Articolo pubblicato sul quotidiano
“Avvenire” del 07 Aprile – segnalato da Antonietta Fonnesu – il cui
autore Byung-Chul Han (ampiamente citato, con riferimento al saggio
“La società della stanchezza”, nell’articolo di Slavoj Zizek pubblicato nel nostro post del 7 Marzo) affronta, da una angolazione non eurocentrica, le diverse modalità di risposta e gestione della pandemia offrendo al riguardo interessanti informazioni. Questo raffronto gli consente poi considerazioni più univrersali sul rapporto tra controllo sociale e tecnologiie, la "nuda vita", la percezione contemporanea, individuale e collettiva, di minacce e paure, ed il collegato ruolo del sistema capitalistico
La cura al virus è lo Stato di polizia?
Nato a Seul e docente di Filosofia e Studi Culturali
alla Universität der Künste di Berlino, Byung–Chul Han è considerato uno
dei più importanti filosofi contemporanei. Di recente Nottetempo ha pubblicato
la nuova edizione di uno dei suioi saggi più noti, Eros in agonia
Covid–19
è un test di sistema. Pare che l’Asia stia gestendo l’epidemia molto meglio
dell’Europa. A Hong Kong, Taiwan e Singapore ci sono pochissimi contagiati.
Taiwan ne dichiara 215, Hong Kong 386, il Giappone 1.193. In Italia invece si
sono già infettate oltre centomila persone in un arco di tempo molto inferiore.
Anche la Corea del Sud si è lasciata il peggio alle spalle. Idem per il
Giappone. Persino il paese da cui si è originata l’epidemia, la Cina, sta
tenendo la situazione sotto controllo. Né Taiwan né la Corea hanno vietato di
uscire di casa o chiuso negozi e ristoranti. Nel frattempo è iniziato l’esodo
degli asiatici dall’Europa e dagli Stati Uniti. I cinesi e i coreani vogliono
tornare in patria perché là si sentono più sicuri. I prezzi dei voli sono
schizzati alle stelle. È ormai impossibile trovare un biglietto aereo per la
Cina o la Corea del Sud. L’Europa incespica. I numeri dell’infezione
aumentano esponenzialmente. Sembra che l’Europa non riesca a controllare
l’epidemia. In Italia muoiono ogni giorno centinaia di persone. I pazienti più
anziani vengono staccati dai respiratori per aiutare i più giovani. Si osserva
inoltre un vuoto azionismo. La chiusura delle frontiere è ormai un’espressione
disperata di sovranità. È come essere tornati all’epoca della sovranità.
Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Sovrano è chi chiude le
frontiere. Si tratta tuttavia di un vacuo spettacolo di sovranità che non
risolve nulla. Un’intensa collaborazione all’interno della Ue sarebbe molto più
utile della cieca chiusura dei confini. La Ue intanto ha proclamato un divieto
d’ingresso per gli stranieri, gesto completamente insensato visto che nessuno,
al momento, vuole venire in Europa. Sarebbe più logico, semmai, un divieto di
espatrio degli europei per proteggere il mondo dall’Europa, che in questo
preciso momento è il fulcro dell’epidemia.
L’Asia
sotto stretta sorveglianza
Di quali
vantaggi sistemici dispone l’Asia rispetto all’Europa, tali da fare la
differenza nella lotta all’epidemia? Contro il virus, i paesi asiatici fanno
massiccio ricorso alla sorveglianza digitale. Credono cioè di trovare nei Big
Data un enorme potenziale contro l’epidemia. Si potrebbe dire che in Asia le
epidemie non vengono combattute solo da virologi o epidemiologi, ma anche e
soprattutto da informatici e specialisti di Big Data. Un cambio di paradigma
che l’Europa non ha ancora preso in considerazione. I Big Data salvano vite
umane, direbbero a gran voce gli apologeti della sorveglianza digitale. In Asia
la coscienza critica nei confronti della sorveglianza digitale è pressoché
inesistente. Della protezione dei dati non si parla quasi più, persino in paesi
liberali come il Giappone o la Corea del Sud. Nessuno si oppone alla furiosa
raccolta dati da parte delle autorità. La Cina nel frattempo ha introdotto un
sistema di punteggio sociale impensabile per l’europeo medio, che consente una
valutazione a tutto tondo dei cittadini. Ciascun individuo deve essere
coerentemente valutato in base al proprio comportamento sociale. In Cina,
nessun momento della quotidianità passa inosservato. Si controlla ogni clic,
ogni acquisto, ogni contatto, ogni attività sui social. Chi passa col rosso,
chi frequenta persone critiche nei confronti del regime o posta commenti
critici sui social perde punti. E allora la vita può diventare davvero dura.
