venerdì 1 aprile 2016

Appunti sparsi sul concetto di "comunità" - a cura di Giaancarlo Fagiano


Appunti sparsi sul concetto di “Comunità”

Raccolti leggendo brevi saggi sul tema di Arnaldo Bagnasco, Giovanni Busino, Sergio Cotta, Giulio Sapelli
 

L’attuale contesto - sociale, economico, politico, culturale, mediatico - sta proponendo la/le “comunità” come una dimensione centrale, sia in senso positivo, quando viene individuata come una dimensione adatta per avviare e gestire processi migliorativi di diversa natura, sia in senso negativo, quando al contrario sembra ridursi alla base “ideale” per il manifestarsi di caratteri di chiusura verso l’esterno, verso l’ “altro”, verso ogni “novità” altrettanto intesa in senso ampio.. Si sta quindi rendendo necessaria una riflessione specifica sul suo ruolo e peso, al fine di ottimizzare, quando ad essa si riferiscono, le politiche propositive in senso positivo, piuttosto che quelle di contrasto alle sue potenziali derive conservatrici. Il primo passo consiste con buona probabilità nel trovare la più ampio condivisione possibile sul suo significato e sulle sue caratteristiche costitutive, su cosa si debba quindi intendere con “comunità”, partendo proprio da una migliore conoscenza del suo fin qui avvenuto utilizzo in campo filosofico, economico, e soprattutto sociologico. Dispiace constatare come la teoria e la prassi politica, di ogni orientamento (se non si assume come  attenzione fondante il richiamo  strumentale della comunità, nazionale, locale, etnica messo in atto dalle destre conservatrici e xenofobe) non si siano mai occupate in modo specifico della “comunità”, vista semplicemente, quando individuata come tale, come un potenziale bacino di consensi elettorali. Fermo restando ciò non si può però non constatare che in effetti “comunità” è uno dei concetti più dibattuti e controversi, che non si è infatti mai affermata una sua interpretazione condivisa ed acquisita. Il termine “comunità” è stato da sempre diversamente inteso ed usato, basti pensare che il sociologo inglese G.A. Hillery, nell’ambito di uno studio del 1955 sulla sola letteratura inglese, ebbe modo di individuare ben 94 (novantaquattro!) usi diversi del concetto di comunità.

Questi appunti si propongono, nella loro sinteticità e parzialità, di offrire un contributo in tal senso, una prima traccia utile ad eventuali ulteriori specifici approfondimenti, ovviamente riferita al solo contesto culturale occidentale ed europeo:

ü Il termine comunità, con un significato specifico e mirato, ed una precisa collegata attenzione verso di essa, compaiono tardi nella cultura occidentale;

ü La ricchissima letteratura sulla “polis greca” e sulla “civitas romana”, che pure può a grandi linee rappresentare un suo prologo, si sviluppa infatti quasi unicamente nel loro raffronto, in termini di forme di “potere”, con i grandi regni ed imperi

ü Nelle città' medievali e rinascimentali, ad esempio nei mitici “comuni” italiani e nelle città/porto del nord Europa della Lega Anseatica, l'idea di comunità trova forse un suo primo importante antecedente, aggiungendo nuovi elementi alla pura e semplice con la comune appartenenza territoriale. A differenza delle esperienze di comunità monastiche e di appartenenza religiosa, troppo caratterizzate da una specifica motivazione aggregatrice, e da dimensioni limitate, hanno infatti rappresentato centri di forte e stabile identificazione umana e culturale, di intensa integrazione dei cittadini, tali da differenziarsi in modo netto all'interno delle entità globali, universali, del tempo quali la Respublica christianorum,  l'Impero, la Chiesa temporale.

