martedì 9 febbraio 2016

"L'ultima Sfera - Breve storia filosofica della globalizzazione" di Peter Sloterdijck - sintesi



Peter Sloterdijk: “L’ultima sfera”  Breve storia filosofica della globalizzazione

 

Peter Sloterdijk  è uno dei più originali e controversi intellettuali europei. 
Fra le sue opere, ricordiamo la monumentale trilogia di  “Sfere” in cui esamina gli spazi di coesistenza, cioè i contenitori materiali e simbolici  in cui l’uomo pensa se stesso e il mondo, oltre ad un testo,“Devi cambiare la tua vita” in cui ripercorre in chiave antropotecnica il tema filosofico della cura di sé.

 
Introduzione:

Nel capitolo introduttivo del testo, Sloterdijk affronta subito il tema centrale, spiegando intanto che cosa sia esattamente l’ultima sfera cui si fa riferimento nel titolo, e nel contempo dando un chiarimento essenziale sul termine “globalizzazione” che viene usato a suo giudizio in modo superficiale, non inserendolo in una corretta prospettiva temporale.

Assume pertanto come fuoco prospettico della sua analisi quel momento davvero eccezionale della storia europea (che possiamo far iniziare alla fine del quattrocento, estendendolo poi nei tre secoli successivi) in cui gli europei hanno dovuto affrontare da un lato una rilevante perdita metafisica che ha comportato, secondo Sloterdijk, una vera e propria “catastrofe immunitaria”, mentre avvenivano, dall’altro, alcuni fatti straordinari che venivano visti come portatori di una fondamentale conquista culturale (un termine, questo, che l’autore usa con molta circospezione, interpretandolo nel testo assai criticamente).

In quegli anni, che rappresentano un vero e proprio spartiacque storico, è venuta infatti a crollare, per effetto delle intuizioni dei filosofi  e delle scoperte degli astronomi sulla reale posizione della terra nello spazio cosmico, l’idea di una Terra contenuta nel perfetto sistema cattolico-aristotelico delle sfere concentriche, che offrivano, o sembravano offrire, una forte protezione immunitaria – oltre ad un preciso orientamento spaziale in cui era ben possibile distinguere il dentro dal fuori, il centro dalla periferia, l’alto dal basso. E’ pur vero che in questo sistema era la Terra, di fatto, a rappresentare il luogo del basso, della decadenza, in cui non era dato agli umani di riuscire a respingere la morte, anche se si presumeva di poter ascendere spiritualmente nell’ultramondo: ma non c’è dubbio, dice Sloterdijk, che questa concezione di un universo ordinato a cerchi concentrici garantiva in qualche modo la sicurezza di una totalità chiusa, offrendo alla terra come suo cielo l’intera volta stellare.

Da quel momento in poi invece il nostro pianeta comincerà ad essere percepito come un astro errante  in uno spazio sconfinato, in cui non ci si può sentire “dentro” e di cui non si può sicuramente  essere “centro”, venendo così forzati a riconoscere l’assoluta provvisorietà del nostro abitare in esso. Non è cosa da poco, perdere il proprio cielo e la sensazione di rappresentare il riconoscibile centro di un mondo ordinato e perfetto: e in effetti, osserva Sloterdijk, l’afflizione per una Terra priva di cieli si protrarrà a lungo, fino ad Heidegger…

D’altro lato però gli europei, con un passaggio fondamentale di prospettiva, cominceranno a conoscere, attraverso i peripli dei marinai, le misurazioni dei cartografi e le indagini dei nuovi scienziati della natura, la realtà di un corpo tondeggiante e certo imperfetto, lontanissimo da quell’idea di sfera elaborata dagli antichi filosofi e matematici come luogo della perfezione concettuale ed estetica, ma in compenso aperto all’indagine empirica e per questo tanto più interessante agli occhi di chi si muoverà in esso coniugando, nell’idea di “scoperta”, tanto la spinta conoscitiva che quella pratica.

E’ da questo momento che la Terra comincerà davvero ad essere percepita come un globo. Quella che chiamiamo globalizzazione, intendendola come il portato di una storia recente originata dalla velocizzazione delle comunicazioni, non è altro infatti, secondo Sloterdijk, che l’ultimo atto di un processo iniziato molti anni fa, e precisamente all’inizio dell’epoca moderna, da quando il globo terrestre non è più stato soltanto l’oggetto di una speculazione filosofica, ma di una prassi reale intesa al suo rilevamento, da quando gli europei sono usciti dal dentro della protezione immunitaria delle sfere cosmiche al fuori del silenzio dei cieli, dal Vecchio Mondo al  Nuovo Mondo: un FUORI che rappresentava il futuro e verso il quale si lanceranno navigatori, esploratori, avventurieri, commercianti, colonizzatori, in rappresentanza di popoli e sovrani, con una spinta espansionistica senza pari di cui l’autore esamina la dimensione culturale e filosofica, più che quella strettamente storica.

Vediamo dunque più da vicino, pur sintetizzandoli, i vari passaggi argomentativi della sua ricostruzione, che prende in esame dapprima una serie di questioni più accentrate sulla dimensione spaziale per focalizzarsi poi sull’idea di scoperta come svelamento e sulle sue conseguenz


 1. Una rivoluzione spaziale orientata verso l’esterno: (il viaggio di Magellano e la percezione della Terra come “globo”)

 Il cambiamento direzionale:

A giudizio di Sloterdijk, le imprese navali di Magellano e del Caro (1519/22) e poi successivamente di Francis Drake (1577/80) meritano di entrare in una storia filosofica della globalizzazione, perché attraverso di esse viene messo in atto, sviluppando l’intuizione di Colombo, un cambiamento direzionale di enorme portata. Da allora in poi infatti andare verso il Fuori significa andare verso ovest:  quella comprensione della Terra che chiamiamo globalizzazione avviene sotto il segno di una tendenza atlantica che risulterà irreversibile, e del resto è da allora che l’Europa comincia a percepire se stessa come “Occidente”. Ora, secondo Sloterdijk, andare verso ovest non ha solo un significato geografico, non indica solo una mera direzione spaziale, ma reca con sé un più profondo significato filosofico e culturale. Vuol dire, per l’occidente, emanciparsi dal suo orientamento tradizionale verso l’oriente, da sempre inteso come portatore di una superiorità mitico-metafisica: implica dunque uno staccarsi dalla stabilità del passato e delle origini per andare verso il futuro, verso un divenire che si considera promettente.

- l’ingresso in uno spazio omogeneo:

Questo cambiamento direzionale si accompagna inoltre, grazie al periplo compiuto da Magellano, ad una percezione molto più  concreta e tangibile della Terra come globo, che porterà ad una vera e propria rivoluzione nel modo di pensare e di rappresentare lo spazio. Da allora in poi, dice Sloterdijk, saranno i mappamondi e poi i planisferi e le carte geografiche a dire agli uomini del tempo dove sono, dove stanno andando, che cosa stanno scoprendo, e in un certo senso chi sono: la localizzazione spaziale non sarà più determinata dagli odori, dai suoni, dagli oggetti totemici dei luoghi natali, che si presumono abitati da un particolare “genius loci” e che possono essere tranquillamente pensati da ognuno come l’ombelico del mondo, ma sarà il risultato di un rilevamento molto più astratto.