Chi invece compra cibi sani via internet o legge giornali vicini al partito
conquista punti. Chi dispone di un congruo punteggio ottiene un visto di
viaggio o mutui a condizioni vantaggiose. Chi invece precipita sotto un certo
livello rischia di perdere il lavoro. In Cina questa sorveglianza sociale è
resa possibile da un incessante scambio di dati tra i provider internet e di
servizi mobili e le autorità. In pratica non vi è alcuna protezione dei dati
personali. Il concetto di privacy non rientra nel vocabolario dei cinesi.
In Cina ci sono duecento milioni di videocamere di
sorveglianza, a volte dotate di efficientissimi dispositivi di riconoscimento
facciale che captano persino i nei. Impossibile sfuggirvi. Queste videocamere
animate dall’intelligenza artificiale sono in grado di osservare e valutare
ciascun cittadino nei luoghi pubblici, nei negozi, per le strade, nelle
stazioni e negli aeroporti. L’intera infrastruttura
della sorveglianza digitale si sta ora rivelando molto efficace nell’arginare
l’epidemia. Chi arriva alla stazione ferroviaria di Pechino viene
automaticamente ripreso da una videocamera che misura la temperatura corporea.
E in caso di valori allarmanti vengono informati via cellulare tutti coloro che
hanno condiviso il vagone con quella persona. Del resto il sistema sa benissimo
chi ha viaggiato insieme a chi. Sui social si parla addirittura di droni
impiegati a fini di sorveglianza della quarantena. Chi esce di nascosto viene
intimato da un drone volante di tornare in casa. E magari il robot stampa anche
una multa che svolazza sulla testa del malcapitato, chissà. Una situazione
distopica per gli europei, che tuttavia in Cina non incontra alcuna resistenza. Non solo in Cina ma anche
in altri stati asiatici come la Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan e
il Giappone non vi è alcuna coscienza critica nei confronti della sorveglianza
digitale o dei Big Data. La digitalizzazione è una sorta di ebbrezza
collettiva. C’è anche un motivo culturale. In Asia domina il collettivismo.
Manca uno spiccato individualismo. E l’individualismo si differenzia
dall’egoismo, che ovviamente abbonda anche in Asia. I
Big Data sono in tutta evidenza più efficaci nella lotta al virus rispetto alla
chiusura delle frontiere, ma in Europa, per via della protezione dei dati personali,
un’ana- loga lotta al virus non è praticabile. I
provider cinesi di servizi internet e mobili condividono i dati sensibili dei
clienti con le autorità sanitarie e di pubblica sicurezza. Lo stato sa quindi
dove mi trovo, chi incontro, cosa faccio e dove mi dirigo. In futuro anche la
temperatura corporea, il peso, i valori glicemici ecc. saranno probabilmente
controllati dallo stato. Una biopolitica digitale che va di pari passo con una
psicopolitica digitale, influenzando emozioni e
pensieri. A Wuhan sono state formate migliaia di
squadre di investigazione digitale che si mettono alla ricerca di potenziali
contagiati solo sulla base di dati tecnologici. Solo grazie ai Big Data
scoprono chi sono i potenziali infetti, chi continuare a osservare e chi va
messo in quarantena. Anche in termini epidemiologici, il futuro è nelle mani
della digitalizzazione. Forse dovremmo persino ridefinire la sovranità alla
luce dell’epidemia. Sovrano è chi dispone dei dati. L’Europa fa ancora
affidamento su vecchi modelli di sovranità quando dichiara lo stato di
emergenza o chiude le frontiere. Non solo
in Cina, ma anche in altri stati asiatici vi è un impiego massiccio della
sorveglianza digitale per arginare l’epidemia. In Taiwan o in Corea del Sud lo
stato invia in contemporanea a tutti i cittadini un sms per rintracciare
contatti o informare circa i luoghi e gli edifici frequentati da persone
infette. Taiwan ha tempestivamente incrociato dati di diversa natura per
rintracciare i contagiati sulla base degli spostamenti. In Corea, chi si
avvicina a un edificio in cui si è trattenuta una persona contagiata riceve un
avvertimento tramite una “corona app” che registra tutti i luoghi visitati
dagli infetti. Si fa poco caso alla protezione dei dati o alla privacy. In
Corea del Sud le videocamere di sorveglianza sono installate in ogni edificio,
a ogni piano, in ciascun ufficio o negozio. È praticamente impossibile muoversi
in pubblico senza essere captati da una videocamera. Questo, insieme ai dati
del telefonino, consente la ricostruzione integrale degli spostamenti di una
persona contagiata. Dettagli che sono anche resi pubblici – con buona pace
delle relazioni clandestine.
