Continuiamo ad approfondire il tema dello “stato
d’eccezione”, proposto con la recente “Parola del mese”, con due articoli
recentemente usciti. Il primo, segnalato da Nives Enrietti., lo affronta
evidenziando innanzitutto le non poche concrete incongruenze, che rischiano di
trasformarsi in gravi problematiche, presenti, o assenti, nelle norme
restrittive che sono state introdotte, nell’ultima parte entra invece più
direttamente nella tematica………
La faccia nascosta dell’epidemia
Articolo i del 29
Marzo – Rivista online DoppioZero
Molti sono i giornalisti e gli intellettuali che,
negli ultimi tempi, si sono cimentati nel descrivere, spesso con dovizia di
particolari, lo scenario che ci si presenterà dopo l’epidemia. Queste analisi scontano necessariamente due limiti.
Primo: le dimensioni di questa crisi non permettono di mantenere il distacco
necessario a immaginarne ragionevolmente gli esiti. Secondo – ed è questo ciò
che più rileva – tali esiti dipendono in gran parte dalla comprensione critica
che, su ciò che sta accadendo, come collettività siamo in grado di costruire. Ed
è questo che dovrebbe allora occuparci e, soprattutto, preoccuparci. La
sensazione, infatti, è che l’emergenza stia legittimando una narrativa
pericolosa, che reca come implicito il fatto che il solo metterla in
discussione o problematizzarla rende colui che lo fa una specie di nemico della
salute pubblica, che si sottrae a una tanto stucchevole quanto fittizia “unità
nazionale”, alla quale saremmo tutti chiamati. In altre parole, o uno si compra
l’intera retorica di “iorestoacasa”,
dell’inno nazionale dai balconi, degli arcobaleni attaccati alle finestre e del
quotidiano decreto del Governo (retorica sdoganata in modo più o meno
nauseabondo da cantanti, presentatori e sportivi su canali social e tv) o si
viene automaticamente tacciati di non aver compreso la gravità della situazione
e di volersi sottrarre alle proprie responsabilità. Ora: che questo virus
rappresenti una tragedia immane e che i principi di solidarietà, prevenzione e
precauzione impongano a ognuno di noi di restare in casa, di limitare gli spostamenti
e di attuare le ormai note norme di distanziamento sociale, è un dato
incontestabile, sul quale non si può che essere d’accordo. Si deve, tuttavia,
poter dire che la narrativa attraverso cui queste necessità sono veicolate è a
tratti scivolosa, pericolosa e non scevra di profonde criticità. Le scienze
sociali insegnano che le contraddizioni di una narrativa pubblica emergono
illuminandone tre elementi: chi da
essa resta escluso; quali conflitti politico-sociali (e quali situazioni di
marginalità) essa è in grado di oscurare; quali meccanismi istituzionali
sovverte.
Partiamo dal primo
elemento.
