Il
“saggio” del mese
DICEMBRE 2018
La grande
alienazione,
Narciso, Pigmalione, Prometeo e il
tecno-capitalismo
di Lelio Demichelis (Docente di Sociologia economica
Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria)
«Poesia
è rifare il mondo,
dopo il discorso devastatore
del mercadante»
poesia di David Maria Turoldo, citazione di esordio del saggio
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Le riflessioni che crediamo di aver
sollecitato nelle conferenze e nei seminari dedicati ai possibili “futuri”, che
sembrano presentare in pari misura opportunità coinvolgenti e scenari
preoccupanti, implicano necessariamente due ineludibili domande. La prima è
relativa a capire quale uomo, in quanto protagonista individuale, e quale umanità,
in quanto protagonista collettivo, guardino verso questi futuri e si apprestino
a viverli. Si tratta cioè di far emergere le aspettative, i pregi e le problematiche,
in esso/essa condensate, che in qualche modo incideranno sulle decisioni e sui
percorsi verso i “futuri”. La seconda domanda è invece relativa, non tanto a capire
quali “interessi” possano incidere, la risposta è ovvia vivendo in una economia
di mercato, quanto piuttosto a meglio delineare le modalità ed i processi messi in atto da tali interessi per
configurare, a proprio vantaggio, i possibili futuri. Il saggio di Demichelis cerca di rispondere a queste domande, puntando in particolare l’attenzione
sull’uomo, sulla umanità, dell’Occidente. Lo fa guardando con attenzione
specifica a quella che ritiene essere una delle sue attuali caratteristiche
costitutive, l’alienazione, ”la grande alienazione”, convinto com’è che in
essa stia la risposta che realizza la congiunzione delle due domande. Lo fa
riprendendo, ed aggiornando, la categoria “classica” dell’alienazione,
innanzitutto nella sfera del lavoro, così come originariamente individuata
nell’analisi marxiana, poi ripresa ed ampliata nell’elaborazione della scuola
di Francoforte e nell’opera di Michel Foucault (si veda
al riguardo la “Parola del mese di Settembre 2018 – Reificazione”). Lo fa guardando con attenta e scientifica
attenzione alle vecchie e nuove alienazioni, alle vecchie e nuove fabbriche di
alienazione (la rete/piattaforme/social, l’industria culturale 2.0, ecc.). Lo
fa constatando che, se da una parte la tecnica offre una affascinante illusione
di individualità, libertà e creatività, e dall’altra il neoliberalismo impone,
però in modi spesso suadenti, l’imperativo del divenire “imprenditori di se
stessi”, è ben
facile che nessuno si senta, si percepisca come alienato. In realtà
l’alienazione, è tutt’altro che scomparsa, anzi, ma è molto ben mascherata dal sistema che attualmente la produce. Lo
scopo del saggio di Demichelis è quindi quello di provare a togliere la maschera al sistema e svelare le molte forme di
alienazione oggi esistenti: quelle che vanno appunto a comporre “La grande alienazione”
che caratterizza quindi a suo avviso l’uomo, l’umanità del ventunesimo secolo. Riportiamo qui di seguito, alcuni estratti dall’Introduzione del saggio
stesso, quelli che ci sono sembrati meglio riassumere, anticipandone il
rigoroso sviluppo fatto nei capitoli successivi, i temi specifici affrontati
nel saggio……………….
……………….Il
nuovo avanza a grandi passi, inarrestabile, magnifico, democratico, libertario,
individualista, postcapitalista, moltitudinario, soprattutto tecnologico.
