Non se ne scappa: gli orizzonti temporali della
pandemia e delle necessarie restrizioni si allungano sempre più in avanti e a tutti
noi non resta che fare di necessità virtù cercando di riempire il meglio
possibile questa clausura, fino a poco tempo addietro inimmaginata, e di non
cadere anche noi, come purtroppo qua e là si inizia a cogliere con i troppi
“dagli all’untore” urlati dai balconi, vittime di insofferenza e nervosismo.
Per le piccole cose di questo blog, ed in particolare per la riflessione che
abbiamo avviato, in senso ampio, attorno allo “stato di eccezione” ci soccorre
il protrarsi dell’acceso dibattito innescato dalla prima presa di posizione sul
tema di Giorgio Agamben riportata nel nostro post della “Parola del mese” di
Aprile. Dedichiamo a questo dibattito un ulteriore contributo che ha, a nostro
avviso al di là delle opinioni espresse, il merito di mettere in ordine la sua
evoluzione e di fissare alcuni punti centrali della discussione. Questa sorta
di punto fermo ci consente quindi di lasciarli sedimentare almeno per un poco e
di volgere lo sguardo verso altre riflessioni. Non ne mancano certo di questi
tempi. Un’ultima avvertenza: l’articolo che presentiamo non è privo di una
certa complessità di esposizione accentuata qua e là da un ricorso a termini
tecnicistici di non comune conoscenza ed utilizzo. Ci siamo permessi per quelli
più ricercati di introdurre una loro sintetica illustrazione
La sfida
del covid19 alle scienze umane:
alcune
piste di riflessione
Articolo
di di Luigi Pellizzoni (docente di sociologia dell’ambiente e del
territorio Università di Pisa) del 29 Marzo –
sito online “Le parole e le cose”
L’emergenza Covid-19 sta mettendo a dura
prova non solo persone e comunità ma anche le scienze e i saperi. In queste circostanze
per chi, come gran parte degli intellettuali afferenti alle scienze umane, non
è (almeno professionalmente) coinvolto in prima linea, il compito è cercare di
riflettere sugli eventi, non tanto in termini di esercizio accademico ma di
orientamento per il presente e per il futuro. A tale scopo è probabilmente poco
utile, se non pernicioso, sia costringere gli eventi entro quadri
interpretativi forgiati su altre questioni che dichiararne l’assoluta novità e
quindi l’impossibilità di andare oltre la cronaca. Più opportuno è procedere in
modo abduttivo, riconsiderando la teoria alla luce delle evidenze empiriche e
viceversa. Si tratta, in altri termini, di individuare il nuovo nel familiare e
il familiare nel nuovo. Tre le tematiche che provo qui sotto a elaborare in
tale prospettiva: a) diagnosi e prognosi
della crisi; b) scienza, expertise e società; c) emergenze di ieri e di oggi.
Inutile aggiungere che si tratta di ragionamenti molto tentativi, poco più che
delle aperture a percorsi di riflessione e ricerca.
Diagnosi e prognosi della crisi
Mi sembra innanzitutto che il dibattito
sviluppatosi, in Italia ma non solo, tenda a polarizzarsi tra due estremi
diagnostici, cui corrispondono opposte polarità prognostiche (ciò che serve per formulare una prognosi o un qualsiasi giudizio): positiva
e negativa, fausta e infausta. C’è chi ragiona in termini di quello che
potremmo chiamare “stato di eccezione eccezionale”, e c’è chi lo fa in termini
di “intensificazione dello stato di eccezione”. Tra i primi troviamo per
esempio Gustavo Zagrebelski, che in
un’intervista pubblicata su Repubblica
del 21 marzo giustifica pienamente le crescenti misure restrittive
adottate dal governo sulla base del carattere straordinario degli eventi. A suo
giudizio esiste in Costituzione una gerarchia dei diritti fondamentali che pone
al vertice la vita e la salute, la cui difesa fa premio su tutto il resto. Ne
consegue che le restrizioni alle libertà conseguenti a un’epidemia o pandemia
non possono essere assimilate a quelle imposte da regimi repressivi come quello
di Pinochet in Cile (ma si potrebbero aggiungere Guantanamo e in generale
qualunque stato di eccezione abbia a fondamento e oggetto questioni politiche).
