Relazione
sulla conferenza
del
prof. Roberto Mordacci:
LA CONDIZIONE NEOMODERNA:
UN NUOVO PENSIERO PER L’EUROPA
Presentazione:
Dopo
aver ringraziato il numeroso pubblico, e in modo particolare gli studenti del
liceo Pascal - la cui presenza all’incontro è per CircolarMente un motivo di
grande soddisfazione - Massima Bercetti presenta il relatore che per le sue
molteplici competenze può davvero darci, su di un tema che ci sta molto a
cuore, quell’ampiezza di sguardo di cui oggi abbiamo particolarmente bisogno. Il
prof. Roberto Mordacci è infatti non solo docente di Filosofia morale
all’Università San Raffaele di Milano, e preside della Facoltà di filosofia, ma
è stato membro del Consiglio d’Europa per l’insegnamento della bioetica ed è
attualmente Direttore del Centro Internazionale per la cultura e la politica
europea. Da lui ci aspettiamo dunque di essere aiutati ad analizzare una
condizione, quella dell’Europa attuale, sicuramente critica e bisognosa di una
nuova prospettiva. Abbiamo infatti avuto occasione di trovare, in un suo
piccolo libro che però contiene a nostro giudizio delle grandi idee (“La
condizione neomoderna” – ed. Einaudi), un’interpretazione estremamente
interessante ancorché inconsueta di questa crisi. In esso infatti il prof
Mordacci istituisce una relazione fra la crisi dell’Europa attuale, interna
alla complessità del nostro tempo globalizzato, e quella che essa ha vissuto
fra il 1500 e il 1600, che era allora legata alla fine del mondo medioevale,
unitario e feudale, suggerendo a partire da questa analogia l’invito a
ripensare quel pensiero che in qualche modo è riuscito allora a reagire a
quella crisi. Non già, naturalmente, per restituirlo tale e quale – cosa del
resto impossibile, perché noi ci troviamo oggi in un contesto di
globalizzazione molto più ampio – ma di rilanciarne gli elementi di forza: quel
tipo di razionalità, quella rappresentazione positiva dell’autonomia come
elemento fondamentale di cittadinanza, che tanto ha saputo dare sul piano
istituzionale, politico e giuridico. Per questo come CircolarMente abbiamo
pensato che rivendicare quello sguardo, in questo tempo buio segnato da
sovranismi e tribalismi, potesse aiutarci in quel percorso di cittadinanza
consapevole che cerchiamo di proporre, nella speranza che ora come allora
l’Europa sappia reagire alle minacce che la sovrastano.
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1) Premessa:
Nella prima parte del suo intervento il
prof. Mordacci ha spiegato anzitutto i motivi che lo hanno indotto a cercare di
dare un nome al nostro tempo, nella persuasione che quelli in vario modo
utilizzati per definirlo non siano sufficientemente comprensivi di tutta una
serie di problemi, e che soprattutto non ci diano indicazioni valide per capire
chi siamo e in che direzione stiamo andando in questa nostra contemporaneità
così difficile e confusa. Da qui, il titolo del libro che fa riferimento
all’intuizione da cui si è mosso e che cercherà di articolare ora nel suo
discorso, mettendo al centro la riflessione sul ruolo e sul significato di
quell’Europa che a suo giudizio si presenta davvero come la chiave per capire
questa particolare condizione. Se infatti essa attiene in qualche misura
all’identità, per noi che facciamo parte di questa costruzione politica
sicuramente alquanto strana (l’unica,
anzi, nel suo genere, perché in effetti non è una federazione ma un’unione,
anche se ancora non si è capito bene che cosa questo possa davvero significare),
e che dunque dobbiamo necessariamente partire dall’Europa per stabilire come
muoverci in un orizzonte ormai globalizzato, non c’è dubbio che ci sia un
intero mondo, là fuori, che aspetta da quest’Europa da cui per lungo tempo è
stato dominato militarmente, economicamente e soprattutto culturalmente una
parola forte, una presa di posizione sui grandi temi del nostro tempo. Capire
dove ci troviamo oggi, secondo il prof. Mordacci, significa prima di tutto chiederci
dove si trova l’Europa e in quale particolare condizione essa stia vivendo. Da
qui, l’asse centrale del testo che è emerso da queste riflessioni e che pone
come elemento caratterizzante l’idea che sia possibile fare alcune analogie fra
il momento storico attuale, segnato da una crisi profonda, e quello in cui
l’Europa si è trovata a vivere nella sua prima modernità (intendendo con questa espressione il periodo storico che va grosso
modo dalla seconda metà del 1400 al 1600).