Questo dicono le retoriche – lo storytelling, la propaganda, il determinismo
tecnico e neoliberale – di questi ultimi trent’anni. In verità i processi
tecnologici e capitalistici in corso producono effetti totalmente opposti
rispetto alle promesse, allo storytelling e alla propaganda…………………Ma è
sbagliato credere – per le macerie sociali, culturali,
antropologiche e politiche (compreso il populismo) che tecnica e neoliberalismo
lasciano dietro di sé – che ciò che abbiamo definito come tecno-capitalismo (2015) sia
in crisi o al tramonto. Continua infatti a produrre egemonia e dominio per sé, contro
la società, l’individuo e l’ambiente. Ma il tutto è ben mascherato dal
sistema stesso, posto che nessuno si ribella, nessuno cerca
alternative – anche il populismo è una merce politica funzionale al
tecno-capitalismo – e tutti si adattano alle
dinamiche del sistema e alle molte e apparentemente diverse forme di
alienazione che il tecno-capitalismo produce. Ma che appunto abilmente maschera per
sostenere e promuovere la propria infinita ri-producibilità………………..Alienazioni
che verranno analizzate in queste pagine grazie alle riflessioni di Michel
Foucault e rileggendo e aggiornando la Teoria critica
francofortese, ritornando nuovamente sui modi con cui il tecno-capitalismo ha
costruito la propria egemonia
e il proprio dominio……………………….Nessuna
tecnofobia; ma un
doveroso e necessario pensiero
critico applicato al capitalismo e soprattutto alla tecnica. Perché in verità
avremmo (abbiamo) un
disperato bisogno di fare innovazione etica, sociale, ambientale e politica; di
recuperare la capacità e le possibilità umane di immaginare altro dal
tecno-capitalismo. E invece siamo chiusi in una gabbia d’acciaio di
weberiana memoria, oggi divenuta virtuale ma concretissima nei suoi effetti
antropologici. O, altrimenti, rinchiusi in una caverna platonica dove le ombre sulla
parete sono la realtà virtuale (tecnologica e capitalistica) che il sistema crea per gli
uomini. Che ha fatto perdere agli stessi uomini il rapporto con la realtà
naturale, con il concetto di limite, con se stessi, con una idea di insorgenza o almeno
di resistenza
rispetto al potere tecno-capitalista……………………Una gabbia/caverna che
impedisce ogni progettualità di-versa da quella che impone
di assecondare invece un determinismo tecnologico e un sincretismo/animismo
uomo-tecnica per il quale solo l’innovazione tecnica ha valore e produce
risultati – e tutti devono quindi
essere innovativi in termini di tecnica e tecnologia e nessuno deve esserlo in
termini politici e sociali, etici e di responsabilità ambientale e sociale………..Siamo
confinati e limitati – individualmente e collettivamente – in un nuovo (e in un nuovismo
tecno-entusiasta, a
prescindere) che produce un discorso/immaginario collettivo ormai ricorsivo e tautologico: efficace
perché retorico e autoreferenziale, accattivante e motivante perché
individualizzante e attivante
nel profondo la psiche umana……………… È la nuova grande narrazione, più
potente di tutte quelle del passato – o il dispositivo tecno-capitalista
per portare l’uomo felicemente
verso l’asservimento totalitario alla tecnica e verso il post-umano. Il
massimo di (apparente) libertà e creatività individuale, per il
massimo di (concretissima) alienazione/reificazione e mercificazione
dell’individuo: è l’esproprio
tecno-capitalistico della
vita dell’uomo, delle sue emozioni, relazioni, socialità, responsabilità,
progettualità……………..Parole come new, smart, sharing, like, social, start-up sono ormai
costitutive di una neo-lingua che avevamo definito come Lingua Internet Imperii necessaria
a legittimare – ne produce la pedagogia sociale e i meccanismi di
veridizione, per dirla con Foucault – l’imper(i)o della tecnica e del capitalismo
neoliberale e a creare e a far accettare una totale dipendenza di ciascuno
dalla tecnica e la sua delega
totale alla tecnica e al discorso/immaginario collettivo che essa produce (così come gli
abitanti di Siviglia avevano delegato se stessi all’Inquisitore)…………………..Delega
alla tecnica che nasce da una tecnofilia antica e