ü Questi antefatti storici, anche se del loro non delineano una idea compiuta e matura di “comunità”, e non offrono quindi una sua, seppur parziale, definizione, lasciano già intuire che il suo costituirsi avviene im modo quasi automatico per contrasto ed opposizione dialettica con le “grandi” costruzioni sociali, statali e non

ü La successiva evoluzione storica verso la forma del moderno Stato unitario (nelle sue diverse articolazioni) accentua inevitabilmente la valutazione sul senso e ruolo della comunità nell’ambito delle più ampie e generali considerazioni sul ruolo dello Stato

ü Non a caso la prima opera che dedica riflessioni specifiche alla “comunità” è il “Leviatano di Thomas Hobbes (1588-1679) pubblicato nel 1651. In questa opera, che pone le prime basi filosofiche e politiche per il nascente moderno Stato, Hobbes avvia una evidente separazione fra la “comunità”, intesa come sede della “solidarietà primitiva”, e la “società”, vista come base dello Stato che, articolandosi su vastità territoriali, apparati di sicurezza e potenza militare, unità amministrativa centralizzata, uniformità di costumi e idee, unico “mercato” interno, è destinato a fagocitare inesorabilmente ogni forma sociale sottostante, comunità comprese

ü il termine “comunità”, nel secolo successivo, non pare attirare attenzioni specifiche, compare, ma molto fugacemente, dapprima nelle opere di Kant (1724-1804), che la definisce, senza approfondirne le caratteristiche costituenti, come una delle categorie di relazione sociale, e successivamente in quelle di alcuni filosofi romantici, in particolare Fitche (1762-1814),

ü L’avvenuto avvio del dibattito attorno alla “democrazia” apre attorno alla metà dell’Ottocento spazio per considerazioni diverse e più attente a dimensioni sociali, economiche  e politiche, assimilabili alla “comunità”: Montesquieu (1689 – 1755) nell'Esprit des lois, dando una compiuta definizione della democrazia nella sua ‛natura' e nel suo ‛principio',  ritiene che la vera democrazia sia necessariamente un piccolo Stato, nel quale tanto il tipo delle istituzioni quanto il modo integrato di vivere dipendono da un principio unificante del bene comune; una forma ideale fra le altre che, a causa dell’ambizione e della sete di potere umana, è però destinata a soccombere vuoi per la propria stessa espansione, che ne snatura il carattere, vuoi perché sottomessa dall’espansione altrui. Il nome non è lo stesso ma Montesquieu comunque delinea già compiutamente, in questo quadro, la sostanza di una precisa idea di “comunità”: una entità sociale di piccolo ‛volume', in cui si realizza pienezza di vita etico-politica

ü Un ulteriore importante salto avviene con Rousseau (1712 – 1778). Anche per Rousseau la democrazia è il ‛piccolo Stato'; ma questo ora assume il significato, non più di uno fra i vari tipi ideali di società, bensì quello di modello perfetto: nel “Contrat social” il piccolo Stato di Montesquieu diventa la “patria”, il “tutto sociale” della comunità politica, nel quale ogni individuo raggiunge pienezza di vita

ü L’inclusione, operata da Montesquieu prima e Rousseau dopo, della “comunità” nel più ampio, in quanto attento al concetto generale di “democrazia”, ideale di “piccolo Stato” produce nella realtà storica, e nel dibattito culturale, effetti parziali e limitati nel tempo, la contingenza storica spinge infatti nella direzione opposta. I grandi sconvolgimenti messi in moto dalle rivoluzioni americana e francese soffocano le riflessioni sul senso di “comunità – piccolo Stato”, per tutto l’Ottocento è attorno al “grande Stato” che si orienta non solo il movimento storico reale ma lo stesso movimento culturale

ü Il trionfo del “grande Stato” sulla democrazia comunitaria di Rousseau è infatti celebrato da Benjamin Constant (1767 - 1830) che nel suo Discours sur la liberté des anciens comparée à celle des modernes (1819) contrappone la capacità dello Stato moderno di farsi garante di sviluppo e di pace, grazie alla sua “grandezza” alla ristrettezza territoriale, che implica inevitabilmente quella morale e ideale, delle comunità locali, simboleggiate dalla polis greca.

ü La “comunità”, di fatto trascurata fino a Montesquieu e Rousseau, non solo vive, con le loro opere, un breve ed insignificante momento di attenzione, ma sembra quindi definitivamente cancellata, come possibile dimensione sociale, dal vincente avvento del moderno Stato borghese e del collegato mercato capitalistico

