mercoledì 1 aprile 2020

La "Parola" del mese - Aprile 2020


(quasi) Nulla sarà più come prima……è sicuramente una delle frasi più dette in questo momento.  E d’altronde non sarebbe la prima volta che la storia, sotto la spinta di eventi positivi o negativi, conosce svolte improvvise e radicali. E’ bene allora accompagnare questa frase con una riflessione sulla situazione che un invisibile nemico (altra frase ricorrente) ci sta imponendo per capire quali insegnamenti possono essere tratti, quali errori non dovranno più essere ripetuti, quali cambiamenti si renderanno opportuni.  Va da sé che la democrazia, i suoi istituti i suoi meccanismi, e la politica in genere, peraltro già da tempo in difficoltà rispetto ai contesti globalizzati, non sono certo esenti da questa inderogabile necessità di riflessione. Come abbiamo già avuto modo di anticipare in precedenti post le modalità “di ordine pubblico” con cui viene gestita l’emergenza corona virus, la loro sempre più probabile  proroga a fronte di un paese che inevitabilmente mostra crescenti segnali di stanchezza ed insofferenza, pongono alcune importanti domande di fondo. E’ questa, fra le tante che seguiranno, la prima riflessione che come CircolarMente iniziamo ad affrontare usando come spunto per farlo la consueta “Parola del mese” che in questo caso ha la forma di una “definizione”
La parola del mese
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

APRILE 2020

STATO D’ECCEZIONE

In scienza politica, si definisce stato di eccezione una particolare configurazione del potere politico. Ciò si verifica in presenza di una circostanza particolarmente grave che impone di sospendere il rispetto delle leggi fin lì in vigore per dedicarsi con tutte le forze al superamento della situazione stessa.
E’ esattamente questo il quadro che, dal suo primo manifestarsi fino ai tragico successivo aggravamento, si è progressivamente concretizzato in modi sostanzialmente equiparabili in tutti i Paesi investiti dalla pandemia, fortunatamente senza giungere alla esasperazione dittatoriale di Orban, e che ha purtroppo visto proprio l’Italia come apripista fra le democrazia occidentali. A stretto rigore di definizione di “stato di eccezione” è legittimo quindi parlare per classificare i vari provvedimenti che, al fine di fronteggiare il contagio, hanno progressivamente ristretto molte libertà e diritti individuali e collettivi. Vivaddio sono rimaste esenti altre libertà e altri diritti fondamentali, quali la libertà di stampa e di opinione, in caso contrario, vedi per l’appunto il caso ungherese, si sarebbe potuto parlare di regime liberticida, di un vero e proprio colpo di stato. Riferendoci agli aspetti fondanti la democrazia, che nella sua forma compiuta si è realizzata in Occidente solo nel secolo scorso, la definizione di “stato d’eccezione” è entrata nella terminologia della scienza politica in tempi relativamente recenti essendo stata introdotta, in questa sua accezione compiuta, negli anni Trenta dal giurista, filosofo e politologo tedesco Carl Schmitt. Partendo da concetti primordiali come terra, mare, amico, nemico, Schmitt ha teorizzato una profonda differenza tra "legalità" e "legittimità", e su questa base ha correlato strettamente la sovranità, ossia il potere del “sovrano” forma di potere non automaticamente trasferibile alle attuali figure cardine del sistema democratico, con la possibilità di decidere il ricorso allo “stato di eccezione”. Il quale si contrappone allo “stato di diritto” perché si configura come una situazione in cui il diritto è sospeso, situandosi  così in una posizione intermedia tra lo “stato di natura”, totale mancanza di leggi se non quelle naturali di sopravvivenza,  e lo “staato di diritto”, assumendo in sostanza un aspetto in buona misura pre-giuridico. Carl Schmitt, partendo dalla sua radicale critica alla democrazia liberale tedesca incapace a suo avviso, per limiti costitutivi interni, di fronteggiare la grave crisi che in quegli anni investiva la Germania, portava a compimento la sua idea di “stato d’eccezione” usandola per giustificare il Terzo Reich e la figura del Fuhrer come novello sovrano. Il secondo dopoguerra, sconfitti con prezzo altissimo fascismi e nazismo, ha visto in tutto l’Occidente la piena affermazione della democrazia rappresentativa, relegando per alcuni decenni lo “stato