Escluso dalla retorica di ”iorestoacasa” è, primo tra
tutti, chi una casa non ce l’ha. L’idea, sdoganata dalla lotta al virus, della
casa come luogo sicuro, accogliente, nel quale ripararsi e riparare gli altri
dal contagio, oblitera il dato per cui l’Italia consta di un tasso di emergenza
abitativa tra i più alti del mondo occidentale. Le persone senza fissa dimora
sono del tutto escluse da una politica di contenimento del virus il cui
presupposto principale e indefettibile risiede nella possibilità di restare
nella propria abitazione e che non concepisce giuridicamente che
tale possibilità, per taluni, semplicemente non esiste. Va da sé che molte persone senza fissa dimora
sono state sanzionate e multate poiché si trovavano per strada senza un
giustificato motivo (come se il fatto di non avere altro posto in cui andare
non costituisse una ragione giuridicamente rilevante) e che le politiche
attuate dal Governo si sono tradotte nella sostanziale chiusura o nel
dimensionamento della maggior parte dei servizi per i senza-tetto (mense e
dormitori in primo luogo). I secondi grandi esclusi dalla narrativa in esame
sono coloro che in casa non ci possono stare poiché sottoposti a misure di
restrizione della libertà personale. La situazione delle nostre carceri è,
sotto questo profilo, al contempo drammatica e paradossale. Da un lato,
l’ordinamento giuridico spiega tutte le sue forze per combattere ogni
possibilità di assembramento. Dall’altro, esso costringe più di 60.000 persone
a vivere in uno stato di assembramento permanente e, per di più, a farlo in
condizioni igieniche del tutto precarie. Si deve desumere che il “diritto del
contagio” concepisce carcerati e operatori penitenziari alla stregua di
cittadini di serie B, non meritevoli di vedersi applicate le tutele sanitarie
garantite e imposte a tutti gli altri. La situazione, come ovvio, richiederebbe
l’approvazione di provvedimenti ben più radicali di quelli recentemente
adottati dal Governo e dunque un coraggio politico che sembra del tutto
incompatibile con la statura dell’attuale Ministro della Giustizia, tra i più
inadeguati e incompetenti dell’intera storia repubblicana. Per non
parlare, a proposito di privazione della libertà personale, delle centinaia di
persone attualmente recluse, in condizioni del tutto incompatibili non solo con
il contenimento del virus ma pure con i più basilari requisiti della dignità
umana, nei cosiddetti centri per i rimpatri (CPR), lager a cielo aperto in cui
vengono relegati cittadini stranieri colpevoli del solo fatto di esser tali (ma
una luce andrebbe accesa anche sulla situazione dei richiedenti asilo nei
centri d’accoglienza, strutture spesso inidonee ad affrontare l’attuale emergenza;
emergenza che, per costoro, risulta ulteriormente aggravata dalle numerose
difficoltà di accesso al sistema sanitario). Dalla narrativa di ”iorestoacasa” sono
altresì esclusi tutti coloro per i quali la casa non costituisce quella tana
felice degli affetti che la proiezione in salsa Covid del binomio (tipicamente
italico) casa-famiglia felice tende a rappresentare. Si pensi alle donne
vittime di violenza domestica, ai minori vittime di abusi familiari, a quelle
persone LGBTQ+ costrette sotto lo stesso tetto con familiari transfobici,
omofobi e intolleranti… ecc. Se gli esclusi da ”iorestoacasa” sono facili da individuare (sul punto mi
permetto ancora di rammentare il dramma che in questi giorni sta vivendo quella
parte di popolazione rom e sinti che abita nei campi) più complesso è il discorso sugli
elementi sociali che la retorica in esame tende a sommergere. Tale maggiore
complessità deriva, soprattutto, dal fatto che, per porli in luce, occorre
indagare quegli ulteriori discorsi che a ”iorestoacasa” accedono in modo
collaterale (ma che da esso sono al contempo prodotti). Proviamo a fare alcuni
esempi. Una delle conseguenze del coronavirus è stata, come noto, la
sospensione delle lezioni nelle scuole e nelle università e la loro
sostituzione con forme di didattica online a distanza. Il
discorso pubblico ha sostanzialmente asseverato tutto ciò e osservato il
fenomeno soprattutto dalla prospettiva di chi, la didattica online, la eroga.