ü La mancanza di attenzioni mirate alla “comunità” persiste infatti anche nella nascente elaborazione culturale di opposizione al capitalismo: nell’opera di Marx (1818-1883) si trovano  riferimenti alla dimensione comunitaria, di norma declinata nella forma di  “comune agricola”, nello studio delle società precapitalistiche ma essa viene considerate quasi esclusivamente nella sua accezione di forma sociale di gestione economica, basata prevalentemente (ma non solo) sulla proprietà comune, manca però una valutazione specifica sul suo possibile ruolo nell’emancipazione delle classi lavoratrici. La visione marxista guarda ad una sola “comunità”, quella universale di tutti i lavoratori

ü Lentamente tuttavia, nell’ambito dell’indiscutibile trionfo del “grande Stato”, borghese e capitalista, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, inizia ad emergere una persistenza dei legami comunitari, per quanto limitata all’ambito territoriale locale; lentamente si delineano, e progressivamente si consolidano, realtà comunitarie che, in reazione alle inevitabili contraddizioni e forzature legate al sopravvento del “grande Stato”, preludono ad una articolazione interna della vita socio-politica, se non apertamente contrapposta certamente “diversa” da quella realizzata dal centralismo.

ü Non a caso quindi, alla fine del 1800, con la pubblicazione nel 1887 di “Gemeinschaft und Geseilschaft (Comunità e società) da parte del sociologo tedesco Ferdinand Tonnies (1855 – 1936), si ha il primo studio specificatamente dedicato alla “comunità”, nella sua nuova accezione di entità “distinta” dal “grande Stato”, un’opera tutt’oggi di generale riconosciuto riferimento

ü influenzato sia da Marx che dalle correnti filosofiche romantiche Tonnies individua nella antinomia comunità/società una chiave di lettura centrale per comprendere la modernità sociale sottolineando che questa distinzione si manifesta in modo diffuso nel sentire collettivo, fino ad influenzare lo stesso linguaggio corrente nel quale i due termini sono apertamente distinti (si parla, come esempi citati, di "comunità di luogo, di costume, di fede” piuttosto che di “società di profitto, di viaggio, delle scienze")

ü Ovviamente le differenziazioni linguistiche si spiegano con una diversità di fondo che Tonnies individua nel diverso collante sociale,  nell’essenza delle motivazioni che portano alla loro costituzione…..il tratto sociale caratteristico della comunità, in tutte le sue forme, è la comprensione del fatto che è "un modo di sentire comune e reciproco, associativo, che costituisce la volontà propria di una comunità"…..essa è per sua natura non contrattuale ma tacita, "perché il suo contenuto è inesprimibile, infinito, incomprensibile"; non può essere costruita, ma fiorisce "da germi dati, quando le condizioni sono favorevoli"

ü Tonnies, nel giudicare comunque ineludibile e storicamente inevitabile l’esistenza di una dimensione sociale più ampia, ne evidenzia la diversità delle caratteristiche costitutive ……la teoria della società  muove dalla costruzione di una cerchia di uomini che, come nella comunità, vivono e abitano pacificamente l'uno accanto all'altro, ma che sono non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati, rimanendo separati nonostante tutti i legami, mentre là rimangono legati nonostante tutte le separazioni.……..

ü Il nome e l’opera di Tonnies, a giudizio di molti, erano straordinariamente moderni e antiveggenti (non a caso anche da essi prende avvio la corrente trasversale di pensiero del “comunitarismo”). Non esprimevano infatti una insanabile contrapposizione fra comunità e società, ma, al contrario, la loro antinomia veniva vista come il terreno sul quale si è creata la modernità sociale, in grado di spiegare la stessa natura e irreversibilità del principio di associazione, in contrapposizione, questo sì, alla superficiale e diffusa tendenza a ritenere che la società moderna poggiasse unicamente su individualismo, nuovi ruoli e figure sociali, e sulla collegata sostanziale distruzione della comunità

ü Restando ancora nel campo dell’analisi sociologica un collegamento con l’analisi di Tonnies è sicuramente rintracciabile nelle riflessioni da lì a poco sviluppate attorno al tema di “comunità” da parte di Max Weber (1864 - 1920) ed inserite nella sua più ampia indagine sociologica sull’ “agire sociale”, ossia le motivazioni che spiegano i comportamenti collettivi, che sostanzialmente rientrano in quattro categorie:

