(quasi) Nulla sarà più come prima……è sicuramente una
delle frasi più dette in questo momento. E d’altronde non sarebbe la prima volta che la
storia, sotto la spinta di eventi positivi o negativi, conosce svolte
improvvise e radicali. E’ bene allora accompagnare questa frase con una
riflessione sulla situazione che un invisibile nemico (altra frase ricorrente)
ci sta imponendo per capire quali insegnamenti possono essere tratti, quali
errori non dovranno più essere ripetuti, quali cambiamenti si renderanno
opportuni. Va da sé che la democrazia, i
suoi istituti i suoi meccanismi, e la politica in genere, peraltro già da tempo
in difficoltà rispetto ai contesti globalizzati, non sono certo esenti da
questa inderogabile necessità di riflessione. Come abbiamo già avuto modo di
anticipare in precedenti post le modalità “di ordine pubblico” con cui viene gestita
l’emergenza corona virus, la loro sempre più probabile proroga a fronte di un paese che inevitabilmente
mostra crescenti segnali di stanchezza ed insofferenza, pongono alcune
importanti domande di fondo. E’ questa, fra le tante che seguiranno, la prima
riflessione che come CircolarMente iniziamo ad affrontare usando come spunto
per farlo la consueta “Parola del mese” che in questo caso ha la forma di una
“definizione”
La parola del mese
A turno si propone una parola,
evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove
riflessioni
APRILE 2020
STATO D’ECCEZIONE
In scienza politica, si definisce stato di eccezione una particolare
configurazione del potere politico. Ciò si verifica in presenza di una
circostanza particolarmente grave che impone di sospendere il rispetto delle
leggi fin lì in vigore per dedicarsi con tutte le forze al superamento della
situazione stessa.
E’ esattamente questo il quadro che, dal suo primo
manifestarsi fino ai tragico successivo aggravamento, si è progressivamente concretizzato
in modi sostanzialmente equiparabili in tutti i Paesi investiti dalla pandemia,
fortunatamente senza giungere alla esasperazione dittatoriale di Orban, e che
ha purtroppo visto proprio l’Italia come apripista fra le democrazia
occidentali. A stretto rigore di definizione di “stato di eccezione” è legittimo quindi parlare per classificare i
vari provvedimenti che, al fine di fronteggiare il contagio, hanno progressivamente
ristretto molte libertà e diritti individuali e collettivi. Vivaddio sono
rimaste esenti altre libertà e altri diritti fondamentali, quali la libertà di
stampa e di opinione, in caso contrario, vedi per l’appunto il caso ungherese, si
sarebbe potuto parlare di regime liberticida, di un vero e proprio colpo di
stato. Riferendoci agli aspetti fondanti la democrazia, che nella sua forma
compiuta si è realizzata in Occidente solo nel secolo scorso, la definizione di
“stato d’eccezione” è entrata nella
terminologia della scienza politica in tempi relativamente recenti essendo
stata introdotta, in questa sua accezione compiuta, negli anni Trenta dal giurista,
filosofo e politologo tedesco Carl Schmitt. Partendo da concetti primordiali come terra, mare, amico, nemico, Schmitt ha teorizzato una profonda
differenza tra "legalità" e "legittimità", e su questa base
ha correlato strettamente la sovranità, ossia il potere del “sovrano” forma di
potere non automaticamente trasferibile alle attuali figure cardine del sistema
democratico, con la possibilità di decidere il ricorso allo “stato di eccezione”. Il quale si
contrappone allo “stato di diritto” perché si configura come una situazione in
cui il diritto è sospeso, situandosi
così in una posizione intermedia tra lo “stato di natura”, totale
mancanza di leggi se non quelle naturali di sopravvivenza, e lo “staato di diritto”, assumendo in
sostanza un aspetto in buona misura pre-giuridico. Carl Schmitt, partendo dalla sua radicale critica alla democrazia
liberale tedesca incapace a suo avviso, per limiti costitutivi interni, di
fronteggiare la grave crisi che in quegli anni investiva la Germania, portava a
compimento la sua idea di “stato
d’eccezione” usandola per giustificare il Terzo Reich e la figura del
Fuhrer come novello sovrano. Il secondo dopoguerra, sconfitti con prezzo
altissimo fascismi e nazismo, ha visto in tutto l’Occidente la piena
affermazione della democrazia rappresentativa, relegando per alcuni decenni lo
“stato d’eccezione” a tema dibattuto
a livello teorico in ristretti ambiti giuridici e accademici, per poi
ripresentarsi come ipotesi più concretamente individuabile nelle risposte di
molti paesi, Italia ovviamente compresa, alla sfida aperta del terrorismo
