lunedì 10 dicembre 2018

Relazione sulla conferenza del prof. Roberto Mordacci - a cura di Enrica Gallo


Relazione sulla conferenza

del prof. Roberto Mordacci:



LA CONDIZIONE NEOMODERNA:
UN NUOVO PENSIERO PER L’EUROPA



Presentazione:

Dopo aver ringraziato il numeroso pubblico, e in modo particolare gli studenti del liceo Pascal - la cui presenza all’incontro è per CircolarMente un motivo di grande soddisfazione - Massima Bercetti presenta il relatore che per le sue molteplici competenze può davvero darci, su di un tema che ci sta molto a cuore, quell’ampiezza di sguardo di cui oggi abbiamo particolarmente bisogno. Il prof. Roberto Mordacci è infatti non solo docente di Filosofia morale all’Università San Raffaele di Milano, e preside della Facoltà di filosofia, ma è stato membro del Consiglio d’Europa per l’insegnamento della bioetica ed è attualmente Direttore del Centro Internazionale per la cultura e la politica europea. Da lui ci aspettiamo dunque di essere aiutati ad analizzare una condizione, quella dell’Europa attuale, sicuramente critica e bisognosa di una nuova prospettiva. Abbiamo infatti avuto occasione di trovare, in un suo piccolo libro che però contiene a nostro giudizio delle grandi idee (“La condizione neomoderna” – ed. Einaudi), un’interpretazione estremamente interessante ancorché inconsueta di questa crisi. In esso infatti il prof Mordacci istituisce una relazione fra la crisi dell’Europa attuale, interna alla complessità del nostro tempo globalizzato, e quella che essa ha vissuto fra il 1500 e il 1600, che era allora legata alla fine del mondo medioevale, unitario e feudale, suggerendo a partire da questa analogia l’invito a ripensare quel pensiero che in qualche modo è riuscito allora a reagire a quella crisi. Non già, naturalmente, per restituirlo tale e quale – cosa del resto impossibile, perché noi ci troviamo oggi in un contesto di globalizzazione molto più ampio – ma di rilanciarne gli elementi di forza: quel tipo di razionalità, quella rappresentazione positiva dell’autonomia come elemento fondamentale di cittadinanza, che tanto ha saputo dare sul piano istituzionale, politico e giuridico. Per questo come CircolarMente abbiamo pensato che rivendicare quello sguardo, in questo tempo buio segnato da sovranismi e tribalismi, potesse aiutarci in quel percorso di cittadinanza consapevole che cerchiamo di proporre, nella speranza che ora come allora l’Europa sappia reagire alle minacce che la sovrastano. 

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1)  Premessa:

Nella prima parte del suo intervento il prof. Mordacci ha spiegato anzitutto i motivi che lo hanno indotto a cercare di dare un nome al nostro tempo, nella persuasione che quelli in vario modo utilizzati per definirlo non siano sufficientemente comprensivi di tutta una serie di problemi, e che soprattutto non ci diano indicazioni valide per capire chi siamo e in che direzione stiamo andando in questa nostra contemporaneità così difficile e confusa. Da qui, il titolo del libro che fa riferimento all’intuizione da cui si è mosso e che cercherà di articolare ora nel suo discorso, mettendo al centro la riflessione sul ruolo e sul significato di quell’Europa che a suo giudizio si presenta davvero come la chiave per capire questa particolare condizione. Se infatti essa attiene in qualche misura all’identità, per noi che facciamo parte di questa costruzione politica sicuramente alquanto strana (l’unica, anzi, nel suo genere, perché in effetti non è una federazione ma un’unione, anche se ancora non si è capito bene che cosa questo possa davvero significare), e che dunque dobbiamo necessariamente partire dall’Europa per stabilire come muoverci in un orizzonte ormai globalizzato, non c’è dubbio che ci sia un intero mondo, là fuori, che aspetta da quest’Europa da cui per lungo tempo è stato dominato militarmente, economicamente e soprattutto culturalmente una parola forte, una presa di posizione sui grandi temi del nostro tempo. Capire dove ci troviamo oggi, secondo il prof. Mordacci, significa prima di tutto chiederci dove si trova l’Europa e in quale particolare condizione essa stia vivendo. Da qui, l’asse centrale del testo che è emerso da queste riflessioni e che pone come elemento caratterizzante l’idea che sia possibile fare alcune analogie fra il momento storico attuale, segnato da una crisi profonda, e quello in cui l’Europa si è trovata a vivere nella sua prima modernità (intendendo con questa espressione il periodo storico che va grosso modo dalla seconda metà del 1400 al 1600).