· motivazioni orientate in modo razionale rispetto allo scopo

· motivazioni orientate in modo razionale rispetto al valore

· motivazioni prodotte da moti della sfera affettiva

· motivazioni frutto della tradizione

ü In questo quadro Weber definisce “comunità” una relazione sociale che poggia su una comune appartenenza ed è mossa dalle motivazioni di tipo affettivo e tradizionale, contrapposta ad una diversa relazione sociale, definita “associazione”, che vede al contrario un legame di interessi comuni orientati dalle motivazioni di scopo e valore

ü Per sua stessa esplicita ammissione questa dicotomia “comunità/associazione” si richiama a quella di Tonnies “comunità/società”, anche se Weber sottolinea una evidente diversità, precisando che la dicotomia “comunità/associazione” non è sempre rigorosamente applicabile. Weber aggiunge infatti che anche nel caso di “associazioni” mosse da motivazioni razionali legate ad un comune scopo o valore possono nascere al loro interno relazioni sociali di “affetto” e, nel caso di un procedere comune di lunga durata, persino di “tradizione”. A suo avviso si possono pertanto innestare, in questo modo, elementi comunitari anche in un ambito associativo

ü In Weber quindi il concetto di “comunità” è più problematico ed ampio rispetto a quello di Tonnies, se da una parte esso perde ogni sentimentalismo tradizionalista ed ogni idealizzazione nostalgica, dall’altra acquista una precisa attenzione alla estrema varietà di relazioni sociali che sarebbe riduttivo identificare automaticamente con la “società” nel suo complesso

ü Sulla base della dicotomia “comunità/associazione” Weber delinea una sua idea di “cambiamento sociale”, visto come un “processo di razionalizzazione”, basato sul crescente prevalere delle motivazioni razionali di scopo/valore ed in grado di produrre e/o sostenere  strutture sociali stabili e ben organizzate quali, ad esempio, la burocrazia statale e il capitalismo moderno. Ma evidenzia che questo processo non avviene in modo lineare, alla razionalità che tende a normare le relazioni sociali si contrappongono infatti le motivazioni “sentimentali” alla base della comunità (tutto ciò che non è razionalizzabile) le quali sono in grado di produrre, in alcuni passaggi storici decisivi, una forte opposizione al processo razionale

ü Un altro importante sociologo, contemporaneo a Weber, che guarda con attenzione alla “comunità”, anche se non usa mai questo termine con specifico significato,  è sicuramente Emìle Durkeim (1857 - 1920); anch’egli introduce una dicotomia: tra società basate su una solidarietà “meccanica”, e quelle basate su una solidarietà “organica”; alle prime vanno iscritte le società/comunità delle quali Durkeim ha un’opinione negativa considerandole basate su una cultura “prescrittiva”, immobile, con ruoli fissati, alle seconde le società moderne basate su una diversa, e più stimolante, divisione di funzioni e ruoli

ü Ma non esiste secondo Durkeim una opposizione insormontabile fra le due forme associative, in quanto le prime inevitabilmente evolvono nelle seconde, seppure con percorsi talvolta complessi e difficili, e queste seconde pertanto a loro volta mantengono al loro interno elementi delle prime; da ciò deriva la necessità di una analisi delle realtà comunitarie molto articolata ed in grado di evitare schematismi e divisioni rigide

ü La successiva elaborazione di Talcott Parsons (1902 - 1979) prende certamente spunto dalle dicotomie individuate da Tonnies/Weber/Durkeim, ma si pone lo scopo di superarle ritenendole non adatte a comprendere situazioni comunitarie fra di loro molto differenziate. Il punto di avvio di Parsons fu la difficoltà teorica da lui incontrata nel  situare nelle dicotomie “classiche” di Tonnies professioni, quali quella del medico, che sembravano unire elementi “societari”, come il carattere razionale e universalistico della scienza, con orientamenti “comunitari” di empatia verso il paziente. In successivi approfondimenti, che ad un livello più alto di astrazione si adattano all’intera gamma delle “professioni”, Parsons giunge a definire cinque modelli comportamentali variabili (pattern variables), ossia cinque coppie di alternative che si pongono di fronte ad un individuo, o ad una collettività, nel momento di orientare i propri comportamenti (momenti da lui definiti “dilemmi di scelta”)

·  Affettività – o - neutralità affettiva = la prima dà una gratificazione immediata, la seconda offre conseguenze gratificanti più ampie e dilazionate