In uno spazio circolare infatti i luoghi sono destinati fatalmente a diventare ubicazioni, punti equivalenti ad ogni altro punto rispetto al quale si può andare e tornare: lo spazio diventa  così  uno “spazio globale localizzato”, con il quale si apre la strada non tanto al concetto di “circolazione”, che a giudizio di Sloterdijk viene usato impropriamente per indicare il movimento di uomini, di merci, di denaro che si trasforma in merce e ritorna come denaro, ma al concetto tutto moderno di “traffico”, che presuppone uno spazio simmetrico dove ogni punto è punto di arrivo e punto di ritorno.

(sul concetto di “traffico” come quintessenza di movimenti reversibili in un mondo che vuole soltanto essere attraversato senza diventare palestra esperienziale, Sloterdijk propone come esempio paradigmatico “Il giro del mondo in 80 giorni” di Jules Verne (1873),  in cui viene messo in scena un personaggio – l’inglese Fileas Fogg- che per vincere una scommessa attraversa il mondo intero, del tutto indifferente a ciò che in esso accade fuorché alle coincidenze ferroviarie …)

In questa ricostruzione peraltro non sono ancora in scena i moderni turisti globali e coloro che viaggiano per affari: siamo nel tempo dei veri e propri “viaggiatori”, di chi si avventura nel Mondo Fuori tendendosi allo stesso tempo alla scoperta e allo svelamento  come alla presa e allo sfruttamento. Torniamo dunque a loro e al mare che essi attraversano.
                          

- la prevalenza dell’elemento marittimo:

Abbiamo parlato non casualmente del mare, perché il viaggio di Magellano, con la scoperta dell’Oceano Pacifico, viene a segnare la fine della credenza tolemaica della prevalenza delle masse terrestri, operando un vero e proprio capovolgimento oceanografico nella concezione della Terra. Si prende atto infatti  della prevalenza in essa dell’elemento acquatico (prima stimato, dallo stesso Colombo, solo un settimo della sua superficie, mentre i mari e gli oceani ne occupano in realtà i tre quarti: tanto è vero, osserva Sloterdijk, che è ben curioso chiamare “Terra” questo nostro globo acqueo, e “Continenti” quelli che in effetti sono contenuti nell’oceano…).

E’ a partire da questo momento che il mare diventa davvero l’elemento conduttore dell’età moderna, il vero e proprio agente operativo della globalizzazione. Sarà sul mare infatti che si giocherà la partita dell’espansionismo europeo, in cui si paleserà il confronto fra quello che Sloterdijk chiama il pensiero di terra, bisognoso di forme stabili e rassicuranti, e il pensiero di mare, atto a confrontarsi con quel tanto di imprevedibile, di fluttuante, di rischioso che i tempi nuovi comportano.

Chi vorrà comprendere – nel senso pieno del termine, in cui entra sia il capire che il prendere possesso - il mondo nuovo che in questo frangente si presenta, dovrà confrontarsi necessariamente con l’elemento idrografico, e questo comporterà l’affidarsi, perlomeno nel periodo eroico delle navigazioni atlantiche, alla dea Fortuna (che in molte rappresentazioni iconografiche appare seduta su di una sfera, mentre la Virtù siede sul cubo): una dea capricciosa e imprevedibile, che sarà in questa fase iniziale il vero nume tutelare della nuova religione imprenditoriale. La civiltà moderna, osserva infatti Sloterdijk, avrà proprio come suo elemento programmatico il correre rischi calcolati su di un terreno globale, entro un margine ineliminabile di incertezza. Ad incarnarla saranno dunque figure nuove, in cui si renderà visibile una vera e propria  rivoluzione antropologica.
 
  - le nuove figure dell’espansionismo europeo:

Il personaggio chiave della nuova epoca sarà infatti quello che Sloterdijk chiama “il produttore debitore”, colui che assume gli schemi del commercio basato sul rischio – investire, pianificare, scommettere, assicurarsi, distribuire i rischi, accumulare fondi di riserva -  facendo girare la ruota permanente del nuovo capitalismo globale (il dato principale dell’età moderna, osserva ironicamente Sloterdijk, non è il riconoscimento  che la Terra gira attorno al Sole, ma che il denaro gira attorno alla Terra…).

Questa nuova figura imprenditoriale darà vita ad un’ aristocrazia non basata sul sangue e neppure sul servizio allo stato, ma sulla disponibilità all’azzardo di chi accetta di mettere in atto imprese tanto rischiose dal punto di vista pratico che ingegnose dal punto di vista tecnico, perché andare verso il Fuori richiederà davvero che teoria e prassi si unifichino. Attraverso questi nuovi investitori globali, osserva Sloterdijk, il globo sarà sottomesso alla forma del reddito, al denaro che fa ritorno moltiplicato sulla base di partenza dopo aver descritto la sua curva sui mari del mondo: con loro comincia l’epoca dei “global players”,  in cui il mappamondo diventa il tavolo da gioco, il monitor su cui è possibile avere una visione d’insieme  per partite che vogliono andare sempre “Oltre” e in cui sono gli europei a dirigere il gioco (non tanto, osserva Sloterdijk, per una loro supposta maggiore propensione al rischio, ma soprattutto per via del mutamento del paradigma economico, che passa dallo sfruttamento antico e medioevale delle risorse all’economia degli investimenti).

 

2. L‘ espansionismo europeo alla prova del “FUORI” (motivazioni e modalità operative)

 
Pur tuttavia, anche se nell’espansionismo europeo è giusto segnalare subito la presenza determinante di queste nuove figure imprenditoriali,  c’è in esso una complessità interna che Sloterdijk analizza nei capitoli centrali del testo, mettendone in luce le molte sfaccettature. Seguiamo dunque le sue argomentazioni sulle motivazioni e sulle modalità operative di questa espansione verso il Fuori che avrà, particolarmente al suo inizio, un carattere decisamente avventuroso e offensivo, essendo teso alla penetrazione in luoghi sconosciuti e potenzialmente ostili attraverso spedizioni dall’esito quanto mai incerto e gravido di pericoli. Una vera e propria epopea in cui follia e ragione, motivazioni alte e tornaconti personali verranno in qualche modo a incontrarsi e in qualche caso a scontrarsi.

 - la follia visionaria  degli scopritori e il nuovo concetto di “verità” come dis-velamento del mondo

 C’è da un lato, sicuramente, la follia visionaria di alcuni personaggi d’eccezione che riescono a presentare ad altri le proprie visioni come progetti plausibili e utili – vedi Colombo – animati come sono da un’idea salvifica e quasi profetica del proprio ruolo di scopritori (venendo a rappresentare, secondo Sloterdijk, quella strana e pur riconoscibile sintesi di altruismo e self-service consistente nel cercare il proprio benessere portandolo agli altri - o perlomeno, presumendo di farlo - che sarà tipica del moderno progressismo). Non possiamo infatti non prendere atto del fatto che le pratiche vuoi mercantili, vuoi militari e colonizzatrici sottostanti alle grandi spedizioni via mare, che non sono assenti neanche  in queste prime grandi figure di scopritori, non  ne rappresentano l’unico scopo.