Vi è insomma, per il giurista, una differenza qualitativa tra questo e altri
stati di eccezione, per comprendere la quale “non c’è bisogno di chissà quale
perspicacia”. Sulla stessa linea si pone Paolo
Flores D’Arcais, che in un intervento pubblicato il 16 marzo su MicroMega,
aspramente critico nei confronti della posizione assunta da Giorgio Agamben,
sposa la tesi della piena giustificazione degli interventi, invocando un
ritorno, o un’intensificazione, dei lumi e un affidamento totale alla
“scienza”, unica portatrice del sapere, ergo del bene comune; ruolo rispetto a
cui la filosofia può al massimo farsi ancella portatrice di spirito critico.
Meno astiosi, ma non meno critici, altri interventi, per esempio quello di Davide Grasso su minima&moralia
del 27 febbraio. Per altri, tuttavia, non vi è nulla che segni
qualitativamente una differenza tra lo stato di eccezione instaurato dalla
reazione all’epidemia e altre manifestazioni dello stato di eccezione. La
differenza è semmai quantitativa, in termini di accelerazione di un processo.
Questa posizione è in primis sostenuta, appunto, da Agamben, a giudizio del quale siamo di fronte a una fase cruciale
di intensificazione o generalizzazione dello stato di eccezione. Sulla stessa
linea si pone Raúl Zibechi, che in
un intervento scritto per la BBC e pubblicato in Italiano sul blog Comune.info del 27 febbraio, sostiene che
l’epidemia offre l’opportunità di una grande esercitazione per l’applicazione
di forme di macro e micro controllo sempre più oppressive, destinate a
caratterizzare l’ordine sociale in via di costituzione, basato sulla potenza
egemone della Cina e delle élite capitaliste. Anche Nadia Urbinati, sia pure con accenti meno drammatici, si iscrive in
questo partito. Intervenendo sull’Huffington
Post del 16 marzo, ella si chiede infatti se la difesa della vita possa
e debba avvenire sacrificando la libertà; se quindi il fine giustifichi
comunque i mezzi e la politica sia destinata a soccombere alla biopolitica, con
i cittadini chiamati a sopportare non solo il peso ma anche la responsabilità
delle scelte, quali i tagli al sistema sanitario nazionale, compiute dai propri
rappresentanti politici. E’ interessante notare che i sostenitori della tesi
“eccezionalista” formulano una prognosi dubitativa ma fondamentalmente fausta.
La sfida è grande, e occorre vigilare affinché le misure eccezionali vengano
riposte nel cassetto una volta terminata l’emergenza, ma l’occasione è propizia
per un ripensamento dell’organizzazione sociale, mostrando i limiti della
celebrazione dell’individuo che accomuna neoliberisti e filosofi “post” e
approfittando della rinnovata socialità, solidarietà e comunanza che
l’emergenza sta elicitando (si veda anche, al riguardo, l’intervento di Massimo De Angelis su Comune.info del 15 marzo, oltre a una pioggia di commenti
usciti sui giornali). Assai più pessimisti appaiono invece i sostenitori della
tesi “intensificazionista”. Dico a questo punto il mio parere: entrambe le
posizioni non centrano il bersaglio. Che vi sia una differenza tra un’epidemia
e la war on terror è intuitivamente evidente, anche nel caso, caro ai
complottisti ma anche alle intelligence, delle epidemie provocate. Su questo ha ragione
Zagrebelski. Che ciò non corrisponda a dire che la
difesa della vita, della sopravvivenza, autorizzi qualsiasi cosa è però
altrettanto intuitivamente evidente. Su questo ha ragione Agamben. Non sono un costituzionalista, ma direi anch’io che
“non c’è bisogno di chissà quale perspicacia” per riconoscere che, se il
diritto alla vita può fare premio su tutti gli altri sul piano individuale (se
non altro perché se uno è morto gli altri diritti gli servono a poco), quando
l’argomento viene spostato sul piano collettivo, di comunità, la questione
cessa di essere strettamente giuridica per diventare anche (bio)politica; non
ha più a che fare solo con il diritto, ma anche con l’eccezione che lo fonda e
lo delimita. Uno stato che comprime tutti i diritti a favore di quello alla
sopravvivenza si avvicina moltissimo a una riedizione biopolitica del Leviatano
(figura biblica usata da Hobbes per
definire il potere) : un sovrano che esercita il proprio dominio non più nel lasciar vivere, ma
