebbe acquirenti nella
pianificazione a brevissimo raggio che contraddistingue il mercato editoriale
nell’epoca del declino del neoliberismo. Per entrambi i settori la causa del
problema è la stessa: la mancanza dei fondi (e dunque del tempo) necessari per
il lungo lavoro di ricerca e scrittura. Il terzo problema è appunto editoriale, e riguarda
in primo luogo le riviste, senza le quali la saggistica breve semplicemente non
esisterebbe. La situazione delle riviste italiane è migliorata in maniera
incommensurabile rispetto a dieci anni fa, quando ho cominciato a pubblicare i
miei articoli in un panorama ridotto in macerie dal passaggio dalla carta al
web: oggi ci sono
grande diversificazione, fondi per gli autori, progetti
editoriali innovativi e iniziative come il Premio Treccani Web – soprattutto,
c’è una nuova generazione di riviste che sta cominciando a colmare il gap tra
scrittura critica e scrittura giornalistica. E infatti un miglioramento nella
diffusione della saggistica tra il pubblico si può già notare: con l’ottima
accoglienza che sta ottenendo un libro come Americana
di Luca Briasco
(anche lui editor per l’Einaudi della collana Stile Libero), ad esempio, o con la pubblicazione dei reportage di
Daniele Rielli (giovane romanziere)
per Adelphi. Eppure resta da parte della maggioranza delle riviste
una resistenza nei confronti di un approccio più teorico, un’attitudine
giornalistica a rendere conto di una notizia anche laddove il termine “notizia”
viene inteso in maniera ampia (la pubblicazione di un libro, o un evento
politico). Anche qui, per ragioni più che comprensibili: gli articoli più brevi
si leggono meglio sul web, il longform in rete non ha ancora trovato una forma
veramente efficace di diffusione e il mercato è tale che gli esempi di successo
sopravvivono discretamente ma non possono permettersi margini di
sperimentazione. Così
gli esempi migliori di riviste di nuova generazione in Italia
sono stupendi archivi di frammenti di discorsi culturali, talvolta anche in
dialogo tra loro, o reticoli postmoderni di storie contemporanee. Ma gli
articoli che partono con l’intento di offrire un nuovo paradigma sono pochi, e
generalmente scritti da poche voci che si sono guadagnate il diritto di farlo
su prodotti editoriali non specificamente pensati per quello. Anche perché,
come ha scritto Vincenzo Latronico (anche lui giovane scrittore)in uno di questi articolii, il pubblico più ristretto di un testo
scritto in italiano comporta un guadagno minore per la rivista e per l’autore
che si traduce in articoli più brevi e più facilmente spendibili. Le ragioni per cui le riviste
privilegiano certi contenuti rispetto ad altri sono
comprensibili, dicevo, ma mi chiedo se non nascondano anche qualche forma di
pregiudizio: quello per cui gli articoli più lunghi e teorici non hanno
lettori, ad esempio, oppure, in maniera più sottile, l’idea che un approccio
critico sia poco al passo con i tempi frammentari e iper-accelerati di
internet. Potrebbe darsi che anche le nostre riviste scopriranno un giorno
quello che ha scoperto n+1 un decennio fa – che anche se sembra impossibile
questo tipo di letteratura ha un pubblico. Detto
questo è anche giusto guardare il presente con onestà e senza farsi
illusioni. Alcuni problemi, mi pare evidente, non sono superabili: non capiterà
nel futuro immaginabile che una fetta consistente di americani e britannici
impari l’italiano e il pubblico delle nostre riviste cresca in maniera
esponenziale. E forse ci vorranno ancora anni prima che l’editoria – da noi
come nel mondo anglosassone – trovi un modello economico più sostenibile e
redditizio. In altri ambiti, però, come la formazione di un pubblico per la
saggistica o un l’avvicinamento tra accademia e cultura pop, si stanno già
registrando buoni progressi. E io penso
che sia un’ottima notizia, perché di una saggistica critica e filosofica
che sappia fornire nuove chiavi di lettura della realtà abbiamo un disperato
bisogno. Il mondo intorno a noi sta cambiando rapidamente e interpretarne i
cambiamenti è diventata una necessità assoluta: potevamo permetterci di
ignorare la teoria ai tempi della fine della storia, quando credevamo che
niente sarebbe più accaduto tranne l’espansione senza limiti del libero
mercato. Non oggi che sappiamo quanto quella storia fosse illusoria. Quindi credo che dovremmo guardare fuori
dalla finestra, o andare in strada, e poi sederci a scrivere. E prenderci
il nostro tempo per raccontare come mai questa realtà non va bene – perché la
realtà non va mai bene. E dovremmo farlo parlando di Donald Trump (non ho trovato indicazioni
attendibili su questo nome) o dei panni stesi nel nostro giardino,
perché si può fare filosofia su qualsiasi cosa purché la si affronti con
l’intento di andare fino in fondo, senza fermarsi alle apparenze. Perché viviamo in un’epoca complessa e
siamo minacciati da populismi che a questa complessità vogliono sostituire una
storia bidimensionale. E saper contrapporre un’argomentazione razionale alle
chiamate ai forconi è forse l’insegnamento migliore che l’Occidente può
lasciarci, oggi che i suoi presupposti vengono così radicalmente messi in
crisi. Quando Greif dice che «la conversazione è il vero obiettivo di tutto»
dice qualcosa di fondamentale, ma se non vogliamo continuare a ripeterci le
idee generate dalla nostra filter bubble (letteralmente = bolla di filtraggio, è stata citata nel post che abbiamo
pubblicato recentemente sulle fake news, sulle bufale) dobbiamo assicurarci non solo
che questa conversazione esista, ma anche che valga la pena intrattenerla.
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