La
risurrezione del nemico
Il
panico nei confronti dell’epidemia di Covid–19 è smisurato. Nemmeno la spagnola,
dalla letalità molto superiore, ebbe conseguenze così devastanti sull’economia.
Qual è il motivo? Come mai il mondo reagisce così a un virus? Tutti parlano di
guerra, di un nemico invisibile da sconfiggere. Abbiamo forse a che fare col
RITORNO DEL NEMICO? L’influenza spagnola scoppiò durante la Prima guerra
mondiale. A suo tempo erano tutti circondati da nemici. Nessuno avrebbe
paragonato l’epidemia a una guerra o a un nemico. Ma oggi viviamo in una
società molto diversa. Abbiamo
vissuto a lungo senza un nemico. La Guerra Fredda è finita da un pezzo. Anche
il terrorismo islamico è grossomodo scomparso all’orizzonte. Esattamente dieci
anni fa, col saggio La società della stanchezza,
ho sostenuto questa tesi: viviamo in un’epoca in cui non vale
più il paradigma immunologico che scaturisce dalla negatività del nemico. La
società organizzata in chiave immunologica è contraddistinta, come ai tempi
della Guerra Fredda, da confini e steccati che impediscono però la circolazione
accelerata delle merci e del capitale. La globalizzazione abbatte tutte queste
soglie immunologiche allo scopo di spianare la strada al capitale. Anche la
promiscuità, la permissività generalizzata che oggi investe tutti gli ambiti
della vita contribuisce ad abbattere la negatività dell’estraneo o del nemico.
Oggigiorno i pericoli non emanano dalla negatività del nemico, bensì
dall’eccesso di positività che si esprime in forma di sovrapprestazione,
sovrapproduzione e sovracomunicazione. La negatività del nemico non appartiene
alla nostra società sconfinatamente permissiva. La repressione perpetrata dagli
altri cede il passo alla depressione, lo sfruttamento esterno
all’autosfruttamento volontario e all’auto–ottimizzazione. Nella società della
prestazione la guerra la si fa prima di tutto a se stessi. Ora, d’improvviso, il virus irrompe in una società assai indebolita
dal capitalismo globale. In reazione allo spavento, ecco che le soglie
immunologiche vengono di nuovo alzate e si chiudono le frontiere. Il nemico è
di nuovo tra noi. La guerra non la facciamo più con noi stessi, bensì contro un
nemico invisibile che viene da fuori. Il panico sconfinato dinanzi al virus è
una reazione immunitaria sociale, globale a un nuovo nemico. Una reazione
immunitaria di rara intensità poiché abbiamo vissuto molto a lungo in una
società senza nemici, in una società della positività. Ora il virus viene
percepito come terrore permanente. Vi è anche un
ulteriore motivo per questo panico smodato. E ha di nuovo a che vedere con la
digitalizzazione. La digitalizzazione smonta la realtà. La realtà la si
esperisce tramite la resistenza, che può anche far male. La digitalizzazione,
tutta la cultura del mi piace elimina la negatività della resistenza. E
nell’epoca post–fattuale delle fake news o dei deep fake nasce un’apatia nei
confronti della realtà. Ora il virus reale, quindi non informatico, scatena uno
shock. La realtà, la resistenza, torna a farsi sentire nella forma di un virus
ostile. La reazione di panico violenta ed esagerata va ricondotta a questo shock
di realtà.
La
società della sopravvivenza
Il timor
panico dinanzi al virus rispecchia soprattutto la nostra società della
sopravvivenza in cui tutte le energie vengono impiegate per allungare la vita.