d’eccezione” a tema dibattuto a livello teorico in ristretti ambiti giuridici e accademici, per poi ripresentarsi come ipotesi più concretamente individuabile nelle risposte di molti paesi, Italia ovviamente compresa, alla sfida aperta del terrorismo “politico” degli anni Sessanta/Settanta. Ma è soprattutto negli ultimi due decenni del secolo scorso con l’irruzione sulla scena del terrorismo di matrice islamica, con il crescente impatto dei fenomeni migratori, con la crisi dei meccanismi democratici investiti dalla globalizzazione, con la collegata impotenza della politica e con lo strisciante ritorno alla suggestione “dell’uomo forte”, che lo “stato d’eccezione” è uscito fuori dal dibattito accademico per divenire tema più diffuso di discussione. Una importante riflessione è stata in particolare proposta da Giorgio Agamben, noto filosofo italiano, con la pubblicazione nel 2003 di un libro intitolato proprio “Stato d’eccezione” in cui l’analisi teorica si legava strettamente alla convinzione che elementi ad esso riconducibili fossero sempre più diffusi nella realtà politica occidentale, tanto da poter persino divenire in nuce la forma abituale dell’esercizio del potere. Lo strumentale ricorso a definire “eccezionali” molti degli irrisolti problemi politici rischia infatti secondo Agamben di chiamare costantemente in causa l’adagio che giustifica, dandogli al tempo stesso forma e sostanza, lo stato d’eccezione: necessitas legem non habet, la necessità non ha legge, va oltre la legge. Vale a dire che la necessità derivante dalla eccezionalità del problema da affrontare vale come legittimazione della sospensione dell'ordinamento giuridico, l'urgenza delle risposte e delle soluzioni sospende le leggi, che di fronte ad essa non hanno più dominio, fino al punto, secondor Agamben, di fondere lo stato d’eccezione il paradigma normale di governo. Per avere una più precisa idea di quali passaggi politici possono essere letti in questo senso Agamben citava, al tempo della scrittura del suo saggio, come caso esemplare la vicenda americana del carcere per terroristi di Guantanamo, risposta al di sopra della legge all’attacco terroristico delle Torri Gemelle, ma anche più banalmente, restando in ambito italiano,  il ricorso sistematico della decretazione d’urgenza ed il dispositivo delle deleghe legislative concesse all’esecutivo, piuttosto che il diffuso e costante richiamo al nuovo modello della «governance», ovvero del sistema di governo globale prodotto dai luoghi sovranazionali della decisione, che esautora la vecchia governabilità frutto della decisione espresso dai singoli stati nazione. Lo stato di eccezione è in sostanza presentato da Agamben come una soglia oltre la quale vengono meno le tradizionali differenze fra democrazia, assolutismo e dittatura. Seppur nato come concetto giuridico, è infatti sulla base di un ordinamento giuridico che l'eccezione è dichiarata non eccezionale, lo stato d’eccezione di fatto cancella la stessa norma. Per l’appunto necessitas legem non habet. Al di là della sua condivisione l’indiscutibile spessore analitico di questa riflessione di Agamben, qui estremamente sintetizzata, non poteva non ritornare prepotentemente sulla scena all’apparire delle prime restrizioni imposte dalla “eccezionalità” della epidemia corona virus. Come vedremo è stato lo stesso Agamben, in ovvia coerenza con le proprie opinioni, a dare fuoco alle micce con un suo primo articolo apparso sul Manifesto del 26 Febbraio, al quale sono succedute numerose prese di posizione, alcune favorevoli, molte contrarie. Ne abbiamo scremate alcune con la finalità di fornire elementi che aiutino a meglio comprendere e valutare, da questo punto di vista, la stessa vicenda coronavirus ed i provvedimenti restrittivi ad essa collegati e, al tempo stesso, ad approfondire, andando oltre la stretta contingenza, la tematica dello stato d’eccezione. Ipotesi, o tendenza in atto, che deve comunque essere tenuta sotto giusta attenzione per evitare che, come alcuni vorrebbero, davvero diventi la soluzione stabile alla crisi della democrazia. Iniziamo quindi dal citato articolo di Agamben con l’ovvia avvertenza di (ri)leggerlo tenendo conto del momento in cui è stato scritto, ossia nei primissimi giorni dell’epidemia quando il quadro sanitario era ancora molto confuso e di impatto relativamente contenuto………..
Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata
Articolo di Giorgio Agamben – Il Manifesto del 26 Febbraio
La paura dell’epidemia offre sfogo al panico, e in nome della sicurezza si accettano misure che limitano gravemente la libertà giustificando lo stato d’eccezione
Di fronte alle frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona, occorre partire dalle dichiarazioni del CNR, secondo le quali “non c’è un’epidemia di Sars-CoV2 in Italia”. Non solo. Comunque “l’infezione, dai dati epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva”. Se questa è la situazione reale, perché i media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di panico, provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazione dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni? Due fattori possono concorrere a spiegare un comportamento così sproporzionato. Innanzitutto si manifesta ancora una volta la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo. Il decreto-legge subito approvato dal governo “per ragioni di igiene e di sicurezza pubblica” si risolve infatti in una vera e propria militarizzazione “dei comuni e delle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio di virus”. Una formula cosi vaga e indeterminata permetterà di estendere rapidamente lo stato di eccezione in tutte le regioni, poiché è quasi impossibile che degli altri casi non si verifichino altrove. Si considerino le gravi limitazioni della libertà previste dal decreto:  
1.  divieto di allontanamento dal comune o dall’area interessata da parte di tutti gli individui comunque presenti nel comune o nell’area; 
2.     divieto di accesso al comune o all’area interessata;
3.     sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in un luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico;
4.     sospensione dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, salvo le attività formative svolte a distanza;
5.     sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura di cui all’articolo 101 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché l’efficacia delle disposizioni regolamentari sull’accesso libero e gratuito a tali istituti e luoghi;
6.     sospensione di ogni viaggio d’istruzione, sia sul territorio nazionale sia estero;
7.     sospensione delle procedure concorsuali e delle attività degli uffici pubblici, fatta salva l’erogazione dei servizi essenziali e di pubblica utilità;
8.     applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva fra gli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusa.
La sproporzione di fronte a quella che secondo il Cnr è una normale influenza, non molto dissimile da quelle ogni anno ricorrenti, salta agli occhi. Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite. L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo
Non possono non colpire, soprattutto visti i successivi sviluppi, affermazioni come “l’invenzione di una epidemia” per quanto formulate a caldo, mentre mantiene una sua rilevanza, soprattutto ai fini della nostra specifica riflessione, la correlazione che Agamben evidenzia tra situazione eccezionale (vera o creata ad arte che sia) - ondata di paura collettiva – conseguente consenso dei provvedimenti restrittivi che portano allo stato d’eccezione.  Molte, e inevitabili, sono state le repliche e le critiche all’articolo di Agamben, fra le tante che hanno severamente contestato l’eccesso strumentale di sottovalutazione dell’aspetto sanitario ed epidemico consigliamo l’articolo del 27 Febbraio, molto ben articolato, di Davide Grasso, giornalista (agli onori delle cronache per aver combattuto in Siria contro l’Isis) che può essere letta nel sito online “Minima&Moralia”  che qui non riportiamo per la sua notevole lunghezza. Presentiamo invece il seguente articolo di Massimo Adinolfi, docente di filosofia teoretica preso l’Università di Napoli, che di più e meglio entra nel merito della tematica dello stato d’eccezione. Si tenga conto anche per questo articolo, apparso il 29 Febbraio, che alcuni passaggi sono stati ovviamente superati dalla successiva evoluzione dei fatti………..
Non siamo impazziti per il virus
Sono ri responsabili ad aver agito da irresponsabili
Articolo di Massimo Adinolfi del 29 Febbraio – sito online “L’inkiesta”

I filosofi interpellati dai giornali incolpano “la gente”, ma dovrebbero prendersela coi politici che han giocato a fare i primi della classe, gli scienziati che si son dati sulla voce, rimbeccandosi l’un l’altro, e i media che bombardano 24 ore su 24. E alla fine, ma per ultime, con le persone. Vi avverto, la prendo alla lontana, perciò in premessa lo anticipo: si tratta del coronavirus, e dell’idea che nulla di ciò che sta accadendo è casuale, ma tutto rientra in una logica. Questa logica è quella che sempre di più spinge a «usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo». A sostenerlo è Giorgio Agamben, il filosofo italiano contemporaneo più letto e studiato nel mondo, autore di un’opera fondamentale, “Homo sacer”, articolata in più volumi e di recente ripubblicata in un unico, pregevolissimo tomo. Bene, cosa dice Agamben? Che questa epidemia è una bazzecola, se guardiamo al fenomeno nelle sue dimensioni reali: al numero dei contagiati, dei malati, dei deceduti. Ma i provvedimenti presi dal governo non tengono