Molte di queste spedizioni vengono infatti intese direttamente al servizio di un necessario “disvelamento” del mondo, della ricerca di una verità che non viene più concepita come qualcosa che si autopalesa - come nel concetto greco di physis - o che può essere rivelata  soltanto attraverso la grazia divina, ma come qualcosa che viene scoperto attraverso l’impresa umana: il risultato dello sforzo titanico di chi non solo si premura di mettere in campo tutti gli strumenti tecnici necessari per evidenziarla e poi per comunicarla ad altri, ma soprattutto non esita  a mettere in gioco la propria vita  e quella dei propri equipaggi in viaggi di sola andata, in cui il solo pensare l’inversione di rotta era assolutamente proibito, pena la morte:

  (i diari di bordo rivelano infatti con molta chiarezza quali erano i mezzi usati dai capitani per tenere sotto pressione il gruppo, dagli imbrogli ottimistici alla falsificazione dei dati, senza contare le punizioni draconiane: non si lasciava niente di intentato per riuscire ad andare sempre avanti, a qualunque costo, ben sapendo che il terrore dell’ignoto era in tutti presente, e lo scoraggiamento sempre dietro l’angolo. Guai a lasciarlo affiorare! Ottenere il successo. in viaggi interminabili verso terre inesplorate richiedeva davvero una regia tanto visionaria quanto accor
 
- la ragione capitalistico-borghese  e le pratiche assicurative

 Pur nondimeno, se ogni nave di quel periodo eroico incarna, come dice Sloterdijk,  “una psicosi che ha messo le vele”, e se i comandanti e gli equipaggi affrontano le traversate come una sorta di ascesi non più verticale, tesa al cielo, ma orizzontale, orientata al di là dal mare, queste navi rappresentavano anche dei capitali viaggianti, e questo farà sì che le navi dei folli siano costrette a trasformarsi, prima o poi, in navi della ragione. La follia di espansione non può ignorare infatti la ragione del profitto, e il profitto chiede che il rischio sia in qualche modo calcolato e limitato. Un risultato che i nuovi imprenditori delle spedizioni oltremare otterranno attraverso la diversificazione degli investimenti e l’istituzione delle prime compagnie assicurative, con un gesto che ben rappresenta, secondo Sloterdijk, la separazione da parte della ragione capitalistico borghese dalla follia visionaria dei naviganti e degli esploratori.

Nelle assicurazioni egli individua inoltre l’elemento precursore di una modernità che comporterà una progressiva sostituzione delle strutture immunitarie attinenti alla sfera religiosa con precise prestazioni di garanzia tecnico sociali (pregare è una bella cosa, osserva con la consueta ironia, ma assicurarsi è meglio…): una sorta di tecnologia immunitaria, osserva, che implica la rinuncia al destino in cambio al diritto al risarcimento.
 
-  la filosofia fra  pensieri di terra e pensieri di mare

 In questa costruzione di nuove strutture immunitarie l’elemento marittimo risulterà decisivo, come abbiamo già accennato in precedenza: secondo Sloterdijk infatti  sarà proprio la mobilità nautica, con le sue fluttuazioni, a sollecitare in chi non riuscirà ad entrare in sintonia con essa un bisogno di controllo a cui una parte della cultura europea risponderà attraverso quello che l’autore definisce “un pensiero di terra”.

Questa modalità di pensiero sarà incarnata in modo emblematico da una filosofia razionalistica che da Cartesio in poi non rappresenta altro, a suo giudizio, che il tentativo di porre sotto i piedi di queste nuove generazioni di cittadini segnate dal rischio una specie di terraferma logica (ben diverso atteggiamento, rispetto alla filosofia continentale, sarà assunto invece dall’empirismo inglese, che nell’interpretazione di Sloterdijk esprime una maggiore aderenza al pensiero di mare, non timoroso dell’esperienza, non imprigionato in quell’ orizzonte angusto in cui si rinchiusero non solo i filosofi, ma la maggior parte degli eruditi europei, acquattati nei loro rifugi accademici e provinciali…).

 

Neanche Kant, che pure rappresenta la punta più alta della filosofia continentale, riuscirà secondo Sloterdijk a comprendere il capovolgimento radicale delle prospettive rappresentato dal viaggio di Magellano, mancando  di cogliere il tratto fondamentale  di un mondo costituito da fluttuazioni (è pur vero che il soggetto diventava in Kant sede di ogni rappresentazione, attorno al quale tutto ruotava – autorizzandolo perciò a parlare di una vera e propria rivoluzione copernicana dello spirito, ma questo soggetto aveva pur sempre un obbligo di residenza… Meno che mai ci riuscirà Heidegger, verso cui S. pare avere una particolare antipatia, perché considera la verità una funzione ctonia, derivabile cioè dalla terra, dalla montagna, dalla caverna.

In questa ricostruzione decisamente bellicosa, si salvano a suo giudizio solo Schopenhauer, col suo concetto di volontà intesa come una sorta di oceano su cui viaggia il soggetto, e Nietzsche, con l’idea di una nuova filosofia  intesa alla liquefazione dei soggetti irrigiditi nei vecchi sistemi di pensiero.

 

Il vero interprete della modernità sarà infatti per Sloterdijk non un filosofo (il pensiero del Tutto – osserva con la consueta ironia – salirà per ultimo sulla nave…), ma uno scrittore visionario, Jules Verne, che con il Capitano Nemo - il cui motto era per l’appunto “Mobilis in mobile” - creerà la figura emblematica del soggetto nell’epoca della mobilità e della flessibilità, in cui i soggetti si manifestano come i detentori del potere   ”di navigare nella totalità di tutti i luoghi raggiungibili senza poter essere identificati dagli strumenti empirici degli altri, di realizzarsi in quanto soggetti nell’elemento liquido: assoluta libertà di iniziativa, compiuta an-archia”

                                                      
3. Gli europei fra scoperta e conquista

- il ruolo della cartografia e il fascino imperiale dei nomi    

 Torniamo al tema dello svelamento, e all’idea di scoperta come qualcosa che viene attivato dallo sforzo e dall’ingegno umano e comprende pertanto l’uso di tutti gli strumenti tecnici disponibili. Per quanto rudimentali essi fossero nel periodo caotico dei primi viaggi oceanici, il lato tecnico era già fortemente presente e si palesava non solo negli strumenti di navigazione in senso stretto, ma in una vasta produzione di immagini, documenti, campioni di prodotti, con i quali coloro che a vario titolo partecipavano alle spedizioni  intendevano  non solo dare prova delle scoperte effettuate ma renderle disponibili e comunicabili a tutti, come se fossero animati dal desiderio di rendere pensabile e controllabile,  per se stessi e per i loro contemporanei, l’esteriorità del “Fuori”. Da questo periodo in avanti pertanto la distanza nello spazio non avrà più quel ruolo occultatore che aveva assunto in precedenza, non soltanto perché tenderà progressivamente ad accorciarsi, ma perché gli europei saranno sommersi da una serie di immagini “reali” in cui  l’autore si ritira ai margini, come dietro ad un anonimo punto prospettico.

