Peter Sloterdijk: “L’ultima sfera” Breve storia filosofica della globalizzazione
Peter
Sloterdijk è uno dei più originali e controversi
intellettuali europei.
Fra
le sue opere, ricordiamo la monumentale trilogia di “Sfere” in cui esamina gli spazi di
coesistenza, cioè i contenitori materiali e simbolici in cui l’uomo pensa se stesso e il mondo, oltre
ad un testo,“Devi cambiare la tua vita” in cui ripercorre in chiave
antropotecnica il tema filosofico della cura di sé.
Nel capitolo
introduttivo del testo, Sloterdijk affronta subito il tema centrale, spiegando
intanto che cosa sia esattamente l’ultima sfera cui si fa riferimento nel
titolo, e nel contempo dando un chiarimento essenziale sul termine
“globalizzazione” che viene usato a suo giudizio in modo superficiale, non
inserendolo in una corretta prospettiva temporale.
Assume pertanto come
fuoco prospettico della sua analisi quel momento davvero eccezionale della
storia europea (che possiamo far iniziare alla fine del quattrocento,
estendendolo poi nei tre secoli successivi) in cui gli europei hanno dovuto
affrontare da un lato una rilevante perdita metafisica che ha comportato,
secondo Sloterdijk, una vera e propria “catastrofe immunitaria”, mentre
avvenivano, dall’altro, alcuni fatti straordinari che venivano visti come
portatori di una fondamentale conquista culturale (un termine, questo, che
l’autore usa con molta circospezione, interpretandolo nel testo assai
criticamente).
In quegli anni, che
rappresentano un vero e proprio spartiacque storico, è venuta infatti a
crollare, per effetto delle intuizioni dei filosofi e delle scoperte degli astronomi sulla reale
posizione della terra nello spazio cosmico, l’idea di una Terra contenuta nel
perfetto sistema cattolico-aristotelico delle sfere concentriche, che
offrivano, o sembravano offrire, una forte protezione immunitaria – oltre ad un
preciso orientamento spaziale in cui era ben possibile distinguere il dentro
dal fuori, il centro dalla periferia, l’alto dal basso. E’ pur vero che in
questo sistema era la Terra, di fatto, a rappresentare il luogo del basso,
della decadenza, in cui non era dato agli umani di riuscire a respingere la
morte, anche se si presumeva di poter ascendere spiritualmente nell’ultramondo:
ma non c’è dubbio, dice Sloterdijk, che questa concezione di un universo
ordinato a cerchi concentrici garantiva in qualche modo la sicurezza di una
totalità chiusa, offrendo alla terra come suo cielo l’intera volta stellare.
Da quel momento in poi
invece il nostro pianeta comincerà ad essere percepito come un astro
errante in uno spazio sconfinato, in cui
non ci si può sentire “dentro” e di cui non si può sicuramente essere “centro”, venendo così forzati a
riconoscere l’assoluta provvisorietà del nostro abitare in esso. Non è cosa da
poco, perdere il proprio cielo e la sensazione di rappresentare il
riconoscibile centro di un mondo ordinato e perfetto: e in effetti, osserva
Sloterdijk, l’afflizione per una Terra priva di cieli si protrarrà a lungo,
fino ad Heidegger…
D’altro lato però gli
europei, con un passaggio fondamentale di prospettiva, cominceranno a
conoscere, attraverso i peripli dei marinai, le misurazioni dei cartografi e le
indagini dei nuovi scienziati della natura, la realtà di un corpo tondeggiante
e certo imperfetto, lontanissimo da quell’idea di sfera elaborata dagli antichi
filosofi e matematici come luogo della perfezione concettuale ed estetica, ma
in compenso aperto all’indagine empirica e per questo tanto più interessante
agli occhi di chi si muoverà in esso coniugando, nell’idea di “scoperta”, tanto
la spinta conoscitiva che quella pratica.
E’ da questo momento
che la Terra comincerà davvero ad essere percepita come un globo. Quella che
chiamiamo globalizzazione, intendendola come il portato di una storia recente
originata dalla velocizzazione delle comunicazioni, non è altro infatti,
secondo Sloterdijk, che l’ultimo atto di un processo iniziato molti anni fa, e
precisamente all’inizio dell’epoca moderna, da quando il globo terrestre non è più
stato soltanto l’oggetto di una speculazione filosofica, ma di una prassi reale
intesa al suo rilevamento, da quando gli europei sono usciti dal dentro della
protezione immunitaria delle sfere cosmiche al fuori del silenzio dei cieli,
dal Vecchio Mondo al Nuovo Mondo: un
FUORI che rappresentava il futuro e verso il quale si lanceranno navigatori,
esploratori, avventurieri, commercianti, colonizzatori, in rappresentanza di popoli
e sovrani, con una spinta espansionistica senza pari di cui l’autore esamina la
dimensione culturale e filosofica, più che quella strettamente storica.
Vediamo dunque più da
vicino, pur sintetizzandoli, i vari passaggi argomentativi della sua
ricostruzione, che prende in esame dapprima una serie di questioni più
accentrate sulla dimensione spaziale per focalizzarsi poi sull’idea di scoperta
come svelamento e sulle sue conseguenz
1. Una
rivoluzione spaziale orientata verso l’esterno: (il viaggio
di Magellano e la percezione della Terra come “globo”)
A
giudizio di Sloterdijk, le imprese navali di Magellano e del Caro (1519/22) e
poi successivamente di Francis Drake (1577/80) meritano di entrare in una
storia filosofica della globalizzazione, perché attraverso di esse viene messo
in atto, sviluppando l’intuizione di Colombo, un cambiamento direzionale di
enorme portata. Da allora in poi infatti andare verso il Fuori significa andare
verso ovest: quella comprensione della
Terra che chiamiamo globalizzazione avviene sotto il segno di una tendenza
atlantica che risulterà irreversibile, e del resto è da allora che l’Europa comincia
a percepire se stessa come “Occidente”. Ora, secondo Sloterdijk, andare verso
ovest non ha solo un significato geografico, non indica solo una mera direzione
spaziale, ma reca con sé un più profondo significato filosofico e culturale.
