domenica 1 febbraio 2015

La parola del mese - FEBBRAIO 2015


LA PAROLA DEL MESE 

A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni.
                        FEBBRAIO 2015
 
IRRIVERENZA/RISPETTO
 
Irriverenza
Dal latino irreverentia, parola composta da in – reverentia, ossia “senza riverenza”, quindi espressione di insolenza, sfacciataggine, sarcasmo, scherno, derisione, dileggio, irrisione,  
Rispetto
Dal latino respicere “guardare verso”, sentimento di deferenza, atteggiamento di riguardo e considerazione verso persone, idee, principi, istituzioni, che trattiene dall’offendere
 
Attorno a queste due parole, al loro intreccio, si è sviluppata una parte significativa, certo non l’unica e non la più rilevante, della discussione seguita ai fatti di terrorismo a Parigi. Al di là della tragica contingenza la dialettica fra questi due sentimenti è centrale nel gioco delle relazioni personali e collettive, nella concezione degli stili e delle forme del dibattito culturale e politico, nella solidità delle basi di convivenza sociale. Ragionare sul loro intreccio, sul loro equilibrio, magari sbilanciandosi in un sorridente gioco di scelta fra l’una e l’altro, diventa una importante riflessione culturale ad ampio raggio ed un buon esercizio di cittadinanza attiva
 
 
 
 

6 commenti:

  1. Sto al gioco proposto dalla parola, doppia, del mese: fra rispetto ed irriverenza, pur non essendolo, credo, nei miei comportamenti, voto per l’irriverenza. Sono contro il rispetto? Non lo considero importante nei rapporti individuali e collettivi? Non proprio, ma immaginando che ci possa essere una sorta di plebiscito per il rispetto, una voce “stonata”, educatamente irriverente (perfetto ossimoro), può essere utile. Voto per l’irriverenza perché ho troppo “rispetto per il rispetto”, intendendolo non solo come l’astenersi dall’offesa, ma come profonda accettazione dell’altro, dell’alterità nel senso più pieno. Non credo però che questo rispetto appartenga all’umanità, a questa umanità; se, rinnegando la sua storia dalle origini dell’homo sapiens, l’uomo arrivasse a questa sua piena applicazione sparirebbero guerre, sfruttamento, violenza, sopraffazioni. Se di questo rispetto pare quindi impossibile parlare, si rientra allora in una sua versione “soft”, fatta di atteggiamenti, comportamenti, modi di relazionarsi, basati su codici morali costruiti in gran prevalenza sui “non”. Non offendere, non provocare, non invadere spazi altrui, non deridere, non criticare con troppa asprezza, per citarne alcuni. Anche di questo rispetto ho rispetto. Ma….ma con un primo distinguo. A me pare che questa versione soft si riduca, in troppi casi, ad una sorta di regole per stare sul ring; come a dire che i motivi di contrasto e contrapposizione, lungi dall’essere affrontati apertamente per tentare di superarli, siano bellamente accettati con la sola proibizione dei colpi bassi, vietati da un rispetto a quel punto solo più formale. Un esempio fra i tanti? Il politically correct. Dell’altro penso tutto il male possibile, magari fino al suo totale rifiuto, ma lo definisco, lo chiamo con parole pulite, “rispettose”, e poi magari assumo nei suoi confronti atteggiamenti concreti duri, pesanti, violenti, lontanissimi dal vero rispetto. E allora perché non rivalutare un sano esercizio dell’irriverenza, dell’insolenza, del gioco aperto, in cui non si nega all’altro un rispetto vero, nel profondo, ma lo si esercita nel gioco aperto del mettersi a nudo e del mettere a nudo? Perché non riconoscere al coraggio di dire, di sbeffeggiare, di irridere, il possibile merito di convogliare i motivi di rifiuto dell’altro su un piano meno ipocrita, più sincero e, se vissuto con reciproca accettazione, in definitiva più conciliante? Torna in mente la filosofica riabilitazione del cinismo antico che Sloterdijk fa nella sua “Critica della ragion cinica”, un cinismo che rifiutava autorità, idealismi vuoti, false adesioni alle regole, con la pratica sfacciata della satira, dell’impertinenza, dell’insolenza, dell’irriverenza. Eccola qui, recuperata dal bagaglio, tutt’altro che banale, del cinismo classico di Diogene. Eccola qui, ritrovata nello spirito antico, quello vero, delle Carnevalia, dei Carnevali, quando diventava lecita perché utile a dire ad alta voce, ridendo e sbeffeggiando, verità fin lì solo sussurrate. Come non riconoscere che le critiche che riceviamo suonano più efficaci quando ci arrivano con la veste dello sberleffo, dello scherno? Certo ci lamentiamo della mancanza di rispetto, ma è quello che brucia o lo scoprirci nudi e spiazzati? Chiudo questa mia “provocatoria” difesa dell’irriverenza sottolineando un'altra sua valenza: quella di non risparmiare niente e nessuno, e di questo coraggio nel dire, in un mondo indirizzato a ben tristi scenari, ce n’è un gran bisogno. Mi ha colpito leggere dell’imbarazzo dei redattori di Charlie Hebdo, dicevano: abbiamo fatto dell’irriverenza verso tutti i simboli la nostra battaglia, che facciamo adesso che noi stessi siamo diventati un simbolo? Saremo irriverenti anche verso noi stessi