nel non lasciar morire. Certo, Zagrebelski e molti altri sottolineano che la
possibilità di misure straordinarie è prevista in Costituzione; saremmo quindi
nella norma e non fuori di essa. Ma è chiaro che è proprio dove la norma
costituzionale indica la possibilità di eccezioni (così come quando indica la
possibilità di una propria modifica) che ci si trova ai margini
dell’ordinamento stesso, alla soglia aperta verso il fuori. Il fatto che la
norma preveda l’eccezione, i limiti della quale non possono però che restare
affidati al potere che la interpreta, conferma la struttura logica
dell’eccezione, simultaneamente esterna e interna all’ordinamento, descritta a
suo tempo da Carl Schmitt. La presenza di un testo scritto occulta l’atto
sovrano dietro il formalismo procedurale. Che non si trascendano, o fino a che
punto si trascendano, i limiti dell’ordinamento dipende, in ultimo, dalla
gravità o eccezionalità della crisi, così come dichiarata da chi decide il
provvedimento. Il che ci rimanda ai caratteri di questa crisi, simultaneamente
familiari e nuovi, o viceversa. C’è in questo senso, a me sembra, un deficit
analitico in entrambe le posizioni sopra tratteggiate. Che non sono ovviamente
le uniche rinvenibili. Alcune, per esempio quelle di Jean-Luc Nancy e Roberto
Esposito uscite sul blog Antinomie
alla fine di febbraio, segnalano in effetti l’opportunità di distinguo
accurati tra tendenze generali ed eventi contingenti. Tuttavia permane la mia
personale insoddisfazione per il modo in cui il dibattito nelle scienze umane –
in cui, almeno scorrendo blog e giornali italiani, brillano ancora una volta i
filosofi a scapito dei sociologi – si sta sviluppando. Da che cosa dipende? Una
maniera per provare a capirlo è riflettere su come, da Agamben ma in generale
dalla letteratura fiorita attorno al paradigma della biopolitica, la partita
tra bios e zoe (due termini greci che
indicano in modo diverso la vita: zoe è la vita animale quella che l’uomo
condivide con tutte le altre forme di vita, bios indica invece la vita umana
così come viene modellata dalle sue scelte, dal modo in cui la viviamo) sia stata
finora giocata quasi tutta dalla parte del bios. Detto altrimenti, il
ruolo assegnato alla zoe è finito per essere analogo a quello dello
stato di natura in Hobbes: un controfattuale utile a ragionare sull’ordine
politico esistente. Detto ancora in altri termini: Agamben e colleghi si
interrogano molto su come il potere produce la nuda vita e ciò cui quest’ultima
corrisponde; assai meno sull’insieme dei processi biofisici che circondano e attraversano
gli umani, il corpo che li costituisce e le azioni che essi compiono, dunque il
potere stesso. Così, quando si parla di antropogenesi (i percorsi biologici che hanno portato dalle altre forme animali all’uomo), si finisce
spesso per riprodurre ciò che viene criticato, per esempio nell’antropologia
filosofica tradizionale: si definisce l’animale a partire dall’uomo, e per
giunta un uomo posizionato storicamente e culturalmente, l’anthropos (uomo in greco) occidentale, con la sua
accentuazione di genere. Ovviamente anche qui ci sono gradazioni: se l’errore
involontario è evidente per esempio in come Sloterdjik definisce il processo di
“domesticazione” dell’uomo, Agamben è ben più sottile e avvertito. Il punto è
però che ciò che realmente interessa a questi autori è esplorare ancora una
volta l’uomo occidentale, non il non-umano o altre declinazioni dell’umano; o
partire dal primo per arrivare agli altri già gravati da un pesante presupposto
metafisico, invece che provare a compiere il processo inverso. In sintesi: c’è
a mio avviso, nel complesso della riflessione che si confronta con il paradigma
della biopolitica, una drammatica carenza di interesse per la natura e per il
rapporto tra umani e non umani, e questa carenza incide altrettanto
drammaticamente sull’interpretazione della crisi. Eppure il Covid-19, non solo
nella sua genesi ma anche nel modo in cui si sta esprimendo nelle aree italiane
più colpite, ci avverte proprio di questo. Non si tratta né di un evento o un
problema “naturale” (come pensano gli “eccezionalisti”, distinguendo questo
stato di eccezione da quelli di matrice politica), né un evento o problema
“sociale” (come pensano gli “intensificazionisti”, assimilando questo ad ogni