Si sono così susseguiti elogi a insegnanti costretti ad apprendere tecnologie
innovative in pochi giorni, sberleffi nei confronti di anziani baroni
universitari obbligati a cimentarsi con nuove piattaforme informatiche, il
tutto condito da un atteggiamento di sostanziale entusiasmo nei confronti dei
nuovi metodi dell’insegnamento via web. In altre parole, per scuola
e università il discorso sul coronavirus si è ridotto all’esaltazione delle
nuove tecnologie e all’idea per cui l’epidemia ha fatto emergere un altro modo
di fare didattica, le cui virtù potranno tornare utili anche quando l’emergenza
sarà finita. Ora, se è vero che gli strumenti informatici stanno senz’altro
aiutando a non sospendere del tutto le attività formative di scuole e
università, è piuttosto ovvio che il loro impatto vada valutato non tanto (o
comunque non solo) dalla prospettiva degli insegnanti ma, soprattutto, da
quella degli studenti. Chiunque, come me, si sia trovato in questi giorni a erogare
didattica a distanza in uno dei nostri atenei (ma il discorso vale, forse ancor
di più, per la scuola dell’obbligo) può testimoniare come la più grande
difficoltà non stia nell’utilizzo delle piattaforme, ma nel fatto che
tantissimi studenti non hanno i mezzi per potervi accedere. Molte famiglie,
semplicemente, non dispongono degli strumenti economici per attrezzare ciascuno
dei propri figli con un pc. Non tutte le case sono dotate di una connessione
internet sufficientemente potente (e spesso di una connessione internet tout-court).
Spesso, inoltre, in una casa c’è un solo computer e più ragazzi in età
formativa, con la conseguenza che occorre scegliere chi, quel giorno, potrà
seguire le lezioni. Il discorso sull’uso delle nuove tecnologie nella scuola,
in altre parole, non può prescindere dalla banale osservazione per cui
sospendere la didattica in presenza vuol dire in primo luogo riallocare una
buona parte dei costi di infrastruttura dal sistema pubblico alle famiglie.
Secondo
elemento
Un’altra sub-retorica di ”iorestoacasa” è quella della
guerra (che è stata interpretata nella sua forma eminente da Macron!). Questa
retorica, che si declina nell’uso di espressioni quali “il fronte del virus”,
“la trincea”, “i caduti”, “la battaglia” ecc., oltre a emanare un lezzo
vagamente reazionario, è pericolosissima, perché reca con sé un notevole
potenziale di disciplinamento e censura. Se il personale sanitario è in
guerra, allora lo status dei nostri medici e infermieri non è più quello del lavoratore,
ma quello del soldato. Il lavoratore costretto a prestare il proprio servizio
in condizioni inadeguate può protestare, può denunciare, può criticare. Queste
prerogative sono precluse al soldato. Il soldato in guerra opera per
definizione in condizioni precarie, pericolose e all’interno di una struttura
gerarchica che richiede obbedienza. Nella narrativa del soldato non c’è la
protesta, se non nell’accezione assolutamente negativa della diserzione. Il
soldato compie il suo percorso narrativo affrontando ogni condizione pur di
adempiere al suo dovere, poiché deve divenire eroe (altro termine, non a caso,
ultimamente assai abusato). Nell’immaginario descritto, le condizioni precarie
nelle quali i nostri operatori sanitari sono costretti a lavorare (spesso privi
di protezioni idonee) e la totale inadeguatezza delle nostre strutture
sanitarie, non possono allora suscitare alcun discorso critico. Esse hanno il
solo scopo di apparecchiare il contorno narrativo del medico-eroe, niente più. Non
stupisce, allora, che il dibattito sul coronavirus abbia del tutto
marginalizzato aspetti che sono invece centrali in questa emergenza: i pesanti
tagli alla sanità pubblica operati negli ultimi anni e la criminale politica di
privatizzazione del servizio sanitario nazionale attuata dalla maggior parte
delle regioni, anche del nord, Lombardia in primo luogo. Ma non solo. La
retorica della guerra, è fin banale ricordarlo, ha quale effetto primario
quello di compattare una comunità contro un nemico esterno. Questo nemico è
stato individuato nel virus. Il sottotitolo che solitamente accompagna l’hashtag
”iorestoacasa” è, non a caso, “uniti contro il virus”, slogan che proietta sul
piano collettivo ciò che ”iorestoacasa” mantiene nella dimensione individuale.
