Questo articolo è
stato proposto da una nostra socia sollecitata a farlo dall’evidente
collegamento con la conferenza del prof. Mordacci. Poteva quindi prestarsi ad
essere postato come commento a margine della sintesi della conferenza, ma la
sua lunghezza, e la rilevanza delle riflessioni sviluppate, hanno consigliato di inserirlo nel nostro
blog come post a sé stante
INTERVISTA a JULIA KRISTEVA
All’Europa
in crisi servono nuovi padri
Viviamo in un snuovo tardo Medioevo,
non contano più i grandi ideali
Articolo tratto dal “Corriiere della Sera” del 9 dicembre 2018, in occasione del conferimento a Julia Kristeva della laurea honoris causa alla Iulm di Milano
Kristeva Julia.
= Semiologa e psicanalista bulgara naturalizzata francese (n. Sofia 1941). Studiosa di M. Bachtin, ha consacrato i suoi
primi saggi alla fondazione di
un nuovo ramo della semiologia, la 'semanalisi', si è inoltre occupata di
semiologia della pittura e della questione femminile. Parallelamente
all'attività di saggista, a partire dagli anni Novanta si è dedicata anche al
romanzo
………….La
cultura europea esiste, la sua lingua è il multilinguismo, e il comune
denominatore è la cultura dell’individuo, della nazione, della politica. Sono
creazioni giudaico-cristiane, che si sono sviluppate nel tempo e che non sono
culti ma aperture fragili. Il grande problema oggi è come armonizzare queste
culture nazionali. Tutto il mio lavoro di intellettuale, ovvero psicoanalista,
romanziera, filosofa, semiologa, affronta questo argomento…………
Incontriamo
Julia Kristeva nella sua casa di Parigi, due giorni prima della visita a Milano
e della laurea honoris causa alla Iulm, per anticipare i temi del suo
intervento. Inevitabile che la cultura e l’Europa si intreccino con gli
avvenimenti appena vissuti da Parigi e della Francia: la rivolta dei gilet
gialli e la crisi della politica.
Come giudica lo
stato attuale della cultura europea?
Intanto,
è già un punto di partenza affermare, come io mi sento di fare, che una cultura
europea esiste. Quando ho accettato la proposta di venirne a parlare a Milano,
tutti sapevamo che la grande sconfitta, nella cacofonia mondiale delle nazioni
oggi, è l’Europa. Ma non eravamo ancora in questa situazione di crisi violenta.
Quel che è appena accaduto a Parigi a mio avviso è un avviso di tempesta per
tutta l’Europa, non solo per la Francia
In
tempo di conflitto aperto tra sovranisti e élite vengono subito in mente le
critiche degli esclusi: facile parlare di cultura europea per chi è abituato a
prendere aerei per visitare mostre a Venezia e Firenze o per passare qualche
giorno nel proprio pied-à-terre a Parigi. E
gli altri?
Io ho
una visione della cultura molto più larga. La cultura è una concezione
dell’individuo, uno sguardo sulla singolarità di ciascuno, una cultura di patto
nazionale, che si interessa alla diversità delle lingue e alla nozione di
felicità, di valore, di progetto ideale per l’avvenire. Questa cultura non è
affatto elitista e riguarda anche il contadino e l’artigiano
Anche quelli che da
quattro sabati manifestano a Parigi e nel resto della Francia?
Non
possiamo neanche sperare di risolvere la crisi dei gilet gialli se non ci
affidiamo alla filosofia e alla sociologia per affrontare la questione del
senso delle persone, della nazione, degli ideali, del futuro
Eppure le
rivendicazioni dei gilet gialli sono molto concrete: chiedono meno tasse e più
potere d’acquisto.