minimamente conto della realtà del fenomeno, la prendono invece a pretesto per una «vera militarizzazione» delle aree a rischio, con l’estensione – che Agamben dà per certa e imminente – di quegli stessi provvedimenti – e delle conseguenti, «gravi limitazioni della libertà» – in tutte le regioni italiane, «poiché è quasi impossibile che degli altri casi non si si verifichino altrove». Cosa se ne faccia il governo in carica di tutti questi enormi poteri e queste pesanti limitazioni a me non è chiaro, però Agamben dice così: proclamano lo stato d’eccezione, sospendono il diritto, privano della libertà. La prendo alla lontana, dicevo. E infatti: seminario di Jacques Derrida presso l’École des hautes études, a Parigi, 6 dicembre 2000, mercoledì, ore 17. Il filosofo comincia la sua lezione da una ben stramba questione: «che cos’è un presidente?», domanda che gli sarebbe venuto persino più naturale di porre se avesse potuto gettare uno sguardo approfondito sull’attuale scena politica italiana, ma questa è un’osservazione che debbo tenere per me. Gli ascoltatori giunti in rue d’Ulm dovettero comunque trovarla curiosa. Il seminario era dedicato infatti alla pena di morte, e Derrida lo teneva dopo essersi lungamente occupato, l’anno prima, di Kant e Beccaria, dei discorsi abolizionisti di Hugo e Camus, di colpa e punizione, legge del taglione e crudeltà Ma quel mercoledì sera Derrida si chiede che cos’è un presidente: dopo tutto, osserva, nei paesi in cui vige la pena di morte, non è a lui che spetta l’ultima parola, non è lui che può concedere o rifiutare la grazia? E da dove gli viene questa facoltà di ultima istanza, se non dall’antica eredità di un potere sovrano, che è ora nelle sue mani? Non è difficile seguire il filo che Derrida tesse: dalla pena capitale alla sovranità, che si manifesta massimamente nelle decisioni sulla vita e sulla morte. Decisioni eccezionali, certo, ma proprio questo è il punto che Derrida sta commentando: sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione, secondo la celebre definizione di Carl Schmitdt. Dunque ci siamo: stato d’eccezione – lo stato d’eccezione che secondo Agamben il nostro Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte da Volturara Appula, si appresta a estendere indiscriminatamente a tutto il territorio nazionale – vuol dire sovranità. Cioè potere di vita o di morte: ius vitae ac necis, come dicevano i romani, e quando si nominano i Romani si deve sempre sospettare che dietro il diritto si acquatti la forza più brutale. Ora però Derrida aggiunge, con un certo senso della misura: ma voi ce lo vedete, un Presidente, vestire simili panni? Dite quel che volete sul sovrano, ma un Presidente, in una democrazia costituzionale, ne ha fin troppi, di limiti e condizionamenti di legge. A questi aggiungi quelli dell’opinione pubblica e del mandato elettorale, e vedrai «in che modo l’esercizio della sovranità, nel caso della presidenza, sia limitato». Poi, certo, vi sono ancora Paesi che mantengono nei loro ordinamenti la pena capitale, ma facci caso: quei Paesi sono oggi chiamati a giustificarsi, non gli Stati che invece l’hanno abolita. Ebbene, perché l’ho presa così alla lontana, tirando in ballo la differenza fra la figura del sovrano e quella del Presidente? Perché Agamben non è minimamente sensibile a questa differenza: il suo paradigma biopolitico non la prevede, non la considera rilevante. E così non considera rilevanti molte altre differenze, tutte più o meno riconducibili allo Stato di diritto e a ciò che caratterizza una democrazia come liberale, per cui la chiusura delle scuole fino a sabato o Juventus-Inter a porte chiuse non sono ancora, per fortuna, l’anticamera della dittatura. Derrida ragionava, nel suo seminario, sul comportamento dei candidati alle elezioni presidenziali, in Francia o negli Stati Uniti, e al modo in cui dovevano, nel manifestare la propria opinione sullo stato d’eccezione (voglio dire: sulla pena di morte), tener conto dei sentimenti dell’opinione pubblica. Allo stesso modo il nostro povero Giuseppi, partito lancia in resta con i provvedimenti d’urgenza, si è presto reso conto che le misure impositive prese ai fini del contenimento dell’epidemia devono pur tener conto della realtà di un Paese, di un’economia e di una società che deve poter operare al netto di ogni sfoggio di potere sovrano. Agamben non se ne è accorto, ma un minuto dopo il decreto legge che lo ha tanto preoccupato, il presidente del Consiglio si è visto tirato dall’altra parte: riapriamo le scuole, riapriamo gli stadi, riapriamo pure i bar a tarda sera. Lo stato d’eccezione piace poco, evidentemente, e il premier tutta questa forza sovrana per proseguire con le gravi limitazioni della libertà non ce l’ha. Ora, non sta a me mettere ordine nelle decisioni assunte in queste settimane: non è facile. Ma se uno si prendesse la briga di farne la cronologia, di seguirle passo passo, si renderebbe facilmente conto che di tutto s’è trattato meno che dell’esercizio di un potere sovrano incondizionato. Se non altro perché di presidenti se ne sono visti all’opera parecchi, e per un premier che decideva in un modo, c’è sempre stato un governatore che decideva in un altro. Stiamo attenti, anzi: che non sia proprio la scarsa dimestichezza con la decisione politica del presidente Conte (mi sia consentito l’eufemismo) a non far venire la voglia di ben altri polsi assai più fermi, o almeno più coerenti. Perché diciamo la verità: non è che la gente si sia fatta prendere dal panico, come dice Alessandro Dal Lago sul Foglio. È peggio: è il decisore politico che non si è raccapezzato (altro eufemismo). E, certo, è difficile pretendere dai cittadini un maggior self control di quello che han dimostrato in questi giorni certi politici. Penso a Fontana: ma è mai possibile che in Lombardia chiuda tutto quello che si può chiudere, avendo dichiarato però che si tratta di «poco più di una normale influenza»? E che dire della sceneggiata della mascherina, che prima ce l’ha, poi se la mette ma se la mette male, poi se la toglie, poi chissà? Sappiamo molte cose, oggi, sui bias di conferma, su come circola l’opinione in Rete e come si rafforza a prescindere dalla realtà, grazie alla circolazione delle fake news. Eccetera eccetera. Dopodiché prima di dire “la gente”, diciamo pure “i politici” che han giocato irresponsabilmente a fare i primi della classe, “gli scienziati” che si son dati sulla voce, rimbeccandosi l’un l’altro, e “i media” che bombardano ventiquattrore su ventiquattro, infine “la gente”. Ma appunto: solo alla fine, e a parecchie lunghezze di distanza
Il percorso cronologico, ovviamente concentrato solo su alcuni passaggi, con il quale stiamo seguendo l’evoluzione del dibattito sulla relazione tra epidemia coronavirus, “il fatto eccezionale”, e introduzione di elementi di “stato d’eccezione”, progressivamente si è spostato sul ruolo fondamentale del terzo aspetto che componeva la correlazione presentata da Agamben evidenziata in precedenza: la paura collettiva. Vale a dire che lo stato d’eccezione non richiede il ricorso a forme violente di applicazione, le quali chiamerebbero apertamente in causa un vero e proprio regime dittatoriale, ma poggia su  una qual forma di consenso, di approvazione, che possono essere strumentalmente ottenute accentuando la paura collettiva inevitabilmente provocata dalla eccezionalità del fatto da affrontare. Agamben, ridimensionati almeno in parte i dubbi sulla reale consistenza dell’epidemia e constatata la diffusione planetaria dei provvedimenti restrittivi, sposta, in un successivo articolo, la sua attenzione proprio su questo aspetto: il ruolo della paura……
Chiarimenti
Articolo di Giorgio Agamben del 17 Marzo - sito online "Quodlibet" 
Un giornalista italiano si è applicato, secondo il buon uso della sua professione, a distorcere e falsificare le mie considerazioni sulla confusione etica in cui l’epidemia sta gettando il paese, in cui non si ha più riguardo nemmeno per i morti. Così come non mette conto di citare il suo nome, così nemmeno vale la pena di rettificare le scontate manipolazioni. Chi vuole può leggere il mio testo Contagio sul sito della casa editrice Quodlibet. Piuttosto pubblico qui delle altre riflessioni, che, malgrado la loro chiarezza, saranno presumibilmente anch’esse falsificate. La paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che si fingeva di non vedere. La prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Gli altri esseri umani, come nella pestilenza descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come possibili untori che occorre a ogni costo evitare e da cui bisogna tenersi alla distanza almeno di un metro. I morti – i nostri morti – non hanno diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri delle persone che ci sono care. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza? L’altra cosa, non meno inquietante della prima, che l’epidemia fa apparire con chiarezza è che lo stato di eccezione, a cui i governi ci hanno abituati da tempo, è veramente diventato la condizione normale. Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato di emergenza come quello attuale, che ci impedisce perfino di muoverci. Gli uomini si sono così abituati a vivere in condizioni di crisi perenne e di perenne emergenza che non sembrano accorgersi che la loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica e ha perso ogni dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva. Una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza. Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi. Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo. Così come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare: che si chiudano le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line, che si smetta una buona volta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.
Anche questo successivo intervento di Agamben mette in luce che la comprensione, il dibattito, attorno allo stato d’eccezione non possono esaurirsi nella condivisione o meno del modello teorico di gestione del potere ad esso connesso, ovvero, passando al piano della prassi, se in qualche modo sia davvero divenuto il paradigma della democrazia al tempo della globalizzazione, ma devono aprirsi ad uno sguardo più ampio che fa entrare in scena i rapporti sociali ed umani, il ruolo della filosofia e della scienza, il rapporto con natura ed ambiente. In questo senso ci è sembrato interessante l’articolo che Mario Farina (giovane filosofo, ricercatore presso l’Università degli Studi di Firenze) ha pubblicato in risposta al precedente intervento di Agamben…………..
