La Fase Due, tanto
attesa e sospirata, sembra davvero avvicinarsi. Sono molte le indiscrezioni
sulle modalità che la caratterizzeranno, ma su non poche non mancano fin da ora
perplessità e critiche. Fra le anticipazioni più controverse molto spazio sta avendo
quella che riguarda il mantenimento, sembra per tempi lunghi, di pesanti
restrizioni per gli over settanta, la fascia di età che ha già pagato il prezzo
più alto e che quindi ancora si configura come quella più fragile ed esposta.
Una scelta, se confermata, che presta il fianco persino a dubbi di
costituzionalità e che, al di là della specifica valenza epidemiologica, è
rivelatrice di concezioni sociali quantomeno molto discutibili. Il seguente
articolo di forte critica offre al riguardo importanti elementi di riflessione ……….
Anziani, fragili e
liberi
Articolo di Maria
Luisa Boccia (docente
di Filosofia Politica presso l’Università di Siena, nipote di Petro Ingrao, è
stata parlamentare prima per il PCI e poi per Rifondazione Comunista)
e di Grazia Zuffa (psicologa, docente universitaria, membro del Comitato
per la bioetica, parlamentare prima per il PCI poi per per il PDS) - Il Manifesto – 19 Aprile
Gli/le anziani/e sono sempre più al centro
del discorso sulla pandemia. Dal numero elevato di morti solitarie, senza gesti
e parole di conforto e accompagnamento, alle file delle bare, alle molte
espressioni di ricordo, tra le prime del Presidente Mattarella, tra le più
recenti, di Papa Francesco. Si rende omaggio alle generazioni dei “nonni”,
formate dalla guerra e dalla ricostruzione. Memoria per il futuro. Questa cura della memoria
contrasta però con l’incuria delle vite. Con “la strage dei nonni”, consumata
nelle Rsa, con le tante, troppe, morti, neppure ricordate nei numeri, perché
sono avvenute nelle case, senza diagnosi. E contrasta con la realistica
ammissione che l’età è un requisito negativo, nella decisione su chi attaccare
al respiratore. “Già ora siamo costretti a scegliere chi curare.”, scrive
Giuseppe Gristina, in una lettera al presidente della Fnomceo, per ribadire le
ragioni della SIAARTI (la Società degli anestesisti e rianimatori)
nell’adottare “Raccomandazioni di etica clinica”, per l’ammissione o
sospensione dei trattamenti intensivi, nella drammatica emergenza della pandemia.
Le decisioni sono prese
“in pieno accordo con i familiari” precisa Gristina, ed hanno lo scopo di
sostenere chi è “in prima linea”, alleggerendo la responsabilità personale, con
l’individuazione di criteri obiettivi di “giustizia redistributiva e appropriata
allocazione di risorse”. Questione complessa, questa del rapporto tra salute
individuale e salute pubblica (fra il diritto di ciascuno a essere curato nel
migliore dei modi possibili e la finalità di salute pubblica di assicurare la
migliore tutela al maggior numero di persone); fra responsabilità personale e
l’individuazione di criteri obiettivi, generali, presunti equi. Ed è vero che
non riguarda solo l’emergenza, ma la normalità. Ridotta, se non risolta, la
carenza dei posti di terapia intensiva, è passata in secondo piano anche la
valutazione, non secondaria, su quale organismo possa fornire criteri bioetici
per decisioni così dirimenti. Resta
il fatto che la questione è emersa. Chi è anziano ha minori
aspettative di vita, sia come guarigione, sia come tempo guadagnato. Nel
bilanciamento costi/benefici, la sua vita vale meno della sua morte. Detta così
è dura, ma è coerente con il principio di “appropriata allocazione delle
risorse”. E aiuta a svelare quanto sia retorica la commemorazione collettiva
dei “nostri” nonni. Se stiamo ai fatti, la pandemia ha prima messo a nudo le
carenze di una sanità, basata sugli ospedali, gestiti come aziende anche se
pubblici, deprivate di attrezzature, a cominciare dalle più semplici ed
indispensabili, con personale sanitario insufficiente e sottopagato. Dopo, ha
spalancato le porte delle Case di Assistenza per anziani, abbandonate a se
stesse, in tutto e per tutto. Senza criteri minimi di sicurezza e neanche di
ragionevolezza: se è vero che in alcune Rsa sono stati trasferiti pazienti
contagiati dagli ospedali. Al momento non sappiamo se ci sono responsabilità
penali. Ma pesano molto di più quelle politiche. E non possono essere
accertate, né tantomeno assolte, dalla magistratura. L’intero sistema sociosanitario
si è dimostrato inadeguato e distorto. Invece di garantire la cura, in
prossimità e costanza, muovendosi cioè verso chi ne ha bisogno, potenziando i
servizi nel territorio, si è andati in direzione contraria. Con il risultato di
fare dei luoghi di cura e assistenza una sorta di sistema concentrazionario,
divenuto il focolaio ideale per il contagio. Preso nelle maglie di questa
rete l’anziano/a è diventato/a simbolo della vulnerabilità umana. Quei
vulnerabili intesi come “gruppo a parte”, distinti e distanziati dagli “altri”.