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  2. Tra rispetto e irriverenza non voglio dover scegliere in una forma così escludente perché mi sembrano due atteggiamenti essenziali per l’essere umano. Voglio poterli praticare entrambi a tempo e a modo, secondo la misura che mi è propria, o che mi è suggerita dalle circostanze o ancora dal principio di responsabilità.
    Un mondo di irriverenti ad ogni costo, mi priverebbe della possibilità di esserlo al momento opportuno, togliendo ogni valore al gesto.
    Un mondo di rispettosi sempre ad ogni costo mi priverebbe della dignità.
    Sulla questione penso che non esistano regole auree e preferisco pensare nei termini un po’ approssimativi come in una ricetta di cucina ( va così di moda!): una manciata abbondante di rispetto con un pizzico di irriverenza al momento opportuno.
    A questo proposito vi segnalo su Repubblica di venerdì 30 un interessante articolo che contiene uno stralcio del discorso della filosofa Martha Nussbaum.

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  3. Sulla parola rispetto ho poco da dire, penso sia una parola importante, alla base del vivere civile, molto professata ma, molto meno praticata. Il termine irriverente invece mi intriga, in verità è il suo contrario, riverente, che detesto. Saranno stati i 35 anni e più alla Fiat che mi hanno fatto incontrare ogni sorta di riverenza, di indecorosa rinuncia ad affermare la propria opinione, soprattutto se questa diversa da quella del potente di turno, che mi hanno condizionata a vedere in tale termine solo il suo aspetto negativo. Conosco la sterminata gamma di appelli al buon senso, al rispetto, alla moderazione, al quieto vivere, i richiami alla realpolitik con cui si vuole convincere gli altri della bontà del proprio pensiero. Nella parola irriverenza credo di poter riconoscere un distillato contro tutti questi uomini, queste donne, questo cancro.