2)  La critica al “postmodernismo”:

Di questa analogia, il relatore intende dare più  ampi ragguagli nel prosieguo del discorso, aprendo anzitutto  una parentesi importante su di un tema  - la critica al cosiddetto “postmodernismo” - che in effetti occupa tutta la prima parte del testo e ne rappresenta il bersaglio polemico, per via dell’idea, da esso sostenuta, che la modernità europea sia definitivamente finita, che il tentativo da essa compiuto di incasellare il mondo intero secondo le sue categorie - la razionalità, il soggetto, i diritti dell’individuo - non abbia prodotto che violenza e che occorra dunque rinunciare a questo sogno e insieme all’idea che la storia debba assumere necessariamente una direzione di progresso morale (“le magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria). Una diagnosi, quella posta dalla corrente culturale del postmodernismo, che ha avuto lungo corso: tutti noi sicuramente abbiamo già incontrato, se non direttamente questo termine, autori che hanno assunto questa posizione (pensiamo per esempio ad un sociologo celebre come Zygmunt Bauman, che ha interpretato la contemporaneità in chiave postmoderna coniando la felice metafora della modernità “liquida”, intesa a sintetizzare la condizione di spiazzamento e di frantumazione del soggetto in un mondo segnato dalla perdita di punti di riferimento stabili, per cui il tempo sembra scorrere senza confini). Siamo dunque lontanissimi, in questo orizzonte concettuale, da uno dei cardini della modernità che ha nella certezza dell’esistenza del soggetto – il “cogito” cartesiano – il suo più decisivo appiglio, da cui si dipanano poi gli altri punti solidi a cui secondo gli interpreti del postmodernismo occorre ormai rinunciare, senza averne particolare nostalgia perché essi sono già stati condannati e respinti dalla storia. Una modalità di pensiero rispetto alla quale il relatore esprime il più netto dissenso, non solo perché  è fondata a suo giudizio su di un fraintendimento del percorso storico della modernità, che viene unificato in  un unico blocco (mentre ci sono stati in essa fasi diverse segnate da una forte discontinuità, in cui l’idea del progresso ha subìto torsioni significative), ma soprattutto perché questo tiro al bersaglio contro ogni idea che si sia affacciata alla coscienza moderna ha avuto esiti inquietanti che nel testo vengono analizzati in modo  diffuso e su cui il relatore darà comunque nel corso dell’incontro  alcuni ragguagli significativi. Entrando ora più nel dettaglio, il relatore spiega che il termine “postmoderno” si affaccia negli anni   trenta del novecento non direttamente in ambito filosofico, bensì nella critica letteraria – soprattutto quella di matrice latino-americana - venendo ad indicare uno stile di scrittura che non è più connotato dalla forma tradizionale del romanzo, imperniato in genere sulla centralità di un protagonista e in cui lo svolgimento delle vicende ad esso afferenti pervade l’intero arco narrativo. Cominciano infatti a prevalere altre modalità di scrittura in cui la storia si fa corale, l’unità compositiva si spezza e la differenza fra centro e periferia non è più così netta:

Pensiamo, dice il relatore, alla Recherche proustiana: benché il narratore sia sempre Marcel – peraltro non del tutto sovrapponibile all’autore stesso - ci sono parti del testo in cui l’io narrante quasi scompare, per fare posto ad altri personaggi (Swann, Albertine, che a loro volta appaiono e scompaiono), mentre lo stesso Marcel è presentato ora come bambino, ora come adulto o anziano; ad un autore centrale nel primo novecento italiano come Pirandello, che  concentra tutta la sua produzione letteraria sulla dispersione del soggetto, sulle maschere che esso indossa risultando alla fine inconoscibile anche a se stesso – uno, nessuno o centomila come Peer Gynt, lo straordinario protagonista di una pièce teatrale di Ibsen che nelle diverse identità in cui si trova ad agire ad un certo punto dice di se stesso “io sono una cipolla”, con ciò intendendo che è possibile sfogliarlo strato dopo strato senza trovarne il nucleo centrale… Questa posizione culturale passa poi nell’ambito filosofico attraverso alcuni autori, in particolare Jean-Francois Lyotard: esce per l’appunto nel 79 quello che può essere considerato il manifesto del postmodernismo (“La condizione postmoderna”), che si presenta come un resoconto, e insieme come un atto d’accusa contro i presupposti della modernità europea e quelli che vengono intesi come i “deliri di onnipotenza” della ragione cartesiana. La storia meravigliosa che la modernità ha inteso raccontare, osserva infatti Lyotard – una storia in cui il soggetto ha raggiunto via via la propria emancipazione grazie alla razionalità - non è altro che una narrazione che essa fa su di sé e che ha dimostrato nel corso del novecento tutta la sua debolezza, non riuscendo in alcun modo ad evitarne le tragedie e che ora possiamo dunque considerare come definitivamente tramontata  in entrambe le versioni che si è data, quella scientifico emancipativa di stampo illuministico e quella più specificatamente politica, confluita  nello storicismo e nell’idealismo.

3)  Le grandi “narrazioni” della modernità:

Su queste due versioni il relatore apre un’ importante parentesi, seguendo la traccia di Lyotard ma mostrando di intenderle in modo assai diverso: non cioè come narrazioni al tramonto, mancanti ormai di ogni legittimità, ma come linee di pensiero che nonostante gli errori che ad esse si possono imputare (l’aver spesso dato vita a sistemi chiusi e riduzionisti, riconducendo il reale ad un solo principio e dimenticando la valenza critica di ogni procedimento) non solo non vanno abbandonate ma sono da riprendere e da rivitalizzare profondamente, attualizzandole. Vediamole ora più in dettaglio. Noi abbiamo da un lato, spiega il prof. Mordacci, il racconto di un’emancipazione del soggetto che rifiutando ogni dogmatismo e ogni indebito principio di autorità prende in mano le redini della conoscenza, facendosi scienza a partire dalle “sensate esperienze” galileiane, dal metodo scientifico razionale di Bacone, dai cartesiani pensieri “chiari e distinti”: una narrazione che in linea ideale ci conduce all’illuminismo, o perlomeno a quella parte di esso che fa della liberazione dall’ignoranza e dalla superstizione il proprio vessillo. Dall’altro lato, e accanto a questo, c’è un racconto che scorre in un certo senso parallelo rimandando però più specificatamente al corpo politico e morale della società: un racconto altrettanto emancipativo, che   si delinea nel momento in cui l’uomo medioevale comincia ad avere fiducia nella propria capacità di autodeterminarsi senza la protezione di un ordine rivelato e consacrato. C’è naturalmente una lunga storia anche dietro a questo sviluppo del pensiero e dell’azione politica, che in filosofia trova in Hobbes un punto di partenza importante, per quanto segnato da una sorta di paradosso che il relatore mette bene in evidenza, ricostruendo il punto centrale del suo discorso: Come molti dei presenti certo ricordano, la proposta filosofico – politica di Hobbes muove dalla considerazione che nello stato di natura vige il diritto di tutti su ogni cosa, per cui ciascuno si sente autorizzato ad usare tutta la sua potenza e la sua forza per appropriarsi di ciò che desidera, spinto da un istinto naturale insopprimibile. Questo genera peraltro una situazione di guerra generalizzata in cui ciascuno è lupo agli altri uomini (“homo hominis lupus”) e da cui si può trovare scampo solo se dal diritto naturale si accede alla “legge naturale”, intesa a sottrarre gli uomini al potere distruttivo degli istinti offrendo a tutti una relativa sicurezza attraverso un “pactum unionis”, cioè un contratto fra individui (una proposta dunque che è stata recepita allora come profondamente “atea”, nonostante gran parte del testo in cui Hobbes la espone – Il Leviatano – sia dedicata a Dio e alla Chiesa, perché in effetti l’autorità del patto non viene fatta derivare in alcun modo dalla divinità). Certo, osserva il relatore, il pensiero di Hobbes non può che dare origine ad un paradosso, dal momento che il “pactum unionis” diventa immediatamente dopo essere stato formulato un “pactum subiectionis”, in quanto il potere viene delegato, sia pure per libera scelta dei contraenti, ad un sovrano assoluto che per garantire la pace riunirà in sé ogni forza e potere. Resta comunque un punto di partenza imprescindibile  nel cammino di emancipazione della modernità, perché porta con sé l’assunto che il potere politico può determinarsi attraverso un accordo fra individui. Non è poco: questo cammino infatti cresce nel tempo, e  sarà segnato via via da conquiste fondamentali (pensiamo, per fare un esempio, all’enorme valore storico -politico della pace di Westfalia che chiuderà nel 1648 il periodo drammatico delle guerre di religione, riuscendo a dare vita ad un mondo dove si poteva finalmente convivere pur appartenendo a fedi diverse…) che ci porteranno progressivamente all’acquisizione di diritti politici, sociali e culturali attraverso il diverso snodarsi e fondersi di queste due  strade che rappresentano, a giudizio del prof. Mordacci, un portato della modernità il cui fulcro è ancora sostanziale e che tocca a noi ripensare, riattivandolo e completandolo, perché davvero  molto resta ancora da fare.

