venerdì 17 febbraio 2017

Perché la saggistica in Italia non ha gran seguito? - Articolo di Gianluca Didino


Perché la saggistica in Italia
non trova gran spazio?

Articolo di Gianluca Didino


(GIANLUCA DIDINO è nato nel 1985 in Piemonte. I suoi articoli sono stati pubblicati su IL, Studio, Nuovi Argomenti. Ha curato la rubrica VALIS sul Mucchio Selvaggio e attualmente collabora con Prismo e Doppiozero)

(N.B. = di alcuni nomi citati nell’articolo presumibilmente non conosciutissimi forniamo brevissime indicazioni e traduzioni)

Against Everything (contro tutto) la raccolta dei saggi pubblicati da Mark Greif (giovane scrittore e critico culturale americano) tra il 2004 e il 2015, si apre con una passeggiata lungo il Walden Pond. Qui da bambino l’autore veniva portato dalla madre a ripercorrere le tracce di chi quel luogo l’aveva reso famoso: Henry David Thoreau, (filosofo, scrittore e poeta americano dell’800) che nella sua opera più famosa non si era stancato di ripetere che «le cose che le persone considerano superiori sono spesso inferiori» e che «la spazzatura è un tesoro». Dall’esempio del suo quasi concittadino illustre, Greif impara che «un ‘filosofo’ è una mente che non ha paura di essere contro tutto. Contro tutto ciò che è corrotto, dubbio, snervante, non veritiero per noi, ingannevole per la felicità». Thoreau, che Greif considera «il pensatore più importante in assoluto» per il proprio percorso, è anche la figura centrale della sua raccolta di saggi: la sua presenza la apre, la chiude e fa da spartiacque tra le varie sezioni di cui è composta. Il perfezionismo dello scrittore di Concord è lo stesso del suo discepolo di Boston, un’opera di continua messa in discussione dell’esistente misurata sul calibro della propria personalità. Come Thoreau anche Greif è un pensatore radicale, ma non estremista: abbandona i sentieri conosciuti per cercare un senso più profondo, ma non si allontana dalla civiltà tanto da smettere di farne parte. Come per Thoreau, anche per Grief tornare periodicamente in paese a raccontare la propria esperienza è parte integrante del lavoro filosofico. Durante le passeggiate al Walden Pond «la conversazione era il vero obiettivo di tutto, anche della solitudine e della lettura e del pensiero». La maniera in cui Mark Greif ha deciso di portare avanti questa conversazione è senza dubbio eccezionale. n+1, la rivista (semestrale di cultura e politica) che ha contribuito a fondare con Keith Gessen, Benjamin Kunkel, Chad Harbach, Allison Lorentzen e Marco Roth è quasi un paradosso, una sfida alla fisica del mercato editoriale: scritta da intellettuali insoddisfatti degli spazi angusti dell’accademia, militante senza essere ideologica, votata alla critica seria della cultura pop e capace di autofinanziarsi da più di un decennio, diventando il faro della letteratura d’avanguardia nella New York post 11 settembre. Quasi un unicum, comprensibilmente, nel panorama editoriale di inizio XXI secolo – ma un esempio che dovrebbe essere seguito più spesso, come da qualche anno hanno iniziato a fare The New Inquiry e Jacobin (altre due riviste statunitensi al centro del dibattito culturale e politico americano). L’inclinazione intellettuale che presuppone una rivista come n+1 è resa possibile nella pratica solo da una rivista come n+1, come nel proverbiale caso del gatto che si morde la coda: Greif e compagni hanno fondato la loro rivista allo scopo di «pubblicare il tipo di letteratura che non esisteva altrove», ma quella letteratura (nel nostro caso: i saggi stessi di Mark Greif) non sarebbe mai esistita se non ci fossero state riviste pronte a commissionare articoli da 50.000 battute sui Radiohead (famoso gruppo roch di avanguardia) , la storia degli hipster (tradotto come "giovani anticonformisti" o "alternativi" indica una cultura composta da giovani americani attenti soprattutto alla scena musicale jazz e alla moda) o l’ossessione per la sessualità infantile, e naturalmente a pagare gli autori in modo consono. Quella che sembrava un’illusione donchisciottesca si è rivelata una success story editoriale quando i fondatori di n+1 hanno scoperto l’imponderabile: che il loro prodotto aveva un pubblico. Ovviamente