Su Agamben e il contagio
Il ruolo della filosofia e la comune umanità
Articolo di Mario Farina del 20 Marzo - sito online "Le parole e le cose"
Ha destato un discreto sgomento, almeno nel piccolo mondo della filosofia, la reazione di Giorgio Agamben alla particolare situazione sociale e politica nella quale l’emergenza sanitaria, ormai globale, ha gettato il paese. È probabile che il lettore anche distratto di Agamben avrebbe potuto anticipare con un certo agio quale sarebbe stata la sua posizione. Come in uno sketch da avanspettacolo, se ci avessero chiesto di imitare a bocce ferme un ipotetico Agamben che commenta un’ipotetica quarantena imposta per decreto avremmo tutti sciorinato un credibile repertorio di stati d’eccezione, cittadinanze coatte e corpi sottratti alla socialità. Ma la realtà, si sa, si diverte sempre a umiliare l’immaginazione e allora il vero Giorgio Agamben non solo ha confermato tutto il suo repertorio, ma si è spinto a battibeccare con le sacrosante critiche piovuto un po’ da ogni dove (la nuvola più alta è senz’altro quella di Nancy, mentre la più volgare ha la firma di Flores d’Arcais). L’ultimo post del suo blog, pubblicato in data 17 marzo e ineffabilmente intitolato Chiarimenti (ineffabilmente perché anziché chiarire si limita a ribadire), contiene a mio modo di vedere la più grossolana tra le sviste del più tradotto filosofo italiano vivente. «È evidente» scrive Agamben «che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa». C’è una capziosa viziosità nel ragionamento di Agamben, che non tiene conto di come, ad esempio, il sacrificio di «praticamente tutto» sia fatto non semplicemente per salvaguardare la propria vita, ma specialmente per proteggere quella degli altri. Ma non è questo il punto. Il punto è piuttosto la profonda e lacerante solidarietà che una certa corrente di pensiero, autonomo e libertario, ha finito per mostrare con le tendenze più estreme, e violente, del liberismo economico. Perché quella «nuda vita» che secondo Agamben dovremmo essere capaci di disprezzare – traduzione tendenziosa e retorica del benjaminiano «bloße Leben», più prosaicamente rendibile con «mera vita» – non è altro che il benessere minimo del nostro corpo, base essenziale e irrinunciabile sulla quale si edifica quella comune umanità che sola, universalizzata, può essere fonte dell’eguaglianza tra gli uomini. D’atro canto, il «praticamente tutto» che agli occhi di Agamben, colpevolmente, l’Italia sacrifica sull’altare della vita corrisponde – probabilmente con una gaffe non voluta – ai «rapporti sociali», che Agamben dovrebbe ben saper essere sempre storici e vigenti. Vengono allora in mente i balli pubblici fatti dai sostenitori di Bolsonaro quando hanno dato manforte al loro presidente per denunciare il complotto internazionale sulla pandemia, oppure le prime posizioni assunte dai più volubili Trump e Boris Johnson, che hanno pensato di salvare la produzione economica – sì, esatto, «i rapporti sociali» – sull’altare della vita e del benessere pubblico, vale a dire sull’altare della comune umanità, lasciando indietro i deboli esclusi dalla comunità dei liberi. Lette in questo contesto, le parole di Agamben assumono un significato decisamente più comprensibile. Sarebbe un errore intenderle come frutto di una radicalizzazione, magari lodevole ma a oggi sconveniente, di un principio di libertà individuale. Corrispondono piuttosto a una difesa di quel «praticamente tutto» che non intende sacrificare: la propria posizione all’interno dei rapporti sociali vigenti come individuo proprietario, come persona sociale che gode di affetti e di tutto ciò che la società mette a sua disposizione. Questo individuo proprietario, la cui individuale umanità è pienamente realizzata, non è disposto a sacrificare la propria posizione per la difesa della vita, vale a dire ciò su cui solo può essere edificata e realizzata quella comune e universale.