necessaria all’uomo per sopravvivere (ieri), ma oggi divenuta tecnopatia. Nel
trionfo non dell’Antropocene
(la nuova era in cui sarebbe l’uomo la forza che determina l’ambiente),
ma del Tecnocene, dove è
cioè la tecnica a produrre l’ambiente in cui
l’uomo viene portato sempre più a vivere integrato e connesso, illudendolo di
essere un libero soggetto e non un oggetto ingegnerizzato
da tecnica e neoliberalismo. E a delegare appunto
alla tecnica ogni suo pensiero, comportamento, decisione e azione (è l’internet-centrismo secondo
Evgeny Morozov; è il totalitarismo
cibernetico secondo Paolo Zellini). La delega essendo la forma massima di
(auto)alienazione dell’uomo……………….Molte alienazioni, in verità: da sé
dell’uomo, dal suo ambiente sociale e naturale, dalla capacità di comprendere
il meccanismo organizzativo tecno-capitalista in cui è stato inserito prima a forza (prima e
seconda rivoluzione industriale) e poi in modalità soft/biopolitica; e
alienazione dallo spazio e dal tempo, dall’immaginazione, dalla sovranità e
dalla democrazia e dalla conoscenza, ormai trasformata in mera competenza e in un imparare facendo senza più
progettualità e senza senso, senza razionalità e senza responsabilità verso il
futuro……………….. Perché alienati – nel senso di Marx, ma non solo – sono i
lavoratori di Uber e quelli uberizzati nel capitalismo delle
piattaforme, gli amici che vivono
su Facebook e sui social, chi si è
fatto attore-comparsa nell’industria culturale dello spettacolare pulsionale integrato, i
cittadini non-più-cittadini perché desovranizzati da tecnica e neoliberalismo,
l’uomo portato a vivere in uno stato di mobilitazione incessante e totale di se
stesso in nome dell’innovazione tecnica e della competizione di mercato,
seguendo un leader e/o
vivendo in uno sciame-rete. …………………….E
allora, non di prima, seconda, terza e oggi quarta rivoluzione industriale
bisogna ragionare – la rivoluzione industriale è unica, sempre replicandosi il
suo doppio
movimento [prima suddividere e poi integrare/totalizzare le parti prima separate:
dalla fabbrica degli spilli di Smith alla catena di montaggio alla rete come
fabbrica il meccanismo è identico] – ma di fasi successive/accrescitive del
tecno-capitalismo (…). Ieri (prima fase), il
tecno-capitalismo si era basato essenzialmente sulla produzione (le prime
manifatture, ma soprattutto il fordismo e il taylorismo – la sua fase disciplinare, per
creare l’uomo
nuovo di cui necessitava e la cui identità era appunto legata al produrre). Esso ha
poi spostato (seconda
fase) il suo baricentro e la potenza della sua volontà di potenza al
consumo di massa e poi al consumismo. Infine, oggi esso si ri-costituisce come potenza del mondo
e come volontà
di potenza sul mondo (terza
fase della biopolitica tecno-capitalista), nel passaggio alla socializzazione
non solo della competizione ma dell’innovazione tecnica……………..Simile a Calibano
– riprendendo un Lewis Mumford degli anni ’50 (In nome della ragione) –
«questo bruto strisciante, questa sciocca creatura incapace di esprimersi in un
linguaggio articolato, questo animale ringhioso, come Shakespeare lo descrive
nella Tempesta». Che le società precedenti – essendo Calibano la
rappresentazione delle facoltà inferiori dell’uomo – avevano cercato di domare
facendolo prigioniero e gettandolo in carcere, ma che le società contemporanee
hanno invece liberato, perché utile alla volontà di potenza del
tecno-capitalismo. E ora Calibano si rifiuta di riconoscere qualsiasi potere
superiore al suo: in realtà, superiore e inferiore sono termini senza significato
per lui, come pure buono e cattivo, creatore e distruttore; ma nella misura in
cui il suo comportamento presuppone una differenza, egli sta dalla parte del distruttore. Di
conseguenza, il problema della nostra epoca è di riportare ancora una volta
Calibano sotto il controllo di Prospero, che è, invece, l’incarnazione delle
facoltà superiori dell’uomo. Sua è l’intelligenza che sa prevedere e
distinguere, vigilando contro i ciechi istinti e l’automatismo assurdo…………….