Certo,
e io credo che il governo debba senz’altro mettere mano alla cassa e soddisfare
almeno una parte delle loro richieste. Non voglio dare l’impressione di stare
sulle nuvole, cominciamo con i piedi per terra e diciamo che adesso è il
momento di aprire il portafogli. Fatto questo primo passo necessario ma
insufficiente, dobbiamo resistere alla tentazione di considerare gli scontenti
solo come consumatori in difficoltà, perché sotto c’è un malessere molto più profondo
A che cosa si
riferisce?
Alla
fine della politica per come la conosciamo da oltre due secoli. Una cosa è
successa molto tempo fa in Europa, e solo in Europa: la rottura del filo della
tradizione religiosa. Con la Rivoluzione francese — né dio né padrone — abbiamo
cancellato dio, tagliato la testa al re e messo al loro posto l’ideologia
dell’umanesimo, che ha finito per diventare un valore astratto. La politica è
diventata la nuova religione, con l’idea che la democrazia rappresentativa
possa risolvere i problemi della felicità, della morte, dell’avvenire,
l’inferno e il paradiso qui sulla Terra. Abbiamo dato alla politica
responsabilità enormi, e questo modello è crollato con la Shoah e i gulag.
Sopravvive a stento un’idea più ridotta della politica come gestione
dell’esistente, gestione che è comunque soffocata dalla finanziarizzazione
dell’economia e della rivoluzione digitale. In questo stato di cose la politica
si riduce a showbiz o carnevale. Donald Trump ne è l’espressione, e infatti
arriva ad adattarsi alla situazione meglio degli altri
Che cosa significa
la politica come gestione?
È una
politica dell’impotenza, della contabilità, in cui fingiamo di credere che il
problema sia davvero l’aumento del prezzo del diesel. Lo è ma solo in parte, e
infatti anche quando l’aumento viene ritirato le proteste continuano. Ci
troviamo in una specie di tardo Medioevo, quando uno dei miei grandi punti di
riferimento, Duns Scoto, disse che non ci sono altri valori se non questo uomo,
questa donna. Non i grandi ideali, non la materia, ma la persona. Solo che dopo
il tardo Medioevo arrivò il Rinascimento, e un passaggio simile mi sembra
ancora molto lontano da noi
Quali
caratteristiche hanno queste persone, in Francia e nel resto d’Europa?
I cosiddetti perdenti della globalizzazione sono mal pagati ma soprattutto frustrati, la rivoluzione digitale li rende onnipotenti in teoria ma non nella pratica. Vogliono rompere questo ordine ma per adesso non hanno alternative da proporre. Invocano le dimissioni di Macron, ma allo stesso tempo dicono che con un altro al suo posto le cose non cambierebbero. Qui arriviamo alla nozione di popolo. Robespierre diceva che il popolo ha sempre ragione, invece per Wilhelm Reich certe masse vogliono il fascismo. Tra queste due visioni estreme e opposte bisognerebbe provare a rispondere alle emozioni insoddisfatte e agli ideali senza risposta. Magari ricorrendo alle categorie della psicoanalisi
I cosiddetti perdenti della globalizzazione sono mal pagati ma soprattutto frustrati, la rivoluzione digitale li rende onnipotenti in teoria ma non nella pratica. Vogliono rompere questo ordine ma per adesso non hanno alternative da proporre. Invocano le dimissioni di Macron, ma allo stesso tempo dicono che con un altro al suo posto le cose non cambierebbero. Qui arriviamo alla nozione di popolo. Robespierre diceva che il popolo ha sempre ragione, invece per Wilhelm Reich certe masse vogliono il fascismo. Tra queste due visioni estreme e opposte bisognerebbe provare a rispondere alle emozioni insoddisfatte e agli ideali senza risposta. Magari ricorrendo alle categorie della psicoanalisi
Qui
entra in gioco il suo lavoro di psicoanalista. In che modo?