Fra tutte le forme più o meno artistiche di queste rappresentazioni, sarà la cartografia ad assumere ben presto un ruolo fondamentale non solo sul piano operativo, ma anche su quello politico (grazie anche allo spostamento di centralità dal mappamondo alle carte bidimensionali, molto più adatte a rispondere all’esigenza di un rilevamento particolareggiato del territorio). Non caso Sloterdijk fa riferimento in questo capitolo  al “ fascino imperiale” dei nomi: quello che viene rilevato e descritto, e a cui viene attribuito un nome, assume infatti la caratteristica di ciò che la legge del mare raccontata da Melville chiama “pesce  legato”,  e cioè un pesce che non è più libero, ma  appartiene a chi lo ha visto per primo. In altri termini ciò che si scopre diventa proprietà di chi ha compiuto la scoperta, in nome del sovrano e del paese che rappresenta, secondo uno slittamento dal fatto al diritto che gli europei considerarono del tutto ovvio naturale: in effetti essi non riuscirono quasi mai a riconoscere nei popoli autoctoni qualcosa di davvero diverso dalla flora e dalla fauna locale, che li legittimasse pertanto ad esserne i veri proprietari. Poi, certo, questo diritto autoassunto poteva anche essere pensato in buona fede, dato il contesto di profonda asimmetria  fra i nuovi arrivati e i popoli indigeni, come una sorta di “dono” per coloro a cui  veniva imposto (ricevere la salvezza di Cristo, il portato di una civiltà superiore): di fatto però il nesso fra la verità come svelamento, la rilevazione cartografica e la nominazione e  l’assoggettamento risulta ai nostri occhi del tutto evidente. Globo e conquista faranno da subito un tutt’uno, con la cartografia in funzione di tramite, perché le carte diventano attestati e rivendicazioni di sovranità espresse dai paesi “civilizzati” e dai loro sovrani.

Ma non c’è solo questo, nelle carte, perché sono molte le cose che esse ci raccontano.

C’è anzitutto l’insopprimibile spinta degli europei a catturare nelle loro reti di nomi gran parte del mondo, supponendo come mute le lingue dei popoli che lo abitavano (anche se presto si farà sentire l’esigenza di tradurre i sacri testi, per favorirne la comprensione); c’è la tendenza ad imporre nomi rispecchianti non tanto la natura dei luoghi e dei suoi abitanti, ma l’habitus mentale degli scopritori (vedi l’isola di Guanahanì, subito battezzata San Salvador dal cattolicissimo Colombo, che certo non dubitava di essere portatore di una universale salvezza religiosa); c’è un singolare impulso alla clonazione, per cui si assisterà al debordare di alcuni prefissi (Nova Francia, Nova Belgia e così via); ci sono le rivalità fra gli scopritori e le giravolte della politica, per cui un luogo  a cui era già stato attribuito un nome poteva essere tranquillamente ribattezzato, a seconda del vincitore della contesa; c’è l’aspirazione di chi si allontana dal proprio mondo e compie imprese perigliose a lasciare il proprio segno per ottenere una sorta di trasfigurazione, attraverso la quale ascrivere il proprio nome in una sorta di Pantheon cartografico (lo stretto di Magellano, la baia di Hudson, le cateratte di Stanley…): ma c’è soprattutto l’ossessione europea per rendere tutto il mondo assolutamente rivelato, in cui nulla di oscuro e di incognito trovasse più posto.

 Un’ossessione, osserva Sloterdijk, che troverà in Freud un’evidente vittoria scientifica in un campo solo apparentemente diverso, essendo la sua impresa di “scopritore dell’inconscio” non dissimile da quelle che nello stesso periodo gli ultimi grandi esploratori europei si accingeranno a compiere per eliminare, dalle carte geografiche dell’Africa, le ultime macchie bianche. L’inconscio non divenne forse, osserva acutamente Sloterdeijk, una sorta di “ terra di Freud”, quando egli intese  la psicanalisi come uno strumento destinato a rendere possibile “la conquista progressiva dell’ES da parte dell’IO”?               

 - il lato oscuro  dell’espansionismo europeo

Nel ragionare sulle modalità e sulle conseguenze di questa associazione fra lo scoprire, il nominare, il rappresentare e l’appropriarsi, che porterà a quella che non possiamo non definire “una criminalità globalizzata”  da parte di un capitalismo predatore, privo di qualunque scrupolo, Sloterdijk si interroga sui motivi profondi di un atteggiamento totalmente immorale da parte dei conquistatori europei, in cui lo sterminio avrà una parte preponderante (come del resto era già stato visibile nella totale disinibizione al massacro dimostrata dai crociati cristiani).

Lo sterminismo deriva a suo giudizio in gran parte dal fatto che questi uomini, già totalmente alienati per effetto della perdita dei legami con le loro radici familiari e sociali, percepivano quel nuovo spazio locale globalizzato come un puro FUORI: i luoghi in cui si trovavano a muoversi come estranei non sembravano appartenere allo stesso mondo della vita da cui essi erano partiti, così che non potevano essere pensati come abitabili e diventare domestici (se non per alcuni che li elessero come seconda patria e li scelsero come nuova casa).

In uno spazio di questo genere, ogni confine fra la lotta contro il nemico e l’annientamento di popoli interi abbassati a cose era destinato a cadere. Fuori da quelle linee, fissate dalle potenze marittime europee, che venivano chiamate “linee dell’amicizia”, ogni cosa diventava possibile e l’uomo bianco civilizzato si trasformava in predatore, dando il via alle atrocità che solo un predatore non “naturale” può compiere.

E’ da questa percezione di un FUORI visto come assoluto ALTRO che nasce, secondo Sloterdijk, il lato oscuro di quel progetto di modernità coloniale che portò di fatto alla depredazione della natura e alla devastazione dei paesi periferici, e che proseguendo nei secoli successivi finirà col compromettere la vita stessa del pianeta, se non riusciremo a pensare la Terra come luogo da abitare, prendendo sul serio le relazioni di reciprocità ed erigendo, all’interno dell’indifferenza, qualcosa di non indifferente.

 

Sono molto interessanti le osservazioni di Sloterdijk sul terrore che può suscitare il  FUORi : il terrore dell’indistinto, dello spazio incognito che  non a caso sulle cartine viene segnalato col colore bianco – o meglio con l’assenza di colore che il bianco rappresenta e che viene pertanto  ad indicare l’assenza di una vita riconoscibile per noi (come bianca è la balena che ossessiona il capitano Achab, perfetta rappresentazione di una esteriorità assoluta, non riducibile allo scopo del cacciatore)

 

Ci sono naturalmente altre ragioni per spiegare questa associazione fra scoperta e conquista e questa immoralità che come uomini del nostro tempo consideriamo giustamente criminale. All’incapacità di pensare il FUORI come luogo abitabile, occorre aggiungere sicuramente l’asimmetria culturale, che impediva agli europei di percepire questi nuovi popoli come ALTRI non assoluti, ma assimilabili a sé.  Bisogna inoltre tenere conto, spiega Sloterdijk,  di motivi che investono il piano teologico e quello della realtà storico-culturale del tempo. Agli occhi degli europei del Vecchio Mondo, imbrigliati in strutture ancora semifeudali, strettamente territorializzate e gravate da vincoli antichi, il Nuovo Mondo non poteva non rappresentare una vera e propria Terra Promessa dove un secondo esodo era possibile: una terra che sembrava  essere stata posta lì solo in attesa di qualcuno abbastanza abile e autodeterminato da prendersela (pensiamo alla figura letteraria di Robinson Crusoe, che esprime in maniera emblematica molti di questi temi), una terra dove l’agire poteva tranquillamente prevalere sul diritto, anzi lo creava, una terra, in sostanza, dove quelli che ora possiamo giustamente giudicare come saccheggiatori e criminali vedevano se stessi come pionieri ed eroi (lo sguardo della storia mentre si fa, commenta Sloterdijk, è molto diverso dallo sguardo retrospettivo…).