4)  L’Europa ad un bivio:

E’ una partita  drammatica, quella che il relatore delinea, e  che ci chiama direttamente in causa. Non c’è scampo, infatti: è sua ferma convinzione che se non ci mettiamo in quest’ottica, se non prendiamo atto di trovarci oggi in una condizione assai simile a quella che l’Europa ha conosciuto in quella sua prima modernità funestata da guerre di religione e dogmatismi di ogni sorta, possiamo davvero perdere questa partita smarrendo con essa il significato profondo dell’essere europei che la nostra storia ci racconta. Non possiamo dunque che provare ad attivarci come fecero allora nel campo della scienza, della filosofia, dell’arte, fissando quei punti da cui non possiamo e non vogliamo recedere: il riconoscimento della dignità individuale, il dovere del rispetto per l’autonomia personale, l’affermazione del valore dell’uguaglianza e della solidarietà …E’ convinto, il relatore, che questo e solo questo sia il vero destino dell’Europa: ripensare questi valori, non già nostalgicamente ma ricordando che già una volta li abbiamo assunti come specificatamente nostri. Non c’è infatti nulla di scontato, in essi, nulla che si possa dare per definitivamente acquisito, soprattutto ora che  pur non essendo del tutto disarmati siamo immersi in un mondo Altro che pare non riconoscere questi principi come base per la convivenza umana. Per questo il prof. Mordacci sostiene che occorre ripensarli da capo, prendendo atto che dire “modernità” non è dire certezze, stabilità e riposo ma porre la parola “crisi” come il suo elemento costitutivo: moderno, in quest’ottica, è lo stato di permanente critica dell’esistente, è la capacità di acconciarsi minuto per minuto ad individuarne le crepe, a rinsaldarle, a riscrivere il disegno di un ordine che non viene percepito come immutabile, bensì come modificabile. Riconoscere, certamente, che alcune strade le abbiamo percorse male: è vero che non siamo stati capaci di evitare i totalitarismi del novecento, è vero che abbiamo creato spesso sistemi di sapere chiusi che non ci hanno portato da nessuna parte, ma le basi che ci eravamo dati potevano anche condurci in direzioni più positive e  questi esiti perversi non erano  obbligati.

POSSIAMO DAVVERO ATTIVARCI IN QUESTO SENSO?

Sì, secondo il relatore, purché noi si sia persuasi che sia possibile farlo, purché non si perda la speranza di un futuro non necessariamente ripiegato in un inesorabile declino. Quella che ci attende è una sfida che il prof. Mordacci ha voluto espressamente definire “neomoderna”, perché se invece ci dichiariamo “postmoderni”, come siamo stati tentati di fare fino ad ora, non ci sono più spazi per la parola, il pensiero e l’azione, ci resta solo l’arrenderci all’idea della fine della storia e con essa la fine della nostra civiltà europea.  Dobbiamo invece secondo lui  assumere la neomodernità come  il nostro vero  compito, che ci impone una responsabilità assoluta e per noi europei definitiva. Se vogliamo davvero essere eredi della parte migliore della nostra storia, dovremmo infatti come Europa pronunciare parole come queste: “Sono pronta a perire, piuttosto che rinunciare a quei valori che io stessa ho contribuito potentemente a formulare; dovete davvero conquistarmi e distruggermi, perché non mi arrendo all’esistente”. E se invece il nemico viene dall’interno, bisognerà trovare gli anticorpi: l’Europa deve  salvarsi non solo da ciò che Europa non è, ma anche da se stessa… O ne usciremo bene, o non ne usciremo affatto. E’ con queste parole che il relatore chiude un intervento molto intenso, esprimendo dal canto suo la forte speranza che sia possibile, nonostante tutte le difficoltà, uscirne bene.



