domenica 5 aprile 2020

Ancora a proposito di "stato d'eccezione"....poi pausa


Non se ne scappa: gli orizzonti temporali della pandemia e delle necessarie restrizioni si allungano sempre più in avanti e a tutti noi non resta che fare di necessità virtù cercando di riempire il meglio possibile questa clausura, fino a poco tempo addietro inimmaginata, e di non cadere anche noi, come purtroppo qua e là si inizia a cogliere con i troppi “dagli all’untore” urlati dai balconi, vittime di insofferenza e nervosismo. Per le piccole cose di questo blog, ed in particolare per la riflessione che abbiamo avviato, in senso ampio, attorno allo “stato di eccezione” ci soccorre il protrarsi dell’acceso dibattito innescato dalla prima presa di posizione sul tema di Giorgio Agamben riportata nel nostro post della “Parola del mese” di Aprile. Dedichiamo a questo dibattito un ulteriore contributo che ha, a nostro avviso al di là delle opinioni espresse, il merito di mettere in ordine la sua evoluzione e di fissare alcuni punti centrali della discussione. Questa sorta di punto fermo ci consente quindi di lasciarli sedimentare almeno per un poco e di volgere lo sguardo verso altre riflessioni. Non ne mancano certo di questi tempi. Un’ultima avvertenza: l’articolo che presentiamo non è privo di una certa complessità di esposizione accentuata qua e là da un ricorso a termini tecnicistici di non comune conoscenza ed utilizzo. Ci siamo permessi per quelli più ricercati di introdurre una loro sintetica illustrazione

La sfida del covid19 alle scienze umane:
alcune piste di riflessione

Articolo di di Luigi Pellizzoni (docente di sociologia dell’ambiente e del territorio Università di Pisa) del 29 Marzo – sito online “Le parole e le cose”

L’emergenza Covid-19 sta mettendo a dura prova non solo persone e comunità ma anche le scienze e i saperi. In queste circostanze per chi, come gran parte degli intellettuali afferenti alle scienze umane, non è (almeno professionalmente) coinvolto in prima linea, il compito è cercare di riflettere sugli eventi, non tanto in termini di esercizio accademico ma di orientamento per il presente e per il futuro. A tale scopo è probabilmente poco utile, se non pernicioso, sia costringere gli eventi entro quadri interpretativi forgiati su altre questioni che dichiararne l’assoluta novità e quindi l’impossibilità di andare oltre la cronaca. Più opportuno è procedere in modo abduttivo, riconsiderando la teoria alla luce delle evidenze empiriche e viceversa. Si tratta, in altri termini, di individuare il nuovo nel familiare e il familiare nel nuovo. Tre le tematiche che provo qui sotto a elaborare in tale prospettiva: a) diagnosi e prognosi della crisi; b) scienza, expertise e società; c) emergenze di ieri e di oggi. Inutile aggiungere che si tratta di ragionamenti molto tentativi, poco più che delle aperture a percorsi di riflessione e ricerca.  
Diagnosi e prognosi della crisi
Mi sembra innanzitutto che il dibattito sviluppatosi, in Italia ma non solo, tenda a polarizzarsi tra due estremi diagnostici, cui corrispondono opposte polarità prognostiche (ciò che serve per formulare una prognosi o un qualsiasi giudizio): positiva e negativa, fausta e infausta. C’è chi ragiona in termini di quello che potremmo chiamare “stato di eccezione eccezionale”, e c’è chi lo fa in termini di “intensificazione dello stato di eccezione”. Tra i primi troviamo per esempio Gustavo Zagrebelski, che in un’intervista pubblicata su Repubblica del 21 marzo giustifica pienamente le crescenti misure restrittive adottate dal governo sulla base del carattere straordinario degli eventi. A suo giudizio esiste in Costituzione una gerarchia dei diritti fondamentali che pone al vertice la vita e la salute, la cui difesa fa premio su tutto il resto. Ne consegue che le restrizioni alle libertà conseguenti a un’epidemia o pandemia non possono essere assimilate a quelle imposte da regimi repressivi come quello di Pinochet in Cile (ma si potrebbero aggiungere Guantanamo e in generale qualunque stato di eccezione abbia a fondamento e oggetto questioni politiche). Vi è insomma, per il giurista, una differenza qualitativa tra questo e altri stati di eccezione, per comprendere la quale “non c’è bisogno di chissà quale perspicacia”. Sulla stessa linea si pone Paolo Flores D’Arcais, che in un intervento pubblicato il 16 marzo su MicroMega, aspramente critico nei confronti della posizione assunta da Giorgio Agamben, sposa la tesi della piena giustificazione degli interventi, invocando un ritorno, o un’intensificazione, dei lumi e un affidamento totale alla “scienza”, unica portatrice del sapere, ergo del bene comune; ruolo rispetto a cui la filosofia può al massimo farsi ancella portatrice di spirito