Sento
molte persone ripetere che vorrebbero un presidente “padre della nazione”. È
una frase molto interessante per una psicoanalista perché la famiglia è in
crisi di ricomposizione e siamo tutti alla ricerca del padre perduto. Gli unici
padri oggi in politica sono un po’ clowneschi come Trump, o i dittatori. Quel
che succede invece è che i nostri governanti giocano con la figura del fratello
Cioè i presidenti di
oggi non sono più padri della nazione ma fratelli?
Sì, e il fratello è una figura importante nell’evoluzione di un individuo. Gli adolescenti sono tutti fratelli e condividono passioni reversibili, amore che diventa odio e viceversa. Questa reversibilità si chiama omoerotismo — che non significa omosessualità — e innamoramento. E lo abbiamo visto benissimo con il presidente Macron: adorato all’improvviso, e altrettanto repentinamente odiato».
Sì, e il fratello è una figura importante nell’evoluzione di un individuo. Gli adolescenti sono tutti fratelli e condividono passioni reversibili, amore che diventa odio e viceversa. Questa reversibilità si chiama omoerotismo — che non significa omosessualità — e innamoramento. E lo abbiamo visto benissimo con il presidente Macron: adorato all’improvviso, e altrettanto repentinamente odiato».
Lo accusano di
tutto: di parlare troppo o troppo poco, di essere troppo arrogante o troppo
amichevole.
Perché
parla un linguaggio di vicinanza, tattile, sia con i pregiudicati delle Antille
sia con i disoccupati che lo avvicinano per strada. Pensa forse che questa
vicinanza tattile risponderà alle angosce delle persone ma no, al contrario, le
fomenta. Resta nella reversibilità adolescenziale di amore e odio. I cittadini
non capiscono il leader che gioca al loro livello, prendono questa familiarità
per arroganza. Ma come Macron fanno molti altri. I leader attuali sono
fratelli, non padri. Tra fratelli ci si ama e ci si odia, senza sosta. È una
parte di noi che sopravvive. Tra colleghi, amici, uomo e donna, giochiamo al
gatto e topo. Ma il campo politico non deve ridursi a questo. E i fratelli
tradizionali in politica non ci sono più
A che cosa si
riferisce?
Alle
tipiche fraternità che sono i corpi intermedi, i sindacati, le organizzazioni non
governative, le associazioni, la scuola, la Chiesa, l’esercito. Tutte queste
istituzioni sono in crisi ovunque e alcuni presidenti, come il nostro in
Francia, hanno diminuito il loro peso pensando che il capo dello Stato fratello
avrebbe potuto fare tutto, occupare tutti quei ruoli. Non è così
Quanto sono
importanti i social media?
Molto,
perché la debolezza della politica e del capo dello Stato che non è più il
padre della nazione si abbina a una interconnessione continua. Questa
interconnessione digitale genera identità liquide, le persone non sanno neanche
più come definirsi. C’è un odio che poi si diffonde al mondo reale
Che cosa dovrebbe
fare oggi un leader politico?
Ovviamente
non oso proporre soluzioni, i miei sono contributi alla riflessione, e poi non
voglio essere troppo critica con Emmanuel Macron. Nel suo discorso all’inizio
della crisi a un certo punto ha detto che la risposta sarebbe stata “la
declinazione del pragmatico”. Ma cosa vuol dire? C’è troppa tecnica e troppa
freddezza. Direi che la politica dovrebbe non occuparsi più solo della
contabilità ma anche della cultura, intesa come educazione e accompagnamento,
magari partendo dai valori ancestrali del cristianesimo, dell’islam e del
giudaismo. La questione adesso è interagire con persone che non credono a
niente
A
proposito di ribellione mi viene in mente una riflessione di Damasio che alla
domanda per cui siamo spinti a ribellarci da un determinismo biologico,
risponde che è una domanda che si pone spesso: il sistema è organizzato in
maniera tale che la ribellione sia già programmata ? A volte ho l’impressione
di sì. Nei momenti di romanticismo preferisco pensare di no, ma non ne sono
affatto sicuro.
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