DIALOGO CON IL PUBBLICO          

Nella seconda parte della conferenza il prof. Mordacci apre al dialogo con il pubblico, da cui viene in prima battuta una richiesta di chiarimento sul percorso storico-filosofico che può aver condotto all’attuale “esondazione” del principio di volontà rispetto alla ricerca della verità (N.B. = daremo ragione della sua ampia risposta in uno spazio apposito, perché essa ha costituito sicuramente un motivo di particolare interesse per i molti studenti che hanno partecipato all’incontro). Presentiamo invece qui brevemente, riassumendoli, gli altri temi che via via vengono proposti e che attengono a vari aspetti problematici della nostra contemporaneità:

Nuove rivoluzioni?

Il primo tema  su cui il relatore viene sollecitato riguarda l’idea, formulata di recente da Alessandro Baricco nel suo molto pubblicizzato “The game”, che la navigazione in rete come forma di conoscenza orizzontale, dinamica e leggera, utilizzata dalle nuove generazioni come forma principale di conoscenza, rappresenti una sorta di “liberazione” dagli eccessi di verticalità  e di gerarchizzazione del sapere che si sono rivelati, sempre secondo questa  interpretazione, alquanto inabili a contrastare le derive autoritarie del novecento,  e pertanto  sia da intendere come una  positiva presa in carico della propria formazione. Si può parlare davvero in quest’ottica della rivoluzione digitale? Questa la domanda a cui il prof. Mordacci risponde – senza entrare nello specifico del testo indicato -  ponendo alcuni “paletti” rispetto a questa interpretazione e riflettendo in primis sull’ambiguità stessa del termine “rete” in cui l’elemento connettivo e funzionale scorre parallelo a quello chiuso e ingabbiante; innesta poi su questa riflessione alcune osservazioni che attengono ad altre possibili distorsioni che si stanno rendendo ora sempre più evidenti (basta un algoritmo ben fatto – per fare un esempio  – perché altri possano conoscere e utilizzare a loro vantaggio non solo la nostra eventuale propensione a certi consumi, ma soprattutto le nostre intenzioni di voto su piattaforme digitali rispetto alle quali molte interferenze diventano possibili).

Un dominio a cui sottrarsi:

Un secondo intervento richiama invece il tema della paura, che sembra davvero dominare il nostro tempo. Un sentimento che secondo il relatore ancora non sappiamo bene come recepire ed elaborare in forma costruttiva, evitando che esso si traduca inevitabilmente in rabbia e violenza facendoci agire in modo dissennato e creando comodi capri espiatori su cui rovesciare il male che ci sentiamo dentro, con una reazione scomposta e alla fine autolesionistica. Non a caso il gruppo di ricerca che il prof. Mordacci coordina ha deciso di dedicare il prossimo workshop europeo alla paura e in generale a quelle che vengono definite “negative emotions”, per cercare di evitare (come fa notare molto opportunatamente un’altra interlocutrice) che ancora una volta si ricorra alla non poi così astuta proposta di Hobbes, per tirarcene fuori…Su questo tema il relatore suggerisce la lettura di un testo che può essere a suo giudizio importante per le nuove generazioni (“L’epoca delle passioni tristi”, di  Gèrard Schmith e Miguel Benasayag), anche se in realtà – se teniamo conto di quanto diceva Spinoza, grande analista delle passioni,  per cui le passioni tristi sono quelle che ci fanno sentire impotenti – la paura non rientrerebbe in esse, essendo invece al contrario una passione che ci fa reagire, purtroppo spesso a torto.