bisogna calare le esperienze nel tempo e nello spazio, e con i suoi fondatori che hanno varcato le soglie della maturità letteraria (Keith Gessen, Benjamin Kunkel e Chad Harbach sono tutti diventati romanzieri tra il 2005 e il 2011) bisognerà vedere se n+1 riuscirà a mutare, lasciandosi alle spalle l’esperienza degli anni di Occupy Wall Street (movimento di protesta statunitense sorto dopo la crisi finanziaria del 2007/2008) , di cui era diventata quasi l’organo ufficiale, per confrontarsi con le problematiche dell’epoca Trump. E alcuni dei saggi di Against Everything  sono tanto figli del proprio tempo da risultare quasi asfissianti – come quando Grief, cresciuto in una famiglia ebraica di umili condizioni sociali in un sobborgo di Boston, cerca di trovare delle giustificazioni intellettuali per usare la parola “negro” mentre impara a rappare nella metropolitana di New York, in una guerra senza speranza contro la propria inclinazione al politically correct. Da un altro punto di vista, però, un’esperienza come quella di n+1 sarebbe stata semplicemente impossibile in un contesto diverso da quello anglosassone, che ha una sintonia con la forma del saggio che la letteratura italiana, per ragioni storiche e culturali complesse, non ha mai avuto. La sintonia che fa sì che nelle classifiche dei libri più venduti dell’anno in US e UK ci siano sempre diverse raccolte di saggi e in generale molta più nonfiction che in Italia, dove il romanzo continua imperterrito a trionfare. Storicamente parlando, l’educazione al saggio è un lascito di quei paesi dove la presenza di una rivoluzione liberale ha contribuito alla nascita di una cultura dell’argomentazione: il saggio moderno nasce tra il XVI e il XVII secolo – cioè nello stesso periodo del romanzo – come strumento di indagine filosofica (Montaigne, Thomas Browne) per diventare un’arma politica durante l’Illuminismo (Samuel Johnson, Voltaire). Per questo la diffusione del saggio come forma letteraria ha presupposto per secoli una fiducia nella ragione e un contesto socio-politico dove chiunque abbia il diritto di proporre la propria visione del mondo – uno speakers’ corner  (letteralmente ”angolo degli oratori”, sono quegli spazi pubblici dove è uso radunarsi per sentire oratori improvvisati, è famoso è quello di Hyde Park a Londra) di qualche natura. Negli Stati Uniti il saggio come forma letteraria ha prodotto alcuni dei testi più rilevanti degli ultimi cinquant’anni, dal New Journalism di Hunter S. Thompson e Joan Didion ai reportage narrativi di John McPhee, dalla critica culturale di Susan Sontag a quella musicale, fino ad arrivare all’ondata post-2000 di quello che David Shields considera «la forma privilegiata della scrittura del XXI secolo», il personal essay. In Italia alcuni di questi autori sono stati riscoperti in questi anni (Didion–Joan Didion, scrittrice e saggista americana), e la creative nonfiction ha un pubblico sufficientemente ampio da permettere la traduzione, seppure parziale, di autori come Geoff Dyer, Teju Cole o Charles D’Ambrosio, o la pubblicazione di classici del memoir come Stop-time di Frank Conroy (tutti giovani saggisti americani). Ma una tradizione italiana non si è mai davvero sviluppata. L’esistenza di una tradizione radicata, con ramificazioni chiaramente distinguibili e commercialmente rilevanti, fornisce al mercato anglosassone una tolleranza eccezionale alle idiosincrasie, e dunque una possibilità di produrre saggistica più propriamente filosofica o comunque meno facilmente incasellabile (e quindi meno vendibile) che in Italia sarebbe semplicemente inimmaginabile. È questa resilienza che ha permesso a Virginia Woolf di scrivere saggi su una crepa nel muro o sulla morte di una falena, a George Orwell sull'esperienza di uccidere un elefante, ad Annie Dillard (scrittrice e saggista americana) sull'eclisse solare, a John McPhee (saggista americano) sul Monopoli, a David Foster Wallace sul destino delle aragoste, a Maggie Nelson (giovane saggista americana) sul colore blu. Oppure che permette a una meravigliosa narratrice come Marylinne Robinson (scrittrice e saggista americana, alcuni suoi libri e saggi sono  pubblicati in Italia) di scrivere libri di saggi