critico. Meno astiosi, ma non meno critici, altri interventi, per esempio quello di Davide Grasso su minima&moralia del 27 febbraio. Per altri, tuttavia, non vi è nulla che segni qualitativamente una differenza tra lo stato di eccezione instaurato dalla reazione all’epidemia e altre manifestazioni dello stato di eccezione. La differenza è semmai quantitativa, in termini di accelerazione di un processo. Questa posizione è in primis sostenuta, appunto, da Agamben, a giudizio del quale siamo di fronte a una fase cruciale di intensificazione o generalizzazione dello stato di eccezione. Sulla stessa linea si pone Raúl Zibechi, che in un intervento scritto per la BBC e pubblicato in Italiano sul blog Comune.info del 27 febbraio, sostiene che l’epidemia offre l’opportunità di una grande esercitazione per l’applicazione di forme di macro e micro controllo sempre più oppressive, destinate a caratterizzare l’ordine sociale in via di costituzione, basato sulla potenza egemone della Cina e delle élite capitaliste. Anche Nadia Urbinati, sia pure con accenti meno drammatici, si iscrive in questo partito. Intervenendo sull’Huffington Post del 16 marzo, ella si chiede infatti se la difesa della vita possa e debba avvenire sacrificando la libertà; se quindi il fine giustifichi comunque i mezzi e la politica sia destinata a soccombere alla biopolitica, con i cittadini chiamati a sopportare non solo il peso ma anche la responsabilità delle scelte, quali i tagli al sistema sanitario nazionale, compiute dai propri rappresentanti politici. E’ interessante notare che i sostenitori della tesi “eccezionalista” formulano una prognosi dubitativa ma fondamentalmente fausta. La sfida è grande, e occorre vigilare affinché le misure eccezionali vengano riposte nel cassetto una volta terminata l’emergenza, ma l’occasione è propizia per un ripensamento dell’organizzazione sociale, mostrando i limiti della celebrazione dell’individuo che accomuna neoliberisti e filosofi “post” e approfittando della rinnovata socialità, solidarietà e comunanza che l’emergenza sta elicitando (si veda anche, al riguardo, l’intervento di Massimo De Angelis su Comune.info del 15 marzo, oltre a una pioggia di commenti usciti sui giornali). Assai più pessimisti appaiono invece i sostenitori della tesi “intensificazionista”. Dico a questo punto il mio parere: entrambe le posizioni non centrano il bersaglio. Che vi sia una differenza tra un’epidemia e la war on terror è intuitivamente evidente, anche nel caso, caro ai complottisti ma anche alle intelligence, delle epidemie provocate. Su questo ha ragione Zagrebelski. Che ciò non corrisponda a dire che la difesa della vita, della sopravvivenza, autorizzi qualsiasi cosa è però altrettanto intuitivamente evidente. Su questo ha ragione Agamben. Non sono un costituzionalista, ma direi anch’io che “non c’è bisogno di chissà quale perspicacia” per riconoscere che, se il diritto alla vita può fare premio su tutti gli altri sul piano individuale (se non altro perché se uno è morto gli altri diritti gli servono a poco), quando l’argomento viene spostato sul piano collettivo, di comunità, la questione cessa di essere strettamente giuridica per diventare anche (bio)politica; non ha più a che fare solo con il diritto, ma anche con l’eccezione che lo fonda e lo delimita. Uno stato che comprime tutti i diritti a favore di quello alla sopravvivenza si avvicina moltissimo a una riedizione biopolitica del Leviatano (figura biblica usata da Hobbes per definire il potere) : un sovrano che esercita il proprio dominio non più nel lasciar vivere, ma nel non lasciar morire. Certo, Zagrebelski e molti altri sottolineano che la possibilità di misure straordinarie è prevista in Costituzione; saremmo quindi nella norma e non fuori di essa. Ma è chiaro che è proprio dove la norma costituzionale indica la possibilità di eccezioni (così come quando indica la possibilità di una propria modifica) che ci si trova ai margini dell’ordinamento stesso, alla soglia aperta verso il fuori. Il fatto che la norma preveda l’eccezione, i limiti della quale non possono però che restare affidati al potere che la interpreta, conferma la struttura logica dell’eccezione, simultaneamente esterna e interna all’ordinamento, descritta a suo tempo da Carl Schmitt. La presenza di un testo scritto occulta l’atto sovrano dietro il formalismo procedurale. Che non si trascendano, o fino a che punto si trascendano, i limiti dell’ordinamento dipende, in ultimo, dalla gravità o eccezionalità della crisi, così come dichiarata da chi decide il provvedimento. Il che ci rimanda ai caratteri di questa crisi, simultaneamente familiari e nuovi, o viceversa. C’è in questo senso, a me sembra, un deficit analitico in entrambe le posizioni sopra tratteggiate. Che non sono ovviamente le uniche rinvenibili. Alcune, per esempio quelle di Jean-Luc Nancy e Roberto Esposito uscite sul blog Antinomie alla fine di febbraio, segnalano in effetti l’opportunità di distinguo accurati tra tendenze generali ed eventi contingenti. Tuttavia permane la mia personale insoddisfazione per il modo in cui il dibattito nelle scienze umane – in cui, almeno scorrendo blog e giornali italiani, brillano ancora una volta i filosofi a scapito dei sociologi – si sta sviluppando. Da che cosa dipende?  