· Orientamento verso l’io - o –orientamento verso la collettività = da una parte il perseguimento del proprio interesse dall’altra quello generale di gruppo

· Universalismo – o – particolarismo = valutazioni che guardano in senso ampio piuttosto che  ristretto al gruppo

· Acquisizione – o – ascrizione = nel valutare le singole prestazioni umane  nel primo caso prevale ciò che si fa, nel secondo ciò che si è

· Specificità – o - diffusione = rispettivamente rapporti e aspettative di ruolo dal contenuto limitato oppure indefinito

ü Per quanto complesse ed a rischio di schematismi le pattern variables di Parsons continuano a costituire, nel campo delle analisi sociologiche, la versione più moderna ed analitica nell’analisi della coppia comunità-società

ü Nella seconda parte del Novecento, a fronte di un diverso quadro complessivo, imposto dalla crescente globalizzazione economica e dall’avvento di innovative tecnologie comunicative, in cui collocare il ruolo e natura della “comunità”, gli sforzi analitici, sociologici ma non solo (attorno al concetto di comunità si sono misurate diverse elaborazioni psicologiche e filosofiche qui non riassumibili vista la loro ampiezza e la loro accentuata specializzazione) che si sono concentrati in particolare su alcuni elementi ritenuti, in modo trasversale e condiviso, caratterizzanti l’odierna dimensione comunitaria.

ü Il concetto di “comunità” è infatti sempre più studiato in relazione a problematiche in cui, si potrebbe dire, lo stesso concetto di comunità pare prima dissolversi e poi riproporsi;

· La perdita di identità dell'individuo nella società: un modo per indicare una condizione di vita 'societaria', opposta a una precedente condizione di integrazione 'comunitaria', in cui sembrano diluiti se non scomparsi ruoli e riconoscimento sociale

· l'importanza, nell'economia contemporanea, dell'economia nascosta non di mercato, situazione apparentemente solo economica ma che al contrario segnala la sopravvivenza nella società moderna del principio di reciprocità, tratto tipico di istanze comunitarie

· La teoria della scelta razionale, ma anche lo studio dei processi di sviluppo economico, e dei fenomeni organizzativi, nelle relazioni interpersonali, si è incentrato in modo significativo su un tema comune: la fiducia, ossia quel requisito che facilità un’ampia gamma di  possibili relazioni e strutture sociali.

ü Identità, reciprocità, fiducia sono termini che appartengono al vocabolario classico della comunità tradizionale, ma che oggi sono quindi usate per meglio coglierne l’evoluzione più recente, caratterizzata dapprima da un suo apparente svanire ma in seguito da un suo, all’apparenza, prepotente riaffacciarsi:

ü Identità:

Ovviamente il problema dell’ “identità”, individuale e collettiva, riguarda moltissimi aspetti e coinvolge praticamente tutte le discipline “umanistiche” interessando i variegati modi in cui gli individui definiscono la propria situazione esistenziale e con cui si collocano all'interno nel campo dei rapporti interpersonali; ovvero come essi stabiliscono modi di selezionare e ordinare le proprie preferenze; come mantengono nel tempo i confini e le differenze fra sé e il mondo, trovando il senso della continuità del proprio essere sociale. Ferma restando questa ampia valenza generale la problematica dell’identità, analizzata in modo specifico nel suo collegamento con la dimensione comunitaria, può essere vista, con una interpretazione “classica” ma non per questo meno moderna, come l’impossibilità per l’individuo di porsi in modo autonomo rispetto al “tutto organico” di cui fa parte. In questo caso l’identità è imprescindibili dalla comunità, non fosse altro che per i limiti, i confini, che ogni individuo, consciamente e non, pone, al fine di preservare se stesso dall’indistinguibilità comunitaria, alla sua identificazione totale con la “comunità” di appartenenza. Ovvero, al contrario, per il fatto che una eventuale perdita di consistenza del legame comunitario possa essere vissuto come un pericolo per la propria singola identità, un imperativo, conscio e non, tale da rafforzare, come reazione, quello stesso legame altrimenti potenzialmente condizionante in senso restrittivo. Questo legame contraddittorio fra identità individuale e “comunità” può spiegare, ad esempio, le differenze di voto a partiti diversi che pure hanno le stesse basi di classe, contravvenendo a considerazioni di tipo “utilitaristico”, ovvero la costanza sul lungo periodo di adesioni partitiche nonostante radicali cambiamenti delle strutture economiche, sociali e istituzionali. In questo caso il legame consolidato cessa unicamente quando la comunità di riferimento perde definitivamente consistenza