Se ci fermiamo un attimo a riflettere, prendersela con una microscopica pallina
proteica contenente un filamento di RNA (come fosse l’esercito di un paese
straniero) è non solo ridicolo, ma anche assai fuorviante, perché produce
un’insostenibile reticenza pubblica sull’effettiva portata del problema. Come la virologa Ilaria Capua sta provando a spiegare ormai da settimane, il vero
responsabile di questa situazione non è il virus, ma l’uomo: “l’unica cosa che
dovrebbe risultare chiarissima (in un contesto – quello del Covid19 – in cui
molte domande sono ancora orfane di risposte ndr.) è che la responsabilità di
quanto sta accadendo è interamente ascrivibile all’uomo. Siamo noi ad aver
alterato il sistema, invadendo spazi di altre specie animali e portando queste
specie all’interno dei nostri, per lo più in megalopoli densamente abitate e in
condizioni di scarsa igiene, forti diseguaglianze e povertà. Fatto ciò, abbiamo
preso dei bei siringoni bianchi (aerei ndr.), ci abbiamo caricato sopra
migliaia di persone e abbiamo consentito che il virus si spargesse rapidamente
ovunque. Senza l’intervento umano il virus sarebbe rimasto dentro al
pipistrello: è colpa nostra se è poi finito dentro al pangolino e se dal
pangolino ha quindi infettato l’uomo. Abbiamo costretto il virus a infettare
centinaia di migliaia di persone, cosa che non era in alcun modo programmato per
fare, e certamente non in un lasso di tempo così ristretto. La cosa che
dobbiamo capire è che, attraverso la tecnologia, abbiamo raggiunto una velocità
– ed è questo il vero punto della questione – che non è in alcun modo
compatibile con l’ecosistema che la ospita. La biologia ha i suoi tempi: non
segue i tempi della borsa e nemmeno la velocità degli aerei”. Se a ciò
aggiungiamo che molti dati iniziano a individuare una correlazione tra
inquinamento ed epidemia (correlation is not causation, lo si sa, ma
l’ipotesi è inquietante, oltre che razionale), appare evidente come la retorica
della guerra contro il virus non sia solo concettualmente sbagliata, ma
sortisca quale unico effetto quello di traslare su un impalpabile nemico
esterno elementi che dovrebbero invece condurre a una profonda riflessione sui
nostri stili di vita e sul loro potenziale (auto)distruttivo. Ultimo esempio
paradigmatico di “offuscamento” che la narrativa corrente sta producendo (ma se
ne possono trovare altri) è efficacemente incarnato dall’ormai noto dibattito
sul jogger/passeggiatore e, più in generale, dall’odio sociale
indirizzato contro chiunque si permetta di uscire di casa, anche solo per fare
il giro dell’isolato, da solo, nel rispetto di ogni distanza e misura di
sicurezza. Sul punto molto si è detto e scritto, e non è il caso di dilungarsi.