Integriamo questa anticipazione dei temi
trattati nel saggio con un dialogo a due proposto e presentato dalla rivista
(con collegato estratto on-line) ALFABETA 2 (rivista “storica” il cui
valore è ben testimoniato dai nomi dei componenti il comitato fondatore – con
altri Umberto Eco e Maurizio Ferraris – e da quelli dell’attuale redazione –
fra gli altri Franco Berardi Bifo, Achille Bonito Oliva, Furio Colombo, Angelo
Guglielmi, e lo stesso Lelio Demichelis) che vede discutere di alienazione
Lelio Demichelis, proprio partendo dal suo saggio “La grande alienazione”, e
Andrea Fumagalli (Economista, docente universitario, autore di numerosi saggi economici), in relazione al suo ultimo libro,
altrettanto meritevole di attenzione, che ha come titolo “L’economia politica
del comune. Sfruttamento e sussunzione (parola del mese) nel capitalismo bio-cognitivo” di
evidente collegamento con quello di Demichelis……
Andrea Fumagalli. Il tema da cui partire
è l’individuazione dei sentieri di valorizzazione del capitalismo
contemporaneo. A mio avviso, tali sentieri sono costituiti dalle produzioni
immateriali che vanno a costituire la nuova frontiera tecnologica
(bio-tecnologie, bio-genetica, intelligenza artificiale, big data, eccetera) e
dal ruolo della finanza come “carburante” dell’accumulazione (finanziamento,
distribuzione del reddito: finanziarizzazione del welfare e moltiplicatore
finanziario). È un’interpretazione condivisibile?
Lelio
Demichelis. Assolutamente sì. Il capitalismo neoliberale e tecnico – quello che
definisco come tecno-capitalismo – è storicamente nato con la fase della
produzione (tutti dovevano diventare produttori e proletari), passando
poi alla fase del consumismo (tutti dovevano imparare a consumare). Oggi
siamo nella terza fase (più che nella quarta rivoluzione industriale)
dell’innovazione irrefrenabile e del micro-capitalismo diffuso, in cui
tutti devono innovare, farsi imprenditori di se stessi a prescindere dalla utilità
sociale dell’innovazione. Chi pensava che con la rete si creasse il general
intellect marxiano non vedeva l’essenza di un tecno-capitalismo – di
una tecnica, soprattutto – che si faceva grande narrazione globale nel
tempo della fine delle grandi narrazioni novecentesche. Io scrivo di
tecno-capitalismo. Tu parli di capitalismo bio-cognitivo…
A.F. Sì, e il mio libro
inizia con venti tesi su questa nuova forma di capitalismo, che si distacca
strutturalmente da quella precedete fordista pur essendone “figlia”. Il
capitalismo cognitivo riguarda il periodo della net-economy, con l'enfasi sul
ruolo della conoscenza e dello spazio virtuale (learning economies e network
economies) e solo dopo la crisi del marzo 2000 con lo scoppio della bolla
speculativa internettiana si cominciano a intravvedere le forme del capitalismo
bio-cognitivo attuale, fondato sulla riproduzione sociale e sulla biogenetica,
nonché l’intelligenza artificiale, la robotica, gli algoritmi per la
manipolazione dei dati. Ciò che si modifica è la base dell’accumulazione che va
sempre più a intaccare forme di vita che erano considerate fino ad allora
improduttive (welfare, consumo, formazione, tempo libero) e modifica il
rapporto tecnologico tra umano e macchinico.