Una maniera per provare a capirlo è riflettere su come, da Agamben ma in generale dalla letteratura fiorita attorno al paradigma della biopolitica, la partita tra bios e zoe (due termini greci che indicano in modo diverso la vita: zoe è la vita animale quella che l’uomo condivide con tutte le altre forme di vita, bios indica invece la vita umana così come viene modellata dalle sue scelte, dal modo in cui la viviamo) sia stata finora giocata quasi tutta dalla parte del bios. Detto altrimenti, il ruolo assegnato alla zoe è finito per essere analogo a quello dello stato di natura in Hobbes: un controfattuale utile a ragionare sull’ordine politico esistente. Detto ancora in altri termini: Agamben e colleghi si interrogano molto su come il potere produce la nuda vita e ciò cui quest’ultima corrisponde; assai meno sull’insieme dei processi biofisici che circondano e attraversano gli umani, il corpo che li costituisce e le azioni che essi compiono, dunque il potere stesso. Così, quando si parla di antropogenesi (i percorsi biologici che hanno portato dalle altre forme animali all’uomo), si finisce spesso per riprodurre ciò che viene criticato, per esempio nell’antropologia filosofica tradizionale: si definisce l’animale a partire dall’uomo, e per giunta un uomo posizionato storicamente e culturalmente, l’anthropos (uomo in greco)  occidentale, con la sua accentuazione di genere. Ovviamente anche qui ci sono gradazioni: se l’errore involontario è evidente per esempio in come Sloterdjik definisce il processo di “domesticazione” dell’uomo, Agamben è ben più sottile e avvertito. Il punto è però che ciò che realmente interessa a questi autori è esplorare ancora una volta l’uomo occidentale, non il non-umano o altre declinazioni dell’umano; o partire dal primo per arrivare agli altri già gravati da un pesante presupposto metafisico, invece che provare a compiere il processo inverso. In sintesi: c’è a mio avviso, nel complesso della riflessione che si confronta con il paradigma della biopolitica, una drammatica carenza di interesse per la natura e per il rapporto tra umani e non umani, e questa carenza incide altrettanto drammaticamente sull’interpretazione della crisi. Eppure il Covid-19, non solo nella sua genesi ma anche nel modo in cui si sta esprimendo nelle aree italiane più colpite, ci avverte proprio di questo. Non si tratta né di un evento o un problema “naturale” (come pensano gli “eccezionalisti”, distinguendo questo stato di eccezione da quelli di matrice politica), né un evento o problema “sociale” (come pensano gli “intensificazionisti”, assimilando questo ad ogni altro stato di eccezione), ma qualcosa che esiste e si dispiega all’intersezione dei due ambiti e per effetto di una reciproca, crescente “affezione”. Studiosi come il biologo Robert Wallace, con il suo libro Big Farms Make Big Flu, mostrano la stretta connessione tra industrializzazione dell’agricoltura e intensificazione dell’estrazione di valore da parte delle grandi corporations dell’agribusiness da un lato, e sviluppo e circolazione di agenti patogeni sempre più pericolosi dall’altro. Degli interventi sopra menzionati solo quello di Nancy (non a caso il più restio ad abbracciare il paradigma biopolitico) punta in questa direzione. Ed è in effetti qui, a livello di questa affezione (del Covid-19, come di ogni malattia, si dice non a caso di esserne affetti), che lo stato di eccezione in corso va studiato; anche in termini prognostici, dato che la riorganizzazione sociale innescata da questa crisi non potrà non confrontarsi con l’accoppiamento sempre più intimo e dinamico (in senso spaziale e scalare) tra sistema sociale e ecosistema. Ossia il contrario di quanto certa narrazione tecno-capitalista annuncia (il “disaccoppiamento” tra società e natura pronosticato dagli ecomodernisti), ma ciò che la sua prassi concretamente persegue e produce (le biotecnologie, la geoingegneria (nostra Parola del mese di Giugno 2019), i servizi ecosistemici, le megalopoli, le piattaforme logistiche, i big data). Agamben evoca un tempo in cui il bios coinciderà con la propria zoe; ma questo tempo è già qui; questa (con)fusione o isomorfismo (corrispondenza, in ambedue i