2) La critica al “postmodernismo”:
Di questa analogia, il relatore intende dare
più ampi ragguagli nel prosieguo del
discorso, aprendo anzitutto una
parentesi importante su di un tema - la
critica al cosiddetto “postmodernismo” - che in effetti occupa tutta la prima
parte del testo e ne rappresenta il bersaglio polemico, per via dell’idea, da
esso sostenuta, che la modernità europea sia definitivamente finita, che il
tentativo da essa compiuto di incasellare il mondo intero secondo le sue
categorie - la razionalità, il soggetto, i diritti dell’individuo - non abbia
prodotto che violenza e che occorra dunque rinunciare a questo sogno e insieme
all’idea che la storia debba assumere necessariamente una direzione di
progresso morale (“le magnifiche sorti e
progressive” di leopardiana memoria). Una diagnosi, quella posta dalla corrente
culturale del postmodernismo, che ha avuto lungo corso: tutti noi sicuramente
abbiamo già incontrato, se non direttamente questo termine, autori che hanno
assunto questa posizione (pensiamo per
esempio ad un sociologo celebre come Zygmunt Bauman, che ha interpretato la
contemporaneità in chiave postmoderna coniando la felice metafora della
modernità “liquida”, intesa a sintetizzare la condizione di spiazzamento e di
frantumazione del soggetto in un mondo segnato dalla perdita di punti di
riferimento stabili, per cui il tempo sembra scorrere senza confini). Siamo
dunque lontanissimi, in questo orizzonte concettuale, da uno dei cardini della
modernità che ha nella certezza dell’esistenza del soggetto – il “cogito”
cartesiano – il suo più decisivo appiglio, da cui si dipanano poi gli altri
punti solidi a cui secondo gli interpreti del postmodernismo occorre ormai
rinunciare, senza averne particolare nostalgia perché essi sono già stati
condannati e respinti dalla storia. Una modalità di pensiero rispetto alla
quale il relatore esprime il più netto dissenso, non solo perché è fondata a suo giudizio su di un
fraintendimento del percorso storico della modernità, che viene unificato in un unico blocco (mentre ci sono stati in essa fasi diverse segnate da una forte
discontinuità, in cui l’idea del progresso ha subìto torsioni significative),
ma soprattutto perché questo tiro al bersaglio contro ogni idea che si sia
affacciata alla coscienza moderna ha avuto esiti inquietanti che nel testo
vengono analizzati in modo diffuso e su
cui il relatore darà comunque nel corso dell’incontro alcuni ragguagli significativi. Entrando ora più
nel dettaglio, il relatore spiega che il termine “postmoderno” si affaccia
negli anni trenta del novecento non direttamente in
ambito filosofico, bensì nella critica letteraria – soprattutto quella di
matrice latino-americana - venendo ad indicare uno stile di scrittura che non è
più connotato dalla forma tradizionale del romanzo, imperniato in genere sulla
centralità di un protagonista e in cui lo svolgimento delle vicende ad esso
afferenti pervade l’intero arco narrativo. Cominciano infatti a prevalere altre
modalità di scrittura in cui la storia si fa corale, l’unità compositiva si
spezza e la differenza fra centro e periferia non è più così netta:
Pensiamo,
dice il relatore, alla Recherche proustiana: benché il narratore sia sempre Marcel
– peraltro non del tutto sovrapponibile all’autore stesso - ci sono parti del
testo in cui l’io narrante quasi scompare, per fare posto ad altri personaggi
(Swann, Albertine, che a loro volta appaiono e scompaiono), mentre lo stesso
Marcel è presentato ora come bambino, ora come adulto o anziano; ad un autore
centrale nel primo novecento italiano come Pirandello, che concentra tutta la sua produzione letteraria
sulla dispersione del soggetto, sulle maschere che esso indossa risultando alla
fine inconoscibile anche a se stesso – uno, nessuno o centomila come Peer Gynt,
lo straordinario protagonista di una pièce teatrale di Ibsen che nelle diverse
identità in cui si trova ad agire ad un certo punto dice di se stesso “io sono
una cipolla”, con ciò intendendo che è possibile sfogliarlo strato dopo strato
senza trovarne il nucleo centrale… Questa posizione culturale passa poi
nell’ambito filosofico attraverso alcuni autori, in particolare Jean-Francois
Lyotard: esce per l’appunto nel 79 quello che può essere considerato il
manifesto del postmodernismo (“La condizione postmoderna”), che si
presenta come un resoconto, e insieme come un atto d’accusa contro i
presupposti della modernità europea e quelli che vengono intesi come i “deliri
di onnipotenza” della ragione cartesiana. La storia meravigliosa che la
modernità ha inteso raccontare, osserva infatti Lyotard – una storia in cui il
soggetto ha raggiunto via via la propria emancipazione grazie alla razionalità
- non è altro che una narrazione che essa fa su di sé e che ha dimostrato nel
corso del novecento tutta la sua debolezza, non riuscendo in alcun modo ad
evitarne le tragedie e che ora possiamo dunque considerare come definitivamente
tramontata in entrambe le versioni che
si è data, quella scientifico emancipativa di stampo illuministico e quella più
specificatamente politica, confluita nello storicismo e nell’idealismo.