“politico” degli anni Sessanta/Settanta. Ma è soprattutto negli ultimi due
decenni del secolo scorso con l’irruzione sulla scena del terrorismo di matrice
islamica, con il crescente impatto dei fenomeni migratori, con la crisi dei
meccanismi democratici investiti dalla globalizzazione, con la collegata
impotenza della politica e con lo strisciante ritorno alla suggestione
“dell’uomo forte”, che lo “stato
d’eccezione” è uscito fuori dal dibattito accademico per divenire tema più
diffuso di discussione. Una importante riflessione è stata in particolare
proposta da Giorgio Agamben, noto filosofo italiano, con la pubblicazione nel
2003 di un libro intitolato proprio “Stato
d’eccezione” in cui l’analisi teorica si legava strettamente alla
convinzione che elementi ad esso riconducibili fossero sempre più diffusi nella
realtà politica occidentale, tanto da poter persino divenire in nuce la forma
abituale dell’esercizio del potere. Lo strumentale ricorso a definire
“eccezionali” molti degli irrisolti problemi politici rischia infatti secondo
Agamben di chiamare costantemente in causa l’adagio che giustifica, dandogli al
tempo stesso forma e sostanza, lo stato
d’eccezione: necessitas
legem non habet, la necessità non ha
legge, va oltre la legge. Vale a dire che la necessità derivante dalla
eccezionalità del problema da affrontare vale come legittimazione della sospensione
dell'ordinamento giuridico, l'urgenza delle risposte e delle soluzioni sospende
le leggi, che di fronte ad essa non hanno più dominio, fino al punto, secondor
Agamben, di fondere lo stato d’eccezione
il paradigma normale di governo. Per avere una più precisa idea di quali
passaggi politici possono essere letti in questo senso Agamben citava, al tempo
della scrittura del suo saggio, come caso esemplare la vicenda americana del
carcere per terroristi di Guantanamo, risposta al di sopra della legge all’attacco
terroristico delle Torri Gemelle, ma anche più banalmente, restando in ambito
italiano, il ricorso sistematico della
decretazione d’urgenza ed il dispositivo delle deleghe legislative concesse
all’esecutivo, piuttosto che il diffuso e costante richiamo al nuovo modello
della «governance», ovvero del sistema di governo globale prodotto dai luoghi
sovranazionali della decisione, che esautora la vecchia governabilità frutto
della decisione espresso dai singoli stati nazione. Lo stato di eccezione è in
sostanza presentato da Agamben come una soglia oltre la quale vengono meno le
tradizionali differenze fra democrazia, assolutismo e dittatura. Seppur nato come concetto giuridico, è infatti sulla base di un ordinamento
giuridico che l'eccezione è dichiarata non eccezionale, lo stato d’eccezione di fatto cancella la stessa norma. Per l’appunto
necessitas legem non habet. Al di là della sua condivisione l’indiscutibile
spessore analitico di questa riflessione di Agamben, qui estremamente
sintetizzata, non poteva non ritornare prepotentemente sulla scena all’apparire
delle prime restrizioni imposte dalla “eccezionalità” della epidemia corona
virus. Come vedremo è stato lo stesso Agamben, in ovvia coerenza con le proprie
opinioni, a dare fuoco alle micce con un suo primo articolo apparso sul
Manifesto del 26 Febbraio, al quale sono succedute numerose prese di posizione,
alcune favorevoli, molte contrarie. Ne abbiamo scremate alcune con la finalità
di fornire elementi che aiutino a meglio comprendere e valutare, da questo
punto di vista, la stessa vicenda coronavirus ed i provvedimenti restrittivi ad
essa collegati e, al tempo stesso, ad approfondire, andando oltre la stretta
contingenza, la tematica dello stato
d’eccezione. Ipotesi, o tendenza in atto, che deve comunque essere tenuta
sotto giusta attenzione per evitare che, come alcuni vorrebbero, davvero diventi
la soluzione stabile alla crisi della democrazia. Iniziamo quindi dal citato
articolo di Agamben con l’ovvia avvertenza di (ri)leggerlo tenendo conto del
momento in cui è stato scritto, ossia nei primissimi giorni dell’epidemia
quando il quadro sanitario era ancora molto confuso e di impatto relativamente
contenuto………..
Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata
Articolo di Giorgio Agamben – Il Manifesto del 26 Febbraio
La paura
dell’epidemia offre sfogo al panico, e in nome della sicurezza si accettano
misure che limitano gravemente la libertà giustificando lo stato d’eccezione
Di fronte alle frenetiche, irrazionali e
del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al
virus corona, occorre partire dalle dichiarazioni del CNR, secondo le quali “non c’è un’epidemia di Sars-CoV2 in Italia”. Non solo.