Vuol dire, per l’occidente, emanciparsi dal suo orientamento tradizionale verso
l’oriente, da sempre inteso come portatore di una superiorità
mitico-metafisica: implica dunque uno staccarsi dalla stabilità del passato e
delle origini per andare verso il futuro, verso un divenire che si considera
promettente.
- l’ingresso in uno spazio omogeneo:
Questo
cambiamento direzionale si accompagna inoltre, grazie al periplo compiuto da
Magellano, ad una percezione molto più
concreta e tangibile della Terra come globo, che porterà ad una vera e
propria rivoluzione nel modo di pensare e di rappresentare lo spazio. Da allora
in poi, dice Sloterdijk, saranno i mappamondi e poi i planisferi e le carte
geografiche a dire agli uomini del tempo dove sono, dove stanno andando, che
cosa stanno scoprendo, e in un certo senso chi sono: la localizzazione spaziale
non sarà più determinata dagli odori, dai suoni, dagli oggetti totemici dei
luoghi natali, che si presumono abitati da un particolare “genius loci” e che
possono essere tranquillamente pensati da ognuno come l’ombelico del mondo, ma
sarà il risultato di un rilevamento molto più astratto.
In
uno spazio circolare infatti i luoghi sono destinati fatalmente a diventare
ubicazioni, punti equivalenti ad ogni altro punto rispetto al quale si può
andare e tornare: lo spazio diventa
così uno “spazio globale
localizzato”, con il quale si apre la strada non tanto al concetto di
“circolazione”, che a giudizio di Sloterdijk viene usato impropriamente per
indicare il movimento di uomini, di merci, di denaro che si trasforma in merce
e ritorna come denaro, ma al concetto tutto moderno di “traffico”, che
presuppone uno spazio simmetrico dove ogni punto è punto di arrivo e punto di
ritorno.
(sul concetto di “traffico” come quintessenza
di movimenti reversibili in un mondo che vuole soltanto essere attraversato
senza diventare palestra esperienziale, Sloterdijk propone come esempio
paradigmatico “Il giro del mondo in 80 giorni” di Jules Verne (1873), in cui viene messo in scena un personaggio – l’inglese
Fileas Fogg- che per vincere una scommessa attraversa il mondo intero, del
tutto indifferente a ciò che in esso accade fuorché alle coincidenze
ferroviarie …)
In
questa ricostruzione peraltro non sono ancora in scena i moderni turisti globali
e coloro che viaggiano per affari: siamo nel tempo dei veri e propri “viaggiatori”,
di chi si avventura nel Mondo Fuori tendendosi allo stesso tempo alla scoperta
e allo svelamento come alla presa e allo
sfruttamento. Torniamo dunque a loro e al mare che essi attraversano.
- la prevalenza dell’elemento marittimo:
Abbiamo
parlato non casualmente del mare, perché il viaggio di Magellano, con la
scoperta dell’Oceano Pacifico, viene a segnare la fine della credenza tolemaica
della prevalenza delle masse terrestri, operando un vero e proprio
capovolgimento oceanografico nella concezione della Terra. Si prende atto
infatti della prevalenza in essa
dell’elemento acquatico (prima stimato, dallo stesso Colombo, solo un settimo
della sua superficie, mentre i mari e gli oceani ne occupano in realtà i tre
quarti: tanto è vero, osserva Sloterdijk, che è ben curioso chiamare “Terra”
questo nostro globo acqueo, e “Continenti” quelli che in effetti sono contenuti
nell’oceano…).
E’
a partire da questo momento che il mare diventa davvero l’elemento conduttore
dell’età moderna, il vero e proprio agente operativo della globalizzazione.
Sarà sul mare infatti che si giocherà la partita dell’espansionismo europeo, in
cui si paleserà il confronto fra quello che Sloterdijk chiama il pensiero di
terra, bisognoso di forme stabili e rassicuranti, e il pensiero di mare, atto a
confrontarsi con quel tanto di imprevedibile, di fluttuante, di rischioso che i
tempi nuovi comportano.
Chi
vorrà comprendere – nel senso pieno del termine, in cui entra sia il capire che
il prendere possesso - il mondo nuovo che in questo frangente si presenta,
dovrà confrontarsi necessariamente con l’elemento idrografico, e questo comporterà
l’affidarsi, perlomeno nel periodo eroico delle navigazioni atlantiche, alla
dea Fortuna (che in molte rappresentazioni iconografiche appare seduta su di
una sfera, mentre la Virtù siede sul cubo): una dea capricciosa e
imprevedibile, che sarà in questa fase iniziale il vero nume tutelare della
nuova religione imprenditoriale. La civiltà moderna, osserva infatti
Sloterdijk, avrà proprio come suo elemento programmatico il correre rischi
calcolati su di un terreno globale, entro un margine ineliminabile di
incertezza. Ad incarnarla saranno dunque figure nuove, in cui si renderà
visibile una vera e propria rivoluzione
antropologica.
- le nuove figure dell’espansionismo europeo:
Il
personaggio chiave della nuova epoca sarà infatti quello che Sloterdijk chiama
“il produttore debitore”, colui che assume gli schemi del commercio basato sul
rischio – investire, pianificare, scommettere, assicurarsi, distribuire i
rischi, accumulare fondi di riserva -
facendo girare la ruota permanente del nuovo capitalismo globale (il
dato principale dell’età moderna, osserva ironicamente Sloterdijk, non è il
riconoscimento che la Terra gira attorno
al Sole, ma che il denaro gira attorno alla Terra…).