3) Le grandi “narrazioni” della modernità:
Su queste due versioni il relatore apre un’
importante parentesi, seguendo la traccia di Lyotard ma mostrando di intenderle
in modo assai diverso: non cioè come narrazioni al tramonto, mancanti ormai di
ogni legittimità, ma come linee di pensiero che nonostante gli errori che ad
esse si possono imputare (l’aver spesso
dato vita a sistemi chiusi e riduzionisti, riconducendo il reale ad un solo
principio e dimenticando la valenza critica di ogni procedimento) non solo
non vanno abbandonate ma sono da riprendere e da rivitalizzare profondamente,
attualizzandole. Vediamole ora più in dettaglio. Noi abbiamo da un lato, spiega
il prof. Mordacci, il racconto di un’emancipazione del soggetto che rifiutando
ogni dogmatismo e ogni indebito principio di autorità prende in mano le redini
della conoscenza, facendosi scienza a partire dalle “sensate esperienze” galileiane, dal metodo scientifico razionale di
Bacone, dai cartesiani pensieri “chiari e
distinti”: una narrazione che in linea ideale ci conduce all’illuminismo, o
perlomeno a quella parte di esso che fa della liberazione dall’ignoranza e
dalla superstizione il proprio vessillo. Dall’altro lato, e accanto a questo,
c’è un racconto che scorre in un certo senso parallelo rimandando però più
specificatamente al corpo politico e morale della società: un racconto
altrettanto emancipativo, che si delinea nel momento in cui l’uomo
medioevale comincia ad avere fiducia nella propria capacità di autodeterminarsi
senza la protezione di un ordine rivelato e consacrato. C’è naturalmente una
lunga storia anche dietro a questo sviluppo del pensiero e dell’azione
politica, che in filosofia trova in Hobbes un punto di partenza importante, per
quanto segnato da una sorta di paradosso che il relatore mette bene in
evidenza, ricostruendo il punto centrale del suo discorso: Come molti dei presenti certo ricordano, la proposta filosofico –
politica di Hobbes muove dalla considerazione che nello stato di natura vige il
diritto di tutti su ogni cosa, per cui ciascuno si sente autorizzato ad usare
tutta la sua potenza e la sua forza per appropriarsi di ciò che desidera, spinto
da un istinto naturale insopprimibile. Questo genera peraltro una situazione di
guerra generalizzata in cui ciascuno è lupo agli altri uomini (“homo hominis
lupus”) e da cui si può trovare scampo solo se dal diritto naturale si accede
alla “legge naturale”, intesa a sottrarre gli uomini al potere distruttivo
degli istinti offrendo a tutti una relativa sicurezza attraverso un “pactum
unionis”, cioè un contratto fra individui (una proposta dunque che è stata
recepita allora come profondamente “atea”, nonostante gran parte del testo in
cui Hobbes la espone – Il Leviatano – sia dedicata a Dio e alla Chiesa, perché
in effetti l’autorità del patto non viene fatta derivare in alcun modo dalla
divinità). Certo, osserva il relatore, il pensiero di Hobbes non può che
dare origine ad un paradosso, dal momento che il “pactum unionis” diventa immediatamente dopo essere stato formulato
un “pactum subiectionis”, in quanto
il potere viene delegato, sia pure per libera scelta dei contraenti, ad un
sovrano assoluto che per garantire la pace riunirà in sé ogni forza e potere. Resta
comunque un punto di partenza imprescindibile nel cammino di emancipazione della modernità,
perché porta con sé l’assunto che il potere politico può determinarsi
attraverso un accordo fra individui. Non è poco: questo cammino infatti cresce
nel tempo, e sarà segnato via via da
conquiste fondamentali (pensiamo, per
fare un esempio, all’enorme valore storico -politico della pace di Westfalia
che chiuderà nel 1648 il periodo drammatico delle guerre di religione,
riuscendo a dare vita ad un mondo dove si poteva finalmente convivere pur
appartenendo a fedi diverse…) che ci porteranno progressivamente
all’acquisizione di diritti politici, sociali e culturali attraverso il diverso
snodarsi e fondersi di queste due strade
che rappresentano, a giudizio del prof. Mordacci, un portato della modernità il
cui fulcro è ancora sostanziale e che tocca a noi ripensare, riattivandolo e
completandolo, perché davvero molto resta
ancora da fare.