  4. Le ragioni del successo espansionistico
                                         

Prima di concludere questa storia della globalizzazione, volgendo lo sguardo all’oggi, Sloterdijk si chiede quali furono, al netto delle atrocità compiute, le ragioni profonde del successo dell’espansionismo europeo, e in particolare che cosa permise alla fine a questi uomini di rendere quel FUORI dalla bianchezza accecante in cui misero piede qualcosa di vivibile per se stessi.

Secondo la sua analisi, non si trattò soltanto della capacità tecnica, che pure era indiscutibile, e neanche di una accentuata predisposizione a farsi “osservatori dell’Altro”, che è fondamentale per il dominio culturale, ma piuttosto in una particolare attitudine a portare, in questi luoghi estranei, uno spazio proprio,  delle  finestre mentali portatili che funsero da veri e propri “baldacchini immunitari”. Nelle riflessioni che seguono Sloterdijk si sposta dunque sul piano simbolico, non meno importante di quello materiale per generare energia, individuando come elementi chiave:

 - la mitologia della nave

 Era certo assimilabile ad un involucro protettivo, non privo di proprietà magiche, la nave stessa, che rappresentava nei lunghi periodi di traversata una sorta di seconda patria e la cui stiva costituiva per gli equipaggi una sorta di nido mobile, che assicurava (attraverso un costante controllo per evitare che non si creassero falle da cui l’esterno poteva penetrare distruggendoli), una sorta di coerenza interna, come accade nel fenomeno psichico della rimozione.

 

- la religione cristiana

Costituiva sicuramente un potentissimo meccanismo sfero-poetico la religione, incarnata sulla nave dal cappellano di bordo che fungeva in un certo senso da assicuratore del trascendente ed era particolarmente indicato, come esperto dell’estremo, ad accompagnare uomini che dovevano confrontarsi costantemente con l’esperienza del limite e che trovavano, nel manto azzurro della Vergine Maria, una sorta di rifugio, un grembo materno universale…

A terra la religione assumeva invece la forma missionaria: una forma doppia, e quindi sempre potenzialmente ambigua, rappresentando da un lato l’espansione neoapostolica della Chiesa e dall’altro la falange religiosa del colonialismo. Pur tuttavia, osserva Sloterdijk, il ruolo della chiesa missionaria era fondamentale come principio di continuità fra il Vecchio e il Nuovo Mondo, perché nella tensione ad ampliare il baldacchino immunitario rappresentato dalla religione verso tutti i membri della cristianità potenziale svolgeva una funzione autenticamente globalizzante

(con qualche importante differenza, osserva Sloterdijk, fra Chiesa cattolica e Chiesa protestante – più intesa la prima a rivendicare anche politicamente una sovranità sul Nuovo Mondo, al di sopra dei singoli stati, più legata la seconda agli stati nazionali: simili entrambe peraltro  nell’ancoraggio ai propri linguaggi simbolici, fondamentali come mediatori verso l’estraneità del Fuori) 

 - la lealtà nei confronti dei principi e della madrepatria

Fungeva inoltre da importante elemento protettivo, particolarmente per chi era alla guida delle spedizioni d’oltremare o per i vicerè dei nuovi territori, il fatto di sentirsi emanazione dei sistemi di sovranità della patria di origine, di cui introiettavano i modelli portandoli su di sé come una sorta di icona reale interiore, che non solo garantiva la loro assoluta lealtà ma rappresentava un fondamentale elemento di continuità e di conferma identitaria. E’ da questi modelli, e dalle persone reali che li incarnavano in patria, che essi traevano il piacere più grande della conquista e la giustificazione delle atrocità compiute, ottenendo dal riconoscimento da parte della madrepatria una sorta di trasfigurazione; nello stesso tempo il sovrano in carne ed ossa, che pure non visitava mai i paesi d’oltremare, imprimeva attraverso queste sue estensioni corporee la propria sovranità su di essi.

 - la comprensione scientifica dello spazio esterno

In questa pur rapida presentazione degli elementi di trasfigurazione simbolica non può mancare naturalmente qualche osservazione sul ruolo della scienza, dal momento che furono proprio i viaggi oltremare ad aprire alla geografia e alle scienze della natura nuovi territori da esplorare. Anche in questo caso, secondo Sloterdijk, funzionavano come protezione immunitaria i sistemi di senso che i viaggiatori scientifici traevano dalle esperienze fatte in patria e che impedivano loro di andare a fondo in questo spazio totalmente indefinito, in questo confronto con un’ alterità  altrimenti alienante: perché  in effetti l’habitus mentale dell’osservare, del documentare, del sistematizzare, del descrivere per altri rendeva possibile il sentirsi come dei compilatori comuni (se pure tesi ognuno per suo conto a conquistare un proprio record cognitivo rispetto agli avversari) di una sorta di biblioteca universale del sapere, di un grande testo dell’esplorazione del mondo in cui, dice Sloterdijk, il nero dei caratteri della scrittura si prendeva la propria rivincita sul bianco (e di cui l’esempio più significativo sarà, qualche secolo più tardi,  l’Enciclopedia  elaborata dagli illuministi francesi).

- la traduzione linguistica

Fra tutti questi elementi di continuità non è stato certo meno importante quello che ha presieduto al lavoro imponente dei traduttori, di coloro a cui è toccato il compito non facile di elaborare il FUORI dal punto di vista linguistico, confrontandosi con una molteplicità impressionante di idiomi in cui i discorsi dei nuovi padroni dovevano essere espressi, se si voleva renderli davvero pervasivi.

Non si trattava infatti di assorbire le nuove lingue come proprie – fu la lingua dei conquistatori ad essere imposta – ma di ottenere che certi messaggi (quello cristiano in primo luogo) potessero essere  raccolti da ciascuno nella propria lingua, per essere intimamente compresi come portatori di salvezza per ogni individuo.

Pur tuttavia, osserva Sloterdijk, nonostante il cristianesimo abbia prodotto un’ecumene transculturale operativamente concreta e amplissima, il sogno di una penetrazione assoluta – una specie di nuovo miracolo della Pentecoste attraverso Gutemberg – era di fatto destinato a non realizzarsi, dovendo cozzare contro la particolarità di molte lingue minori.                          

 5. Il mondo sincronico della globalizzazione compiuta

 Nei capitoli conclusivi Sloterdijk si chiede che cosa sia diventata, a quattro secoli da Colombo, questa nostra ultima sfera, ormai del tutto circumnavigata, scoperta, rappresentata, occupata, usata, che si presenta ora come un corpo imprigionato in una ragnatela elettronica che la circonda come una seconda atmosfera. Nessun svelamento è ancora possibile: l’astro errante è diventato un astro di svelati, dove tutto è raggiungibile in una globalizzazione trionfante che si autolegittima come fatto compiuto.