Comunque “l’infezione, dai dati epidemiologici oggi disponibili su decine di
migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati (una specie di influenza)
nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso
è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti
richieda ricovero in terapia intensiva”. Se questa è la situazione reale,
perché i media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di panico,
provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazione dei
movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita
e di lavoro in intere regioni? Due fattori possono concorrere a spiegare un
comportamento così sproporzionato. Innanzitutto si manifesta ancora una volta
la tendenza crescente a usare lo stato
di eccezione come paradigma normale di governo. Il decreto-legge subito
approvato dal governo “per ragioni di igiene e di sicurezza pubblica” si
risolve infatti in una vera e propria militarizzazione “dei comuni e delle aree
nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la
fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad
una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio di virus”. Una
formula cosi vaga e indeterminata permetterà di estendere rapidamente lo stato
di eccezione in tutte le regioni, poiché è quasi impossibile che degli altri
casi non si verifichino altrove. Si considerino le gravi limitazioni della
libertà previste dal decreto:
1. divieto di allontanamento
dal comune o dall’area interessata da parte di tutti gli individui comunque
presenti nel comune o nell’area;
2. divieto di accesso al
comune o all’area interessata;
3. sospensione di
manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di
riunione in un luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico,
sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico;
4. sospensione dei servizi
educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, nonché della
frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, salvo le
attività formative svolte a distanza;
5. sospensione dei servizi
di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura
di cui all’articolo 101 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui
al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché l’efficacia delle disposizioni
regolamentari sull’accesso libero e gratuito a tali istituti e luoghi;
6. sospensione di ogni
viaggio d’istruzione, sia sul territorio nazionale sia estero;
7. sospensione delle
procedure concorsuali e delle attività degli uffici pubblici, fatta salva
l’erogazione dei servizi essenziali e di pubblica utilità;
8. applicazione della misura
della quarantena con sorveglianza attiva fra gli individui che hanno avuto
contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusa.
La sproporzione di fronte a quella che
secondo il Cnr è una normale influenza, non molto dissimile da quelle ogni anno
ricorrenti, salta agli occhi. Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa
di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il
pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite. L’altro fattore, non meno
inquietante, è lo stato di paura
che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e
che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una
volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione
della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di
sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per
soddisfarlo
Non possono non colpire, soprattutto visti i successivi sviluppi,
affermazioni come “l’invenzione di una epidemia” per quanto formulate a caldo, mentre
mantiene una sua rilevanza, soprattutto ai fini della nostra specifica
riflessione, la correlazione che Agamben evidenzia tra situazione eccezionale
(vera o creata ad arte che sia) - ondata di paura collettiva – conseguente
consenso dei provvedimenti restrittivi che portano allo stato d’eccezione. Molte, e
inevitabili, sono state le repliche e le critiche all’articolo di Agamben, fra
le tante che hanno severamente contestato l’eccesso strumentale di sottovalutazione
dell’aspetto sanitario ed epidemico consigliamo l’articolo del 27 Febbraio,
molto ben articolato, di Davide Grasso, giornalista (agli onori
delle cronache per aver combattuto in Siria contro l’Isis) che può essere letta nel sito online “Minima&Moralia”
che qui non riportiamo per la sua
notevole lunghezza. Presentiamo invece il seguente articolo di Massimo
Adinolfi, docente di filosofia teoretica preso l’Università di Napoli, che di
più e meglio entra nel merito della tematica dello stato d’eccezione. Si tenga conto anche per questo articolo,
apparso il 29 Febbraio, che alcuni passaggi sono stati ovviamente superati
dalla successiva evoluzione dei fatti………..
Non siamo impazziti per il virus
Sono ri responsabili ad aver agito da irresponsabili
Articolo di Massimo Adinolfi del 29 Febbraio – sito online “L’inkiesta”
I
filosofi interpellati dai giornali incolpano “la gente”, ma dovrebbero
prendersela coi politici che han giocato a fare i primi della classe, gli
scienziati che si son dati sulla voce, rimbeccandosi l’un l’altro, e i media
che bombardano 24 ore su 24. E alla fine, ma per ultime,
con le persone. Vi avverto, la prendo alla lontana, perciò in premessa lo
anticipo:
si tratta del coronavirus, e dell’idea che nulla di ciò che sta accadendo è
casuale, ma tutto rientra in una logica. Questa logica è quella che sempre di più spinge a «usare lo stato di
eccezione come paradigma normale di governo». A sostenerlo è Giorgio Agamben, il filosofo italiano contemporaneo più letto e
studiato nel mondo, autore di un’opera fondamentale, “Homo sacer”, articolata
in più volumi e di recente ripubblicata in un unico, pregevolissimo tomo. Bene, cosa dice Agamben? Che
questa epidemia è una bazzecola, se guardiamo al fenomeno nelle sue dimensioni
reali: al numero dei contagiati,
dei malati, dei deceduti. Ma i provvedimenti presi dal governo