ü Reciprocità:

non raramente ci si imbatte nella sopravvivenza, all'interno dell'economia moderna, di relazioni economiche di tipo tradizionale, basate su regole di produzione e di scambio non specificamente economiche: la produzione di beni e servizi in famiglia, le produzioni per l'autoconsumo di un gruppo di amici, i servizi volontari, e così via. Sembra di osservare il ritorno di aspetti della comunità nel punto più imprevedibile: l'economia (Il compianto Luciano Gallino, nella sua veste di sociologo, in molte sue opere si è ampiamente occupato di questo aspetto). Anche in questo caso il concetto di comunità va maneggiato con cura se posto superficialmente in relazione a quello di reciprocità (concetto ampiamente esplorato d Karl Polanyi 1886 - 1924) ossia di un particolare meccanismo sociale la cui ricaduta come aspetto strettamente economico sembra avere un valore secondario rispetto a quello del soddisfacimento di una esigenza etica, di valore. Appare evidente quanto sia alternativo alla reciprocità il meccanismo del mercato, la prima richiede relazioni stabili nel tempo, il mercato, al contrario, si esaurisce con il compimento di ogni singola transazione. In questo senso la reciprocità sembrerebbe potersi espletarsi quasi esclusivamente in un contesto comunitario, ma è fenomeno complesso, strettamente legato alle storture stesse del mercato ed all’eventuale rifiuto delle sue regole, e tale da implicare di conseguenza una sua dimensione più universale che può ampiamente scavalcare quella strettamente comunitaria, specie se ridotta alla sua valenza localistica e territoriale

ü Fiducia

Anche 'fiducia' è un termine del vocabolario corrente intuitivamente legata al concetto di comunità anche se essa rimanda a contenuti incerti e sfuggenti. Riferimenti espliciti al tema della fiducia si trovano all'interno di grandi schemi teorici della società, e nei lavori ad esempio dello stesso Parsons. La fiducia viene definita, se un tratto comune piò essere individuato, come "un'aspettativa di esperienze positive per chi la pone in atto, maturata anche in condizioni di incertezza ma in presenza di una tensione razionale e/o emotiva tale da permettere di superare la soglia della mera speranza" Diventa quindi possibile riferirla ad una attesa che si crea là dove si (auto)ritiene sussistano sufficienti aspettative di rispetto di comuni norme, esplicite o implicite. La fiducia può pertanto essere considerata a livello delle relazioni interpersonali, o come proprietà di un sistema sociale anche complesso. Se può quindi apparire più immediata la persistenza della “fiducia” nell’ambito di una comunità, ossia nella dimensione di relazioni interpersonali e di gruppo che si basano su maggiore e più intensa frequentazione e conoscenza, essa può intervenire con un peso ed un ruolo rilevanti anche in contesti sociali variegati quali ad esempio: ambienti di lavoro, di appartenenza politica, di condivisione di affinità culturali

ü Se concetti come “identità” – reciprocità” – “fiducia” hanno da una parte una valenza universale e non possano essere visti come tratti identificativi esclusivi della “comunità” appare però chiaro che il loro rapporto con essa si presenta generalmente più stretto di quello di ambiti sociali più ampi. Questa constatazione sembra rimandare ancora una volta alla persistente incidenza del fattore “locale” (comunanza territoriale), rimettendo al centro delle attenzioni verso la dimensione comunitaria il carattere più tradizionale di “comunità”. Buona parte degli attuali studi specifici dedicati alla “comunità” sono infatti orientati in buona prevalenza alla analisi della sua valenza di “comunità locale”

ü Se pertanto in qualche modo appare inevitabile, ancora oggi nell’attuale contesto e nell’ambito degli studi più recenti, una riflessione in tale direzione, ciò sta implicando il ripresentarsi, sotto la nuova luce della loro natura e consistenza nell’era della globalizzazione, dei tratti che tradizionalmente definiscono la “comunità” nei suoi termini territoriali.