La preoccupazione per il viver bene cede il passo all’isteria della
sopravvivenza. La società della sopravvivenza è peraltro avversa al piacere. La
salute rappresenta il valore più alto. L’isteria del divieto di fumare è in fin
dei conti isteria della sopravvivenza. La reazione di panico di fronte al virus
svela questo fondamento esistenziale della nostra società. Se la sopravvivenza
è minacciata, ecco che sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la
vita degna di essere vissuta. La strenua lotta per la sopravvivenza subisce ora
un inasprimento virale. Ci pieghiamo allo stato di eccezione senza opporre
resistenza. La limitazione dei diritti fondamentali viene accettata senza colpo
ferire. L’intera società si trasforma in una quarantena, variante liberale del
lager in cui imperversa la nuda vita. Oggi il campo di lavoro si chiama home
office. È solo l’ideologia della salute e della sopravvivenza a distinguerlo
dai campi di lavoro del passato. Nel corso dell’epidemia virale, la società della
sopravvivenza mostra un volto inumano. L’Altro è prima di tutto un potenziale
portatore di virus da cui bisogna prendere le distanze. Vicinanza e contatto
significano contagio. Il virus aggrava la solitudine e la depressione. I
coreani chiamano “corona blue” la depressione provocata dall’attuale società
della quarantena. Alla lotta per la sopravvivenza va invece contrapposta la
preoccupazione per il viver bene. Altrimenti la vita dopo l’epidemia sarà
ancora più orientata alla sopravvivenza. E allora finiremo per essere come il
virus, questo non morto che si limita a moltiplicarsi, a sopravvivere senza
vivere. La reazione di panico dei mercati finanziari
all’epidemia è inoltre espressione di un terrore che cova già dentro di loro.
Gli estremi fenomeni di rigetto tipici dell’economia globale la rendono molto
vulnerabile. Malgrado il costante aumento degli indici borsistici negli ultimi
anni, la rischiosa politica monetaria delle banche ha prodotto una forma di
panico represso che attende uno sfogo. Il virus è forse solo la goccia che fa
traboccare il vaso. Il panico dei mercati finanziari mette in rilievo, più che
la paura del virus, la paura di se stessi. Il crash avrebbe potuto verificarsi
anche senza virus. Forse il virus è solo l’avvisaglia di un crash ancora più
grande.
Ci
sarà una rivoluzione virale?
Žižek
sostiene che il virus stia assestando un colpo mortale al capitalismo, ed evoca
un oscuro comunismo. Crede persino che il virus condurrà alla caduta del regime
cinese. Žižek si sbaglia. Tutto questo non accadrà. Ora la Cina venderà anche
il proprio stato di polizia digitale come modello di successo nella lotta
all’epidemia. La Cina dimostrerà con rinnovato orgoglio la superiorità del
proprio sistema. Dopo l’epidemia, il capitalismo proseguirà con foga ancora
maggiore. E i turisti continueranno a calpestare a morte il pianeta. Il virus
non rallenta il capitalismo, lo trattiene soltanto. Ci troviamo in uno stato di
sospensione nervosa. Il virus non può sostituire la ragione. Inoltre, è
possibile che in occidente finiremo per beccarci anche lo stato di polizia
digitale su modello cinese. Come ha sostenuto Naomi Klein, lo shock è un
momento propizio per il consolidamento di un nuovo sistema di potere.
Dall’installazione del neoliberismo sono spesso scaturite crisi che hanno
prodotto degli shock. S’è visto in Corea del Sud e in Grecia. Dopo questo shock
virale è auspicabile che l’Europa non metta in piedi un regime di sorveglianza
digitale alla cinese. In quel caso lo stato di eccezione, come teme Giorgio
Agamben, diventerebbe la norma. Il virus riuscirebbe nella missione che il
terrorismo islamico non è riuscito a portare a termine. Il
virus non sconfiggerà il capitalismo. La rivoluzione virale non avrà luogo.
Nessun virus può fare una rivoluzione. Il virus ci isola. Non produce nemmeno
un forte senso di comunità. Ora ognuno è preoccupato per la propria
sopravvivenza. La solidarietà di prendere le distanze gli uni dagli altri non è
solidarietà. Non possiamo lasciare la rivoluzione al virus. Speriamo invece che dopo il virus arrivi
una rivoluzione umana. Tocca a NOI ESSERI UMANI dotati di BUONSENSO
ripensare e limitare drasticamente il capitalismo distruttivo e anche la nostra
devastante mobilità senza confini – per salvare noi stessi, il clima e il
nostro bellissimo pianeta.
