venerdì 5 febbraio 2016

Conferenza sul "caso Ungheria" di Claudio Vercelli - sintesi di Massima Bercetti


Mercoledì 3 febbraio Claudio Vercelli ha affrontato con grande passione e lucidità la complessa e non così nota situazione della Ungheria
 
guidata dal 2010 da Viktor Orban leader di Fidesz, un partito conservatore, ipernazionalista e autoritario, cresciuto sulle ceneri del fallimento dei precedenti governi socialisti che avevano gestito la transizione dal passato regime all’ingresso nell’Unione Europea.

La risposta di Orban ai bisogni degli ungheresi impoveriti dall’intreccio delle politiche liberiste con crisi economica, secondo il relatore, è stata, in prima battuta, prevalentemente mitologica. Ad una popolazione, poco educata alla prospettiva dei diritti, in affanno di far fronte al mercato globale e a una disoccupazione crescente Orban ha offerto:

- un’idea di appartenenza alla comunità magiara, ben più ampia, dopo il trattato di Trianon del 1920, della attuale Ungheria. Orban ha lanciato un richiamo revanscista che rischia di destabilizzare un’area fragile, contravvenendo alla lettera e allo spirito dell’Unione Europea, nata dopo le carneficine delle due guerre mondiali proprio per mettere fine ai pericoli dei nazionalismi
- una prospettiva plasmata dall’idea della lotta al nemico esterno, intravisto nell’Unione Europea, nella Trojka, nei complotti internazionali della finanza, nei migranti e al nemico interno, incarnato nella comunità Rom, ma anche da tutti coloro che di volta in volta sono identificati con dei parassiti che succhiano le risorse del popolo.
Il consenso di Orban si spiega anche a partire dal fallimento dei precedenti governi socialisti che non hanno saputo intercettare i bisogni profondi del paese e soprattutto del proletariato urbano, recentemente inurbato, e delle campagne.

Ritorna dunque anche in questa occasione il problema di élites progressiste, cosmopolite, ma autoreferenziali, convinte di parlare al mondo, mentre spesso parlano a se stesse.
Se è vero che Orban è riuscito a intercettare il consenso parlando il linguaggio caldo del mito, contro il linguaggio delle circolari e dei protocolli, i progressisti dovrebbero imparare a costruire, oltre ai necessari progetti credibili per un’azione di governo, linguaggi accoglienti e forse anche nuovi miti e buone pratiche all’altezza delle sfide future. Certamente uno dei problemi dell’Europa sta anche e ovviamente non solo, nel fatto che non ha saputo scaldare i cuori e costruire un’ idea di cittadinanza europea, unico antidoto alla balcanizzazione e al ritorno delle guerra in Europa.

Una serata dunque questa dedicata all’Ungheria, ma non solo. Il modello ungherese è un caso perché rappresenta una opzione che purtroppo incombe sulla Europa in un momento di grande fragilità economica e di discredito delle istituzione europee accompagnata dalla ripresa del consenso ai partiti di destra anche estrema.

4 commenti:

  1. Se già si sapeva, molto sommariamente, dell’evoluzione autoritaria impressa da Orban, la sua assurda decisione di costruire un muro anti-migranti (ben presto imitata da troppi altri paesi) ha fatto crescere l’attenzione verso quanto, da alcuni anni, sta succedendo nel cuore della Mittel Europa. La dettagliata relazione di Claudio Vercelli, ben sintetizzata da Massima, ha confermato che l’esperienza ungherese contiene importanti elementi di riflessione. E di preoccupazione per chi, memore delle tragedie del Novecento, ha ancora a cuore la tenuta di un’Europa unita. Sono tre, ovviamente fra loro intrecciati, i temi che di più mi hanno colpito e interessato. Accanto a quello delle ragioni ultime che dovrebbero sostenere l’idea di Europa unita e a quello dell’impotenza/suicidio delle sinistre “neo-liberiste”, sui quali magari tornerò in seguito, vorrei nello spazio di questo commento soffermarmi su quello della centralità dei richiami nostalgici e “mitologici” nelle politiche portate avanti da partiti e movimenti conservatori, e nazionalisti, di destra (non necessariamente “fascisti” nell’accezione classica del termine, come ci ha precisato Vercelli). La “mitologia” della grande nazione magiara ha certamente aspetti di coinvolgimento particolari ma, fermi i debiti distinguo, mi ha ricordato quanto sentito pochi mesi fa, nella conferenza dedicata alla vicenda bosniaca, sul richiamo al tempo fatto da Milosevic all’antico regno Serbo, che di fatto diede avvio al conflitto nell’ex Jugoslavia. Mi pare che questi richiami ad un glorioso tempo antico di forte identità comunitaria, presenti in modo trasversale non nella sola Ungheria, sia il terreno primario sul quale si sta costruendo il successo di tanti nazionalismi. Il nazionalismo, così come è stato finora interpretato, aveva origine, per nulla velata, “nella difesa degli “interessi” nazionali”. Attorno ad essa veniva costruita, o ripresa, ma comunque strumentalmente utilizzata, una identità di popolo, di comunità. Con la connessa individuazione dei nemici, nuovi o storici che fossero. Ora sembra di cogliere un processo in parte inverso. Certo restano in sottofondo il peso delle contraddizioni che la globalizzazione neo-liberista ha creato, e quello di una unità Europea vista come una tecnocrazia al suo servizio. Ma, con una sorta di inconsapevole rassegnazione del dato economico, esse non vengono combattute in nome della “difesa degli interessi nazionali” quanto piuttosto per recuperare il senso di identità di popolo, di comunità, di appartenenza storica. Aspetti che, come giustamente ha evidenziato Vercelli, al contrario non comportano vantaggi e successi in campo economico. Pare cioè che troppo in fretta la globalizzazione, nella sua pretesa, anche culturale, di immaginare una umanità tutta protesa al presente ed al futuro, ha dato per morte e sepolte le vecchie identità culturali, e che, al contrario, proprio il rifiuto di quel presente e di quel futuro, così carichi di paure e problemi, stiano, più ancora dei meri interessi economici, facendo risorgere il ruolo delle identità comunitarie. Chiudo con una domanda provocatoria: se ha un minimo di senso condiviso quanto qui detto, ovviamente molto sinteticamente, questo rifiuto della modernità globalizzata (o quantomeno di alcuni suoi aspetti, magari non tutto è da buttare), questa esigenza di collegamento con il passato, con la storia, con le radici, deve essere per forza declinato a destra? Deve obbligatoriamente essere la base del successo dei “nuovi vecchi” conservatorismi nazionalisti?

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  2. Sono d’accordo con Giancarlo: perchè lasciare tutto ciò che scalda i cuori alla destra, e non farne invece per noi qualcosa di evolutivo anziché di regressivo? Immaginazione, memoria e discorso razionale non sono certo incompatibili. Io li ricordo bene, gli anni in cui chi leggeva “Il signore degli anelli” veniva subito additato come naturaliter di destra, e le fiabe antiche si potevano raccontare a figli ed allievi solo con finali diversificati in cui i lupi erano vegetariani e le ragazze diventavano astronaute e non principesse. C’erano buone ragioni, naturalmente, questo rovesciamento era importante, l’ho fatto anch’io ma non sempre, sentivo che c’era dietro qualcosa di più profondo anche se non sapevo bene cosa. Poi è arrivato Bettelheim, e abbiamo cominciato a capire qualcosa di più…
    Ora però, lasciando da parte le fiabe, il tema è complesso: ripensare Herder rispetto a Hegel? Come farlo, da sinistra, evitando di passare dal copiare le ideologie neoliberiste a copiare quelle del sangue e del suolo?