sulla grazia cristiana e il lascito del pensiero calvinista. Questo, più che tutto il resto, è il tipo di saggio di cui abbiamo bisogno – e quello di cui in Italia siamo quasi del tutto sprovvisti: la saggistica come operazione filosofica sollevata dall’ossessione dei filosofi di scavarsi un posto nella storia della propria disciplina. Pochi generi letterari possono permettersi di mettere in discussione l’esistente con tanta libertà, precisione e trasversalità comunicativa. Vedo tre fattori che ne frenano la diffusione in Italia. Il primo è che questo tipo di scrittura presuppone un atteggiamento radicale nei confronti della realtà, e questo in Italia significa un tipo di militanza partitica o programmaticamente apartitica. n+1 è una rivista apertamente militante: è stata la voce intellettuale di Occupy Wall Street, come dicevamo, e si è espressa spesso a favore dell’amministrazione Obama. Ma il tipo di militanza che traspare dagli articoli di n+1 è più una scelta di campo presa in partenza che una dichiarazione di fedeltà a un movimento o a un’area politica. «Per me», dice Greif proprio nel saggio sul rap, «l’unica vera domanda politica è ‘Da che parte stai?’ e ogni volta devo combattere per ricordarmi che tutto deriva da questo». In Italia la militanza culturale ha spesso significato un rifiuto, più che una critica, dell’esistente: la costruzione di un sistema culturale parallelo che interpreta il proprio rapporto con l’establishment solo in termini di scontro. Questo ha portato ricchezza (la complessa galassia culturale dell’autonomia, della stampa alternativa, dei centri sociali) ma anche impoverimento (ad esempio il rifiuto fino a tempi recentissimi da parte di certi ambienti di confrontarsi con la cultura pop, come ha spiegato Remo Ceserani (Accademico e critico letterario scomparso di recente) nel suo Raccontare il postmoderno. Il secondo problema, come invece ha spiegato molto bene Francesco Guglieri (editor per l’Einaudi per la letteratura straniera, scrive sul blog MinimaMoralia) in un articolo apparso su Pagina 99, è la chiusura del sistema accademico italiano nei confronti del più ampio mondo culturale di cui fa parte. In Italia capita ancora raramente che autori accademici scrivano per un pubblico più ampio, e quando questo avviene solitamente assume le forme della divulgazione scientifica: una forma di insegnamento, più che di dialogo. La poca permeabilità tra i due mondi crea una frattura: da un lato gli accademici sono costretti a pubblicare solo all’interno dell’accademia per preservare la propria posizione lavorativa in un contesto di risorse sempre più limitate. Dall’altro gli scrittori che devono affidarsi alle logiche dell’editoria commerciale non sono incentivati a produrre una saggistica che non troverebbe acquirenti nella pianificazione a brevissimo raggio che contraddistingue il mercato editoriale nell’epoca del declino del neoliberismo. Per entrambi i settori la causa del problema è la stessa: la mancanza dei fondi (e dunque del tempo) necessari per il lungo lavoro di ricerca e scrittura. Il terzo problema è appunto editoriale, e riguarda in primo luogo le riviste, senza le quali la saggistica breve semplicemente non esisterebbe. La situazione delle riviste italiane è migliorata in maniera incommensurabile rispetto a dieci anni fa, quando ho cominciato a pubblicare i miei articoli in un panorama ridotto in macerie dal passaggio dalla carta al web: oggi ci sono grande diversificazione, fondi per gli autori, progetti editoriali innovativi e iniziative come il Premio Treccani Web – soprattutto, c’è una nuova generazione di riviste che sta cominciando a colmare il gap tra scrittura critica e scrittura giornalistica. E infatti un miglioramento nella diffusione della saggistica tra il pubblico si può già notare: con l’ottima accoglienza che sta ottenendo un libro come Americana di Luca Briasco (anche lui editor per l’Einaudi della collana Stile Libero), ad esempio, o con la pubblicazione dei reportage di Daniele Rielli (giovane romanziere) per Adelphi. Eppure resta da parte della maggioranza delle riviste una resistenza nei confronti di un approccio più teorico, un’attitudine giornalistica a rendere conto di una