ü Il primo di questi tratti è ancora e sempre rappresentato dai “confini”: se nella società moderna, globalizzata e connessa, ogni appartenente ad una “comunità locale”, per quanto fortemente costituita essa possa essere, facilmente è inserito in reti di relazioni esterne (economiche, politiche, culturali, di vario carattere e natura), che si diramano, apparentemente senza ostacoli, verso ogni direzione dove si creano, dove nascono, dove si consolidano, e per quali ragioni , i “nuovi” confini in grado di (ri)definire quello specifico contesto “locale”?

ü Un secondo tratto, a questo collegato, è quello delle dimensioni. Le relazioni di fiducia e di reciprocità, ad esempio, che, come si è detto, sembrano manifestarsi con maggiore facilità nel quadro sociale di una piccola comunità, entro quale ambito dimensionale, se per l’appunto riferibili ad una “comunità locale”, possono manifestarsi? Esiste, e quale potrebbe essere, un limite dimensionale non valicabile perché esse possano continuare ad essere attive?  Questa domanda ha dato significativi spunti al sorgere di una specifica disciplina; la “sociografia”, che ad esempio ha rimodulato gli interrogativi su confini e dimensioni nell’ambito sociale e geografico della “città”.

Come si suole dire il dibattito, come si evince facilmente dalla diversità delle interpretazioni qui sintetizzate (ovviamente molte altre, più o meno specialistiche, rimangono) è aperto.

Un’ultima annotazione: appare evidente che il tema “comunità”, nel contesto positivo/negativo con cui iniziano questi appunti sparsi, implica una valenza “valutativa”: la comunità può piacere o non piacere, può essere vista come un riferimento importante sul quale puntare oppure no, come un limite piuttosto che come una risorsa. Lo scopo di questa traccia, per quanto modesta e limitata, è quello di offrire alcuni primi elementi per acquisire una preliminare conoscenza “a-valutativa”; per scegliere e decidere un orientamento “valutativo”. Un orientamento che non può non rientrare nel campo della (buona) politica: alla quale, la filosofia, la sociologia, la storia, la psicologia, possono, su questo tema specifico come più in generale su ogni tema collegato alla gestione della società, fornire elementi importanti di conoscenza, ma il “che fare” resta certamente sua competenza.

2 commenti:

  1. Ieri sera ho ascoltato su Youtube un intervento di Diego Fusaro sul tema della Comunità. Lui definisce la sua posizione in linea con Aristotele ed Hegel che ritengono che la condizione umana sia imprescindibile dalla dimensione della comunità e ad essa sia subordinata.. Per Aristotele l’uomo è un animale politico e non può isolarsi dalla relazione con la famiglia, la polis e la pratica del linguaggio che ha bisogno dell’altro che viene prima ed educa alla comunicazione e dell’altro che con lui parla e ragiona.
    Per Hegel ontologicamente prima viene il tutto e poi la parte, quindi prima ci sono le famiglie, come fonte di stabilità borghese economico sentimentale, poi la società civile e infine, ma non ultimo lo stato. Pensare l’individuo isolato significa collocarsi in una prospettiva di pura analisi intellettuale e perciò riduttiva e astratta, che se pure è necessaria nel processo dialettico della conoscenza ci consegna l’immagine di un ente reciso e per questo motivo astratto, non pienamente reale.
    Fusaro, che ho ascoltato con grande interesse per la qualità dei ragionamenti e la chiarezza espositiva, sostiene che bisogna ripartire da Aristotele e da Hegel per pensare ad una organizzazione politica (nella forma partito?) ispirata al comunitarismo, capace di tenere insieme una prospettiva universale, che non annulli le differenze in cui questa si articola, anzi le tuteli. Il salto mi sembra eccessivo. Varrebbe la pena pensare non solo alla filosofia, ma anche alla storia per prendere atto che quando “ i mulini erano bianchi” il mondo non era meno angariato dalla ingiustizia e dalla violenza dell’uomo, anche nella forma delle comunità.
    Non dimentichiamo che Marx nel Manifesto critica la prospettiva del socialismo reazionario che vorrebbe distruggere il capitalismo per tornare alle vecchie forme di potere.
    Mi chiedo che cosa voglia dire oggi rimettere al centro la comunità.
    Se ciò significa valorizzare le comunità come luogo di decisione democratica sono pienamente d’accordo, ma se le comunità diventano dei contenitori di risentimento verso il resto del mondo, mi sembra che non facciano altro che avvicinarci sempre più verso quelle forme di balcanizzazione dell’esistenze di cui ci hanno parlato nei loro interventi Sasso e Vercelli.
    Teniamo presente che alcuni processi importanti di emancipazione, all’interno dei quali noi ci collochiamo, si sono creati a partire dalla elaborazione dell’idea che gli uomini non avessero solo doveri verso le comunità di origine, ma anche diritti individuali. Certo siamo tutti consapevoli ch lo stato di natura è una finzione dell’intelletto, non è mai esistito e non esisterà mai, ma è stato un utile esercizio della ragione nella costruzione delle coscienze e delle prassi collettive. La fine della schiavitù, il diritto di voto, l’emancipazione della donna e molto altro si inscrivono in questa prospettiva. Se il capitalismo deve essere disciplinato, corretto nei sui eccessi, penso che abbiamo bisogno di poteri statali adeguati alla dimensione del compito e di un’ opinione pubblica che non dimentichi la tensione verso l’universale.