altro stato di eccezione), ma qualcosa che esiste e si dispiega
all’intersezione dei due ambiti e per effetto di una reciproca, crescente
“affezione”. Studiosi come il biologo Robert Wallace, con il suo libro Big
Farms Make Big Flu, mostrano la stretta connessione tra industrializzazione
dell’agricoltura e intensificazione dell’estrazione di valore da parte delle
grandi corporations dell’agribusiness da un lato, e sviluppo e
circolazione di agenti patogeni sempre più pericolosi dall’altro. Degli
interventi sopra menzionati solo quello di Nancy (non a caso il più restio ad
abbracciare il paradigma biopolitico) punta in questa direzione. Ed è in effetti
qui, a livello di questa affezione (del Covid-19, come di ogni malattia, si
dice non a caso di esserne affetti), che lo stato di eccezione in corso va
studiato; anche in termini prognostici, dato che la riorganizzazione sociale
innescata da questa crisi non potrà non confrontarsi con l’accoppiamento sempre
più intimo e dinamico (in senso spaziale e scalare) tra sistema sociale e
ecosistema. Ossia il contrario di quanto certa narrazione tecno-capitalista
annuncia (il “disaccoppiamento” tra società e natura pronosticato dagli
ecomodernisti), ma ciò che la sua prassi concretamente persegue e produce (le
biotecnologie, la geoingegneria (nostra Parola del mese di Giugno
2019), i servizi ecosistemici, le megalopoli, le piattaforme logistiche, i big
data). Agamben evoca un tempo in cui il bios coinciderà con la propria zoe;
ma questo tempo è già qui; questa (con)fusione o isomorfismo (corrispondenza, in ambedue i sensi, fra due sistemi, due strutture) è ciò che
il capitalismo esplicitamente insegue e talvolta proclama, come quando i
giganti del biotech affermano che non c’è nessuna differenza tra ciò che si fa
nei loro laboratori e ciò che la natura stessa fa, che la natura è
intrinsecamente tecnica e la tecnica natura, dunque tutto è possibile e
permesso – per far soldi. Per questo la critica di chi, come Luca Illetterati, vede in Agamben
l’incapacità, anche di fronte all’emergenza del Covid-19, di andare oltre
l’astratta distinzione tra nuda vita e vita buona, piena, non solo – a mio
modestissimo avviso – inverte il senso della critica agambeniana, volta non a
ontologizzare (riportare l’esame di un
questione, di un aspetto, alla sua essenza) la
separazione tra bios e zoe ma al contrario a denunciare
quest’ultima come operazione politica, mossa fondamentale di ontological
politics che contraddistingue la storia occidentale, ma non si avvede –
proprio come Agamben – che l’ontological politics con cui ci troviamo
oggi alle prese consiste precisamente nella ricomposizione della frattura, non
però in direzione di una ritrovata armonia ma di una più completa cattura
nell’ordine del capitale. Che nel sostenere la tesi dell’equivalenza ontologica
(ma differenza economica, in termini di produzione di plusvalore: da qui la
legittimazione dei brevetti) tra ambiente e laboratorio, natura e tecnica, le
industrie dell’agri-business e della farmaceutica facciano proprio un tema
sviluppato dai teorici del post-umano, che in ciò vedono sic et simpliciter un’istanza
emancipativa, indica che è proprio il modo in cui si sta producendo un
isomorfismo crescente tra bios e zoe ciò che andrebbe studiato,
non solo per capire le implicazioni di un processo che va in direzione opposta
alla separazione inclusiva del biopotere classico senza perdere, ma anzi
accentuando, la propria capacità dominativa, ma anche per capire se esso
potrebbe essere reindirizzato in una direzione diversa dai circuiti di
valorizzazione del capitale. Qui però emerge anche la carenza di quella parte
del pensiero critico contemporaneo che, al contrario del mainstream
biopolitico, manifesta un genuino interesse per il rapporto tra umano e
non-umano (parte della teoria politica femminista, per esempio, o alcune
correnti in antropologia): l’incapacità di vedere che ciò che poteva risultare
emancipativo nei confronti di un certo capitalismo e ordine politico, la
rivendicazione e la celebrazione anti-dualista (mente/corpo, natura/cultura,
materia/informazione, organico/inorganico, umano/macchinico…), da tempo non lo
è più; perlomeno, non da solo, non in quanto tale.