L.D. Concordo.
Il tecno-capitalismo ha iniziato a estrarre valore dalla socialità delle
persone (era la parte della vita umana che ancora non era stata messa a
profitto), dal comune – come scrivi giustamente nel tuo libro – e ha
riscritto questa socialità innata facendola diventare materia prima per sé, ha
fatto credere che la rete fosse libera e democratica in sé e ha creato
una neo-lingua fatta di sharing, smart, social, eccetera
(alienandoci anche dal linguaggio e dal senso delle parole). Il
tecno-capitalismo è divenuto la forma di vita totalitaria del mondo e di
un nuovo uomo a una dimensione. Che crede di essere libero ma in realtà
è legato alle catene virtuali del nuovo ordine non solo capitalistico ma, per
me soprattutto tecnico (e la tecnica è molto più affascinante del
capitalismo). Come scriveva Günther Anders, quanto più è assicurata la
nostra illusione di libertà, tanto più totale è il potere e meno vediamo
l’ordine – o la weberiana gabbia d’acciaio o la caverna platonica – in
cui siamo rinchiusi.
A.F.
Recuperare il concetto di alienazione è molto importante per un’analisi critica
del presente. Tale concetto è l’altra faccia del processo di sfruttamento che
oggi mi pare tanto più pervasivo quanto più l’alienazione della tecnica diventa
totalizzante. È una relazione complessa perché è multiforme e quindi non
definibile in categorie omogenee come invece poteva avvenire nella fase
fordista dove la composizione tecnica del lavoro e quindi quella politica non
era poliedrica. Nel mio testo (specie nel terzo capitolo) cerco di enumerare le
diverse forme di sfruttamento (dall’estrazione, a forme di sussunzione reale e
formale, alla sussunzione finanziaria, all’imprinting). La mia tesi è che in un
contesto di valorizzazione bio-cognitiva, dove la finanza definisce l’ambito
della stessa valorizzazione, le forme della sussunzione e quindi le forme dello
sfruttamento si moltiplicano. E che tali diverse forme di sfruttamento danno
vita a un nuovo processo di sussunzione, che definisco sussunzione vitale.
L.D. Da una
parte c’è il capitalismo delle piattaforme e l’uberizzazione del lavoro (il
nuovo che non si può fermare), tanto simile al vecchio fordismo ma che
illude ciascuno di essere imprenditore di se stesso, mentre è dipendente dalla
piattaforma per tutto ciò che riguarda l’organizzazione del suo lavoro e quindi
è alienato senza saperlo; e dall’altra parte le imprese e il sistema
capitalista giocano con la psiche umana alternando – attivandole in
ciascuno – sia la voglia di differenziazione e sia il bisogno di
fare gruppo/squadra/comunità. Così l’alienazione sembra scomparire;
e il mascherarla permette al sistema di ottenere poi un’intensificazione
della prestazionalità/sfruttamento-autosfruttamento di ciascuno quindi
della sua produttività, quindi del profitto. Far identificare
ciascuno con il sistema è la forma più perfetta per mascherare l’alienazione.
Oggi raggiunto: nessuno parla più di alienazione, neppure il sindacato (era il
rammarico anche di Luciano Gallino). Nel mio libro provo a riportare
l’alienazione sulla scena.
A.F. A partire
dal capitalismo delle piattaforme (ma anche oltre), il comando sul lavoro
definisce una nuova forma di sfruttamento che rimanda a una nuova alienazione.
Possiamo analizzare il tema da due punti di vista, tra loro strettamene
interdipendenti e che si alimentano a vicenda: a. soggettivo b.
economico-sociale (oggettivo?). Concordo con la tua analisi: biopolitica
disciplinante, performatività, narcisismo. Aggiungerei anche la costruzione di
immaginari basati sul falso mito della meritocrazia e dell’economia della
promessa. Si tratta di processi che hanno l’obiettivo di plasmare una nuova
soggettività antropologica, quella dell’homo neliberalis, dove
l’interazione umana tra individui non produce socialità (quindi
potenziale conflitto) ma sociabilità (per dirla con Simmel), cioè
l’attitudine a vivere in società ma senza essere sociale.