non tengono minimamente conto della realtà del fenomeno, la prendono invece a
pretesto per una «vera militarizzazione» delle aree a rischio, con l’estensione – che Agamben dà per certa e
imminente – di quegli stessi provvedimenti – e delle conseguenti, «gravi
limitazioni della libertà» – in tutte le regioni italiane, «poiché è quasi
impossibile che degli altri casi non si si verifichino altrove». Cosa se ne
faccia il governo in carica di tutti questi enormi poteri e queste pesanti
limitazioni a me non è chiaro, però Agamben dice così: proclamano lo stato d’eccezione, sospendono il
diritto, privano della libertà. La prendo alla lontana, dicevo. E infatti:
seminario di Jacques Derrida presso l’École des hautes études, a Parigi, 6 dicembre 2000,
mercoledì, ore 17. Il filosofo
comincia la sua lezione da una ben stramba questione: «che cos’è un
presidente?», domanda che gli sarebbe venuto persino più naturale di porre se
avesse potuto gettare uno sguardo approfondito sull’attuale scena politica
italiana, ma questa è un’osservazione che debbo tenere per me. Gli ascoltatori
giunti in rue d’Ulm dovettero comunque trovarla curiosa. Il seminario era
dedicato infatti alla pena di morte, e Derrida lo teneva dopo essersi lungamente
occupato, l’anno prima, di Kant e Beccaria, dei discorsi abolizionisti di Hugo
e Camus, di colpa e punizione, legge del taglione e crudeltà Ma quel mercoledì
sera Derrida si chiede che cos’è un
presidente: dopo tutto, osserva,
nei paesi in cui vige la pena di morte, non è a lui che spetta l’ultima parola,
non è lui che può concedere o rifiutare la grazia? E da dove gli viene questa
facoltà di ultima istanza, se non dall’antica eredità di un potere sovrano, che è ora nelle sue mani? Non è difficile seguire il
filo che Derrida tesse: dalla pena capitale alla sovranità, che si manifesta
massimamente nelle decisioni sulla vita e sulla morte. Decisioni eccezionali,
certo, ma proprio questo è il punto che Derrida sta commentando: sovrano è chi decide sullo
stato d’eccezione, secondo la celebre definizione di Carl Schmitdt. Dunque ci
siamo: stato d’eccezione – lo stato d’eccezione che secondo Agamben il nostro
Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte da Volturara Appula, si appresta a
estendere indiscriminatamente a tutto il territorio nazionale – vuol dire sovranità. Cioè potere di vita o di
morte: ius vitae ac necis, come dicevano i romani, e quando si nominano i Romani
si deve sempre sospettare che dietro il diritto si acquatti la forza più
brutale. Ora
però Derrida aggiunge, con un certo senso della misura: ma voi ce lo vedete, un
Presidente, vestire simili panni? Dite
quel che volete sul sovrano, ma un Presidente, in una democrazia
costituzionale, ne ha fin troppi, di limiti e condizionamenti di legge. A questi
aggiungi quelli dell’opinione pubblica e del mandato elettorale, e vedrai «in
che modo l’esercizio della sovranità, nel caso della presidenza, sia limitato».
Poi, certo, vi sono ancora Paesi che mantengono nei loro ordinamenti la pena
capitale, ma facci caso: quei Paesi sono oggi chiamati a giustificarsi, non gli
Stati che invece l’hanno abolita. Ebbene, perché l’ho presa così alla lontana,
tirando in ballo la differenza fra la figura del sovrano e quella del
Presidente? Perché Agamben
non è minimamente sensibile a questa differenza: il suo paradigma biopolitico
non la prevede, non la considera rilevante. E così non considera rilevanti molte altre
differenze, tutte più o meno riconducibili allo Stato di diritto e a ciò che
caratterizza una democrazia come liberale, per cui la chiusura delle scuole
fino a sabato o Juventus-Inter a porte chiuse non sono ancora, per fortuna,
l’anticamera della dittatura. Derrida
ragionava, nel suo seminario, sul comportamento dei candidati alle elezioni
presidenziali, in Francia o negli Stati Uniti, e al modo in cui dovevano, nel manifestare la propria
opinione sullo stato d’eccezione (voglio dire: sulla pena di morte), tener
conto dei sentimenti dell’opinione pubblica. Allo stesso modo il nostro povero Giuseppi,
partito lancia in resta con i provvedimenti d’urgenza, si è presto reso conto
che le misure impositive prese ai fini del contenimento dell’epidemia devono
pur tener conto della realtà di un Paese, di un’economia e di
una società che deve poter operare al netto di ogni sfoggio di potere sovrano.
Agamben non se ne è accorto, ma un minuto dopo il decreto legge che lo ha tanto
preoccupato, il presidente del Consiglio si è visto tirato dall’altra parte:
riapriamo le scuole, riapriamo gli stadi, riapriamo pure i bar a tarda sera. Lo
stato d’eccezione piace poco, evidentemente, e il premier tutta questa forza
sovrana per proseguire con le gravi limitazioni della libertà non ce l’ha. Ora, non sta a me mettere
ordine nelle decisioni assunte in queste settimane: non è facile. Ma
se uno si prendesse la briga di farne la cronologia, di seguirle passo passo,
si renderebbe facilmente conto che di tutto
s’è trattato meno che dell’esercizio di un potere sovrano incondizionato. Se non altro perché di presidenti se
ne sono visti all’opera parecchi, e per un premier che decideva in un modo, c’è
sempre stato un governatore che decideva in un altro. Stiamo attenti, anzi: che
non sia proprio la scarsa dimestichezza con la decisione politica del
presidente Conte (mi sia consentito l’eufemismo) a non far venire la voglia di
ben altri polsi assai più fermi, o almeno più coerenti. Perché diciamo la verità: non è
che la gente si sia fatta prendere dal panico, come dice Alessandro Dal Lago
sul Foglio. È peggio: è il
decisore politico che non si è raccapezzato (altro eufemismo). E, certo, è
difficile pretendere dai cittadini un maggior self control di quello che han dimostrato in questi giorni certi
politici. Penso
a Fontana: ma è mai possibile che in Lombardia chiuda tutto quello che si può
chiudere, avendo dichiarato però che si tratta di «poco più di una normale
influenza»? E che dire della