È abbastanza chiaro come la questione rientri nel ben noto schema di
costruzione sociale di un capro espiatorio tutto sommato innocuo, contro cui
scagliare le frustrazioni collettive. Si tratta di una modalità piuttosto
infame (e anche vecchiotta… ma a quanto pare sempre efficace) che consente
all’ego di molti di essere gratificato, alla rabbia collettiva di essere
incanalata e di generare conflitto verso il basso e obbedienza verso l’alto. Mi
permetto solo di segnalare come il clima di sospetto e denuncia reciproca che
si respira in questi giorni strida con la narrativa solidaristica e un po’
sdolcinata che passano i media, e come esso stia degenerando in atteggiamenti
arbitrari e assolutamente intollerabili da parte delle forze dell’ordine. Ciò
detto, è abbastanza incredibile notare come nei giorni in cui ci si scagliava
contro gli untori passeggiatori, ai quali veniva attribuita ogni responsabilità
del costante aumento dei contagi, più della metà della popolazione italiana era
costretta (ma in gran parte lo è ancora) a spostarsi quotidianamente per andare
a lavorare in fabbriche e altri centri di produzione, spesso senza protezioni
adeguate, e ciò anche e soprattutto nelle zone più colpite dall’epidemia. Non
voglio qui banalizzare un problema estremamente complesso. È evidente che
bloccare la produzione di tutti i beni non essenziali costituisca una scelta
complicatissima, che implica ponderazioni assai difficili e conseguenze
economiche enormi. Ma, proprio per questo, lascia piuttosto attoniti notare
come la collettività, in luogo di partecipare a un dibattito pubblico sul tema,
nel quale discutere su come contemperare i vari interessi in gioco, sia stata
chiamata – per giorni – a scagliarsi contro il jogger untore
(le immagini dei vari sindaci che girano come sceriffi nelle proprie città o di
governatori che minacciano lanciafiamme durante dirette facebook assumono, da
questa prospettiva, un sapore un po’ meno ilare e un po’ più grottesco). Il
risultato è che i termini della discussione intorno a una tra le più rilevanti
scelte di politica economica assunte dal dopo guerra a oggi restano sconosciuti
ai più, poiché si sono sviluppati all’interno di tavoli tecnici non pubblici, e
che tale scelta (nelle ultime ore soggetta ad aggiustamenti) è stata adottata
attraverso un atto (il noto d.p.c.m) formalmente concepito più per contenere
clausole secondarie sulla riorganizzazione di un qualche ufficio governativo
che per determinare le sorti economiche dell’intero Paese. Per inciso, e a
proposito di beni essenziali, vorrei ricordare a tutti noi che mentre perdiamo
tempo a spiare il nostro vicino ammonendolo per la quarta pipì fatta fare al
cane, in Italia la filiera dell’agroalimentare, la più necessaria di tutte, si
apre con centinaia di persone ammassate su furgoni (persone che, la sera,
vengono riportate, sempre ammassate, in baraccopoli senza acqua corrente) e si
conclude con le consegne dei rider delle compagnie di food
delivery, le cui condizioni di lavoro, indegne e del tutto incompatibili
con i principi base di prevenzione del contagio, sono tristemente note.
Veniamo, ora, all’ultimo
elemento:
quali meccanismi istituzionali questa crisi sta
sovvertendo? Sui dubbi circa la costituzionalità delle procedure formali
attraverso cui il Governo sta affrontando l’emergenza molto si è detto, e non è
mia intenzione dilungarmi in complesse analisi giuridiche (che pure sarebbero
necessarie) né, tantomeno, sciorinare l’intero repertorio sullo “stato d’eccezione”
(perché, diciamocelo, anche le contro-narrative, quando abusate, rischiano di
diventare stucchevoli). Tuttavia, adottare provvedimenti fortemente limitativi
dei diritti delle persone attraverso atti regolamentari (i famosi d.p.c.m.) è
cosa giuridicamente e politicamente inaccettabile. E questo non perché il
contenuto di questi atti sia inaccettabile di per sé, ma poiché tale
valutazione, in una democrazia, è rimessa a precisi meccanismi di controllo
politico e di legittimità, dai quali i d.p.c.m sfuggono del tutto, dal momento
che non sono sottoposti all’esame né del Parlamento né a quello (eventuale)
della Corte Costituzionale (mi sia consentito rilevare come l’argomento,
sollevato da alcuni colleghi, per cui questi atti sarebbero legittimi poiché
fondati su un precedente decreto-legge sia a tal punto formalistico da apparire
quantomeno ingenuo). In altre parole, e per farla breve, proprio poiché il
momento è eccezionale ed eccezionali sono le misure che occorre prendere, i
meccanismi di controllo politico e di legittimità sull’operato dell’esecutivo
dovrebbero essere rispettati con ancora maggior rigore di quanto avviene
durante i periodi ordinari. L’eccezionalità, in altre parole, può giustificare
la deroga (proporzionata e temporanea) ad alcuni diritti fondamentali (ad
esempio la libertà di spostamento o di riunione), ma non può mai legittimare la
deroga ai meccanismi di controllo democratico sull’operato dei poteri pubblici.