Questa
nuova figura imprenditoriale darà vita ad un’ aristocrazia non basata sul
sangue e neppure sul servizio allo stato, ma sulla disponibilità all’azzardo di
chi accetta di mettere in atto imprese tanto rischiose dal punto di vista
pratico che ingegnose dal punto di vista tecnico, perché andare verso il Fuori
richiederà davvero che teoria e prassi si unifichino. Attraverso questi nuovi
investitori globali, osserva Sloterdijk, il globo sarà sottomesso alla forma
del reddito, al denaro che fa ritorno moltiplicato sulla base di partenza dopo
aver descritto la sua curva sui mari del mondo: con loro comincia l’epoca dei
“global players”, in cui il mappamondo
diventa il tavolo da gioco, il monitor su cui è possibile avere una visione
d’insieme per partite che vogliono
andare sempre “Oltre” e in cui sono gli europei a dirigere il gioco (non tanto,
osserva Sloterdijk, per una loro supposta maggiore propensione al rischio, ma
soprattutto per via del mutamento del paradigma economico, che passa dallo
sfruttamento antico e medioevale delle risorse all’economia degli
investimenti).
2. L‘
espansionismo europeo alla prova del “FUORI” (motivazioni e modalità operative)
Pur
tuttavia, anche se nell’espansionismo europeo è giusto segnalare subito la
presenza determinante di queste nuove figure imprenditoriali, c’è in esso una complessità interna che
Sloterdijk analizza nei capitoli centrali del testo, mettendone in luce le
molte sfaccettature. Seguiamo dunque le sue argomentazioni sulle motivazioni e
sulle modalità operative di questa espansione verso il Fuori che avrà,
particolarmente al suo inizio, un carattere decisamente avventuroso e
offensivo, essendo teso alla penetrazione in luoghi sconosciuti e
potenzialmente ostili attraverso spedizioni dall’esito quanto mai incerto e
gravido di pericoli. Una vera e propria epopea in cui follia e ragione,
motivazioni alte e tornaconti personali verranno in qualche modo a incontrarsi
e in qualche caso a scontrarsi.
- la follia
visionaria degli scopritori e il nuovo concetto di “verità” come
dis-velamento del mondo
Molte
di queste spedizioni vengono infatti intese direttamente al servizio di un
necessario “disvelamento” del mondo, della ricerca di una verità che non viene
più concepita come qualcosa che si autopalesa - come nel concetto greco di
physis - o che può essere rivelata
soltanto attraverso la grazia divina, ma come qualcosa che viene
scoperto attraverso l’impresa umana: il risultato dello sforzo titanico di chi
non solo si premura di mettere in campo tutti gli strumenti tecnici necessari
per evidenziarla e poi per comunicarla ad altri, ma soprattutto non esita a mettere in gioco la propria vita e quella dei propri equipaggi in viaggi di
sola andata, in cui il solo pensare l’inversione di rotta era assolutamente
proibito, pena la morte:
- la ragione capitalistico-borghese e le pratiche assicurative
Nelle
assicurazioni egli individua inoltre l’elemento precursore di una modernità che
comporterà una progressiva sostituzione delle strutture immunitarie attinenti
alla sfera religiosa con precise prestazioni di garanzia tecnico sociali
(pregare è una bella cosa, osserva con la consueta ironia, ma assicurarsi è
meglio…): una sorta di tecnologia immunitaria, osserva, che implica la rinuncia
al destino in cambio al diritto al risarcimento.
- la filosofia fra pensieri di terra e pensieri di mare
Questa
modalità di pensiero sarà incarnata in modo emblematico da una filosofia
razionalistica che da Cartesio in poi non rappresenta altro, a suo giudizio,
che il tentativo di porre sotto i piedi di queste nuove generazioni di
cittadini segnate dal rischio una specie di terraferma logica (ben diverso
atteggiamento, rispetto alla filosofia continentale, sarà assunto invece
dall’empirismo inglese, che nell’interpretazione di Sloterdijk esprime una
maggiore aderenza al pensiero di mare, non timoroso dell’esperienza, non
imprigionato in quell’ orizzonte angusto in cui si rinchiusero non solo i
filosofi, ma la maggior parte degli eruditi europei, acquattati nei loro rifugi
accademici e provinciali…).
Neanche Kant, che pure
rappresenta la punta più alta della filosofia continentale, riuscirà secondo
Sloterdijk a comprendere il capovolgimento radicale delle prospettive rappresentato
dal viaggio di Magellano, mancando di
cogliere il tratto fondamentale di un
mondo costituito da fluttuazioni (è pur vero che il soggetto diventava in Kant
sede di ogni rappresentazione, attorno al quale tutto ruotava – autorizzandolo
perciò a parlare di una vera e propria rivoluzione copernicana dello spirito,
ma questo soggetto aveva pur sempre un obbligo di residenza… Meno che mai ci
riuscirà Heidegger, verso cui S. pare avere una particolare antipatia, perché
considera la verità una funzione ctonia, derivabile cioè dalla terra, dalla
montagna, dalla caverna.
In questa ricostruzione
decisamente bellicosa, si salvano a suo giudizio solo Schopenhauer, col suo
concetto di volontà intesa come una sorta di oceano su cui viaggia il soggetto,
e Nietzsche, con l’idea di una nuova filosofia
intesa alla liquefazione dei soggetti irrigiditi nei vecchi sistemi di
pensiero.