Noi siamo ormai tutti riuniti, dice Sloterdijk, in un compatto e sincronico mondo del traffico, dove non ci sono più luoghi ma ubicazioni presso le quali la liquidità del capitale fa le sue soste, come un mare che ha completamente sommerso i continenti, e dove nessuna ombra riesce a sottrarci all’imperativo spietato di un giorno perenne.

Eppure, pur essendo costantemente e implacabilmente connessi, il nostro orizzonte antropologico non si è affatto stabilito come un “plenum” di popoli e culture (benché dopo secoli di viaggi di andata compiuti dagli europei verso gli altri sia ora in atto un crescente traffico in senso contrario). Gli Altri infatti sono diventati per noi solo coloro con cui dobbiamo in qualche misura fare i conti, e l’umanità attuale si presenta come una specie di insieme integrale, costituito da tante comunità stressate poste una di fianco all’altra…

Per far entrare in scena qualcosa che si possa davvero chiamare “umanità”, osserva Sloterdijk, non bastano le interconnessioni obbligate dovute alla circolazione fisica delle merci, non basta il turismo globale, non basta l’esportazione della cultura, e neppure è sufficiente la pressione alla cooperazione in  considerazione dei rischi ecologici comuni (anzi, questo produce soltanto, a suo giudizio, uno stress autogeno globale…)

Non è così che si può dare vita ad una seconda ecumene*: essa sarà possibile, secondo Sloterdijk,  solo a patto che si riconosca che  

 “… tutti quanti, nelle loro rispettive regioni e storie, sono diventati esseri soppiantati, sincronizzati, colpiti e umiliati da lontano, lacerati, collegati e oppressi da eccessive pretese – mere ubicazioni della loro illusione vitale, indirizzi del capitale, punti nello spazio omogeneo ai quali si fa ritorno e che tornano a se stessi – persone che non vedono, ma vengono viste, persone che non comprendono, ma vengono comprese, che non raggiungono, ma vengono raggiunte …

 

Noi siamo tutti, continua Sloterdijk, ugualmente lontani dal centro, resi esterni a noi stessi su di un globo che non è una casa per tutti ma un mercato, dove nessuno può sentirsi a casa perché un mercato è solo un punto d’incontro fra offerenti e clienti posti in un’ assoluta  esteriorità reciproca.

C’è stato, è vero, un momento in cui gli stati nazionali hanno cercato di stabilire per i propri cittadini, attraverso il Welfare, una sorta di “domesticità” politico-culturale: la globalizzazione peraltro ha intaccato in modo indelebile questa fragile armonia, allentando o dissolvendo quello che Sloterdijk definisce “l’intreccio del luogo e del sé”. In altri termini, l’ondata potentissima di mobilità transnazionale ha relativizzato i legami fra popoli e territori, così che molti dei cittadini dei moderni stati nazionali non sentono più la coincidenza fra il luogo in cui si trovano a vivere e la propria identità (com’è accaduto agli ebrei della diaspora, che rappresentano a livello emblematico il punto estremo di tale dissoluzione); allo stesso  tempo sono cresciuti a dismisura quei luoghi in cui gli esseri umani si riuniscono senza volere o potere legare la loro identità con essi (gli spazi di pausa del transito, i centri commerciali, i villaggi turistici…). Si resta così sospesi fra poli erranti e poli desertici, su di un fondale che si va sempre più restringendo e dove non trovano più spazio le culture regionali che riuscivano a fondere il sé e il luogo.

 In una situazione siffatta, non basterà, secondo Sloterdijk, trovare un punto d’equilibrio fra il locale e il globale, ma bisognerà entrare in una prospettiva di “poetica dello spazio”, allestendo qualcosa che possa assomigliare ad una forma dell’abitare o dell’essere-a-casa-propria-e-in-famiglia.

Non si tratta certamente di tornare alle clausure militanti dei vecchi stati nazionali, e neanche a forme di vita tribale, ma di riconoscere che l’andare verso un mondo costituito da società miste e dalle pareti sottili non produce condizioni immunitarie vivibili.

Oggi molti tentano di costruirsele a livello individuale, sganciandosi dai loro corpi sociali ed erigendo baldacchini immunitari di tipo personale: ricorrono cioè ad accordi assicurativi privati - siano questi di natura pseudo-religiosa, ginnica, dietetica… - accogliendo il messaggio di una cultura individualistica che le raccomanda come strategie vitali essenziali (del resto, osserva Sloterdijk, esse rappresentano il punto d’arrivo di una lunga marcia verso la flessibilizzazione, l’indebolimento delle relazioni oggettuali e la licenza generale concessa alle relazioni di infedeltà o alle relazioni reversibili fra le persone…).

Un punto d’arrivo che ci ha resi pericolosamente vicini, a suo giudizio, alla linea estrema di quella fine della cultura che Spengler aveva profetizzato, posti come siamo in una condizione in cui è diventato impossibile decidere se i singoli siano straordinariamente “fit” o straordinariamente  decadenti e in cui quello che di promettente c’era nel progetto “uomo” potrebbe alla fine essere completamente cancellato.

                                    

                                                                 ………………………………………

 

 

  • OIKUMENE è parola greca che significa “terra abitata”; viene usata per indicare la totalità  e l’unità dei viventi.
  • Nella sua riflessione Sloterdijk parte dalla considerazione che nel pensiero filosofico greco questa unità non veniva considerata poggiante su fondamenti biologici, e neanche sul fatto che gli esseri umani hanno tutti gli stessi bisogni e pertanto devono godere degli stessi diritti, ma piuttosto su di un principio “ontologico” e cioè sul fatto che essi partecipano allo stesso mistero del mondo, al di là dei simbolismi locali (sono esseri, dice Sloterdijk, che tendono alla stessa luce e sono sovrastati dalla stessa domanda).  E’ partendo dal contributo fondamentale del pensiero greco, poi integrato dal concetto cristiano di un’umanità poggiante sulla stessa base trascendente (figli dello stesso Dio, fratelli in Cristo) che si è realizzata  quella che Sloterdijk definisce la prima grande ecumene, che ha visto come centri irradianti prima Atene e Gerusalemme e infine Roma, che ne ha raccolto l’eredità per la sua capacità di assimilazione e di traduzione.
  • Nel nostro tempo peraltro non possiamo più pensare ad una “sfera delle sfere” basata sul trascendente – nessuna delle religioni mondiali può assumere oggi questo ruolo - e neanche ad una macrosfera su base informatica o  politica, come unione di nazioni. Per Sloterdijk una seconda ecumene può essere pensata e realizzata solo sulla base del riconoscimento di una comune condizione umana, che consiste nell’essere diventati tutti  “esterni a noi stessi, esseri che fanno ritorno a se stessi dal di fuori senza poter essere sicuri che ci sia qualcuno in casa quando rientrano nella loro dimora “          

 

  N.B. = le ripartizioni del riassunto non sono del tutto corrispondenti a quelle del testo,
            pur  rispettando la linea argomentativa dell'autore   
                                                    
 N.B. = il testo che abbiamo riassunto costituisce la parte finale del 2° volume di “SFERE”, anche se è stato tradotto in italiano e pubblicato separatamente da Carocci nel 2002; rappresenta una versione più agevole, sia per l’abbordabilità della scrittura che per le dimensioni, di un altro testo pubblicato nel 2006 da Meltemi e intitolato “Il mondo dentro il capitale”. E’ a questo secondo testo, e in particolare all’introduzione curata da  Gianluca Bonaiuti, che facciamo qui riferimento  per queste notazioni aggiuntive.