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  4. Credo che Massima abbia detto, bene, quello che in molti (?) crediamo debba essere il giusto equilibrio tra rispetto ed irriverenza, mi riconosco nelle sue parole e nella calibrata alternanza dell'uno o dell'altra. La mia difesa d'ufficio dell'irriverenza ha la valenza di una provocazione a fin di bene. Mi spiego meglio. Viviamo tempi che ci propongono scenari realmente drammatici e con limitatissimi tempi per fronteggiarli. Pensiamo a quelli appena condivisi nell'ottima conferenza dell'Ing. Colombo, piuttosto che a quelli di guerra, di terrorismo barbaro e cieco, di cui stiamo discutendo dopo Parigi. Molto spesso, quando dati oltre il limite della preoccupazione e notizie oltre quello delle barbarie mi si impongono, mi coglie il timore che la "normalità" con la quale stiamo affrontando questi scenari sia del tutto inadeguata. E credo proprio che a comporre questa “normalità” concorra, non poco, la pratica del rispetto, degli altri, delle loro opinioni, delle istituzioni, del potere, di metodi e formalità, dei ruoli e, anche questo, delle convenienze. E invece sempre più quelli che viviamo sono tempi, e scenari, che richiederebbero più coraggio, più ostinazione, più perseveranza nel non mollare altro terreno, più sfrontatezza nel dire e nel chiedere cambiamenti. Li ho sintetizzati nella parola “irriverenza”, perché, ben sapendo che siamo tutti sulla lunghezza d’onda di Massima, volevo, provocatoriamente, capire quanto profonde siano le nostre preoccupazioni, la nostra indignazione e quindi la nostra voglia di reagire anche con adeguati cambi di paradigmi comportamentali. Non avevo certo in mente di invitarvi a folcloristici sbeffeggiamenti, ma contavo di tentarvi ad uscire dal guscio del rispetto, inteso come qui ho precisato. E quindi ho trovato davvero bella la lettura che Nives ha dato della parola irriverenza: il contrario di riverenza, non di rispetto. Quando questi si trasforma in riverenza, perché costretti a vivere in una situazione di potere che ti obbliga a ciò, o peggio ancora quando, per quieto vivere come ricorda Nives, comunque la adottiamo, allora si è passati alla rassegnazione, all’accettazione supina di qualcosa che invece dovrebbe essere diversa. Brava Nives! Dal “piccolo” della tua esperienza di lavoro, certamente grande per te, all’enormità degli scenari di cui parlavo il salto non è così impossibile; l’atteggiamento mentale è lo stesso. Quando il rispetto si trasforma in supina riverenza, si chiudono spazi ed orizzonti. In questo senso continuo a votare per l’irriverenza.