Mi è capitato di leggere parole di sconforto di fronte alle esternazioni di Agamben. Già la filosofia naviga in pessime acque, si dice, se in più facciamo questo genere di figure, è difficile rivendicare una posizione nel dibattito pubblico. Capisco, ma di nuovo, non credo sia questo punto. Quello che stiamo vivendo in relazione alla pandemia di coronavirus (a proposito, Agamben da che mi risulta è l’unico a chiamarlo «il virus corona», come fosse in nome proprio) non è quasi nemmeno il tempo della scienza. È piuttosto il tempo della pratica, della tecnica della medicina d’assalto che prova a mettere una pezza a un mondo che sembra essersi rotto male. E questo è un fatto di cui la filosofia deve prendere atto. Viene comodo in proposito chiamare in causa Hegel, o meglio l’atteggiamento che Johann Friedrich Herbart, per altri versi suo nemico, riconosceva in Hegel lodandone la peculiare forma di empirismo: l’umiltà di accogliere i dati del dibattito scientifico per quello che erano, senza la pretesa di insegnare alla scienza il suo mestiere. Per ragioni che sfuggono alle sue intenzioni, Agamben ha fatto un buon servizio al pensiero filosofico. La crisi sanitaria che stiamo vivendo mostra nettamente una tendenza chiarificatrice, che è quella di estremizzare e rendere visibili le storture sociali. Mentre io lavoro in mondo smart dal salotto di casa, miei coetanei rischiano il contagio, costretti a lavorare spesso per pochi soldi. Le distinzioni sociali diventano evidenti, chiare e plastiche. E così lo diventano anche le tendenze sottese ai pensieri che le interpretano. Evidenza che forse mancava poco più di un anno fa quando, sempre sul suo blog ospitato dalla casa editrice Quodlibet, Giorgio Agamben prendeva le distanze dalla petizione pubblica in favore della legge sullo ius soli. «La patria», scriveva citando Francesco Nappo, «sarà quando tutti saremo stranieri», cioè quando saremo tutti sottratti a uno ius e non sottomessi a esso. Ma lo ius di cui si parlava in quel caso, e oggi lo si vede chiaramente, non era un’arma di aggressione, ma uno strumento di protezione della libertà e dei diritti di donne e uomini che ne erano privati. Di fronte a una crisi umana e sanitaria come quella che stiamo vivendo la filosofia può allora conservare un compito. E questo compito è quello di assumere i dati che le arrivano e contribuire a fare chiarezza. Richiamando ancora Hegel, è la nottola di Minerva che deve farle da guida. A modo loro, anche le parole di Agamben hanno contribuito a fare chiarezza. Nella loro fossilizzazione su schemi di pensiero consolidati, sono state in grado di mostrare i limiti dei quali soffre, oggi, una corrente di pensiero che dalla seconda metà degli anni Settanta ha preteso di porre al centro del proprio progetto l’autonomia dell’individuo, assolutizzandolo. Appare chiaro, oggi, che il diritto e i decreti, e con essi lo stato, non sono per forza una limitazione della libertà individuale. A volte, come in questo momento, possono essere strumento di protezione e realizzazione della sua libertà. A patto, certo, di avere come obiettivo non un’astratta idea della propria individuale libertà di proprietario, ma la diffusione dell’uguaglianza tra gli uomini come universalizzazione della comune umanità.
Su questo stesso piano, con una maggiore attenzione alle ricadute politiche, si muove l’ultimo contributo che pubblichiamo in questo post. Raccoglie le brevi, ma dense, risposte date da due filosofi: Laura Boella (professore ordinario di filosofia morale presso l'Università degli Studi di Milano) e Roberto Escobar. (professore di Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Milano), intervistati dal giornalista  Raffaele Liguori nella trasmissione Memos di Radio Popolare.............
Laura Boella. Condivido il primo punto di Agamben sulla frequenza di questi stati di emergenza. A partire dall’11 settembre 2001 sappiamo benissimo che, dopo ogni attentato terroristico, quando uno va in metropolitana si chiede “succederà anche a me?”. Si vive in una quasi spontanea auto-limitazione dei propri movimenti e delle proprie libertà.
Sul secondo punto vorrei ragionare di più. Dice che “abbiamo bisogno di ripetuti stati di paura” e che questo verrebbe soddisfatto dalle restrizioni imposte dalle autorità. Sul fatto che ne abbiamo bisogno sono molto dubbiosa. Direi invece che viviamo in una condizione di incertezza, di frustrazione e di impotenza rispetto ad un Mondo fuori controllo. Oggi stiamo parlando di una epidemia, però parliamo anche della crisi climatica. Anche rispetto alla crisi climatica tutti noi ci sentiamo impotenti e sentiamo questo aspetto fuori controllo, ma anche legato ad una difficoltà dell’avere un’esperienza innanzitutto percettiva, in prima persona. Molti fenomeni del riscaldamento globale non li sentiamo o non li annusiamo. E questo particolarmente difficile il rapporto tra le nostre vite e la limitatezza della nostra esperienza con quei processi che ci vengono proposti come processi che ci passano sopra la testa e rispetto ai quali non possiamo fare niente. Dobbiamo renderci conto che la paura è un’emozione arcaica che nel corso dell’evoluzione si è rivelata molto utile per difenderci da pericoli immediati e dalle minacce che vengono dal mondo esterno. Come tale, però, ha un effetto di paraocchi e di restrizione della nostra esperienza.
Roberto Escobar. Io parlerei di politica. Quello che Agamben chiama “il bisogno di paura” non è che il modello politico che negli ultimi 20 anni sta trionfando. Se dimentichiamo la politica non capiamo più niente. on è che io abbia bisogno di paura, è che io negli ultimi 20 anni sono stato abituato ad affrontare ogni questione complessa mediante lo strumento semplificatore della paura. Ci sono degli imprenditori della paura che trovano più efficiente e più efficace raccogliere consenso indicando paure e indicando colpevoli. È più semplice e più facile convincere la gente che i problemi non sono complessi, che basta far fuori qualcuno o bloccare diffusori di virus e tutto viene risolto. Quanto allo stato d’eccezione, per me semplicemente si tratta di un cambio quasi epocale di modello politico. La paura non è un sentimento, ma un atteggiamento fondamentale. Senza paura non saremmo qui come specie umana. La politica trasforma la paura in decisione, trasforma il pericolo in rischio. Il coronavirus è per sé un pericolo e può fare paura, ma diventa un rischio quando la politica interviene e stabilisce comportamenti ragionevoli. Quando la politica non c’è, questo passaggio salta e il risultato è il panico.