4) L’Europa ad un bivio:
E’ una partita drammatica, quella che il relatore delinea, e che ci chiama direttamente in causa. Non c’è
scampo, infatti: è sua ferma convinzione che se non ci mettiamo in
quest’ottica, se non prendiamo atto di trovarci oggi in una condizione assai
simile a quella che l’Europa ha conosciuto in quella sua prima modernità
funestata da guerre di religione e dogmatismi di ogni sorta, possiamo davvero
perdere questa partita smarrendo con essa il significato profondo dell’essere
europei che la nostra storia ci racconta. Non possiamo dunque che provare ad
attivarci come fecero allora nel campo della scienza, della filosofia,
dell’arte, fissando quei punti da cui non possiamo e non vogliamo recedere: il
riconoscimento della dignità individuale, il dovere del rispetto per
l’autonomia personale, l’affermazione del valore dell’uguaglianza e della
solidarietà …E’ convinto, il relatore, che questo e solo questo sia il vero
destino dell’Europa: ripensare questi valori, non già nostalgicamente ma
ricordando che già una volta li abbiamo assunti come specificatamente nostri. Non
c’è infatti nulla di scontato, in essi, nulla che si possa dare per
definitivamente acquisito, soprattutto ora che pur non essendo del tutto disarmati siamo
immersi in un mondo Altro che pare non riconoscere questi principi come base
per la convivenza umana. Per questo il prof. Mordacci sostiene che occorre
ripensarli da capo, prendendo atto che dire “modernità” non è dire certezze,
stabilità e riposo ma porre la parola “crisi” come il suo elemento costitutivo:
moderno, in quest’ottica, è lo stato di permanente critica dell’esistente, è la
capacità di acconciarsi minuto per minuto ad individuarne le crepe, a
rinsaldarle, a riscrivere il disegno di un ordine che non viene percepito come
immutabile, bensì come modificabile. Riconoscere, certamente, che alcune strade
le abbiamo percorse male: è vero che non siamo stati capaci di evitare i
totalitarismi del novecento, è vero che abbiamo creato spesso sistemi di sapere
chiusi che non ci hanno portato da nessuna parte, ma le basi che ci eravamo dati
potevano anche condurci in direzioni più positive e questi esiti perversi non erano obbligati.
POSSIAMO DAVVERO ATTIVARCI IN QUESTO SENSO?
Sì, secondo il relatore, purché noi si sia
persuasi che sia possibile farlo, purché non si perda la speranza di un futuro non
necessariamente ripiegato in un inesorabile declino. Quella che ci attende è
una sfida che il prof. Mordacci ha voluto espressamente definire “neomoderna”, perché se invece ci
dichiariamo “postmoderni”, come siamo
stati tentati di fare fino ad ora, non ci sono più spazi per la parola, il
pensiero e l’azione, ci resta solo l’arrenderci all’idea della fine della
storia e con essa la fine della nostra civiltà europea. Dobbiamo invece secondo lui assumere la neomodernità come il nostro vero compito, che ci impone una responsabilità
assoluta e per noi europei definitiva. Se vogliamo davvero essere eredi della
parte migliore della nostra storia, dovremmo infatti come Europa pronunciare
parole come queste: “Sono pronta a perire, piuttosto che rinunciare a quei
valori che io stessa ho contribuito potentemente a formulare; dovete davvero
conquistarmi e distruggermi, perché non mi arrendo all’esistente”. E se invece
il nemico viene dall’interno, bisognerà trovare gli anticorpi: l’Europa
deve salvarsi non solo da ciò che Europa
non è, ma anche da se stessa… O ne usciremo bene, o non ne usciremo affatto. E’
con queste parole che il relatore chiude un intervento molto intenso,
esprimendo dal canto suo la forte speranza che sia possibile, nonostante tutte
le difficoltà, uscirne bene.