Scienza, expertise e società
La carenza di interesse per la relazione
tra natura e società che intellettuali di tendenza manifestano è poi al tempo
stesso causa ed effetto del modo in cui essi tendono a rapportarsi con la
“scienza”; in particolare le scienze della vita e i saperi collegati (in primis
le ICT le tecnologie di informazione e
comunicazione). Anche questo non è di poco momento nei confronti dell’emergenza
Covid-19. Ho accennato sopra alla celebrazione dei lumi e della scienza fatta
da Flores d’Arcais. Celebrazione curiosa perché si spinge a proclamare la
propria irrilevanza intellettuale, ma che soprattutto, nel parlare di “scienza”
e “ricerca” (in blocco, senza distinzioni), mostra di trascurare decenni di
studi sulla scienza come impresa sociale, condotti da varie prospettive
disciplinari ma rubricati sotto l’etichetta di STS (science and technology
studies). Studi che non solo lui (a quanto pare) ma molti filosofi, anche
filosofi della scienza (come ho dovuto constatare), ignorano pressoché
completamente e che invece sono utilissimi per analizzare una vicenda come
quella del Covid-19, dato che offrono strumenti per comprendere, fra l’altro,
il rapporto tra scienziati e decisori politici e perché la fiducia pubblica
nella scienza, o meglio negli scienziati (le ricerche mostrano che quelli che
se la prendono con la scienza come istituzione sono una ridotta minoranza), sia
in calo da decenni, nonostante o forse proprio per le loro conquiste
conoscitive e tecniche raggiunte. Affermazioni come quella di Flores d’Arcais,
cui si affiancano innumerevoli richiami all’ordine in termini di “competenza”
contro fake news, post-verità, scienza-fai-da-te, politici
ignoranti, sono inutili e perfino dannose, non solo perché alimentano la giustificazione
di un commissariamento tecnocratico della democrazia in atto da tempo
soprattutto da parte dell’altra expertise (oltre a quella medica) per
definizione biopolitica, ossia quella economica, ma perché rischiano di
sprecare un’occasione preziosa per due operazioni che gli STS hanno promosso da
tempo ma che stentano a penetrare in altri ambiti intellettuali, scientifici e
umanistici, quando non sono accolte con aperta ostilità. La prima operazione è
esplicitare, anziché nascondere, la posizionalità storica e sociale delle
conoscenze, non nel senso della cumulatività di un sapere in grado di
avvicinarci sempre più a una descrizione “vera” delle cose, ma nel senso che le
domande cui si cerca risposta sono domande, e quindi risposte (“verità”), che
sorgono e hanno senso presso collettività storicamente posizionate, in base a
certi modi di concepire individui, comunità, relazioni sociali e tra umani e
non-umani; diciamo pure in base a “interessi”, tanto nel senso restrittivo del
termine che in quello estensivo. Soffermarsi qui sul senso restrittivo sarebbe
scontato, anche se è ovviamente di primaria importanza. Ma il senso estensivo
non lo è di meno. Se autori come George Lakoff hanno da tempo posto l’accento
sul ruolo cruciale delle metafore nella costruzione del sapere, il traffico
concettuale entro e tra discipline scientifiche e umanistiche, con relativo
passaggio da senso metaforico a senso letterale, è attestato da numerosi studi.