Laura Boella. Bisogna tenere conto che siamo esseri umani ed è perfettamente comprensibile che l’irruzione improvvisa di un fenomeno che in questo momento è difficilmente inquadrabile, anche scientificamente, è impossibile che non sconvolga le nostre abitudini e le pseudo-certezze con le quali noi pensiamo di garantirci dall’incertezza e dall’ignoto del mondo in cui viviamo. Io citerei Spinoza, che raccomandava di non ridere, non piangere, ma comprendere. Al posto di contrapporre ragione a emozione, io parlerei di sforzo di capire: dobbiamo sforzarci di controllare, per quanto possibile, le nostre risposte emotive e passare un altro piano, che vuol dire innanzitutto cercare di capire qualcosa di molto complicato. Mentre la paura è un istinto molto arcaico, noi ci troviamo di fronte a qualcosa che ci chiama alla complessità della possibilità della medicina, del fare un vaccino. Questioni che necessitano di attività intellettuali specialistiche. Siamo proprio in una combinazione di passato arcaico della specie e di radicamento in un mondo contemporaneo estremamente complesso, il passaggio di piano vuole innanzitutto dire uscire dall’autoreferenzialità. Credo che le persone siano fondamentalmente preoccupate della sopravvivenza, che è una forma di impoverimento dell’esperienza: di fronte agli scaffali vuoti dei supermercati, Beppe Sala ha giustamente detto “occupiamoci di più dei nostri anziani”. Questo è un vero passaggio di piano: uscire da questo istinto angosciato per la propria sopravvivenza e spostarsi verso un evento che coinvolge altre persone.
C’è una questione di empatia che andrebbe posta per spostare questo piano.
Laura Boella. Certo, nel momento in cui uno apre questa esperienza anche alle relazioni con gli altri, ecco che qui il cinese non sarà soltanto l’untore, la persona che tossisce non sarà solo quella da cui devo allontanarmi. Ma io inizierò a vedere che il problema non riguarda soltanto me e la mia famiglia, ma riguarda anche il mio prossimo.
Su che altro piano ci si può posizionare per uscire da quella stretta del panico?
Roberto Escobar. La vera questione è più ampia e meno individuale. Konrad Lorenz parla della schiera anonima, quei branchi di pesce azzurro che sta insieme a palla, ma appena uno fa qualcosa perché intuisce un pericolo, tutti vanno in quella direzione. Questa schiera anonima manca di strutturazione sociale complessa. La dimensione nella quale noi oggi comunichiamo prevalentemente manca di strutturazione sociale complessa. Ci sono i titoli di giornali che non hanno dietro alcuna responsabilità politica e giornalistica, ma soprattutto c’è questa dimensione informe a cui tutti ogni giorno ci rivolgiamo che si chiama social network. Nei social network non si può arrivare ad alcuna considerazione di tipo ragionevole, perché ognuno di noi è un pesce azzurro dentro un branco che non ha comunicazione vera, se non emotiva. Questo è il disastro. Siamo in balìa di pesci grossi che ci dicono che dobbiamo avere paura del coronavirus e li seguiamo perché siamo esposti ad una comunicazione strutturata.
Sullo stato d’eccezione, su come ridare alla democrazia reale capacità di rappresentanza e di soluzione dei problemi di certo, non mancheranno occasioni per discutere ed approfondire, chiudiamo per intanto  questa “Parola del mese” facendo nostre le ultime frasi dell’articolo di Piero Ignazi che abbiamo pubblicato pochi giorni fa………………
L'eccezionalità del momento è presente a tutti, e ciascuno deve fare il possibile per evitare che il contagio si diffonda. Allo stesso tempo, però, va ribadito che questa situazione deve essere limitata nel tempo e non prorogabile, qualunque cosa succeda, in quanto intacca i diritti inalienabili della persona. Il coprifuoco che ci è imposto, perché di questo si tratta, va messo tra parentesi come evento irripetibile, proprio per evitare che si radichi l'idea di uno Stato che possa limitare la vita democratica per "interessi generali". La debolezza della cultura liberale di questo Paese e il ricordo del passato regime inducono a molta cautela quando si toccano i diritti. A maggior ragione oggi, quando forze politiche culturalmente estranee a quella tradizione riscuotono ampi consensi. (nell’articolo viene fatto chiaro riferimento alla Lega di Salvini e a Fratelli d’Italia)

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