Maurizio Pallante è un eretico e un irregolare della
cultura. Laureato in Lettere, si occupa di economia ecologica e tecnologie
ambientali. Nel 2007 ha fondato il Movimento per la decrescita felice, di cui è
presidente onorario. Tra i molti libri pubblicati, ricordiamo “La decrescita
felice. La qualità della vita non dipende dal PI” (2005) e “Sono io che non
capisco. Considerazioni sull’arte contemporanea di un obiettore alla crescita”
(2013). Con le edizioni Lindau ha pubblicato “Monasteri del terzo millennio”.
Rompere il cerchio
crescita-migranti
I flussi di migranti
che a rischio della vita, e pagando altissimi costi anche in denaro,
attraversano su barconi improbabili il tratto di mare Mediterraneo tra le coste
del nord-Africa e dell’Europa del sud, suscitano nell’opinione pubblica dei
paesi in cui arrivano due reazioni contrastanti: quella umanitaria
dell’accoglienza in nome della fratellanza e dell’uguaglianza dei diritti di
tutti gli esseri umani, e quella egoistica del rifiuto dell’accoglienza che si
traduce nella richiesta di riportarli nei luoghi da cui sono partiti o di usare
la forza per impedire che partano. La prima reazione è dettata da motivazioni
religiose o da motivazioni politiche sostenute dalle frange più a sinistra
della sinistra. La seconda è motivata dalla paura per l’insicurezza sociale che
può essere innescata dall’arrivo di persone che non hanno nessuna risorsa per
vivere e che l’istinto di sopravvivenza può indurre a tentare di tutto per
riuscirci. Questa paura, che secondo i sostenitori dell’accoglienza sarebbe
immotivata, ma qualche fondamento lo ha, viene ingigantita e strumentalizzata
politicamente dai settori della destra più retriva. Ma né gli uni, né gli altri
fanno un’analisi approfondita delle ragioni per cui masse crescenti di persone
fuggono dai luoghi in cui sono nate e si riversano nei paesi dell’Europa
occidentale. Le analisi si fermano all’ovvia constatazione del fatto che ciò avviene
perché non riescono più a ricavare da quei luoghi il necessario per vivere e,
se non bastasse, sono diventati teatri di guerre tribali sanguinosissime e
interminabili. D’accordo, ma perché non riescono più a ricavare da vivere dai
luoghi in cui per migliaia di anni sono vissuti i loro antenati e perché quei
luoghi sono diventati teatri di guerra? Queste domande non solo non ricevono
risposta, ma non vengono neppure formulate. Eppure, se non si capiscono le
cause, non si può ovviamente nemmeno tentare di rimuoverle e se ci si limita a
cercare di attenuarne le conseguenze, si pu
addirittura correre il rischio di rafforzarle. Le considerazioni che
seguono sono un tentativo di dare una risposta a queste domande, risalendo
dapprima velocemente alle cause remote, per poi svolgere altrettanto
velocemente qualche riflessione sulle cause immediate. La prima considerazione
da fare è che le migrazioni sono una necessità intrinseca delle economie che
hanno finalizzato le attività produttive alla crescita della produzione di
merci. Lo sono state sin dall’inizio della rivoluzione industriale in
Inghilterra nella seconda metà del settecento, quando in conseguenza di alcune
leggi vessatorie contro l’agricoltura di sussistenza, i contadini non riuscirono
più a ricavare dalle loro terre ci di
cui avevano bisogno per vivere e furono costretti a emigrare nelle città, dove
trovavano da lavorare come operai nei primi opifici in cambio di un misero
reddito monetario che li metteva in condizione di comprare sotto forma di merci
i beni che non potevano più autoprodurre. Senza le migrazioni forzate degli
ex-contadini, l’industria non avrebbe trovato non solo la manodopera di cui
aveva bisogno per produrre merci, ma nemmeno un numero sufficiente di persone
provviste di reddito monetario in grado di acquistare le merci prodotte.