L.D.
Soggettività neoliberale, sì; ma soprattutto tecnica (pensiamo alla
potenza narrativa/libertaria di un personal computer e oggi degli
apparati individuali mobili): ma è una falsa soggettività, è un falso
individualismo perché siamo individui che hanno perso la capacità e la possibilità
di creare la propria individuazione e di immaginare se stessi, da soli e
insieme.
A.F. L’aspetto
della tecnica lo richiamerei anche con riferimento ai
cambiamenti strutturali nell’organizzazione del lavoro: femminilizzazione,
individualizzazione contrattuale come perno intorno a cui ruotano necessità di
cooperazione sociale e gerarchia. Nuovi dispositivi di controllo (qui il nesso
con la biopolitica disciplinante è evidente)
centrati sull’autocontrollo: precarietà e indebitamento. Tu scrivi: “i vecchi
modi di intendere e analizzare l’alienazione e la società della prestazione, da
Marx alla Scuola di Francoforte, sono necessari ancora oggi (con un
tecno-capitalismo che torna a sfruttare il lavoro e i lavoratori come e forse
peggio dell’Ottocento)”. Concordo, ma non è sufficiente. In un testo del 2010: Alienazione
e homo precarius nel capitalismo bio-cognitivo, scritto con Cristina Morini
e pubblicato su Millepiani, n. 37, si fa riferimento all’alienazione cerebrale
come esito della schizofrenia che pervade il lavoro cognitivo-relazionale, tra
standardizzazione tecnica e afflato/imperativo “performativo”. È in questo ambito
che diventa centrale il concetto di alienazione tecnologica. Ma tale concetto è
assimilabile all’idea marxiana di alienazione (nelle quattro fattispecie che
Marx individua) e in quella francofortese? O non è piuttosto un nuovo tipo di
alienazione, legata alla crescente ibridazione tra macchinico e umano?
L.D. Alienati
– nel senso di Marx, ma non solo – sono i lavoratori uberizzati nel capitalismo
delle piattaforme, ma anche quelli etero-motivati da un manager della
felicità; è chi si è fatto attore-comparsa nell’industria culturale
e nello spettacolare integrato 2.0; è l’uomo portato a vivere in uno
stato di perenne dinamizzazione e mobilitazione – e precarizzazione – di se
stesso adattandosi alle esigenze della rivoluzione industriale e della
divisione del lavoro (era il compito del neoliberalismo secondo Walter Lippmann
e gli ordoliberali); è chi delega la sua vita a qualcosa che pensa per
lui (e secondo Franklin Foer, dopo l’automazione del lavoro siamo oggi all’automazione
del pensiero, via algoritmi). Anche nella Fabbrica-rete/sciame di
oggi, si replica quella che chiamo la legge ferrea del tecno-capitalismo:
individualizzare /separare /suddividere, per poi
totalizzare/integrare/organizzare il singolo in qualcosa di superiore. Mentre
la società amministrata dei francofortesi si realizza oggi nella rete
tramite social, internet delle cose (e degli uomini) e motori
di ricerca. Per questo ho cercato di rileggere la Teoria critica,
attualissima anche oggi.
A.F. Siamo in
presenza di nuove forme di sussunzione. La mia tesi è che sono compresenti sia
sussunzione formale che reale che danno origine alla sussunzione vitale (non
totale). Vi è un parallelismo con il concetto di “alienazione totale”? In ogni
caso, il concetto di alienazione tecnologica è centrale.
L.D.