Come se ognuno/a di noi non fosse diversamente vulnerabile; esposto/a al
rischio e portatore, a sua volta, di rischio per altri. L’anziano/a vulnerabile
non è solo la vittima predestinata, già uno stigma pesante. E’ anche il
pericolo pubblico da scongiurare, perché a maggior rischio degli “altri”, di
ammalarsi gravemente e di pesare sull’assistenza ospedaliera. Ed è perciò
oggetto di un “programma particolare”, di percorsi specifici nell’ auspicata
“riapertura” del paese alla vita. Quando cioè gli/le altri/e torneranno ad
animare gli spazi pubblici, dalle strade ai luoghi di lavoro, ancor più
bisognerà proteggere gli/ le anziani/e dal contagio. “Mettendoli/e al riparo
anche dall’isolamento e dall’afa”. Così Sandra Zampa, sottosegretaria al Ministero
della salute, riassume sul Corriere della sera (14 aprile) le linee guida per
la fase 2 della terza età. Prima di lei Ursula von der Leyden aveva ipotizzato
il prolungarsi dell’obbligo di restare a casa fino a dicembre, forse oltre. La protezione è il fine, l’obbligo normativo è il mezzo. Come
se la casa fosse davvero un rifugio, e non un altro potenziale focolaio del
contagio. Soprattutto quando gli/le altri/e che vi abitano torneranno a
muoversi, affollandosi nelle strade, nei treni e autobus, nelle fabbriche e
negli uffici, nelle scuole, nei centri commerciali. C’è una parte consistente
di anziani/e che vive solo/a, o in coppia. Ma sono numerosi i nuclei familiari
di genitori e figli/, ed anche con nonni/e. Abbiamo forse dimenticato le tante
inchieste sui figli e le figlie che vivono in famiglia, dopo i 30 anni? Con
genitori anziani, considerato l’innalzarsi dell’età in cui si fanno. La verità è che la casa non sarà più
un rifugio per chi è
una risorsa economica, da rimettere all’opera nella produzione e nel consumo. I
pensionati e le pensionate sono tanti/e, nonostante l’innalzamento dell’età
pensionabile. Ci sono anche i lavoratori e le lavoratrici in età avanzata, che
sono però sfavoriti/e rispetto ai più giovani. Più vulnerabili, meno
produttivi. Dall’ imperativo
“non contare gli anni”, vivi come se tu fossi diversamente
giovane, siamo precipitati nel pozzo della segregazione. Del resto, non è la
prima volta che la vulnerabilità giustifica la sorveglianza e la restrizione di
spazi di vita. Da sempre, alla reclusione e alla vigilanza sono stati
sottoposti i soggetti fragili; considerati un rischio per l’ordine sociale,
presi come segmenti di popolazione a vario titolo “disabili”, sui quali
sperimentare i dispositivi del bio-potere, combinando presa in carico e
disciplinamento. Sempre in ragione dell’interesse e benessere collettivo. Per
la prima volta l’esperimento coinvolge una generazione, senza distinzioni di
classe, di sesso, di appartenenza a un territorio. Almeno in apparenza. Dietro
lo stesso divieto, la realtà delle disuguaglianze continua a determinare le
vite. Ma il
nascondimento più profondo è un altro. Quello di fare del
potenziale contagiato l’untore, il pericolo per la salute pubblica.
Trasgressori e trasgressive saranno additati/e alla riprovazione collettiva:
minacciati/e, denunciati/e, multati/e da solerti funzionari di Stato. Succede
già. E’ possibile, ed auspicabile, che un programma di protezione, basato sulla
reclusione, sollevi dubbi e riserve in termini di opportunità ed efficacia. Ma
è grave che la proposta non abbia subito suscitato un coro di rifiuti. Eppure,
si tratta di una violazione di libertà costituzionalmente garantite, non
giustificata dalla necessità di tutelare la salute pubblica. L’intento
dichiarato è infatti quello di tutelare la salute personale, anche contro la
volontà dell’anziano/a. In breve, di “violare la libertà di cittadini adulti,
capaci di scegliere per sé cosa fare e cosa rischiare”, come denuncia Vladimiro
Zagrebelsky (Stampa, 14 aprile). Eppure un’alternativa ci sarebbe: informare
correttamente sui rischi, offrire a chi ne ha bisogno sostegni adeguati. Da tempo proprio nella pratica medica
si è adottato un orientamento opposto, ed il consenso informato è diventato una
condizione preliminare ad ogni trattamento medico. I cittadini/e possono
rifiutare le cure, anche quelle salva-vita, e possono indicare in anticipo la
loro volontà in merito. E la Corte Costituzionale ha aperto all’ipotesi di
poter richiedere il suicidio assistito medicalmente assistito, anche se non è
ancora normato. Di colpo è come se spazzassimo via tutto, tornando alla logica
vecchia della presa in carico da parte del potere, investito della decisione su
vita e morte, salute e sicurezza. Si pretende che lo accettiamo in nome
dell’emergenza? No, fermatevi. Questa soglia non va varcata. Non è un appello,
E’ una dichiarazione di resistenza. Ci opporremo in tutti i modi che troveremo
per farla rispettare.
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