(© Byung–Chul Han Traduzione di Simone Buttazzi)
Facciamo quindi
seguito con un secondo articolo che si collega all’appello di Han per una
rivoluzione umana a firma di Edgar Morin, filosofo e sociologo francese, da
molti di noi già ben conosciuto
Un umanesimo rigenerato
Articolo di Edgar Morin – sito online DoppioZero del 01 MarzoCon l'esplosione del Coronavirus siamo assoggettati a un isolamento fisico ma disponiamo di mezzi di comunicazione in parole (telefono), immagini (i video su Whatsapp e sui social, Skype), testi (email) e disponiamo di radio e TV che ci mettono in comunicazione con gli altri e con il mondo; allo stadio attuale, in risposta alla segregazione, ci siamo aperti e siamo diventati più attenti e solidali gli uni con gli altri. La vita di coppia o di famiglia migliora, a parte le coppie infernali. Sono i solitari senza telefono né televisore, e soprattutto i non confinati, vale a dire i senzatetto, a essere le vittime assolute dell'isolamento, tanto più che sono dimenticati dal potere e dai media. Per quanto mi riguarda, pur subendo l'isolamento fisico, mi sono sentito proiettato psichicamente in una comunicazione e una comunione permanenti. Non solo attraverso gli scambi sms, email, telefoni e videochiamate con le mie figlie, i miei familiari, le persone che amo, i miei amici, ma anche attraverso informazioni che non solo ricevo dalla TV ma che continuo a ricercare in numerosi documenti su internet, ovviamente medici ma anche riguardanti tutti gli aspetti della crisi. Mi sono sentito intensamente partecipe, non foss'altro che per lo stesso isolamento, al destino nazionale e al cataclisma planetario. Mi sono sentito più che mai proiettato nell'avventura incerta e sconosciuta della nostra specie. Ho sentito più forte che mai la comunità di destino di tutta l'umanità. Attualmente siamo di fronte a una tripla crisi. La crisi biologica di una pandemia che minaccia indistintamente le nostre vite e supera le capacità ospedaliere, soprattutto là dove le politiche neoliberiste non hanno mai smesso di ridurle. La crisi economica, nata dalle misure di restrizione assunte contro la pandemia che rallentano o arrestano le attività produttive, di lavoro, di trasporto, non potrà che aggravarsi se l'isolamento diventasse durevole. La crisi di civiltà: passiamo bruscamente da una civiltà della mobilità a un obbligo di immobilità. Vivevamo principalmente all'esterno, al lavoro, al ristorante, al cinema, agli incontri, alle feste, ed eccoci costretti alla sedentarietà e all'intimità. Consumavamo sotto l'influenza del consumismo, cioè la dipendenza da prodotti di qualità mediocre e virtù illusorie, l'incitamento all'apparentemente nuovo, alla ricerca del più invece che del meglio. L'isolamento potrebbe costituire un'opportunità di disintossicazione mentale e fisica che ci permetterebbe di selezionare ciò che è importante e rifiutare ciò che è frivolo, superfluo, illusorio. Ciò che importa è naturalmente l'amore, l'amicizia, la solidarietà, la fraternità, la fioritura dell'Io in un Noi. Sotto questo profilo l'isolamento potrebbe suscitare una crisi esistenziale salutare in cui rifletteremmo sul senso delle nostre vite. Queste crisi sono interdipendenti e si alimentano a vicenda. Più si aggrava una, più questa aggrava le altre. Se una diminuisce, essa diminuirà le altre. Così, finché l'epidemia non regredirà, le restrizioni saranno sempre più forti e l'isolamento sarà vissuto sempre di più come un impedimento (di lavorare, di fare sport, di andare alle riunioni e agli spettacoli, di curarsi la sciatica o i denti ecc.). Più profondamente, questa crisi è antropologica: ci rivela il lato debole e vulnerabile della formidabile potenza umana, ci rivela al tempo stesso che l'unificazione tecnoeconomica del globo ha creato non solo un'interdipendenza generalizzata, ma anche una comunità di destino senza solidarietà. Questa crisi molteplice dovrebbe suscitare una crisi del pensiero politico e del pensiero in senso stretto. L'economia che fagocita la politica, l'ideologia neoliberista che fagocita gli aspetti economici, l'intelligenza del calcolo che fagocita l'intelligenza riflessiva, tutto ciò impedisce di concepire gli imperativi complessi che si impongono: combinare la mondializzazione (per tutto ciò che è cooperativo) e la demondializzazione (per salvare i territori desertificati, le autonomie di sussistenza e sanitarie delle nazioni); combinare sviluppo (che comporta quello, positivo, dell'individualismo) e