DIALOGO
CON IL PUBBLICO
Nella seconda parte della conferenza il
prof. Mordacci apre al dialogo con il pubblico, da cui viene in prima battuta
una richiesta di chiarimento sul percorso storico-filosofico che può aver
condotto all’attuale “esondazione” del principio di volontà rispetto alla
ricerca della verità (N.B. = daremo
ragione della sua ampia risposta in uno spazio apposito, perché essa ha
costituito sicuramente un motivo di particolare interesse per i molti studenti che
hanno partecipato all’incontro). Presentiamo invece qui brevemente,
riassumendoli, gli altri temi che via via vengono proposti e che attengono a
vari aspetti problematici della nostra contemporaneità:
Nuove rivoluzioni?
Il
primo tema su cui il relatore viene
sollecitato riguarda l’idea, formulata di recente da Alessandro Baricco nel suo
molto pubblicizzato “The game”, che la navigazione in rete come forma di
conoscenza orizzontale, dinamica e leggera, utilizzata dalle nuove generazioni
come forma principale di conoscenza, rappresenti una sorta di “liberazione”
dagli eccessi di verticalità e di
gerarchizzazione del sapere che si sono rivelati, sempre secondo questa interpretazione, alquanto inabili a
contrastare le derive autoritarie del novecento, e pertanto sia da intendere come una positiva presa in carico della propria
formazione. Si può parlare davvero in quest’ottica della rivoluzione digitale? Questa
la domanda a cui il prof. Mordacci risponde – senza entrare nello specifico del
testo indicato - ponendo alcuni
“paletti” rispetto a questa interpretazione e riflettendo in primis
sull’ambiguità stessa del termine “rete” in cui l’elemento connettivo e
funzionale scorre parallelo a quello chiuso e ingabbiante; innesta poi su
questa riflessione alcune osservazioni che attengono ad altre possibili
distorsioni che si stanno rendendo ora sempre più evidenti (basta un algoritmo
ben fatto – per fare un esempio – perché
altri possano conoscere e utilizzare a loro vantaggio non solo la nostra
eventuale propensione a certi consumi, ma soprattutto le nostre intenzioni di
voto su piattaforme digitali rispetto alle quali molte interferenze diventano
possibili).
Un dominio a cui sottrarsi:
Un
secondo intervento richiama invece il tema della paura, che sembra davvero
dominare il nostro tempo. Un sentimento che secondo il relatore ancora non sappiamo
bene come recepire ed elaborare in forma costruttiva, evitando che esso si
traduca inevitabilmente in rabbia e violenza facendoci agire in modo dissennato
e creando comodi capri espiatori su cui rovesciare il male che ci sentiamo
dentro, con una reazione scomposta e alla fine autolesionistica. Non a caso il
gruppo di ricerca che il prof. Mordacci coordina ha deciso di dedicare il
prossimo workshop europeo alla paura e in generale a quelle che vengono
definite “negative emotions”, per cercare di evitare (come fa notare molto
opportunatamente un’altra interlocutrice) che ancora una volta si ricorra alla
non poi così astuta proposta di Hobbes, per tirarcene fuori…Su questo tema il relatore
suggerisce la lettura di un testo che può essere a suo giudizio importante per
le nuove generazioni (“L’epoca delle passioni tristi”, di Gèrard Schmith e Miguel Benasayag), anche se
in realtà – se teniamo conto di quanto diceva Spinoza, grande analista delle
passioni, per cui le passioni tristi
sono quelle che ci fanno sentire impotenti – la paura non rientrerebbe in esse,
essendo invece al contrario una passione che ci fa reagire, purtroppo spesso a
torto.