Questo vale in particolar modo in un momento come questo, ove l’unica forma di
controllo sull’operato del Governo non può che essere esercitata attraverso
meccanismi istituzionali, dato che l’altro grande circuito di controllo
politico, quello diffuso dell’opinione pubblica, è di fatto sospeso, posta la
chiusura dei luoghi ove il pensiero critico viene collettivamente prodotto
(scuole, università, circoli ricreativi, culturali e politici ecc.) e agito (il
divieto di assembramento implica, come ovvio, anche quello di manifestare,
organizzare sit-in,
eventi, comizi, ecc.). Stupisce allora come il Parlamento, invece di essere
chiamato a una sorta di seduta permanente (eventualmente attraverso modalità di
discussione a distanza), abbia invece sostanzialmente sospeso le proprie
attività. Sollevare la questione sarebbe compito delle opposizioni. Sì, lo so,
la cosa fa già sufficientemente ridere così, non c’è bisogno di andare oltre. I
risultati di questi vuoti stanno arrivando in fretta, e si declinano
soprattutto nell’uso dell’emergenza per legittimare il ricorso alle nuove
tecnologie e ai big data per
esercitare un controllo sociale capillare e autoritario, secondo le modalità
più perverse e ignobili di quel “capitalismo della sorveglianza” recentemente
descritto da Shoshana Zuboff. Si tratta di modalità (si veda, a tal proposito,
la questione dell’uso dei droni per controllare chi esce di casa, o delle app
per segnalare le persone contagiate) che, già inaccettabili in questo momento i, sarebbe bene evitare di portarsi dietro quando tutto ciò darà finito. “iorestoacasa,”
dunque, perché è giusto così. Ma resto anche vigile, perché vorrei evitare che,
a forza di prendercela col vicino di casa, di non vedere i più deboli, di non
difendere i lavoratori e di fregarcene dei più basilari principi democratici,
finita la crisi sanitaria ci si svegli all’interno di una specie di puntata
di black mirror, e neppure
tra le più godibili. Una puntata, diciamo, della quarta serie: di quelle che
non ci è neanche piaciuto tanto vedere, ma che lasciano comunque in bocca un
persistente retrogusto di ansia e paura.
Il secondo
articolo, a firma di Ezio Mauro che non ha certo bisogno di presentazioni, è,
nello stile di Mauro, una riflessione, tanto pacata quanto lucidamente esatta, sui
rischi di degenerazione liberticida, a suo avviso concretamente esistenti, che
la democrazia liberale corre nelle modalità di risposta alla “eccezionalità”
L'abuso dell'emergenza
Articolo di Ezio Mauro La Repubblica del 31 Marzo
La questione è l’uso che il potere
pubblico intende fare di questo “di più” che la pandemia gli sta trasferendo in
termini di potestà
Nella crisi causata dalla pandemia si
entra tutti uguali, ma si rischia di uscire diversi. Non solo in relazione ai
tempi, ai modi, alla virulenza della minaccia e dei differenti metodi di
contrasto impiegati dai Paesi. Ma addirittura in rapporto alla natura del
nostro sistema politico-istituzionale, alla sua morfologia e alla sua stessa
fisiologia. Perché mentre il potere attacca il virus, il virus ha già intaccato
il potere. Non è lui che muta, come temevamo nei peggiori incubi: si sta
accontentando di modificare noi, cioè il rapporto tra i cittadini e lo Stato,
perché trasforma sotto i nostri occhi l’immagine e il ruolo dell’autorità
pubblica, il moderno sovrano. Non c’è dubbio che il carattere inedito e insieme
mortale dell’infezione universale richiede uno scarto rispetto al ritmo normale
dell’azione politica. Serve rapidità nelle decisioni, tempestività,
flessibilità, chiarezza nella catena di comando, centralizzazione del flusso di
informazioni ufficiali. La crisi verticalizza il meccanismo decisionale, mette