sceneggiata della mascherina, che prima ce l’ha, poi se la mette ma se la mette
male, poi se la toglie, poi chissà? Sappiamo molte cose, oggi, sui bias di conferma, su come circola
l’opinione in Rete e come si rafforza a prescindere dalla realtà, grazie alla circolazione delle fake news. Eccetera eccetera. Dopodiché prima di dire “la
gente”, diciamo pure “i politici” che han giocato irresponsabilmente a fare i
primi della classe, “gli scienziati” che si son dati sulla voce, rimbeccandosi
l’un l’altro, e “i media” che bombardano ventiquattrore su ventiquattro, infine
“la gente”. Ma appunto: solo alla fine, e a parecchie lunghezze di distanza
Il percorso cronologico,
ovviamente concentrato solo su alcuni passaggi, con il quale stiamo seguendo
l’evoluzione del dibattito sulla relazione tra epidemia coronavirus, “il fatto
eccezionale”, e introduzione di elementi di “stato d’eccezione”,
progressivamente si è spostato sul ruolo fondamentale del terzo aspetto che
componeva la correlazione presentata da Agamben evidenziata in precedenza: la
paura collettiva. Vale a dire che lo stato d’eccezione non richiede il ricorso
a forme violente di applicazione, le quali chiamerebbero apertamente in causa
un vero e proprio regime dittatoriale, ma poggia su una qual forma di consenso, di approvazione,
che possono essere strumentalmente ottenute accentuando la paura collettiva
inevitabilmente provocata dalla eccezionalità del fatto da affrontare. Agamben,
ridimensionati almeno in parte i dubbi sulla reale consistenza dell’epidemia e
constatata la diffusione planetaria dei provvedimenti restrittivi, sposta, in
un successivo articolo, la sua attenzione proprio su questo aspetto: il ruolo
della paura……
Chiarimenti
Articolo di Giorgio Agamben del 17 Marzo - sito online "Quodlibet"
Un giornalista italiano si è applicato, secondo il buon uso
della sua professione, a distorcere e falsificare le mie considerazioni sulla
confusione etica in cui l’epidemia sta gettando il paese, in cui non si ha più
riguardo nemmeno per i morti. Così come non mette conto di citare il suo nome,
così nemmeno vale la pena di rettificare le scontate manipolazioni. Chi vuole
può leggere il mio testo Contagio sul
sito della casa editrice Quodlibet. Piuttosto pubblico qui delle altre
riflessioni, che, malgrado la loro chiarezza, saranno presumibilmente anch’esse
falsificate. La paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che
si fingeva di non vedere. La prima cosa che l’ondata di panico che ha
paralizzato il paese mostra con evidenza è che la nostra società non crede più
in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a
sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti
sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose
e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla –
non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Gli altri esseri
umani, come nella pestilenza descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come
possibili untori che occorre a ogni costo evitare e da cui bisogna tenersi alla
distanza almeno di un metro. I morti – i nostri morti – non hanno diritto a un
funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri delle persone che ci sono
care. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano
in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a
vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che
non ha altro valore che la sopravvivenza? L’altra cosa, non meno inquietante
della prima, che l’epidemia fa apparire con chiarezza è che lo stato di
eccezione, a cui i governi ci hanno abituati da tempo, è veramente diventato la
condizione normale. Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno
aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato di emergenza come quello
attuale, che ci impedisce perfino di muoverci. Gli uomini si sono così abituati
a vivere in condizioni di crisi perenne e di perenne emergenza che non sembrano
accorgersi che la loro vita è stata ridotta a una condizione puramente
biologica e ha perso ogni dimensione non solo sociale e politica, ma persino
umana e affettiva. Una società che vive in un perenne stato di emergenza non
può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che ha
sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata
per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza. Non stupisce
che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano
di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico
invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle
guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori, è dentro di
noi. Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo. Così
come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie
nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si
cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i
governi non erano riusciti prima a realizzare: che si chiudano le università e
le scuole e si facciano lezioni solo on line, che si smetta una buona volta di
riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino
soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano
ogni contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.
Anche questo successivo
intervento di Agamben mette in luce che la comprensione, il dibattito, attorno
allo stato d’eccezione non possono
esaurirsi nella condivisione o meno del modello teorico di gestione del potere
ad esso connesso, ovvero, passando al piano della prassi, se in qualche modo
sia davvero divenuto il paradigma della democrazia al tempo della
globalizzazione, ma devono aprirsi ad uno sguardo più ampio che fa entrare in
scena i rapporti sociali ed umani, il ruolo della filosofia e della scienza, il
rapporto con natura ed ambiente. In questo senso ci è sembrato interessante
l’articolo che Mario Farina (giovane
filosofo, ricercatore presso l’Università degli Studi di Firenze) ha pubblicato in risposta
al precedente intervento di Agamben…………..