I discorsi odierni sull’emergenza in corso ci ricordano che l’immunologia e
l’infettivologia si avvalgono di immagini belliche, riverberandosi a loro volta
su razzismo e sovranismo. Che dire poi del modo in cui la metafora linguistica
(“codice”) applicata alla genetica ha supportato l’avvento delle biotecnologie
(fusione di biologia e ICT) e la loro regolazione in termini di diritti di
proprietà simultaneamente estesi all’informazione e all’oggetto che la
contiene, con conseguente asservimento delle pratiche agricole? Esplicitare la
posizionalità storica e sociale del sapere significa tutt’altro che sostenere
che ogni affermazione vale l’altra, che “tutto va bene”, ma che ciò che “va
bene”, le conoscenze che acquisiamo e le tecniche che vengono messe a punto e
applicate, possono e devono essere oggetto di discussione pubblica perché
racchiudono in sé modelli di società e di futuro. Le diverse “vie nazionali”
alla gestione del Covid-19 si spiegano anche così: alla luce di “culture
epistemiche (relative al “sapere”) ” che
differiscono non solo nel tempo ma anche in base alle culture politiche
nazionali e alle relative specificazioni del legame comunitario, come ha
mostrato, fra gli altri, Sheila Jasanoff. Ancora, dire che la formulazione dei
quesiti di ricerca, dei disegni sperimentali e degli artefatti tecnici non è
indipendente dal contesto socio-culturale in cui gli scienziati si trovano a
formarsi e operare, con il suo bagaglio di valori, interessi, preferenze,
pregiudizi, disuguaglianze e rapporti di potere, non significa indebolire la
scienza, ma rafforzarne il ruolo e la credibilità, ovviamente qualora queste
scelte vengano pubblicamente argomentate e giustificate. Cosa indubbiamente
difficile da fare nel corso di un’emergenza, ma la cui necessità è proprio
quest’ultima a evidenziare. Tanto più quanto più sono in gioco “vita” e
“salute”, ossia cose che Foucault chiamava “indicatori epistemologici”: segni
della forma e dei limiti raggiunti, in un dato contesto storico e sociale, dal
senso attribuito al mondo, agli eventi, alle azioni. La posta in gioco nella
definizione di questi indicatori è cruciale, perché è lì che si stabiliscono (e
possono essere eventualmente discusse e modificate) le modalità di reciproca
affezione tra umano e non-umano di cui il Covid-19 rappresenta una
materializzazione, intimamente legata alla globalizzazione capitalista. La seconda
operazione, strettamente legata alla prima (e su cui, se posso aggiungere una
nota personale, insisto da tempo nei miei lavori e interventi pubblici
ottenendo di solito sguardi perplessi se non irritati da parte di chi si sente
chiamato in causa), è quella di chiarire una volta per tutte la differenza tra scienziato
ed esperto. Può trattarsi, e spesso si tratta, dello stesso
individuo, ma di due ruoli profondamente diversi. Lo scienziato è qualcuno che
ha un controllo su oggetto e domande di indagine; l’esperto è qualcuno chiamato
ad applicare conoscenze e capacità di giudizio a un problema che altri gli
pongono e che spesso non è riconducibile a un campo disciplinare preciso.
L’emergenza del Covid-19 lo mostra in tutta chiarezza. Virologi ed epidemiologi
devono, nel formulare le proprie indicazioni, tenere conto sia di questioni di
propria specifica competenza sia di aspetti economici, sociali, di
organizzazione dei servizi ospedalieri, di ordine pubblico, di disponibilità di
presidi medici come i tamponi, e così via. Il reciproco vale per economisti,
sindacalisti, imprenditori, assessori alla sanità e ai servizi sociali,
ministri, vescovi e via discorrendo: tutti (eventualmente) “esperti” nel
proprio campo, ma nessuno dei quali può vantare “competenza” simultanea
sull’assieme delle problematiche evocate dal Covid-19, pur essendo chiamati a
esprimersi, a dire o fare qualcosa. Da qui oscillazioni e incertezze da parte
di tutti, a cominciare dagli esperti che di professione sono scienziati. La
“politicizzazione della medicina” cui accenna Esposito nell’intervento sopra