coesione (che è solidarietà e comunità); combinare crescita e decrescita (determinando quel che deve crescere e quel che deve decrescere). La crescita porta in sé la vitalità economica, la decrescita porta in sé la salvezza ecologica e il disinquinamento generalizzato. L'associazione di ciò che sembra contraddittorio è qui logicamente necessaria. Ancora una volta siamo in guerra contro un nemico esterno, ma questo nemico è spalleggiato da un nemico interno dell'homo sapiens/demens, che lo rende incessantemente cieco o delirante. Non vedo come si potrebbe esortare gli spiriti e le intelligenze ad affrontare la complessità dell'umano, della vita, della società, del mondo, senza una riforma dell'educazione e della formazione. Non abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, abbiamo bisogno di un umanesimo rinvigorito e rigenerato. L'umanesimo ha assunto due volti antinomici in Europa. Il primo è quello della quasi divinizzazione dell'umano, destinato a padroneggiare la natura. L'altro umanesimo è stato formulato da Montaigne in una frase: “Riconosco in ogni uomo un mio compatriota”. Bisogna abbandonare il primo e rigenerare il secondo. Innanzitutto la definizione dell'umano non può limitarsi all'idea di individuo. L'umano si definisce con tre termini altrettanto inseparabili l'uno dall'altro di quelli della trinità: l'umano è al tempo stesso un individuo, una parte, un momento della specie umana, e una parte, un momento di una società. È al tempo stesso individuale, biologico, sociale. L'umanesimo non potrebbe ormai ignorare il nostro legame ombelicale con la vita e il nostro legame ombelicale con l'universo. Non potrebbe dimenticare che la natura è in noi così come noi siamo nella natura. Il fondamento intellettuale dell'umanesimo rigenerato è la ragione sensibile e complessa. Non bisogna seguire soltanto l'assioma “Non c'è ragione senza passione, non c'è passione senza ragione”, ma la nostra ragione deve sempre essere sensibile a tutto ciò che riguarda gli esseri umani. L'umanesimo rigenerato si abbevera coscientemente alle fonti dell'etica, presenti in tutte le società umane, che sono la solidarietà e la responsabilità. La solidarietà suscita la responsabilità e la responsabilità suscita la solidarietà. Queste fonti restano presenti, ma in parte prosciugate e inaridite nella nostra civiltà per effetto dell'individualismo, della dominazione del profitto, della burocratizzazione generalizzata. L'umanesimo deve mostrare la necessità di rivitalizzare la solidarietà e la responsabilità. L'umanesimo rigenerato è essenzialmente un umanesimo planetario. L'umanesimo di prima ignorava l'interdipendenza concreta fra tutti gli umani divenuta comunità di destino, creata dalla mondializzazione e che questa accresce continuamente. Poiché l'umanità è minacciata da pericoli mortali (moltiplicazione delle armi nucleari, esplosione di fanatismi e moltiplicazione di guerre civili internazionalizzate, deterioramento accelerato della biosfera, crisi e deregolamentazioni di un'economia dominata da una speculazione finanziaria scatenata), a cui si aggiunge ormai la pandemia virale che aumenta questi pericoli, la vita della specie umana e, inseparabilmente, quella della biosfera, diviene una priorità. Affinché l'umanità possa sopravvivere, essa deve effettuare una metamorfosi. Jaspers aveva detto poco tempo dopo la Seconda guerra mondiale: “Se l'umanità vuole continuare a vivere, deve cambiare”. L'umanesimo, a mio avviso, non è soltanto la coscienza della solidarietà umana, ma anche il sentimento di trovarsi all'interno di un'avventura sconosciuta e incredibile. In questa avventura sconosciuta ciascuno fa parte di un grande essere costituito da sette miliardi di umani, come una cellula fa parte di un corpo fra centinaia di miliardi di altre cellule. Ciascuno partecipa a questo infinito, a questa incompiutezza, a questa realtà così profondamente intessuta di sogno, a questo essere fatto di dolore, di gioia e di incertezza che è in noi così come noi siamo in lui... Ciascuno di noi fa parte di questa avventura inaudita, all'interno dell'avventura a sua volta stupefacente dell'universo. Reca in sé la sua ignoranza, il suo inesplorato, il suo mistero, la sua follia nella sua ragione, la sua incoscienza nella sua coscienza, e ciascuno porta in sé l'ignoranza, l'inesplorato, il mistero, la follia, la ragione dell'avventura più che mai incerta, più che mai terrificante, più che mai esaltante.
Nessun commento:
Posta un commento