Principi da maneggiare con intelligenza:

Apparentato con quest’ultimo tema è sicuramente quello dell’utilizzo di un principio  su cui il relatore è invitato ad esprimersi: il cosiddetto “principio di precauzione”. Esso ci impone, come sappiamo, di valutare attentamente e costantemente in ogni campo i rischi possibili delle nostre azioni non solo al presente, ma prevedendone con lungimiranza l’impatto futuro (pensiamo, per fare un riferimento di stretta attualità, al caso delle due gemelline cinesi il cui DNA pare sia stato modificato per renderle immuni ad una particolare patologia, senza che sia ben chiaro se questo indurrà altre modifiche trasmettendosi per via ereditaria). Al di là di questo caso specifico veramente discutibile, il prof. Mordacci non è convinto che sia sempre saggio farsi dominare da questo principio, che se portato all’estremo rischia di paralizzare ogni azione. Il rischio zero non esiste, e se pure il “principio responsabilità” teorizzato negli anni 70 da Hans Jonas deve sempre guidarci, bisogna necessariamente considerare che ogni scelta è per sua natura problematica. Ci sono decisioni che la classe politica è chiamata a compiere (il prof. Mordacci non esita a fare riferimento a temi che sono certamente assai “sensibili”, come la TAV e i vaccini) rispetto alle quali la cosa davvero fondamentale, a suo giudizio, deve essere l’onestà intellettuale di chi è tenuto ad esplicitare correttamente, alla luce delle maggiori competenze che si possono acquisire, le ragioni delle proprie scelte strategiche ( indicando anche i rischi che derivano dal non fare, così che il principio di precauzione non diventi mai l’anticamera di una irresponsabilità).

Filosofia e ambiente: un incontro mancato?

Sulle questioni che si stanno insieme dipanando un ulteriore spunto viene offerto da un altro interlocutore, che riprendendo il tema della paura cita l’Henry Laborit de “L’elogio della fuga”, osservando come le reazioni animali al pericolo siano sostanzialmente di tre tipi (l’aggressione, l’immobilità, la fuga). La domanda peraltro è intesa a sollecitare il relatore, proprio in quanto filosofo – ben sapendo che uno dei temi su cui la filosofia si è sempre interrogata è proprio il rapporto dell’uomo con la natura  -  ad esprimersi sul tema dell’ambiente, o per meglio dire sul silenzioso inabissarsi di questo tema nel dibattito pubblico. La citazione di Laborit offre intanto al prof. Mordacci il destro di riportarci sul terreno filosofico anche a proposito della paura, ricordando che l’eroe greco per antonomasia, Achille, non è certo immune dalla paura ma non sempre adotta la stessa strategia di combattimento, scegliendo a volte l’attacco, a volte la ritirata strategica, a volte la fuga. Del resto non è stato proprio Aristotele a dirci che la virtù consiste nella scelta del momento più opportuno per agire, per attendere, per ritirarsi? Oggi abbiamo sicuramente bisogno di eroi in ogni campo, ma non degli sconsiderati che si lanciano contro qualunque cosa: servono bensì delle persone che sappiano capire bene quando arretrare e quando avanzare. Questo è vero in maggior ragione per quanto riguarda l’ambiente, su cui la filosofia non ha mai smesso di riflettere con risultati che il prof. Mordaci giudica concettualmente notevoli, anche se forse è rimasta un po’ ai margini del discorso pubblico (cosa che non è sempre un male, osserva scherzosamente, perché essa può essere e spesso è stata il perno di ideologie disastrose…). Non c’è dubbio peraltro che nel dibattito politico il discorso ambientale si sia un po’ appannato, e che i partiti tradizionalmente “verdi” non riescano oggi ad intercettare segmenti significativi dell’opinione pubblica, perlomeno da noi (sappiamo che in Germania hanno invece avuto un avanzamento significativo, ma il contesto era diverso). Uno dei motivi può essere a suo giudizio individuato nel fatto che questo tema è oggi di tale complessità da richiedere un approccio globale, ma bisogna anche segnalare che la cosiddetta sindrome B.I.M.B.I (“ovunque, ma non nel mio giardino”) si è così estesa da diventare il più radicale “in nessun giardino”. Ora è chiaro secondo il relatore che se io, di ogni singolo provvedimento, vedo solo il pericolo, se non so intervenire su temi ambientali in senso propositivo e innovativo, permetto che si affermi l’idea che essere ambientalisti sia solo essere “contro”, mentre l’ambiente è non solo titolare di diritti ma luogo in cui si deve esercitare una corresponsabilità rispetto alla vivibilità del pianeta.  

 

Relazione a cura di Enrica Gallo, per conto di “CircolarMente”

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