Principi da maneggiare con intelligenza:
Apparentato
con quest’ultimo tema è sicuramente quello dell’utilizzo di un principio su cui il relatore è invitato ad esprimersi:
il cosiddetto “principio di precauzione”. Esso ci impone, come sappiamo, di
valutare attentamente e costantemente in ogni campo i rischi possibili delle
nostre azioni non solo al presente, ma prevedendone con lungimiranza l’impatto
futuro (pensiamo, per fare un riferimento di stretta attualità, al caso delle
due gemelline cinesi il cui DNA pare sia stato modificato per renderle immuni
ad una particolare patologia, senza che sia ben chiaro se questo indurrà altre
modifiche trasmettendosi per via ereditaria). Al di là di questo caso specifico
veramente discutibile, il prof. Mordacci non è convinto che sia sempre saggio
farsi dominare da questo principio, che se portato all’estremo rischia di
paralizzare ogni azione. Il rischio zero non esiste, e se pure il “principio
responsabilità” teorizzato negli anni 70 da Hans Jonas deve sempre guidarci,
bisogna necessariamente considerare che ogni scelta è per sua natura
problematica. Ci sono decisioni che la classe politica è chiamata a compiere
(il prof. Mordacci non esita a fare riferimento a temi che sono certamente
assai “sensibili”, come la TAV e i vaccini) rispetto alle quali la cosa davvero
fondamentale, a suo giudizio, deve essere l’onestà intellettuale di chi è
tenuto ad esplicitare correttamente, alla luce delle maggiori competenze che si
possono acquisire, le ragioni delle proprie scelte strategiche ( indicando
anche i rischi che derivano dal non fare, così che il principio di precauzione
non diventi mai l’anticamera di una irresponsabilità).
Filosofia e ambiente: un incontro mancato?
Sulle
questioni che si stanno insieme dipanando un ulteriore spunto viene offerto da
un altro interlocutore, che riprendendo il tema della paura cita l’Henry
Laborit de “L’elogio della fuga”, osservando come le reazioni animali al
pericolo siano sostanzialmente di tre tipi (l’aggressione, l’immobilità, la
fuga). La domanda peraltro è intesa a sollecitare il relatore, proprio in
quanto filosofo – ben sapendo che uno dei temi su cui la filosofia si è sempre
interrogata è proprio il rapporto dell’uomo con la natura - ad
esprimersi sul tema dell’ambiente, o per meglio dire sul silenzioso inabissarsi
di questo tema nel dibattito pubblico. La citazione di Laborit offre intanto al
prof. Mordacci il destro di riportarci sul terreno filosofico anche a proposito
della paura, ricordando che l’eroe greco per antonomasia, Achille, non è certo
immune dalla paura ma non sempre adotta la stessa strategia di combattimento,
scegliendo a volte l’attacco, a volte la ritirata strategica, a volte la fuga.
Del resto non è stato proprio Aristotele a dirci che la virtù consiste nella
scelta del momento più opportuno per agire, per attendere, per ritirarsi? Oggi
abbiamo sicuramente bisogno di eroi in ogni campo, ma non degli sconsiderati
che si lanciano contro qualunque cosa: servono bensì delle persone che sappiano
capire bene quando arretrare e quando avanzare. Questo è vero in maggior
ragione per quanto riguarda l’ambiente, su cui la filosofia non ha mai smesso
di riflettere con risultati che il prof. Mordaci giudica concettualmente
notevoli, anche se forse è rimasta un po’ ai margini del discorso pubblico
(cosa che non è sempre un male, osserva scherzosamente, perché essa può essere
e spesso è stata il perno di ideologie disastrose…). Non c’è dubbio peraltro
che nel dibattito politico il discorso ambientale si sia un po’ appannato, e
che i partiti tradizionalmente “verdi” non riescano oggi ad intercettare
segmenti significativi dell’opinione pubblica, perlomeno da noi (sappiamo che
in Germania hanno invece avuto un avanzamento significativo, ma il contesto era
diverso). Uno dei motivi può essere a suo giudizio individuato nel fatto che
questo tema è oggi di tale complessità da richiedere un approccio globale, ma bisogna
anche segnalare che la cosiddetta sindrome B.I.M.B.I (“ovunque, ma non nel mio
giardino”) si è così estesa da diventare il più radicale “in nessun giardino”.
Ora è chiaro secondo il relatore che se io, di ogni singolo provvedimento, vedo
solo il pericolo, se non so intervenire su temi ambientali in senso propositivo
e innovativo, permetto che si affermi l’idea che essere ambientalisti sia solo
essere “contro”, mentre l’ambiente è non solo titolare di diritti ma luogo in
cui si deve esercitare una corresponsabilità rispetto alla vivibilità del
pianeta.
Relazione
a cura di Enrica Gallo, per conto di “CircolarMente”