La crescita della
produzione industriale, con cui è stato identificato il benessere, richiede un
aumento costante dei produttori e consumatori di merci, che sono due facce
della stessa medaglia, perché per avere il denaro necessario a comprare le
merci, a meno che non si viva di rendita, occorre lavorare nella produzione di
merci, o nei servizi necessari al funzionamento di una società che tende a
mercificare tutto, in cambio di un reddito monetario. Pertanto, ha sempre avuto
bisogno di costringere, con la forza legale dello Stato integrata da forme di
forza illegale, e contestualmente di convincere, con l’uso dei mezzi di
comunicazione di massa, numeri crescenti di persone a passare dall’economia di
sussistenza all’economia mercantile. Un’economia finalizzata alla crescita
della produzione di merci ha bisogno di distruggere le economie di sussistenza
e di avviare flussi migratori dalle campagne alle città, prima in ambito
regionale (come è avvenuto in Italia nella prima metà del novecento), poi a
livello nazionale (come è avvenuto in Italia nella seconda metà del novecento),
poi a livello internazionale, come è avvenuto in Europa a partire dagli anni
ottanta del secolo scorso con l’arrivo di migranti dai paesi dell’Est e
dall’Africa. Per venire ai flussi migratori che hanno destato tanto allarme in
questi giorni, l’11 maggio 2015 il banchiere Carlos Moedas, Commissario europeo
alla ricerca, all’innovazione e alla scienza, ha dichiarato all’emittente
francese Europe1: «Bisogna avere più immigrati in Europa. L’immigrazione è
necessaria alla crescita ed è certo che se potessimo avere più persone,
potremmo avere più crescita. Il mio messaggio ai francesi e all’Europa è che
dobbiamo aprire le nostre porte».1 Con una sintonia che potrebbe stupire, il
dossier Migranti, attori di sviluppo, presentato il 4 giugno 2015 all’Expo di
Milano dalla struttura della Chiesa cattolica che si occupa di questo problema,
la Caritas/Migrantes, ha messo in evidenza che i migranti costituiscono una
ricchezza per l’Italia, perché producono l’8,8 del prodotto interno lordo, pari
a oltre 123 miliardi di euro. E vengono pure pagati meno dei lavoratori
italiani: un italiano guadagna in media 1.326 euro al mese, un cittadino comunitario
993, un extracomunitario 942. Per non parlare di chi lavora in nero, a cui
viene dato solo il necessario per sopravvivere e tornare a lavorare giorno dopo
giorno fino a quando ce n’è bisogno. Cosa si può volere di più? Nell’ultimo
trimestre del 2015, in concomitanza con un’improvvisa accentuazione dei flussi
migratori in diversi Paesi europei, si sono moltiplicati sui mass media gli
interventi sui vantaggi che i migranti apportano alla crescita economica di
questi Paesi, ai loro pensionati e al loro welfare state. A volte con
argomentazioni in cui la malafede è troppo scoperta per essere consapevole:
«Per salvare le nostre pensioni servono 250 milioni di rifugiati entro il
2060».2 Ben peggio di un’ennesima conferma che il gran parlare d’accoglienza è
un’ipocrisia: ai popoli ricchi serve che aumenti il numero dei rifugiati, di
coloro che sono costretti ad andarsene dalle loro terre. Se gli Stati europei
hanno questa esigenza, potranno adoperarsi per eliminare, o quanto meno
ridurre, le cause che costringono i più poveri dei popoli poveri a
intraprendere quei viaggi infernali che spesso si concludono con un naufragio?
O faranno in modo di accentuarle? Brutto segno se di arriva a scrivere cose di
questo genere, per di più in nome della solidarietà e dell’accoglienza. Per
cortesia, lasciamo stare tutta questa retorica basata sui buoni sentimenti,
sulla carità cristiana, sulla fratellanza e sulla giustizia sociale. Non che
non ci sia chi agisce con questa nobiltà d’animo, ma finisce col fare il
cavallo di Troia di chi, invece, utilizza i migranti (che per lo più sono
persone nel pieno della loro forza fisica e della loro lucidità mentale) per far
crescere il prodotto interno lordo dei paesi ricchi, utilizzando teste e
braccia che potrebbero produrre ciò che serve per far uscire dalla miseria i
propri paesi d’origine. Per non parlare di chi, come si è visto con l’indagine
di Mafia Capitale, utilizza per arricchirsi illegalmente i finanziamenti
stanziati per l’accoglienza temporanea dei migranti. Le migrazioni dai paesi
non industrializzati verso i paesi industrializzati sono causate dal fatto che,
per sostenere la crescita dei loro sistemi economici, i paesi industrializzati
depredano i paesi non industrializzati delle loro risorse, istigano i popoli
che li abitano a farsi guerre fratricide, li cacciano dalle loro terre
comprandole per un tozzo di pane perché non esistono catasti, corrompono i loro
governanti, li portano al potere d’imperio, li sostituiscono e li fanno
uccidere se diventano un ostacolo per i loro interessi, usano i contributi
economici dei governi occidentali ai popoli in via di sviluppo per costringerli
a passare dall’economia non mercantile all’economia monetaria, dall’agricoltura
tradizionale di sussistenza, da cui hanno sempre tratto da vivere, alle
monocolture per il mercato mondiale, inducendoli a fertilizzare chimicamente i
terreni per aumentare le rese fino a renderli sterili. E mentre li
impoveriscono scientificamente, anche col pretesto di aiutarli, fanno balenare
davanti ai loro occhi la possibilità di accedere alle meraviglie tecnologiche
dei paesi industrializzati. Se i migranti se ne vanno dai loro paesi dove non
riescono più a vivere e contribuiscono col loro lavoro a far crescere il
prodotto interno lordo dei paesi industrializzati, contribuiscono ad accrescere
la ricchezza di questi paesi e ad accentuare il loro fabbisogno di risorse. Per