Il
vero interprete della modernità sarà infatti per Sloterdijk non un filosofo (il
pensiero del Tutto – osserva con la consueta ironia – salirà per ultimo sulla
nave…), ma uno scrittore visionario, Jules Verne, che con il Capitano Nemo - il
cui motto era per l’appunto “Mobilis in mobile” - creerà la figura emblematica
del soggetto nell’epoca della mobilità e della flessibilità, in cui i soggetti
si manifestano come i detentori del potere
”di navigare nella totalità di tutti i luoghi raggiungibili senza poter
essere identificati dagli strumenti empirici degli altri, di realizzarsi in
quanto soggetti nell’elemento liquido: assoluta libertà di iniziativa, compiuta
an-archia”
3.
Gli europei fra scoperta e conquista
- il
ruolo della cartografia e il fascino imperiale dei nomi
Fra
tutte le forme più o meno artistiche di queste rappresentazioni, sarà la
cartografia ad assumere ben presto un ruolo fondamentale non solo sul piano
operativo, ma anche su quello politico (grazie anche allo spostamento di
centralità dal mappamondo alle carte bidimensionali, molto più adatte a
rispondere all’esigenza di un rilevamento particolareggiato del territorio).
Non caso Sloterdijk fa riferimento in questo capitolo al “ fascino imperiale” dei nomi: quello che
viene rilevato e descritto, e a cui viene attribuito un nome, assume infatti la
caratteristica di ciò che la legge del mare raccontata da Melville chiama “pesce legato”,
e cioè un pesce che non è più libero, ma
appartiene a chi lo ha visto per primo. In altri termini ciò che si
scopre diventa proprietà di chi ha compiuto la scoperta, in nome del sovrano e
del paese che rappresenta, secondo uno slittamento dal fatto al diritto che gli
europei considerarono del tutto ovvio naturale: in effetti essi non riuscirono
quasi mai a riconoscere nei popoli autoctoni qualcosa di davvero diverso dalla
flora e dalla fauna locale, che li legittimasse pertanto ad esserne i veri
proprietari. Poi, certo, questo diritto autoassunto poteva anche essere pensato
in buona fede, dato il contesto di profonda asimmetria fra i nuovi arrivati e i popoli indigeni,
come una sorta di “dono” per coloro a cui
veniva imposto (ricevere la salvezza di Cristo, il portato di una civiltà
superiore): di fatto però il nesso fra la verità come svelamento, la
rilevazione cartografica e la nominazione e
l’assoggettamento risulta ai nostri occhi del tutto evidente. Globo e
conquista faranno da subito un tutt’uno, con la cartografia in funzione di
tramite, perché le carte diventano attestati e rivendicazioni di sovranità
espresse dai paesi “civilizzati” e dai loro sovrani.
Ma
non c’è solo questo, nelle carte, perché sono molte le cose che esse ci
raccontano.
C’è
anzitutto l’insopprimibile spinta degli europei a catturare nelle loro reti di
nomi gran parte del mondo, supponendo come mute le lingue dei popoli che lo
abitavano (anche se presto si farà sentire l’esigenza di tradurre i sacri
testi, per favorirne la comprensione); c’è la tendenza ad imporre nomi
rispecchianti non tanto la natura dei luoghi e dei suoi abitanti, ma l’habitus
mentale degli scopritori (vedi l’isola di Guanahanì, subito battezzata San
Salvador dal cattolicissimo Colombo, che certo non dubitava di essere portatore
di una universale salvezza religiosa); c’è un singolare impulso alla
clonazione, per cui si assisterà al debordare di alcuni prefissi (Nova Francia,
Nova Belgia e così via); ci sono le rivalità fra gli scopritori e le giravolte
della politica, per cui un luogo a cui
era già stato attribuito un nome poteva essere tranquillamente ribattezzato, a
seconda del vincitore della contesa; c’è l’aspirazione di chi si allontana dal
proprio mondo e compie imprese perigliose a lasciare il proprio segno per
ottenere una sorta di trasfigurazione, attraverso la quale ascrivere il proprio
nome in una sorta di Pantheon cartografico (lo stretto di Magellano, la baia di
Hudson, le cateratte di Stanley…): ma c’è soprattutto l’ossessione europea per
rendere tutto il mondo assolutamente rivelato, in cui nulla di oscuro e di
incognito trovasse più posto.
- il lato oscuro dell’espansionismo europeo
Nel ragionare sulle modalità e sulle conseguenze di questa associazione fra lo scoprire, il nominare, il rappresentare e l’appropriarsi, che porterà a quella che non possiamo non definire “una criminalità globalizzata” da parte di un capitalismo predatore, privo di qualunque scrupolo, Sloterdijk si interroga sui motivi profondi di un atteggiamento totalmente immorale da parte dei conquistatori europei, in cui lo sterminio avrà una parte preponderante (come del resto era già stato visibile nella totale disinibizione al massacro dimostrata dai crociati cristiani).
Lo
sterminismo deriva a suo giudizio in gran parte dal fatto che questi uomini,
già totalmente alienati per effetto della perdita dei legami con le loro radici
familiari e sociali, percepivano quel nuovo spazio locale globalizzato come un
puro FUORI: i luoghi in cui si trovavano a muoversi come estranei non
sembravano appartenere allo stesso mondo della vita da cui essi erano partiti,
così che non potevano essere pensati come abitabili e diventare domestici (se
non per alcuni che li elessero come seconda patria e li scelsero come nuova
casa).
In
uno spazio di questo genere, ogni confine fra la lotta contro il nemico e
l’annientamento di popoli interi abbassati a cose era destinato a cadere. Fuori
da quelle linee, fissate dalle potenze marittime europee, che venivano chiamate
“linee dell’amicizia”, ogni cosa diventava possibile e l’uomo bianco
civilizzato si trasformava in predatore, dando il via alle atrocità che solo un
predatore non “naturale” può compiere.