Su Agamben e il contagio
Il ruolo della filosofia e la comune umanità
Articolo di Mario Farina del 20 Marzo - sito online "Le parole e le cose"
Ha destato un discreto sgomento, almeno nel piccolo mondo della
filosofia, la reazione di Giorgio Agamben alla particolare situazione sociale e
politica nella quale l’emergenza sanitaria, ormai globale, ha gettato il paese.
È probabile che il lettore anche distratto di Agamben avrebbe potuto anticipare
con un certo agio quale sarebbe stata la sua posizione. Come in uno sketch da
avanspettacolo, se ci avessero chiesto di imitare a bocce ferme un ipotetico
Agamben che commenta un’ipotetica quarantena imposta per decreto avremmo tutti
sciorinato un credibile repertorio di stati d’eccezione, cittadinanze coatte e
corpi sottratti alla socialità. Ma la realtà, si sa, si diverte sempre a
umiliare l’immaginazione e allora il vero Giorgio Agamben non solo ha confermato
tutto il suo repertorio, ma si è spinto a battibeccare con le sacrosante
critiche piovuto un po’ da ogni dove (la nuvola più alta è senz’altro quella di
Nancy, mentre la più volgare ha la firma di Flores d’Arcais). L’ultimo post del
suo blog, pubblicato in data 17 marzo e ineffabilmente intitolato Chiarimenti
(ineffabilmente perché anziché chiarire si limita a ribadire), contiene a mio
modo di vedere la più grossolana tra le sviste del più tradotto filosofo italiano vivente. «È
evidente» scrive Agamben «che gli italiani sono disposti a sacrificare
praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il
lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche
al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è
qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa». C’è una capziosa
viziosità nel ragionamento di Agamben, che non tiene conto di come, ad esempio,
il sacrificio di «praticamente tutto» sia fatto non semplicemente per
salvaguardare la propria vita, ma specialmente per proteggere quella degli
altri. Ma non è questo il punto. Il punto è piuttosto la profonda e lacerante
solidarietà che una certa corrente di pensiero, autonomo e libertario, ha
finito per mostrare con le tendenze più estreme, e violente, del liberismo
economico. Perché quella «nuda vita» che secondo Agamben dovremmo essere capaci
di disprezzare – traduzione tendenziosa e retorica del benjaminiano «bloße
Leben», più prosaicamente rendibile con «mera vita» – non è altro che il benessere
minimo del nostro corpo, base essenziale e irrinunciabile sulla quale si
edifica quella comune umanità che sola, universalizzata, può essere fonte
dell’eguaglianza tra gli uomini. D’atro canto, il «praticamente tutto» che agli
occhi di Agamben, colpevolmente, l’Italia sacrifica sull’altare della vita
corrisponde – probabilmente con una gaffe non voluta – ai «rapporti sociali»,
che Agamben dovrebbe ben saper essere sempre storici e vigenti. Vengono allora
in mente i balli pubblici fatti dai sostenitori di Bolsonaro quando hanno dato
manforte al loro presidente per denunciare il complotto internazionale sulla
pandemia, oppure le prime posizioni assunte dai più volubili Trump e Boris
Johnson, che hanno pensato di salvare la produzione economica – sì, esatto, «i
rapporti sociali» – sull’altare della vita e del benessere pubblico, vale a
dire sull’altare della comune umanità, lasciando indietro i deboli esclusi
dalla comunità dei liberi. Lette in questo contesto, le parole di Agamben
assumono un significato decisamente più comprensibile. Sarebbe un errore
intenderle come frutto di una radicalizzazione, magari lodevole ma a oggi
sconveniente, di un principio di libertà individuale. Corrispondono piuttosto a
una difesa di quel «praticamente tutto» che non intende sacrificare: la propria
posizione all’interno dei rapporti sociali vigenti come individuo proprietario,
come persona sociale che gode di affetti e di tutto ciò che la società mette a
sua disposizione. Questo individuo proprietario, la cui individuale umanità è
pienamente realizzata, non è disposto a sacrificare la propria posizione per la
difesa della vita, vale a dire ciò su cui solo può essere edificata e
realizzata quella comune e universale.
Mi è capitato di leggere parole di sconforto di fronte alle
esternazioni di Agamben. Già la filosofia naviga in pessime acque, si dice, se
in più facciamo questo genere di figure, è difficile rivendicare una posizione
nel dibattito pubblico. Capisco, ma di nuovo, non credo sia questo punto.