citato, non è un fatto nuovo, né riguarda solo la medicina, ma tutti i saperi
scientifici, anche quelli che non hanno direttamente a che fare con l’essere
umano. Semplicemente l’emergenza pone questo fatto in piena evidenza, mostrando
anche a che livello si è giunti. Ma ancora una volta, per gli scienziati
richiesti di indossare il vestito degli esperti, riconoscere incertezze e
oscillazioni di giudizio non significa asserire incompetenza o inutilità della
scienza, bensì chiarire i termini complessi in cui proposte e decisioni vengono
formulate. Soprattutto, negarle serve a poco, in particolare rispetto a ciò per
cui la negazione dovrebbe teoricamente servire: ottenere fiducia e disciplinare
i comportamenti. Le incongruenze nelle linee di condotta sono facilmente
rilevabili dal cittadino medio, che, proprio perché non riconosciute e
spiegate, ne ricava diffidenza e ansia. Lo stesso avviene quando la
manifestazione di sicurezza e la conseguente richiesta di affidamento, viene
seguita, se i risultati deludono, dalla rammemorazione della natura ipotetica e
sperimentale di ogni evidenza scientifica, con relativo scarico di
responsabilità verso il cittadino che avrebbe chiesto certezza quando invece chiedeva
solo chiarezza e onestà. Anche di ciò l’emergenza Covid-19 offre esempi il cui
studio potrà arricchire una letteratura cospicua ma tutt’altro che fissata in
canoni definitivi, e soprattutto misconosciuta fuori dall’ambito degli STS. Gli
errori comunicativi compiuti in queste settimane non sono solo dettati
dall’urgenza (anche se non ci volevano grandi esperti in comunicazione del
rischio per prevedere che l’annuncio delle restrizioni alla mobilità in
Lombardia avrebbe provocato un fuggi-fuggi generale), ma affondano nella
perniciosa assunzione – diffusa presso le comunità scientifiche, anche quelle
che operano più a ridosso delle policy – che il “cittadino” sia o
irrimediabilmente irrazionale, e quindi da dirigere autoritariamente, o
ignorante e quindi da (ri)educare scientificamente, in vista di una sua
entusiastica adesione alle magnifiche sorti dell’innovazione rampante. Coloro
che oggi pensano che il Covid-19 sia una lezione salutare che, per fede o per
studio, volenti o nolenti, riporterà nel recinto della “scienza” e della
“competenza” individui apparsi negli ultimi anni sempre più diffidenti e
riottosi, potrebbero però trovarsi, a emergenza superata, di fronte a un’amara
delusione. Non è con la paura che si (ri)conquista fiducia e legittimazione, ma
andando al fondo delle sue cause che l’emergenza sta facendo affiorare, a
partire dai tagli alla sanità e alla ricerca, le privatizzazioni, le
esternalizzazioni di produzioni non sufficientemente remunerative, le priorità
definite in base a criteri commerciali e la connivenza o l’indifferenza al
riguardo da parte delle comunità scientifiche. Se non si approfitta
dell’occasione per ripensare la relazione scienza-economia-politica ed
esperti-cittadini, il ritorno alla “normalità”, con il graduale oblio della
dedizione a volte eroica di tanti, potrebbe creare pericolosi contraccolpi di
rigetto e rancore. Tutte le cose qui menzionate sono note da tempo (nel caso
dei fenomeni di panico e della sottostima del rischio individuale si tratta per
giunta di uno dei pochi ambiti sociali in cui si possono fare previsioni con
precisione paragonabile a quella delle scienze “esatte”), ma ogni emergenza,
inclusa quella che stiamo vivendo, sembra trarne ben poco beneficio. Il
Covid-19 offre però l’opportunità per ripensarle, ridefinirle, precisarle; cosa
che dipende in parte dal riconoscimento pubblico della loro rilevanza e dalle
risorse che si vorranno investire al riguardo, ma in parte anche dalla misura
in cui le scienze umane, in primis i filosofi, riusciranno a lasciarsi alle
spalle la schizofrenia, tra sublime indifferenza e sudditanza acritica, che
spesso contraddistingue il loro rapporto con la “scienza” e che emerge con
tutta chiarezza nel dibattito sopra accennato.