 1. Il personaggio Sloterdijk:

 Nell’introduzione a “Il mondo dentro il capitale”, Gianluca Bonaiuti presenta Sloterdijk senza nascondere al lettore i motivi per cui questo pensatore, sicuramente originale, ha suscitato in Germania discussioni anche aspre che hanno inciso, a suo giudizio, su di una ricezione italiana alquanto tardiva dei suoi lavori filosofici.

A Sloterdijk viene rimproverato, per intanto, e non senza buone ragioni, un eccesso di versatilità, una tendenza sicuramente irritante ad esibirsi  sulla scena mediatica con totale mancanza di sobrietà comunicativa, nell’idea di filosofia come “teatro”. Pesa inoltre, sulla valutazione del suo percorso intellettuale, l’ambiguità di una collocazione politica che lo ha visto originariamente su posizioni di estrema sinistra, approdate in seguito a concezioni di un supposto neoconservatorismo radicale, all’interno del quale gli vengono rimproverate alcune affermazioni (peraltro assai vaghe e interlocutorie, a giudizio di Bonaiuti che hanno permesso ai suoi oppositori di appiccicargli l’etichetta di sostenitore dell’eugenetica: in effetti nel corso di una conferenza tenuta nel 99 a Elmau, in Baviera,  Sloterdiij ha ipotizzato un futuro in cui saranno pensabili interventi di mutazione della natura umana per via tecnologica. Lo scontro con quello che viene considerato il più importante pensatore tedesco contemporaneo, Habermas, ha fatto il resto, producendo fazioni tese a lanciarsi da un lato accuse di arroganza amorale, dall’altro di arroccamento in una visione accademica e asfittica della filosofia e della cultura (retaggio, secondo Sloterdijk, di una generazione ancora segnata dall’esperienza bellica e dal senso di colpa per il passato nazista, che ha bloccato e normalizzato la discussione politica e intellettuale instaurando una forma di censura ideologica verso le innovazioni intellettuali).

Rispetto a questa visione Sloterdijk intende invece presentarsi nel ruolo di “pensatore sulla scena  rivendicando la necessità di una rifondazione della filosofia che la renda disponibile ad accogliere, senza paura di contaminazioni, dei motivi anche estranei alla sua tradizione e a dotarsi di strumenti logici, linguistici e concettuali nuovi, capaci di rompere quella polarizzazione fra natura e cultura, organismo e macchina che a suo giudizio non è più idonea a misurarsi col mondo contemporaneo.

 2. Il concetto di “sfera”:

 La produzione filosofica di Sloterdijk conta ormai molti titoli; la sua opera più conosciuta e tradotta è “Critica della ragion cinica”, scritta all’inizio degli anni 90, anche se il progetto di far incontrare la filosofia con la modernità trova forma compiuta soprattutto nella monumentale trilogia intitolata “SFERE”.

Questo incontro può avvenire, a giudizio di Sloterdijk, solo con un radicale ripensamento della spazialità umana: per Sloterdijk peraltro lo spazio non è da intendere in senso fisico o geometrico, ma piuttosto come qualcosa che precede le dimensioni, dà loro estensione, ne costituisce la matrice. Per esprimerlo, il filosofo usa il termine “sfera”, che non è estraneo alla tradizione filosofica (era già presente infatti nel pensiero  greco antico) ma che in lui diventa una sorta di “figura di pensiero” venendo ad indicare tutte quelle strutture morfologiche immunitarie attraverso le quali l’uomo riesce ad emanciparsi dall’ambiente circostante, trovando in esse quel “vantaggio climatico” che gli consente di vivere e di prosperare (possiamo infatti considerarle, osserva Bonaiuti, come delle vere e proprie serre umane…).

Le sfere sono dunque quegli spazi nei quali gli uomini vivono insieme e che consentono, con le loro “membrane protettive”, una medietà fra la gabbia imprigionante dell’ambiente naturale e l’esteriorità  terrorizzante del puro FUORI.                                   

E’ appunto di questi mezzi, di queste istituzioni costruite dagli uomini per emanciparsi dai contesti climatici e biogeografici che si occupa, trasponendole su di un piano filosofico-ontologico, la trilogia sopra indicata, in cui le riflessioni sulle grandi strutture immunitarie (macrosferologia) e cioè gli Stati, gli Imperi, i Mondi, si combinano con quelle sulle sfere intime (microsferologia), in un percorso  cadenzato da sottotitoli decisamente inusuali:

 SFERE 1° = BOLLE

Nel primo volume, in cui Sloterdijk  si propone di costruire una teoria dell’intimità, vengono indicati con questo termine metaforico tutti quegli spazi diadici che si formano nelle relazioni simbiotiche (come quelle fra madre e figlio, Filemone e Bauci, psicoterapetuta e paziente, mistici e Dio), intendendo la coppia non come il risultato di una semplice addizione fra due singole unità, ma come qualcosa che precede l’incontro propriamente biografico

SFERE 2° = GLOBI

Nel secondo volume Sleterdijk  si propone invece di costruire un’ampia “fenomenologia dello spirito” dell’epoca della globalizzazione, che comincia con la formulazione filosofica e geometrica delle prime immagini sferologiche del mondo nel pensiero greco antico e poi nella filosofia neoplatonica, e si chiude con la globalizzazione capitalistica del mondo. Un percorso in cui secondo Sloterdijk si è verificata, nel passaggio dalla metafisica classica all’età moderna, una frattura assoluta e irrimediabile, perché di fronte alle nuove immagini del mondo proposte dagli astronomi le strutture immunitarie tradizionali (l’idea di un cosmo ordinato, della posizione centrale in esso di una Terra inserita nel manto protettivo delle volte sferiche di derivazione aristotelica) hanno perso la loro capacità “domesticante” (cioè di riscaldare simbolicamente, rendendolo “casa”, lo spazio umano).

In una Terra vista ormai come astro errante nello spazio gli uomini hanno dovuto dunque venire a patti con le fredde esteriorità del cosmo e della tecnica, imparando ad esistere come un nocciolo senza la sua corteccia e aggrappandosi pertanto all’unica scorza ancora possibile, quella del pianeta stesso che diventa luogo di scoperta  per gli esploratori e per gli scienziati della natura e di conquista per le potenze colonizzatrici, ma in cui sarà il capitale il vero agente globalizzatore

SFERE 3° = SCHIUME

Il terzo volume è invece dedicato all’analisi del mondo contemporaneo in cui, secondo Sloterdijk, pur partendo dall’esigenza di intimità, gli uomini non sembrano più in grado di costruire spazi in cui si possa davvero abitare e in cui dunque l’esteriorità domina su ogni cosa.