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  2. Ho letto con attenzione, molto apprezzandole, le integrazioni di Massima ed Enrica sul concetto di “comunità”. Devo però confessare che, seppure sia anche mia la loro precauzione intellettuale nei confronti della chiusura su sé stessa della dimensione comunitaria, mi sto lentamente convincendo che questa posizione si riveli all’atto pratico insufficiente a meglio comprendere alcune dinamiche interne alla comunità. Temo che essa derivi da valori e principi, i quali da soli non riescono a “spiegare”. E’ stata questa la molla per “tentare” di conoscere meglio l’evoluzione della “comunità”, sia nella realtà storica sia nel dibattito intellettuale sul suo ruolo e “valore”. Una evoluzione che deve essere conosciuta, e valutata, tenendo però conto che l’istinto umano, determinato dalle dinamiche evoluzionistiche, da sempre tende, a consolidare le relazioni sociali soprattutto nella dimensione di piccoli gruppi omogenei. Antropologia, neuroscienze, storia, lo dimostrano. Le grandi costruzioni sociali sono, in questa luce, null’altro che assemblaggi forzati di piccoli gruppi e comunità. Con conseguenti contraddizioni mai risolte. Ciò trascina in me un dubbio crescente: la “chiusura” verso l’esterno, nelle varie forme in cui si può manifestare nei diversi contesti specifici, è una caratteristica costitutiva della comunità? Una sua condizione ineliminabile? Se ciò fosse il solo richiamo ai valori universali della solidarietà e della fraternità è sufficiente a fronteggiarla e gestirla? Non occorre allora assumerla come dato in qualche modo insopprimibile e, conseguentemente, “governarla” in una visione di evoluzione guidata fino ai suoi limiti estremi? Ovviamente se si ritiene, e questa è la mia posizione, che la dimensione comunitaria, seppure nelle forme mutevoli che sta assumendo e che “si aggiungono”, senza sostituirla, a quella classica di comunanza territoriale, resti un ambito sociale centrale ed insopprimibile. Ovvio un immediato collegamento alla “questioni migranti”. Se quanto qui detto ha una sua validità non troveremo soluzioni, credo, se ci limitassimo a “condannare” le reazioni diffuse di chiusura (altro discorso è la condanna, senza tentennamenti, della loro strumentalizzazione politica), se anche essa ha origine da una tendenza non superabile, e che ovviamente si manifesta in modo proporzionale all’entità del fenomeno di arrivo di “altri” visti come potenziali rischi per la tenuta comunitaria. Forse è meglio, appunto, “governarla” dandole anche risposte concrete e rassicuranti, Credo che a questo si colleghi l’interessante articolo, apparso oggi su La Repubblica, che racconta la “rivolta” contro il padre fondatore, Jurgen Habermas, di alcuni suoi discepoli, tutti intellettuali sicuramente legati ai valori di fratellanza e solidarietà, che criticano, nell’ambito di un complesso discorso su nazionalismo e federalismo, le politiche tedesche di accoglienza dei migranti. E’ bene ricordare che analoghe posizioni di intellettuali di sinistra, alcuni apertamente marxisti, sono state assunte in molti paesi dell’Est europeo.

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