E’
da questa percezione di un FUORI visto come assoluto ALTRO che nasce, secondo
Sloterdijk, il lato oscuro di quel progetto di modernità coloniale che portò di
fatto alla depredazione della natura e alla devastazione dei paesi periferici,
e che proseguendo nei secoli successivi finirà col compromettere la vita stessa
del pianeta, se non riusciremo a pensare la Terra come luogo da abitare,
prendendo sul serio le relazioni di reciprocità ed erigendo, all’interno
dell’indifferenza, qualcosa di non indifferente.
Sono molto interessanti
le osservazioni di Sloterdijk sul terrore che può suscitare il FUORi : il terrore dell’indistinto, dello
spazio incognito che non a caso sulle
cartine viene segnalato col colore bianco – o meglio con l’assenza di colore
che il bianco rappresenta e che viene pertanto ad indicare l’assenza di una vita
riconoscibile per noi (come bianca è la balena che ossessiona il capitano
Achab, perfetta rappresentazione di una esteriorità assoluta, non riducibile
allo scopo del cacciatore)
Ci
sono naturalmente altre ragioni per spiegare questa associazione fra scoperta e
conquista e questa immoralità che come uomini del nostro tempo consideriamo giustamente
criminale. All’incapacità di pensare il FUORI come luogo abitabile, occorre
aggiungere sicuramente l’asimmetria culturale, che impediva agli europei di
percepire questi nuovi popoli come ALTRI non assoluti, ma assimilabili a
sé. Bisogna inoltre tenere conto, spiega
Sloterdijk, di motivi che investono il
piano teologico e quello della realtà storico-culturale del tempo. Agli occhi
degli europei del Vecchio Mondo, imbrigliati in strutture ancora semifeudali,
strettamente territorializzate e gravate da vincoli antichi, il Nuovo Mondo non
poteva non rappresentare una vera e propria Terra Promessa dove un secondo
esodo era possibile: una terra che sembrava
essere stata posta lì solo in attesa di qualcuno abbastanza abile e
autodeterminato da prendersela (pensiamo alla figura letteraria di Robinson
Crusoe, che esprime in maniera emblematica molti di questi temi), una terra
dove l’agire poteva tranquillamente prevalere sul diritto, anzi lo creava, una
terra, in sostanza, dove quelli che ora possiamo giustamente giudicare come
saccheggiatori e criminali vedevano se stessi come pionieri ed eroi (lo sguardo
della storia mentre si fa, commenta Sloterdijk, è molto diverso dallo sguardo
retrospettivo…).
Prima
di concludere questa storia della globalizzazione, volgendo lo sguardo
all’oggi, Sloterdijk si chiede quali furono, al netto delle atrocità compiute,
le ragioni profonde del successo dell’espansionismo europeo, e in particolare che
cosa permise alla fine a questi uomini di rendere quel FUORI dalla bianchezza
accecante in cui misero piede qualcosa di vivibile per se stessi.
Secondo
la sua analisi, non si trattò soltanto della capacità tecnica, che pure era indiscutibile,
e neanche di una accentuata predisposizione a farsi “osservatori dell’Altro”,
che è fondamentale per il dominio culturale, ma piuttosto in una particolare
attitudine a portare, in questi luoghi estranei, uno spazio proprio, delle
finestre mentali portatili che funsero da veri e propri “baldacchini
immunitari”. Nelle riflessioni che seguono Sloterdijk si sposta dunque sul
piano simbolico, non meno importante di quello materiale per generare energia,
individuando come elementi chiave:
Era certo assimilabile ad un involucro
protettivo, non privo di proprietà magiche, la nave stessa, che rappresentava
nei lunghi periodi di traversata una sorta di seconda patria e la cui stiva
costituiva per gli equipaggi una sorta di nido mobile, che assicurava
(attraverso un costante controllo per evitare che non si creassero falle da cui
l’esterno poteva penetrare distruggendoli), una sorta di coerenza interna, come
accade nel fenomeno psichico della rimozione.
-
la religione cristiana
Costituiva
sicuramente un potentissimo meccanismo sfero-poetico la religione, incarnata
sulla nave dal cappellano di bordo che fungeva in un certo senso da
assicuratore del trascendente ed era particolarmente indicato, come esperto
dell’estremo, ad accompagnare uomini che dovevano confrontarsi costantemente con
l’esperienza del limite e che trovavano, nel manto azzurro della Vergine Maria,
una sorta di rifugio, un grembo materno universale…
A
terra la religione assumeva invece la forma missionaria: una forma doppia, e
quindi sempre potenzialmente ambigua, rappresentando da un lato l’espansione
neoapostolica della Chiesa e dall’altro la falange religiosa del colonialismo.
Pur tuttavia, osserva Sloterdijk, il ruolo della chiesa missionaria era
fondamentale come principio di continuità fra il Vecchio e il Nuovo Mondo,
perché nella tensione ad ampliare il baldacchino immunitario rappresentato
dalla religione verso tutti i membri della cristianità potenziale svolgeva una
funzione autenticamente globalizzante
(con qualche importante
differenza, osserva Sloterdijk, fra Chiesa cattolica e Chiesa protestante – più
intesa la prima a rivendicare anche politicamente una sovranità sul Nuovo
Mondo, al di sopra dei singoli stati, più legata la seconda agli stati
nazionali: simili entrambe peraltro
nell’ancoraggio ai propri linguaggi simbolici, fondamentali come
mediatori verso l’estraneità del Fuori)
Fungeva
inoltre da importante elemento protettivo, particolarmente per chi era alla
guida delle spedizioni d’oltremare o per i vicerè dei nuovi territori, il fatto
di sentirsi emanazione dei sistemi di sovranità della patria di origine, di cui
introiettavano i modelli portandoli su di sé come una sorta di icona reale
interiore, che non solo garantiva la loro assoluta lealtà ma rappresentava un
fondamentale elemento di continuità e di conferma identitaria. E’ da questi
modelli, e dalle persone reali che li incarnavano in patria, che essi traevano
il piacere più grande della conquista e la giustificazione delle atrocità compiute,
ottenendo dal riconoscimento da parte della madrepatria una sorta di
trasfigurazione; nello stesso tempo il sovrano in carne ed ossa, che pure non
visitava mai i paesi d’oltremare, imprimeva attraverso queste sue estensioni
corporee la propria sovranità su di essi.