procurarsele i paesi industrializzati continueranno a rapinarle ai paesi non
industrializzati, continuando a utilizzare tutte le forme di violenza e
sopraffazione con cui sottomettono i popoli poveri e accentuano la loro povertà
inducendoli a emigrare per vivere. Le migrazioni tendono ad autoalimentarsi. Se
non si preoccupano di intervenire sulle cause, le organizzazioni umanitarie in
cui si impegna la componente più generosa della nostra società, contribuiscono
a prolungare nel tempo l’ingiustizia e l’iniquità nei confronti dei più
derelitti. Premesso che alleviare una sofferenza è un dovere morale e,
pertanto, deve essere svolto tempestivamente senza se e senza ma, capirne le cause
è un dovere intellettuale. La comprensione delle cause che attivano i flussi
migratori dall’Africa ai paesi dell’Europa occidentale è offuscata dal sistema
dei valori che accomuna, al di là delle differenze, tutte le correnti di
pensiero nei paesi in cui l’economia è stata finalizzata alla crescita della
produzione di merci. Per descrivere gli occupanti dei barconi che arrivano
sulle coste dell’Italia meridionale, o affondano tragicamente nel canale di
Sicilia, i mass media ripetono un luogo comune di cui non immaginano le
implicazioni culturali: «disperati che si sottopongono a sofferenze indicibili
e mettono a rischio la loro stessa vita alla ricerca di un futuro migliore». Il
futuro migliore sarebbe l’inserimento nelle società in cui vivono i popoli che
si autodefiniscono sviluppati perché hanno un alto valore del prodotto interno
lordo pro-capite. Convinti di appartenere alla società più evoluta che sia mai
apparsa nella storia, inevitabilmente questi popoli pensano che il massimo
desiderio dei popoli che essi definiscono sottosviluppati, sia di condividere i
loro stili di vita. Di diventare sviluppati anche loro. Non riescono nemmeno a
immaginare che possa esistere un’idea di benessere diversa dalla crescita del
prodotto interno lordo pro-capite, magari più vera e più capace di futuro. Non
si rendono conto che nei confronti dei migranti dall’Africa in Europa, come nei
confronti dei contadini, degli artigiani e delle comunità nei paesi in via di
sviluppo, si sta ripetendo la stessa storia iniziata nel diciottesimo secolo in
Inghilterra.
L’unica possibilità
per attenuare le sofferenze dei migranti dai paesi africani, non è spianare,
seppure con le migliori intenzioni, la strada all’esigenza delle economie della
crescita di accrescere con le migrazioni il numero dei produttori e consumatori
di merci per continuare a crescere, ma impegnarsi affinché i paesi
industrializzati abbandonino la finalizzazione dell’economia alla crescita,
riscoprendo l’importanza dell’autoproduzione per autoconsumo, dell’agricoltura
tradizionale, dell’artigianato, dei rapporti comunitari, dell’economia del
dono, della sobrietà, del rispetto della terra, della simbiosi che lega
l’umanità alla fotosintesi clorofilliana attraverso il respiro, della bellezza,
della contemplazione, della spiritualità. Questo recupero di valori e di
modelli di comportamento del passato è una condizione necessaria per ridurre
l’impronta ecologica della specie umana e per consentire una più equa
ripartizione delle risorse tra i popoli, ma non sarebbe sufficiente se non
venisse accompagnato da un grande slancio progettuale di innovazioni
tecnologiche finalizzate all’aumento dell’efficienza nell’uso delle risorse
della terra, in modo da renderne compatibile il consumo con la loro capacità di
riprodursi e di metabolizzare le emissioni che, inevitabilmente, si producono
nei processi che le trasformano in beni atti a soddisfare le esigenze vitali
della specie umana. Solo la decrescita della produzione di merci nei paesi
industrializzati, attuata mediante l’adozione di stili di vita più responsabili
e di tecnologie finalizzate eticamente, può ridurre la loro necessità di
risorse, evitare che le sottraggano ai popoli poveri utilizzando forme
inenarrabili di violenza di massa nei loro confronti, evitare di costringerli a
emigrare rischiando la vita perché non riescono più continuare a vivere, come i
loro avi, con le risorse della terra in cui sono nati. Solo una decrescita con
quelle caratteristiche può consentire di realizzare condizioni di maggiore
giustizia non solo tra i popoli, ma anche con le generazioni future.
Nell’enciclica Laudato si’, con cui Papa Francesco già dal titolo ha voluto
sottolineare la ragione per cui ha scelto il suo nome di pontefice, la
decrescita dei consumi di risorse da parte dei popoli ricchi viene indicata,
seppur con alcune cautele che sembrano motivate dalla preoccupazione di
attenuarne l’impatto sul paradigma culturale fondante delle società
industriali, come la condizione imprescindibile per realizzare una maggiore
equità tra i popoli. «[…] è arrivata l’ora – scrive il pontefice – di accettare
una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si
possa crescere in modo sano in altre parti». Anche se questa interpretazione
non evidenzia con chiarezza la connotazione della mercificazione insita nella
crescita economica, ma indica soltanto la diminuzione dei consumi di risorse da
parte dei popoli che hanno più del necessario per consentire di aumentare la
disponibilità delle risorse necessarie a soddisfare i bisogni vitali dei popoli
poveri, per la prima volta la decrescita riceve un riconoscimento della massima
autorevolezza morale e viene indicata come la condizione indispensabile per
realizzare in questa fase della storia la pulsione all’eguaglianza insita
nell’animo umano, che costituisce l’elemento caratterizzante dell’insegnamento
di Cristo.
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