notizia anche laddove il termine “notizia” viene inteso in maniera ampia (la pubblicazione di un libro, o un evento politico). Anche qui, per ragioni più che comprensibili: gli articoli più brevi si leggono meglio sul web, il longform in rete non ha ancora trovato una forma veramente efficace di diffusione e il mercato è tale che gli esempi di successo sopravvivono discretamente ma non possono permettersi margini di sperimentazione. Così gli esempi migliori di riviste di nuova generazione in Italia sono stupendi archivi di frammenti di discorsi culturali, talvolta anche in dialogo tra loro, o reticoli postmoderni di storie contemporanee. Ma gli articoli che partono con l’intento di offrire un nuovo paradigma sono pochi, e generalmente scritti da poche voci che si sono guadagnate il diritto di farlo su prodotti editoriali non specificamente pensati per quello. Anche perché, come ha scritto Vincenzo Latronico (anche lui giovane scrittore)in uno di questi articolii, il pubblico più ristretto di un testo scritto in italiano comporta un guadagno minore per la rivista e per l’autore che si traduce in articoli più brevi e più facilmente spendibili. Le ragioni per cui le riviste privilegiano certi contenuti rispetto ad altri sono comprensibili, dicevo, ma mi chiedo se non nascondano anche qualche forma di pregiudizio: quello per cui gli articoli più lunghi e teorici non hanno lettori, ad esempio, oppure, in maniera più sottile, l’idea che un approccio critico sia poco al passo con i tempi frammentari e iper-accelerati di internet. Potrebbe darsi che anche le nostre riviste scopriranno un giorno quello che ha scoperto n+1 un decennio fa – che anche se sembra impossibile questo tipo di letteratura ha un pubblico. Detto questo è anche giusto guardare il presente con onestà e senza farsi illusioni. Alcuni problemi, mi pare evidente, non sono superabili: non capiterà nel futuro immaginabile che una fetta consistente di americani e britannici impari l’italiano e il pubblico delle nostre riviste cresca in maniera esponenziale. E forse ci vorranno ancora anni prima che l’editoria – da noi come nel mondo anglosassone – trovi un modello economico più sostenibile e redditizio. In altri ambiti, però, come la formazione di un pubblico per la saggistica o un l’avvicinamento tra accademia e cultura pop, si stanno già registrando buoni progressi. E io penso che sia un’ottima notizia, perché di una saggistica critica e filosofica che sappia fornire nuove chiavi di lettura della realtà abbiamo un disperato bisogno. Il mondo intorno a noi sta cambiando rapidamente e interpretarne i cambiamenti è diventata una necessità assoluta: potevamo permetterci di ignorare la teoria ai tempi della fine della storia, quando credevamo che niente sarebbe più accaduto tranne l’espansione senza limiti del libero mercato. Non oggi che sappiamo quanto quella storia fosse illusoria. Quindi credo che dovremmo guardare fuori dalla finestra, o andare in strada, e poi sederci a scrivere. E prenderci il nostro tempo per raccontare come mai questa realtà non va bene – perché la realtà non va mai bene. E dovremmo farlo parlando di Donald Trump (non ho trovato indicazioni attendibili su questo nome) o dei panni stesi nel nostro giardino, perché si può fare filosofia su qualsiasi cosa purché la si affronti con l’intento di andare fino in fondo, senza fermarsi alle apparenze. Perché viviamo in un’epoca complessa e siamo minacciati da populismi che a questa complessità vogliono sostituire una storia bidimensionale. E saper contrapporre un’argomentazione razionale alle chiamate ai forconi è forse l’insegnamento migliore che l’Occidente può lasciarci, oggi che i suoi presupposti vengono così radicalmente messi in crisi. Quando Greif dice che «la conversazione è il vero obiettivo di tutto» dice qualcosa di fondamentale, ma se non vogliamo continuare a ripeterci le idee generate dalla nostra filter bubble (letteralmente = bolla di filtraggio, è stata citata nel post che abbiamo pubblicato recentemente sulle fake news, sulle bufale)  dobbiamo assicurarci non solo che questa conversazione esista, ma anche che valga la pena intrattenerla.

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