In
questa pur rapida presentazione degli elementi di trasfigurazione simbolica non
può mancare naturalmente qualche osservazione sul ruolo della scienza, dal
momento che furono proprio i viaggi oltremare ad aprire alla geografia e alle
scienze della natura nuovi territori da esplorare. Anche in questo caso,
secondo Sloterdijk, funzionavano come protezione immunitaria i sistemi di senso
che i viaggiatori scientifici traevano dalle esperienze fatte in patria e che
impedivano loro di andare a fondo in questo spazio totalmente indefinito, in
questo confronto con un’ alterità
altrimenti alienante: perché in
effetti l’habitus mentale dell’osservare, del documentare, del sistematizzare,
del descrivere per altri rendeva possibile il sentirsi come dei compilatori
comuni (se pure tesi ognuno per suo conto a conquistare un proprio record
cognitivo rispetto agli avversari) di una sorta di biblioteca universale del
sapere, di un grande testo dell’esplorazione del mondo in cui, dice Sloterdijk,
il nero dei caratteri della scrittura si prendeva la propria rivincita sul
bianco (e di cui l’esempio più significativo sarà, qualche secolo più
tardi, l’Enciclopedia elaborata dagli illuministi francesi).
-
la traduzione linguistica
Fra
tutti questi elementi di continuità non è stato certo meno importante quello
che ha presieduto al lavoro imponente dei traduttori, di coloro a cui è toccato
il compito non facile di elaborare il FUORI dal punto di vista linguistico,
confrontandosi con una molteplicità impressionante di idiomi in cui i discorsi
dei nuovi padroni dovevano essere espressi, se si voleva renderli davvero
pervasivi.
Non
si trattava infatti di assorbire le nuove lingue come proprie – fu la lingua
dei conquistatori ad essere imposta – ma di ottenere che certi messaggi (quello
cristiano in primo luogo) potessero essere
raccolti da ciascuno nella propria lingua, per essere intimamente
compresi come portatori di salvezza per ogni individuo.
Pur
tuttavia, osserva Sloterdijk, nonostante il cristianesimo abbia prodotto
un’ecumene transculturale operativamente concreta e amplissima, il sogno di una
penetrazione assoluta – una specie di nuovo miracolo della Pentecoste
attraverso Gutemberg – era di fatto destinato a non realizzarsi, dovendo
cozzare contro la particolarità di molte lingue minori.
Noi
siamo ormai tutti riuniti, dice Sloterdijk, in un compatto e sincronico mondo
del traffico, dove non ci sono più luoghi ma ubicazioni presso le quali la
liquidità del capitale fa le sue soste, come un mare che ha completamente
sommerso i continenti, e dove nessuna ombra riesce a sottrarci all’imperativo spietato
di un giorno perenne.
Eppure,
pur essendo costantemente e implacabilmente connessi, il nostro orizzonte
antropologico non si è affatto stabilito come un “plenum” di popoli e culture
(benché dopo secoli di viaggi di andata compiuti dagli europei verso gli altri
sia ora in atto un crescente traffico in senso contrario). Gli Altri infatti
sono diventati per noi solo coloro con cui dobbiamo in qualche misura fare i
conti, e l’umanità attuale si presenta come una specie di insieme integrale,
costituito da tante comunità stressate poste una di fianco all’altra…
Per
far entrare in scena qualcosa che si possa davvero chiamare “umanità”, osserva
Sloterdijk, non bastano le interconnessioni obbligate dovute alla circolazione
fisica delle merci, non basta il turismo globale, non basta l’esportazione
della cultura, e neppure è sufficiente la pressione alla cooperazione in considerazione dei rischi ecologici comuni
(anzi, questo produce soltanto, a suo giudizio, uno stress autogeno globale…)
Non
è così che si può dare vita ad una seconda ecumene*: essa sarà possibile,
secondo Sloterdijk, solo a patto che si
riconosca che
Noi
siamo tutti, continua Sloterdijk, ugualmente lontani dal centro, resi esterni a
noi stessi su di un globo che non è una casa per tutti ma un mercato, dove
nessuno può sentirsi a casa perché un mercato è solo un punto d’incontro fra
offerenti e clienti posti in un’ assoluta
esteriorità reciproca.
C’è
stato, è vero, un momento in cui gli stati nazionali hanno cercato di stabilire
per i propri cittadini, attraverso il Welfare, una sorta di “domesticità”
politico-culturale: la globalizzazione peraltro ha intaccato in modo indelebile
questa fragile armonia, allentando o dissolvendo quello che Sloterdijk
definisce “l’intreccio del luogo e del sé”. In altri termini, l’ondata potentissima
di mobilità transnazionale ha relativizzato i legami fra popoli e territori,
così che molti dei cittadini dei moderni stati nazionali non sentono più la
coincidenza fra il luogo in cui si trovano a vivere e la propria identità
(com’è accaduto agli ebrei della diaspora, che rappresentano a livello
emblematico il punto estremo di tale dissoluzione); allo stesso tempo sono cresciuti a dismisura quei luoghi
in cui gli esseri umani si riuniscono senza volere o potere legare la loro
identità con essi (gli spazi di pausa del transito, i centri commerciali, i
villaggi turistici…). Si resta così sospesi fra poli erranti e poli desertici,
su di un fondale che si va sempre più restringendo e dove non trovano più
spazio le culture regionali che riuscivano a fondere il sé e il luogo.