Quello che stiamo vivendo in relazione alla pandemia di coronavirus (a
proposito, Agamben da che mi risulta è l’unico a chiamarlo «il virus corona»,
come fosse in nome proprio) non è quasi nemmeno il tempo della scienza. È
piuttosto il tempo della pratica, della tecnica della medicina d’assalto che
prova a mettere una pezza a un mondo che sembra essersi rotto male. E questo è
un fatto di cui la filosofia deve prendere atto. Viene comodo in proposito
chiamare in causa Hegel, o meglio l’atteggiamento che Johann Friedrich Herbart,
per altri versi suo nemico, riconosceva in Hegel lodandone la peculiare forma
di empirismo: l’umiltà di accogliere i dati del dibattito scientifico per
quello che erano, senza la pretesa di insegnare alla scienza il suo mestiere. Per
ragioni che sfuggono alle sue intenzioni, Agamben ha fatto un buon servizio al
pensiero filosofico. La crisi sanitaria che stiamo vivendo mostra nettamente
una tendenza chiarificatrice, che è quella di estremizzare e rendere visibili
le storture sociali. Mentre io lavoro in mondo smart dal salotto di casa, miei
coetanei rischiano il contagio, costretti a lavorare spesso per pochi soldi. Le
distinzioni sociali diventano evidenti, chiare e plastiche. E così lo diventano
anche le tendenze sottese ai pensieri che le interpretano. Evidenza che forse
mancava poco più di un anno fa quando, sempre sul suo blog ospitato dalla casa
editrice Quodlibet, Giorgio Agamben prendeva le distanze dalla petizione
pubblica in favore della legge sullo ius soli. «La patria», scriveva citando
Francesco Nappo, «sarà quando tutti saremo stranieri», cioè quando saremo tutti
sottratti a uno ius e non sottomessi a esso. Ma lo ius di cui si parlava in
quel caso, e oggi lo si vede chiaramente, non era un’arma di aggressione, ma
uno strumento di protezione della libertà e dei diritti di donne e uomini che
ne erano privati. Di fronte a una crisi umana e sanitaria come quella che
stiamo vivendo la filosofia può allora conservare un compito. E questo compito
è quello di assumere i dati che le arrivano e contribuire a fare chiarezza.
Richiamando ancora Hegel, è la nottola di Minerva che deve farle da guida. A
modo loro, anche le parole di Agamben hanno contribuito a fare chiarezza. Nella
loro fossilizzazione su schemi di pensiero consolidati, sono state in grado di
mostrare i limiti dei quali soffre, oggi, una corrente di pensiero che dalla
seconda metà degli anni Settanta ha preteso di porre al centro del proprio
progetto l’autonomia dell’individuo, assolutizzandolo. Appare chiaro, oggi, che
il diritto e i decreti, e con essi lo stato, non sono per forza una limitazione
della libertà individuale. A volte, come in questo momento, possono essere
strumento di protezione e realizzazione della sua libertà. A patto, certo, di
avere come obiettivo non un’astratta idea della propria individuale libertà di
proprietario, ma la diffusione dell’uguaglianza tra gli uomini come
universalizzazione della comune umanità.
Su questo stesso piano,
con una maggiore attenzione alle ricadute politiche, si muove l’ultimo
contributo che pubblichiamo in questo post. Raccoglie le brevi, ma dense,
risposte date da due filosofi: Laura
Boella (professore ordinario di
filosofia morale presso l'Università degli Studi di Milano) e Roberto Escobar. (professore di Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze
politiche dell'Università di Milano), intervistati dal giornalista Raffaele Liguori nella trasmissione Memos di Radio Popolare.............
Laura Boella. Condivido il primo punto di Agamben sulla frequenza di questi stati
di emergenza. A partire dall’11 settembre 2001 sappiamo benissimo che, dopo
ogni attentato terroristico, quando uno va in metropolitana si chiede
“succederà anche a me?”. Si vive in una quasi spontanea auto-limitazione dei
propri movimenti e delle proprie libertà.
Sul secondo punto vorrei ragionare di più. Dice che “abbiamo bisogno di ripetuti
stati di paura” e che questo verrebbe soddisfatto dalle restrizioni imposte
dalle autorità. Sul fatto che ne abbiamo bisogno sono molto dubbiosa. Direi
invece che viviamo in una condizione di incertezza, di frustrazione e di
impotenza rispetto ad un Mondo fuori controllo. Oggi stiamo parlando di una
epidemia, però parliamo anche della crisi climatica. Anche rispetto alla crisi
climatica tutti noi ci sentiamo impotenti e sentiamo questo aspetto fuori
controllo, ma anche legato ad una difficoltà dell’avere un’esperienza
innanzitutto percettiva, in prima persona. Molti fenomeni del riscaldamento
globale non li sentiamo o non li annusiamo. E questo particolarmente difficile
il rapporto tra le nostre vite e la limitatezza della nostra esperienza con
quei processi che ci vengono proposti come processi che ci passano sopra la
testa e rispetto ai quali non possiamo fare niente. Dobbiamo renderci conto che
la paura è un’emozione arcaica che nel corso dell’evoluzione si è rivelata
molto utile per difenderci da pericoli immediati e dalle minacce che vengono
dal mondo esterno. Come tale, però, ha un effetto di paraocchi e di restrizione
della nostra esperienza.
Roberto Escobar. Io parlerei di politica. Quello che Agamben chiama “il bisogno
di paura” non è che il modello politico che negli ultimi 20 anni sta
trionfando. Se dimentichiamo la politica non capiamo più niente. on è che io
abbia bisogno di paura, è che io negli ultimi 20 anni sono stato abituato ad
affrontare ogni questione complessa mediante lo strumento semplificatore della
paura. Ci sono degli imprenditori della paura che trovano più efficiente e più
efficace raccogliere consenso indicando paure e indicando colpevoli. È più
semplice e più facile convincere la gente che i problemi non sono complessi,
che basta far fuori qualcuno o bloccare diffusori di virus e tutto viene
risolto. Quanto allo stato d’eccezione, per me semplicemente si tratta di un
cambio quasi epocale di modello politico. La paura non è un sentimento, ma un
atteggiamento fondamentale. Senza paura non saremmo qui come specie umana. La
politica trasforma la paura in decisione, trasforma il pericolo in rischio. Il
coronavirus è per sé un pericolo e può fare paura, ma diventa un rischio quando
la politica interviene e stabilisce comportamenti ragionevoli. Quando la
politica non c’è, questo passaggio salta e il risultato è il panico.