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  5. Entro nel dibattito sulle parole proposte perché mi sembra che esse appartengano ad un ambito di interrogativi che sono interni alla nostra associazione, e rispetto ai quali lo scambio di opinioni può configurarsi non come un semplice gioco intellettuale ma come ricerca di uno spazio civile di confronto. Preferisco peraltro accostare la prima di esse (irriverenza) alla sua parola complementare, e cioè alla reverenza: fino a che la dualità sarà sotto molti aspetti una delle leggi che governano questo nostro pianeta, non ci si può esimere – almeno così io credo – dal pronunciare l’una senza tenere ben presente l’altra.
    In effetti, se dovessi rappresentare graficamente la relazione fra queste parole, disegnerei due insiemi con una parte sovrapposta in cui porrei la parola “rispetto” considerandola interna ad entrambi. Questi due insiemi sono certamente assai grandi e con margini frammentati, perché le parole su cui stiamo riflettendo hanno un alone linguistico, un campo semantico dentro il quale c’è tutta la nostra storia culturale a cui si aggiunge la storia singolare di ciascuno di noi, che vi pone la sua particolare “coloritura”.
    Succede così che per me l’irriverenza sia di un giallo luminoso, se l’associo allo sguardo limpido del bambino della favola che nella chiara luce del giorno vede e dice senza infingimenti che il re è nudo, o se altrimenti prendo in considerazione lo sberleffo veloce o l’indagine ostinata e paziente di chi cerca di togliere al potere la sua maschera, demistificandolo (pur nella consapevolezza che il potere, come ci ha insegnato Foucault, ha mille volti, e che non tutti ci sono esterni).
    Parola che non si può sicuramente frequentare senza rischi, ben lo sappiamo. Non è raro infatti che questo giallo si tinga di sfumature rossastre, se pensiamo ai roghi che hanno incenerito, nei momenti più bui della nostra storia, coloro che non si sono piegati al dettato della dottrina, come quello che ha ridotto al silenzio Giordano Bruno. Non penso tuttavia solo al potere religioso e alle sue aberrazioni, ma a tutte le forme in cui una società chiude i suoi confini mentali con barriere invalicabili: del resto la fiaba non dice che cosa succede al bambino, dopo che la sua voce ha proclamato ciò che tutti vedevano, senza osare dichiararlo…
    Perché c’è chi pur di mantenere fede ad una sua interna “reverenza” (mi permetto qui di usare provvisoriamente questa parola, che presenta naturalmente dei margini di ambiguità, per meglio circoscriverla in seguito) verso qualcosa che ritiene meritevole di un personale sacrificio, porta la sfida ad un livello per cui spesso mette in gioco la propria vita, aprendo così una breccia nei muri del conformismo e del dogma che rendono sterile ogni cultura.
    Poi, naturalmente, dal momento che ad ogni ottava alta corrisponde un’ottava bassa, c’è anche il giallo acido di coloro per cui l’irriverenza diventa fine a se stessa, o che sono totalmente incapaci di pensare che ci sia qualcosa di grande a cui, in un certo senso – uso con molta precauzione questo termine - inchinarsi, il che non significa rendersi proni. Non sto infatti pensando a qualcosa che ci sovrasta e non sto ragionando in termini religiosi: posso pensare kantianamente al cielo stellato sopra di noi a cui corrisponde la legge morale al nostro interno (forse mi viene proprio da questa immagine l’impulso a colorare di blu la parola reverenza, a meno che questa scelta sia un portato più o meno consapevole dell’educazione religiosa dell’infanzia, per cui tendo ad associare a questo colore una qualità espansiva), o più semplicemente alla capacità che molti hanno, anche tante delle persone che conosco, di dedicare una parte importante della propria vita, del proprio lavoro, della propria azione sociale a ciò che ritengono degno di dedizione, all’uomo stesso, all’azione politica e civile e professionale…
    continua nel commento successivo

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  6. ....Certo, chiamare tutto questo “reverenza” può sembrare una forzatura, e risultare magari a queste stesse persone non particolarmente gradito: ben comprendo infatti che questa parola ha una storia così complicata alle spalle che maneggiarla con tale disinvoltura mi espone a qualche rischio di “sforamento”, che accetto peraltro serenamente. Perché sicuramente la reverenza può essere anche quella cosa odiosa e servile rispetto alla quale Nives giustamente proclama la sua avversione – è un blu assai cupo quello da cui entrambe desideriamo prendere le distanze! Ma dobbiamo anche riconoscere che non esistono parole totalmente chiare come non ne esistono di totalmente scure, perlomeno nell’ambito su cui stiamo riflettendo, e credo che sulla reverenza varrebbe la pena di fare qualche riflessione ulteriore.
    Vado ora al rispetto, e cerco di chiarire prima di tutto a me stessa perché vedo questa come una parola intersecata e dunque per me particolarmente degna di attenzione. Non c’è vero rispetto, infatti, se io non onoro l’altro attribuendogli la mia stessa capacità di evolvere, rinunciando pertanto ad accostarlo con eccessi di reverenza; nello stesso tempo pronunciare un Tu accanto ad un IO richiede la capacità di uscire dai confini ristretti del proprio essere e questo implica una forza morale non indifferente – penso alle riflessioni di Lévinas in cui il Tu si configura come risultante di un’azione attiva che accosta da vicino un sentimento assai affine alla reverenza. Ma anche se vogliamo usare termini meno altisonanti, è in questa zona di relazione, cui associo ovviamente il verde come colore secondario, derivante dalla combinazione del giallo e del blu, che io pongo il respiro indispensabile alla vita sul pianeta, perché proprio questo il rispetto ci chiede di fare: di misurarci con le contraddizioni e le imperfezioni dell’essere, in cui stanno tanto la bellezza quanto la difficoltà di realizzare ciò che chiamiamo “NOI”.

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