il governo direttamente di fronte ai cittadini, personalizza nel leader la
domanda di sicurezza, porta la popolazione a raccogliere le sue libertà attorno
al potere legittimo. Non solo. Il governo in queste circostanze
particolarissime si trova a esercitare un potere esclusivo, che viene prima
delle scelte e delle decisioni, e le determina. Potremmo definirlo un potere di
interpretazione della crisi, di sua definizione. È il governo, infatti, che ha
la responsabilità di determinare contorni, velocità, pericolosità, profondità e
durata del pericolo, e di registrare su questi parametri le contromisure. Il
potere pubblico non ha dunque in mano soltanto l’arma materiale della difesa
collettiva, ma anche quella metafisica del disvelamento del male, del racconto
ufficiale del suo procedere, facendo ogni giorno il fixing del rapporto tra la
scienza, la medicina, la ricerca e il maleficio: che diventa per converso la
borsa quotidiana della nostra paura. Tutto questo è avvenuto ovunque: e ovunque
ha determinato per meccanismo naturale un plusvalore di autorità, pronto naturalmente
a dissolversi alla prima falla della sicurezza minacciata dei cittadini. Lo
vediamo concretamente nella soggezione volontaria, da parte della grandissima
parte della popolazione, alle norme straordinarie che forzatamente limitano i
diritti individuali, prima fra tutti in questo caso la libertà di movimento.
Qui siamo davanti all’esercizio concreto di questa potestà speciale conferita
dalla crisi: l’esercizio di un potere disciplinare, di carattere universale,
riconosciuto come lecito perché necessario dalla pubblica opinione. La
questione è l’uso che il potere pubblico intende fare di questo “di più” che la
pandemia gli sta trasferendo in termini di potestà. Vuole usarlo al servizio
dell’emergenza, spendendolo nella crisi, o al contrario pensa di usare
l’emergenza per interesse privato, entrando in uno spazio sovrano che
altrimenti gli sarebbe precluso? L’autogolpe del premier ungherese Orbán
(subito omaggiato dai sovranisti di casa nostra, ridotti a cercare negli
autoritarismi altrui la forza smarrita in patria) che si assegna pieni poteri
illimitati nel tempo, è la conferma del tragitto tracciato per anni dalle
democrazie illiberali: che oggi trovano nella guerra contro il virus quel che
cercavano in tempo di pace, e cioè la deroga permanente dal sistema dei
controlli di legittimità delle Corti Costituzionali, di legalità da parte della
magistratura, e dal controllo politico del parlamento e della libera
informazione. In questo senso lo stato d’eccezione compie il disegno
autoritario dentro una falsa cornice democratica da due soldi: non
accontentandosi del potere legittimo che si è conquistato, il leader si
appoggia alle paure dei cittadini per estrarre dal caos dell’emergenza le norme
speciali che superano la norma ordinaria, e fondano un nuovo ordine. Il
messaggio per la nostra epoca è che in tempi speciali serve una forma di
governo speciale, capace di istituzionalizzare il dominio e di purificare il
comando, liberandolo dall’impaccio delle regole e dei bilanciamenti. La
conseguenza di questo meccanismo psicopolitico è evidente: la democrazia, dice
la lezione di Budapest, non è adatta a governare l’emergenza, funziona solo se
deformata e ridotta a guscio vuoto: che aspettiamo? Siamo dunque davanti a un
triplice confronto, nella sfida tra gli Stati e la pandemia. La risposta del
sistema totalitario cinese, quella autoritaria dei nazionalismi illiberali e
quella apparentemente disarmata delle democrazie occidentali. Prendendo
l’Italia come campione-pilota di quest’ultimo campo, dobbiamo ammettere che il
sistema sanitario ha tenuto, il welfare ha dato un’altra prova di civiltà, la