Non
si tratta certamente di tornare alle clausure militanti dei vecchi stati
nazionali, e neanche a forme di vita tribale, ma di riconoscere che l’andare
verso un mondo costituito da società miste e dalle pareti sottili non produce
condizioni immunitarie vivibili.
Oggi
molti tentano di costruirsele a livello individuale, sganciandosi dai loro
corpi sociali ed erigendo baldacchini immunitari di tipo personale: ricorrono
cioè ad accordi assicurativi privati - siano questi di natura pseudo-religiosa,
ginnica, dietetica… - accogliendo il messaggio di una cultura individualistica
che le raccomanda come strategie vitali essenziali (del resto, osserva
Sloterdijk, esse rappresentano il punto d’arrivo di una lunga marcia verso la
flessibilizzazione, l’indebolimento delle relazioni oggettuali e la licenza
generale concessa alle relazioni di infedeltà o alle relazioni reversibili fra
le persone…).
Un
punto d’arrivo che ci ha resi pericolosamente vicini, a suo giudizio, alla
linea estrema di quella fine della cultura che Spengler aveva profetizzato,
posti come siamo in una condizione in cui è diventato impossibile decidere se i
singoli siano straordinariamente “fit” o straordinariamente decadenti e in cui quello che di promettente
c’era nel progetto “uomo” potrebbe alla fine essere completamente cancellato.
………………………………………
- OIKUMENE
è parola greca che significa “terra abitata”; viene usata per indicare la
totalità e l’unità dei viventi.
- Nella
sua riflessione Sloterdijk parte dalla considerazione che nel pensiero
filosofico greco questa unità non veniva considerata poggiante su
fondamenti biologici, e neanche sul fatto che gli esseri umani hanno tutti
gli stessi bisogni e pertanto devono godere degli stessi diritti, ma
piuttosto su di un principio “ontologico” e cioè sul fatto che essi
partecipano allo stesso mistero del mondo, al di là dei simbolismi locali
(sono esseri, dice Sloterdijk, che tendono alla stessa luce e sono
sovrastati dalla stessa domanda).
E’ partendo dal contributo fondamentale del pensiero greco, poi
integrato dal concetto cristiano di un’umanità poggiante sulla stessa base
trascendente (figli dello stesso Dio, fratelli in Cristo) che si è
realizzata quella che Sloterdijk
definisce la prima grande ecumene, che ha visto come centri irradianti
prima Atene e Gerusalemme e infine Roma, che ne ha raccolto l’eredità per
la sua capacità di assimilazione e di traduzione.
- Nel
nostro tempo peraltro non possiamo più pensare ad una “sfera delle sfere”
basata sul trascendente – nessuna delle religioni mondiali può assumere
oggi questo ruolo - e neanche ad una macrosfera su base informatica o politica, come unione di nazioni. Per
Sloterdijk una seconda ecumene può essere pensata e realizzata solo sulla
base del riconoscimento di una comune condizione umana, che consiste
nell’essere diventati tutti
“esterni a noi stessi, esseri che fanno ritorno a se stessi dal di
fuori senza poter essere sicuri che ci sia qualcuno in casa quando
rientrano nella loro dimora “
N.B. = le ripartizioni del riassunto non sono
del tutto corrispondenti a quelle del testo,
pur
rispettando la linea argomentativa dell'autore
A
Sloterdijk viene rimproverato, per intanto, e non senza buone ragioni, un
eccesso di versatilità, una tendenza sicuramente irritante ad esibirsi sulla scena mediatica con totale mancanza di
sobrietà comunicativa, nell’idea di filosofia come “teatro”. Pesa inoltre,
sulla valutazione del suo percorso intellettuale, l’ambiguità di una
collocazione politica che lo ha visto originariamente su posizioni di estrema
sinistra, approdate in seguito a concezioni di un supposto neoconservatorismo
radicale, all’interno del quale gli vengono rimproverate alcune affermazioni
(peraltro assai vaghe e interlocutorie, a giudizio di Bonaiuti che hanno
permesso ai suoi oppositori di appiccicargli l’etichetta di sostenitore
dell’eugenetica: in effetti nel corso di una conferenza tenuta nel 99 a Elmau,
in Baviera, Sloterdiij ha ipotizzato un
futuro in cui saranno pensabili interventi di mutazione della natura umana per
via tecnologica. Lo scontro con quello che viene considerato il più importante
pensatore tedesco contemporaneo, Habermas, ha fatto il resto, producendo
fazioni tese a lanciarsi da un lato accuse di arroganza amorale, dall’altro di
arroccamento in una visione accademica e asfittica della filosofia e della
cultura (retaggio, secondo Sloterdijk, di una generazione ancora segnata
dall’esperienza bellica e dal senso di colpa per il passato nazista, che ha
bloccato e normalizzato la discussione politica e intellettuale instaurando una
forma di censura ideologica verso le innovazioni intellettuali).
Rispetto
a questa visione Sloterdijk intende invece presentarsi nel ruolo di “pensatore sulla scena” rivendicando la necessità di una rifondazione
della filosofia che la renda disponibile ad accogliere, senza paura di
contaminazioni, dei motivi anche estranei alla sua tradizione e a dotarsi di
strumenti logici, linguistici e concettuali nuovi, capaci di rompere quella
polarizzazione fra natura e cultura, organismo e macchina che a suo giudizio
non è più idonea a misurarsi col mondo contemporaneo.