L’alienazione non muta le sue forme, muta e si affina invece la capacità del
sistema tecno-capitalista di mascherarla. La divisione del lavoro e della vita
psichica (l’individuo diventa un divisum, scriveva già Anders) serve
all’integrazione dell’uomo in un apparato tecnico, in questo il
tecno-capitalismo è, come ho scritto, religioso e produce, per sé una nuova
forma di teologia politica, la teologia tecnica, tutto deve essere
integrato nell’Uno del tecno-capitalismo. Per questa logica perversa,
anche l’uomo non deve essere più solo un’appendice delle macchine, ma deve
appunto ibridarsi con le macchine: non sono più fisicamente separato dalla
macchina che pure mi vuole far diventare sua parte funzionale, ma sono
parte integrata (quindi, ancor più funzionale, eliminando ogni
possibile resistenza) nella (e non solo con la) macchina.
Andiamo verso il post-umano? Sicuramente verso la completa trasformazione delle
forme tecniche in forme sociali.
A.F.
Scrivi: “Ma le nuove forme del lavoro sono in realtà nuove solo in apparenza
(è sempre il doppio movimento …: che strutturava il lavoro nel fordismo
concentrato delle fabbriche così come struttura e definisce il lavoro nel
fordismo individualizzato ed esternalizzato/uberizzato della fabbrica rete)”.
L.D. Le nuove
forme di lavoro si realizzano nel capitalismo delle piattaforme – sul
quale abbiamo qualche differenza - dove per me la piattaforma/fabbrica è il
mezzo di connessione e di produzione come lo era ieri la catena di montaggio.
Ma è proprio da questa logica – tecnica, prima che capitalista – di
individualizzazione e separazione che nasce la scomposizione delle classi e
l’evaporazione di ogni coscienza collettiva, ora incorporata e sublimata nello
e dallo stesso apparato tecnico.
A.F.
Dai tuoi scritti, (ad esempio La religione tecno-capitalista), mi sembra
di ravvisare una continuità strutturale tra la fase fordista e quella
successiva (che non a caso denomini ancora con il termine “fordismo”, seppur
non più centralizzato ma appunto individualizzato/esternalizzato),
fondata sulla natura tecnologica dell’organizzazione capitalistica. È sul piano
sovrastrutturale che si possono cogliere le differenze, nel momento in cui le
soggettività vengono plasmate in modo indiretto e non più direttamente dai
processi di standardizzazione taylorista, a svantaggio di “un individuo che non
deve essere libero, ma deve crederlo di esserlo”. Sostituirei il “deve” con il
“può”. A me pare che dalla crisi del fordismo-taylorismo si esca con una
rottura socio-economica discontinua e irreversibile, principalmente basata su
due aspetti: a. la totale smaterializzazione della moneta (il divenire “segno”
della moneta, e quindi la crisi della sua misura: dalla moneta credito alla
moneta finanza); b. la compenetrazione umano-macchina, ovvero il divenire umano
della macchina e il divenire macchinico dell'umano. Quali invece per te
le vie d’uscita?
L.D. Il
tecno-capitalismo è dominato dalla volontà di potenza. Richiamando lo
Zarathustra di Nietzsche, il sistema ci offre l’illusione di poter essere fanciulli
cosmici (e di poter dire: io sono!) affinché si sia sempre più cammelli
(tu devi, nella società della prestazione). Il tecno-capitalismo non
conosce limiti, è irresponsabile (il riscaldamento globale, le disuguaglianze
crescenti), è futurista/nichilista per essenza. Tende all’egemonia e al
dominio. Per uscire dalla grande alienazione occorre in primo luogo riconoscerla;
poi serve riconsiderare il concetto di limite ed esercitare responsabilità
nei confronti degli altri, dell’ambiente e delle generazioni future. E
governare i processi tecnici, per non esserne governati. Dovremmo introdurre
quindi – dopo la democrazia politica ed economica (oggi in crisi) la democrazia
tecnica, la cui mancanza reputo essere la ragione della crisi della democrazia
politica ed economica.
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