risorsa civile di generosità e di solidarietà di medici e infermieri ha fatto
il resto. Il governo ha compiuto errori, soprattutto all’inizio. Ma vediamo
giorno per giorno che li hanno commessi pressoché tutti i leader occidentali,
con l’unica differenza che altrove non ci sono politici “ribassisti” che
minacciano commissioni d’inchiesta per il dopo. Nessuno da noi teme un abuso di
potere. La realtà è che viviamo piuttosto uno squilibrio mai visto tra la
debolezza del governo e della maggioranza e l’accumulo di potere che si
raccoglie nelle sue mani. Ma non è in questo squilibrio la garanzia di un uso
democratico dell’emergenza: piuttosto, nell’autocoscienza del sistema (maggioranza
e opposizione) di dover porre via via nuovi limiti al potere man mano che la
crisi lo rafforza: limiti di tempo, di trasparenza, di controllo delle Camere e
della pubblica opinione. È il meccanismo liberal-democratico che regge la prova
capitale dell’eccezionalità, con le sue tentazioni. Una prova che vale per oggi
e soprattutto per domani: quando rischiamo di trovarci in un continente dove lo
stato d’emergenza diffuso diventa il sistema permanente di governo, e l’unica
vera forma d’eccezione, dove resiste, è la democrazia liberale.
Penso che le posizioni di Vercellone e di Agamben vadano di pari passo sul piano della strumentalità e dell'(in)utilità. Sono anche superficiali (come ben sottolineato da Tiziana Andina a proposito di Agamben) perché nascondono molte delle evidenze che emergono in questi giorni. Ad esempio, la dedizione di medici e infermieri e di molti volontari è una dimostrazione di vero altruismo e se qualcuno lo chiama eroismo, non è certo per avvalorare un regime di guerra. Per fortuna esistono le metafore e non sono tutte intenzionalmente cattive. La strumentalità sta nel prendere a prestito il Covid 19 e le scelte politiche che sono stare fatte (a mio avviso grosso modo inevitabili) per criticare "il sistema" denunciando pomposamente mancanze e storture note ad ogni spirito progressista o ambientalista che si rispetti, ben da prima di Covid19. Per stigmatizzare l'insostenibile carico ambientale dell'attuale sistema globalizzato dei trasporti di merci e persone (contraddizione ampiamente riconosciuta) Vercellone arriva a dire "abbiamo costretto il virus a infettare centinaia di migliaia di persone". l'(in)utilità di questi interventi sta nel fatto che, in sostanza questi signori non hanno la minima idea o intenzione di proporre qualcosa, si accontentano di aver sferrato un altro duro (?) colpo al sistema. Come sono belle e costruttive le posizioni di chi in questi giorni si ritrae ammettendo i nostri limiti nell'interpretare una situazione così complessa (vedi Serra, Rumiz e Mancuso su La Repubblica e vedi Papa Francesco nella sua tremenda solitudine in Piazza san Pietro). Credo che i filosofi dovrebbero aiutarci a leggere la realtà con umiltà e con una forte tensione al necessario cambiamento (come fa Tiziana Andina). Il Covid19 ci offre questa opportunità, speriamo che non vada dispersa. A titolo di esempio, anche per dimostrare che ci sono forze che pensano in positivo, vi allego un documento del Centro Studi sul Federalismo sul tema della carbon tax europea. Penso che sia un brillante esempio di come le forze dell'economia, della scienza e della politica possono (devono) produrre idee nuove per superare le contraddizioni in cui viviamo. In questo caso, si propone una tassa che, a ben pensarci, contribuisce a risolvere tre problemi: il finanziamento autonomo dell'Unione europea, il problema ambientale e il ridimensionamento del processo di delocalizzazione.
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