Questo
incontro può avvenire, a giudizio di Sloterdijk, solo con un radicale
ripensamento della spazialità umana: per Sloterdijk peraltro lo spazio non è da
intendere in senso fisico o geometrico, ma piuttosto come qualcosa che precede
le dimensioni, dà loro estensione, ne costituisce la matrice. Per esprimerlo,
il filosofo usa il termine “sfera”,
che non è estraneo alla tradizione filosofica (era già presente infatti nel
pensiero greco antico) ma che in lui
diventa una sorta di “figura di pensiero”
venendo ad indicare tutte quelle strutture morfologiche immunitarie attraverso
le quali l’uomo riesce ad emanciparsi dall’ambiente circostante, trovando in
esse quel “vantaggio climatico” che gli consente di vivere e di prosperare
(possiamo infatti considerarle, osserva Bonaiuti, come delle vere e proprie
serre umane…).
Le
sfere sono dunque quegli spazi nei quali gli uomini vivono insieme e che
consentono, con le loro “membrane protettive”, una medietà fra la gabbia
imprigionante dell’ambiente naturale e l’esteriorità terrorizzante del puro FUORI.
E’
appunto di questi mezzi, di queste istituzioni costruite dagli uomini per
emanciparsi dai contesti climatici e biogeografici che si occupa, trasponendole
su di un piano filosofico-ontologico, la trilogia sopra indicata, in cui le
riflessioni sulle grandi strutture immunitarie (macrosferologia) e cioè gli
Stati, gli Imperi, i Mondi, si combinano con quelle sulle sfere intime
(microsferologia), in un percorso
cadenzato da sottotitoli decisamente inusuali:
Nel primo volume, in
cui Sloterdijk si propone di costruire
una teoria dell’intimità, vengono indicati con questo termine metaforico tutti
quegli spazi diadici che si formano nelle relazioni simbiotiche (come quelle
fra madre e figlio, Filemone e Bauci, psicoterapetuta e paziente, mistici e
Dio), intendendo la coppia non come il risultato di una semplice addizione fra due
singole unità, ma come qualcosa che precede l’incontro propriamente biografico
SFERE 2° = GLOBI
Nel secondo volume
Sleterdijk si propone invece di
costruire un’ampia “fenomenologia dello spirito” dell’epoca della
globalizzazione, che comincia con la formulazione filosofica e geometrica delle
prime immagini sferologiche del mondo nel pensiero greco antico e poi nella
filosofia neoplatonica, e si chiude con la globalizzazione capitalistica del
mondo. Un percorso in cui secondo Sloterdijk si è verificata, nel passaggio
dalla metafisica classica all’età moderna, una frattura assoluta e
irrimediabile, perché di fronte alle nuove immagini del mondo proposte dagli
astronomi le strutture immunitarie tradizionali (l’idea di un cosmo ordinato,
della posizione centrale in esso di una Terra inserita nel manto protettivo
delle volte sferiche di derivazione aristotelica) hanno perso la loro capacità
“domesticante” (cioè di riscaldare simbolicamente, rendendolo “casa”, lo spazio
umano).
In una Terra vista
ormai come astro errante nello spazio gli uomini hanno dovuto dunque venire a
patti con le fredde esteriorità del cosmo e della tecnica, imparando ad
esistere come un nocciolo senza la sua corteccia e aggrappandosi pertanto
all’unica scorza ancora possibile, quella del pianeta stesso che diventa luogo
di scoperta per gli esploratori e per
gli scienziati della natura e di conquista per le potenze colonizzatrici, ma in
cui sarà il capitale il vero agente globalizzatore
SFERE 3° = SCHIUME
Il terzo volume è
invece dedicato all’analisi del mondo contemporaneo in cui, secondo Sloterdijk,
pur partendo dall’esigenza di intimità, gli uomini non sembrano più in grado di
costruire spazi in cui si possa davvero abitare e in cui dunque l’esteriorità
domina su ogni cosa.
Il termine schiuma, che
il filosofo usa in senso metaforico ma con un preciso riferimento fisico
(proponendo di sostituirlo all’ormai abusato “società” e al pure più recente “rete”,
rispetto al quale avrebbe a suo giudizio una maggiore adeguatezza morfologica)
indicherebbe pertanto tutti quei sistemi
multi camerali consistenti di spazi formati dalla pressione gassosa e da
tensioni di superficie, che si restringono e si deformano l’un l’altro secondo
precise leggi geometriche. Sarebbero tali dunque i sistemi urbani moderni, in
cui la vita sociale si presenta come connessione di isolamenti: nella schiuma
sociale, secondo Sloterdijk, non c’è infatti una vera comunicazione, ma solo
relazioni mimetiche e inter-autistiche
Un
trittico complesso, osserva Bonaiuti, in cui Sloterdijk tenta di interpretare
filosoficamente il fenomeno della globalizzazione e di costruire un vocabolario
nuovo, considerando che tutti i linguaggi precedenti – compreso quello della
filosofia teoretica - si sono sviluppati per un mondo diverso, composto da
sostanze solide e pesanti, e risultano pertanto incapaci di esprimere un mondo
polisferico, leggero, in cui le
relazioni fra gli uomini sono profondamente mutate. Un mondo costruito dal capitale, che ha prodotto dei
nuovi “interni mondani” il cui emblema è rappresentato metaforicamente da quel
“Palazzo di Cristallo” che è l’oggetto di un capitolo del testo a cui faremo
ora direttamente riferimento.
3.
Il “Palazzo di cristallo”:
Uno
spazio di cui Dostoevskij intuì perfettamente la dimensione programmatica e
simbolica rispetto ad una modernità che pensava trionfalmente se stessa come
del tutto pacificata e priva di contraddizioni, pronta ad adagiarsi nel
conforto edonistico del consumo, verso la quale lo scrittore provava profonde
riserve.
Poi, nota ironicamente
Sloterdijk, la catastrofe effettivamente ci fu, ma paradossalmente lo spazio
davvero etico sarà occupato da quanti si opposero al fascismo, tra le file
dunque dei “nemici” della Germania nazista – è stato infatti l’antifascismo, a
suo giudizio, la cosa più significativa che l’epoca avesse da offrire dal punto
di vista morale…
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