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  3. Non penso che si debba “copiare” la destra, “sangue” e “suolo” le sono, nella loro versione destrorsa, concetti del tutto estranei. Penso però che la sinistra (anche se sarebbero necessari MOLTI distinguo) debba smettere di pensare che il mondo sia iniziato con sé stessa. Ritengo che tutto sia nato da una errata interpretazione dei testi marxisti (il “Manifesto” innanzitutto) che ha prodotto la convinzione che l’ingresso sulla scena della storia della “classe dei lavoratori” abbia azzerato tutte le radici e vestigia del passato, stupidamente giudicate un ingombrante residuo reazionario. Una di queste radici consisteva proprio nel “senso di comunità” (locale, etnica, culturale in senso lato). Come se l’espropriazione dei mezzi di produzione abbia significato anche l’espropriazione dei legami di comunità. Basterebbe rileggersi, per meglio capire questa errata rimozione, la visione di Marx (specie quello dell’ultimo periodo in cui si rivela molto interessato a visioni “antropologiche” evoluzionistiche) dell’uomo come “animale politico” per capire che il “senso della comunità” fosse tutt’altro che una zavorra di cui liberarsi. Il più importante monito che ci viene da vicende esemplari come quella ungherese, efficacemente riassunta da Vercelli proprio in questi termini, è l’imperativo per la sinistra di guardare al passato, alla storia delle “comunità” con occhi diversi. Il richiamo del Manifesto all’unione dei proletari di tutto il mondo non implicava affatto l’automatico ’abbandono delle proprie radici. Significava invece “mettere insieme” queste radici. Questo errore di partenza ha creato spazio per la destra e la sua opposta forzatura verso il “mettere contro” (purtroppo in questo aiutata dall’eredità negativa di una storia a lungo segnata dalle mire espansioniste dei poteri monarchici e religiosi e del conseguente contrapporsi fra comunità. La Prima Guerra Mondiale è stata la tragica apoteosi di questo errore, con i Partiti Socialisti impotenti nel fronteggiare la degenerazione strumentalizzata dei vari nazionalismi. Solo la spaventosa prosecuzione nel secondo conflitto ha finalmente prodotto, anche a sinistra ma non solo, l’idealità di una Europa Unita capace di “mettere insieme”. La successiva banalizzazione di questa idealità in una prospettiva economicistica e tecnocratica, compiuta da troppe “sinistre”, è il nuovo errore che ha riconsegnato alla destra reazionaria lo spazio per il rilancio del senso di comunità nella sua versione del “mettere contro”. La scommessa per una sinistra diversa dovrebbe quindi consistere nel porre fine alle diffidenze preconcette verso il senso di “comunità” nella prospettiva di non rifiutarla più aprioristicamente ma di “(ri)leggerla” (anche nei suoi aspetti “scomodi” come abbiamo recentemente visto nel riflettere sulla Bosnia) per creare, anche su di essa, le basi, innanzitutto culturali, per un rilancio del “mettere insieme”.

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  4. Vorrei solo fare due personalissime osservazioni:
    1) I fatti di Ungheria (e non solo) mi spingono a pensare che è urgente che la sinistra elabori velocemente e unitariamente un’ idea alternativa e innovativa forte, al fine di combattere una seria lotta contro il sempre più diffuso disagio sociale anziché perdersi in calcoli più o meno opportunistici sulla possibile rivisitazione in chiave ‘liberal’ dei miti della patria e del passato. La sinistra è debole perché è percepita come una estensione dei VALORI della trojka, come amica di questa Europa tecnocratica, come responsabile di questa realtà sociale disastrosa. Molte persone, non sentendosi protette concretamente, percepiscono come rassicuranti coloro che pur non dando risposte politiche concrete fanno appello al desiderio di difesa che la paura incontrollata genera.
    2) E’ vero però che la sinistra deve anche affrontare senza pudore le tematiche connesse alla storia e alla comunità (ricordiamoci del grande contributo dato da Antonio Gramsci, con i suoi studi sul folklore e sulla cultura popolare): per rimanere sull’attualità, l’ esperienza di comunità delle popolazioni valsusine contro il Tav non va demonizzata, o considerata solo un insopportabile inciampo sulla strada di un non ben definito “progresso”. Tanti sono gli esempi positivi di recupero comunitario importante, e forse non è del tutto corretto rivisitare tali problematiche in relazione ai fatti di Ungheria (e non solo!!!) quando il vero scopo dell’ innalzamento di nuove barriere è quello di ritornare ai vecchi nazionalismi.

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