Il termine schiuma, che il filosofo usa in senso metaforico ma con un preciso riferimento fisico (proponendo di sostituirlo all’ormai abusato “società” e al pure più recente “rete”, rispetto al quale avrebbe a suo giudizio una maggiore adeguatezza morfologica) indicherebbe pertanto  tutti quei sistemi multi camerali consistenti di spazi formati dalla pressione gassosa e da tensioni di superficie, che si restringono e si deformano l’un l’altro secondo precise leggi geometriche. Sarebbero tali dunque i sistemi urbani moderni, in cui la vita sociale si presenta come connessione di isolamenti: nella schiuma sociale, secondo Sloterdijk, non c’è infatti una vera comunicazione, ma solo relazioni mimetiche e inter-autistiche

 

Un trittico complesso, osserva Bonaiuti, in cui Sloterdijk tenta di interpretare filosoficamente il fenomeno della globalizzazione e di costruire un vocabolario nuovo, considerando che tutti i linguaggi precedenti – compreso quello della filosofia teoretica - si sono sviluppati per un mondo diverso, composto da sostanze solide e pesanti, e risultano pertanto incapaci di esprimere un mondo polisferico, leggero,  in cui le relazioni fra gli uomini sono profondamente mutate. Un mondo  costruito dal capitale, che ha prodotto dei nuovi “interni mondani” il cui emblema è rappresentato metaforicamente da quel “Palazzo di Cristallo” che è l’oggetto di un capitolo del testo a cui faremo ora direttamente riferimento.


3. Il “Palazzo di cristallo”:

 L’espressione secondo cui la civilizzazione occidentale sarebbe rappresentabile simbolicamente con un “palazzo di cristallo” si deve a Dostoevskij (“Memorie del sottosuolo”), che è stato, secondo Sloterdijk, uno degli scrittori del XIX secolo più perspicaci nel cogliere gli effetti stranianti e potenzialmente perversi dell’aggressivo sfruttamento del mondo e dell’idea – allora intuibile in nuce – della “fine della storia”. Nel suo viaggio a Londra, compiuto nel 1862, Dostoevskij aveva avuto occasione di visitare il palazzo dell’ Esposizione Universale, costruito a metà del secolo con l’intento di superare in grandezza e magnificenza ogni altro edificio pubblico, ponendosi come una vera e propria “meraviglia tecnologica” (come tale infatti venne considerato, fino a quando fu distrutto da un incendio nel 1936). Una costruzione invero colossale, con cui iniziava, dice Sloterdijk “la marcia trionfale attraverso il Moderno di una nuova estetica dell’immanenza”: per l’alto numero degli espositori e la molteplicità dei paesi rappresentati - teniamo presente che la sola Inghilterra aveva allora 32 colonie- era davvero come se l’intero mondo esterno fosse stato “travasato” all’interno di uno spazio artificialmente climatizzato e rischiarato dal lusso e dal cosmopolitismo (in effetti fu poi adibito a serra e successivamente a museo della cultura dell’impero, venendo utilizzato anche come sala da concerti).

Uno spazio di cui Dostoevskij intuì perfettamente la dimensione programmatica e simbolica rispetto ad una modernità che pensava trionfalmente se stessa come del tutto pacificata e priva di contraddizioni, pronta ad adagiarsi nel conforto edonistico del consumo, verso la quale lo scrittore provava profonde riserve.

 Una diffidenza, la sua, presumibilmente acuita da un indubbio parallelismo fra il palazzo dell’Esposizione Universale e quel “Palazzo della cultura” ipotizzato nel romanzo di uno scrittore verso cui il nostro provava una viva avversione (“Che fare?’” di Cernishevskij): una sorta di guscio di vetro e acciaio, protetto e climatizzato, dove il radioso sole dell’avvenire sembrava destinato a splendere per sempre. Una casa della vita, indubbiamente, ma sigillata come un recinto e in cui l’intera vita sociale doveva essere compresa, escludendo da essa ogni ulteriore evento storico come ogni domestico incidente (è da qui, commenta Sloterdijk, che parte l’idea della “fine della storia”, ed entra in scena la biopolitica…).

 Nel palazzo dell’Esposizione Universale Dostoevskij aveva colto la stessa cosa, il nucleo di una nuova dottrina delle cose ultime segnata dal dogmatismo di un consenso universale e dalla felicità, ugualmente omogeneizzante, del consumo edonistico. Un progetto di vita individuale e sociale di cui un autore come lui, segnato da un profondo pessimismo cristiano, non poteva non sottolineare la negazione della storia come la possibile “cristallizzazione” della vita psichica degli individui, a cui una pace perpetua, post-storica, orientata unicamente verso la soddisfazione dei desideri (e quindi forzatamente “noiosa”) apriva le porte ad una libertà intesa negativamente come possibilità di compiere il male in assenza di colpa, e non positivamente come assunzione di una responsabilità etica.

 A questo punto Sloterdijk apre una parentesi critica su Heidegger, che intervenendo negli anni 20 in “Essere e tempo” sul tema della noia legata ad una vita inautentica, segnata dall’ ”essere senza sfide” in un’epoca post-storica  caratterizzata dalla protezione imprigionante della tecnica e dello stato sociale, attribuiva alla filosofia – e massimamente a se stesso – il compito di  far saltare in aria il tetto di  vetro posto sulla testa degli individui che in questa atmosfera morbida e soffocante si erano adagiati, facendone riemergere la coscienza intorpidita (attribuendo naturalmente alla Germania l’alto compito di rendere possibile questa riemersione e il ritorno della storia, anche al prezzo di una catastrofe capace di farsi maestra di vita).

Poi, nota ironicamente Sloterdijk, la catastrofe effettivamente ci fu, ma paradossalmente lo spazio davvero etico sarà occupato da quanti si opposero al fascismo, tra le file dunque dei “nemici” della Germania nazista – è stato infatti l’antifascismo, a suo giudizio, la cosa più significativa che l’epoca avesse da offrire dal punto di vista morale…

 Fra palazzi di cristallo e tetti di vetro da far saltare in aria Sloterdijk situa poi l’interpretazione di Benjamin sui “passages” di Parigi, che ha in comune con la metafora di Dostoevskij l’idea di considerare una forma architettonica come chiave per rendere visibili i contesti e le contraddizioni del capitalismo e della modernità. Secondo il suo giudizio peraltro l’oggetto dell’analisi è in questo secondo caso troppo debole per sostenerne il peso (ricordiamo che i “passages” sono una sorta di intermezzo fra una via e una piazza, e che attraverso di essi secondo Benjamin si poteva intravedere, sotto la superficie scintillante delle merci esposte, il mondo inquietante e talvolta infero del lavoro soggetto allo sfruttamento capitalistico). Se volessimo utilizzare la metafora di Benjamin riportandola al mondo attuale, sottolinea Sloterdijk, potremo riferirci facilmente agli shopping center, ai centri fieristici, ai parchi dei divertimenti… Nondimeno la metafora del palazzo di cristallo rende in modo più potente, a suo giudizio, l’idea di un guscio abbastanza grande da comprendere il tutto, lasciando fuori il mondo esterno (come in effetti  avviene in quel “Palazzo recintato”  in cui si racchiude il protagonista de “ Le memorie del sottosuolo”, senza più uscirne).

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