Laura Boella. Bisogna tenere conto che siamo esseri umani ed è perfettamente
comprensibile che l’irruzione improvvisa di un fenomeno che in questo momento è
difficilmente inquadrabile, anche scientificamente, è impossibile che non
sconvolga le nostre abitudini e le pseudo-certezze con le quali noi pensiamo di
garantirci dall’incertezza e dall’ignoto del mondo in cui viviamo. Io citerei
Spinoza, che raccomandava di non ridere, non piangere, ma comprendere. Al posto
di contrapporre ragione a emozione, io parlerei di sforzo di capire: dobbiamo
sforzarci di controllare, per quanto possibile, le nostre risposte emotive e
passare un altro piano, che vuol dire innanzitutto cercare di capire qualcosa
di molto complicato. Mentre la paura è un istinto molto arcaico, noi ci
troviamo di fronte a qualcosa che ci chiama alla complessità della possibilità
della medicina, del fare un vaccino. Questioni che necessitano di attività
intellettuali specialistiche. Siamo proprio in una combinazione di passato
arcaico della specie e di radicamento in un mondo contemporaneo estremamente
complesso, il passaggio di piano vuole innanzitutto dire uscire
dall’autoreferenzialità. Credo che le persone siano fondamentalmente
preoccupate della sopravvivenza, che è una forma di impoverimento
dell’esperienza: di fronte agli scaffali vuoti dei supermercati, Beppe Sala ha
giustamente detto “occupiamoci di più dei nostri anziani”. Questo è un vero
passaggio di piano: uscire da questo istinto angosciato per la propria
sopravvivenza e spostarsi verso un evento che coinvolge altre persone.
C’è una questione di empatia che andrebbe posta per spostare
questo piano.
Laura Boella. Certo, nel momento in cui uno apre questa esperienza anche
alle relazioni con gli altri, ecco che qui il cinese non sarà soltanto
l’untore, la persona che tossisce non sarà solo quella da cui devo allontanarmi.
Ma io inizierò a vedere che il problema non riguarda soltanto me e la mia
famiglia, ma riguarda anche il mio prossimo.
Su che altro piano ci si può posizionare per uscire da quella
stretta del panico?
Roberto Escobar. La vera questione è più ampia e meno individuale. Konrad
Lorenz parla della schiera anonima, quei branchi di pesce azzurro che sta
insieme a palla, ma appena uno fa qualcosa perché intuisce un pericolo, tutti
vanno in quella direzione. Questa schiera anonima manca di strutturazione sociale
complessa. La dimensione nella quale noi oggi comunichiamo prevalentemente
manca di strutturazione sociale complessa. Ci sono i titoli di giornali che non
hanno dietro alcuna responsabilità politica e giornalistica, ma soprattutto c’è
questa dimensione informe a cui tutti ogni giorno ci rivolgiamo che si chiama
social network. Nei social network non si può arrivare ad alcuna considerazione
di tipo ragionevole, perché ognuno di noi è un pesce azzurro dentro un branco
che non ha comunicazione vera, se non emotiva. Questo è il disastro. Siamo in
balìa di pesci grossi che ci dicono che dobbiamo avere paura del coronavirus e
li seguiamo perché siamo esposti ad una comunicazione strutturata.
Sullo stato d’eccezione, su come ridare
alla democrazia reale capacità di rappresentanza e di soluzione dei problemi di
certo, non mancheranno occasioni per discutere ed approfondire, chiudiamo per
intanto questa “Parola del mese” facendo
nostre le ultime frasi dell’articolo di Piero Ignazi che abbiamo pubblicato
pochi giorni fa………………
L'eccezionalità
del momento è presente a tutti, e ciascuno deve fare il possibile per evitare
che il contagio si diffonda. Allo stesso tempo, però, va ribadito che questa
situazione deve essere limitata nel tempo e non prorogabile, qualunque cosa succeda, in quanto intacca i diritti
inalienabili della persona. Il coprifuoco che ci è imposto, perché di questo si
tratta, va messo tra parentesi come evento irripetibile, proprio per evitare che si radichi l'idea di uno Stato
che possa limitare la vita democratica per "interessi generali".
La debolezza della cultura liberale di questo Paese e il ricordo del passato
regime inducono a molta cautela quando si toccano i diritti. A maggior ragione
oggi, quando forze politiche culturalmente estranee a quella tradizione riscuotono
ampi consensi. (nell’articolo viene fatto chiaro
riferimento alla Lega di Salvini e a Fratelli d’Italia)
Nessun commento:
Posta un commento