Emergenze di ieri e di oggi
Il terzo aspetto che voglio brevemente
affrontare riguarda il confronto tra emergenze socio-ambientali di ieri e di
oggi. La domanda che Urbinati, Agamben e altri si pongono non è peregrina:
quale sarà l’eredita di questo stato di eccezione? Vogliamo veramente credere
che, in assenza di una stringente vigilanza pubblica, possibilità come il
tracciamento dei movimenti saranno rimesse nel cassetto? E, più al fondo: può
una società sempre più schiacciata sul valore della pura sopravvivenza (il
Covid-19 giunge buon ultimo dopo decenni di crescente impero dell’economia e
dei “mercati”) rimanere democratica? Può, aggiungo io, spostandomi dall’idea
dell’esclusione inclusiva a quella dell’isomorfismo tra bios e zoe
che sta emergendo nel nuovo ordine mondiale, assumere una qualsiasi forma
diversa dall’incubo? Il problema non è nuovo; anzi, è antico. Comunità di ogni
epoca e latitudine hanno dovuto affrontare carestie, pestilenze e altre
catastrofi che minacciavano di distruggerle. La risposta che sempre è stata
data è creare forme ritualizzate e sistemi di senso capaci di mantenere il
legame sociale nelle condizioni più avverse, evitando che il forte prevalesse
sul debole e che il sacrificio di qualcuno per il bene comune (il vecchio
eschimese che si avvia verso la morte bianca per ridurre il numero delle bocche
da sfamare) si compisse nella solitudine dell’anima. Il tempo odierno, però, è
segnato da un lato dal parossismo di un’ideologia darwinista applicata su scala
individuale e nazionale, ovviamente aporetica (convinta
dell’impossibilità di trovare una soluzione, scettica) poiché se compiutamente applicata decreterebbe
la propria stessa inapplicabilità (la razionalità egoistica funziona, nei
limiti in cui funziona, perché non tutti e non sempre siamo egoisti razionali),
ma che non cessa di creare danni incalcolabili alle persone e al mondo, come
l’individualismo nazionale nella gestione dell’emergenza Covid-19 indica con
dolorosa evidenza. Dall’altro è catturato dalla dicotomia onnipotenza/impotenza
della tecnica, che sembra paralizzare la capacità di discernimento collettivo.
Il ritorno dello stato e del bene pubblico, di cui si fanno oggi campioni
personaggi che per anni hanno argomentato e celebrato lo smantellamento del
primo e la derisione del secondo e che potrebbero avere la decenza di stare
zitti, indica che il “cigno nero” Covid-19 sta forse davvero aprendo uno spazio
inatteso, un momento kairologico (del tempo visto da un punto
di vista qualitativo come l’arrivo del momento giusto) nello
scorrere di un tempo sempre uguale cui ci siamo assuefatti. Spazio e momento in
cui torniamo o diventiamo consapevoli che la tecnica non ha in sé altra
dimensione di senso se non la mera sopravvivenza (o la sua negazione), e che,
come storia, antropologia e buona filosofia (Benjamin, per esempio) ci
insegnano, solo di sopravvivenza non si vive.
Ogni tecnica, come sopra ricordato, include un modello di società, di
rapporti umani e tra umano e non-umano. E una scienza sempre più schiacciata
sulla tecnica assimila sempre più la propria verità alla verità di
quest’ultima: non l’avvicinamento progressivo di ciò che si sa a ciò che è ma
la massimizzazione dell’operatività rispetto all’obiettivo prefissato; non la
rappresentazione ma la presentazione, il dispiegamento del mondo secondo
volontà. Il “successo” nell’organizzazione delle cose, che costituisce il grado
zero della tecnica in quanto condiviso da qualsiasi tecnica, corrisponde a ciò
che, per il vivente che per una misteriosa alchimia ha preso coscienza di sé, è
il sopravvivere; il tentativo di prolungare i propri giorni sul pianeta. Ma
perché farlo, a quale scopo volgere tali giorni, insieme a chi e in che modo,
questo la tecnica non lo spiega: si limita a imporlo, in base a come è stata
sviluppata, anche a prescindere dall’intenzione di chi l’ha fatto. Il problema
è allora la logica di fondo secondo cui scienza e tecnica moderne si sono
dipanate e avvinghiate in un crescendo vorticoso di cui il capitalismo è parte
integrante, al tempo stesso come causa e esito. Il Covid-19 e i suoi simili ci
avvertono che è urgente un profondo ripensamento del rapporto che il nostro
sapere e fare intrattiene con il mondo, mediato dall’illusione di un’illimitata
auto-affermazione, un infinito dispiegamento della potenza.
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