sensi, fra due sistemi, due strutture) è ciò che il capitalismo esplicitamente insegue e talvolta proclama, come quando i giganti del biotech affermano che non c’è nessuna differenza tra ciò che si fa nei loro laboratori e ciò che la natura stessa fa, che la natura è intrinsecamente tecnica e la tecnica natura, dunque tutto è possibile e permesso – per far soldi. Per questo la critica di chi, come Luca Illetterati, vede in Agamben l’incapacità, anche di fronte all’emergenza del Covid-19, di andare oltre l’astratta distinzione tra nuda vita e vita buona, piena, non solo – a mio modestissimo avviso – inverte il senso della critica agambeniana, volta non a ontologizzare (riportare l’esame di un questione, di un aspetto, alla sua essenza) la separazione tra bios e zoe ma al contrario a denunciare quest’ultima come operazione politica, mossa fondamentale di ontological politics che contraddistingue la storia occidentale, ma non si avvede – proprio come Agamben – che l’ontological politics con cui ci troviamo oggi alle prese consiste precisamente nella ricomposizione della frattura, non però in direzione di una ritrovata armonia ma di una più completa cattura nell’ordine del capitale. Che nel sostenere la tesi dell’equivalenza ontologica (ma differenza economica, in termini di produzione di plusvalore: da qui la legittimazione dei brevetti) tra ambiente e laboratorio, natura e tecnica, le industrie dell’agri-business e della farmaceutica facciano proprio un tema sviluppato dai teorici del post-umano, che in ciò vedono sic et simpliciter un’istanza emancipativa, indica che è proprio il modo in cui si sta producendo un isomorfismo crescente tra bios e zoe ciò che andrebbe studiato, non solo per capire le implicazioni di un processo che va in direzione opposta alla separazione inclusiva del biopotere classico senza perdere, ma anzi accentuando, la propria capacità dominativa, ma anche per capire se esso potrebbe essere reindirizzato in una direzione diversa dai circuiti di valorizzazione del capitale. Qui però emerge anche la carenza di quella parte del pensiero critico contemporaneo che, al contrario del mainstream biopolitico, manifesta un genuino interesse per il rapporto tra umano e non-umano (parte della teoria politica femminista, per esempio, o alcune correnti in antropologia): l’incapacità di vedere che ciò che poteva risultare emancipativo nei confronti di un certo capitalismo e ordine politico, la rivendicazione e la celebrazione anti-dualista (mente/corpo, natura/cultura, materia/informazione, organico/inorganico, umano/macchinico…), da tempo non lo è più; perlomeno, non da solo, non in quanto tale.
Scienza, expertise e società
La carenza di interesse per la relazione tra natura e società che intellettuali di tendenza manifestano è poi al tempo stesso causa ed effetto del modo in cui essi tendono a rapportarsi con la “scienza”; in particolare le scienze della vita e i saperi collegati (in primis le ICT le tecnologie di informazione e comunicazione). Anche questo non è di poco momento nei confronti dell’emergenza Covid-19. Ho accennato sopra alla celebrazione dei lumi e della scienza fatta da Flores d’Arcais. Celebrazione curiosa perché si spinge a proclamare la propria irrilevanza intellettuale, ma che soprattutto, nel parlare di “scienza” e “ricerca” (in blocco, senza distinzioni), mostra di trascurare decenni di studi sulla scienza come impresa sociale, condotti da varie prospettive disciplinari ma rubricati sotto l’etichetta di STS (science and technology studies). Studi che non solo lui (a quanto pare) ma molti filosofi, anche filosofi della scienza (come ho dovuto constatare), ignorano pressoché completamente e che invece sono utilissimi per analizzare una vicenda come quella del Covid-19, dato che offrono strumenti per comprendere, fra l’altro, il rapporto tra scienziati e decisori politici e perché la fiducia pubblica nella scienza, o meglio negli scienziati (le ricerche mostrano che quelli che se la prendono con la scienza come istituzione sono una ridotta minoranza), sia in calo da decenni, nonostante o forse proprio per le loro conquiste conoscitive e tecniche raggiunte. Affermazioni come quella di Flores d’Arcais, cui si affiancano innumerevoli richiami all’ordine in termini di “competenza” contro fake news, post-verità, scienza-fai-da-te, politici ignoranti, sono inutili e perfino dannose, non solo perché alimentano la giustificazione di un commissariamento tecnocratico della democrazia in atto da tempo soprattutto da parte dell’altra expertise (oltre a quella medica) per definizione biopolitica, ossia quella economica, ma perché rischiano di sprecare un’occasione preziosa per due operazioni che gli STS hanno promosso da tempo ma che stentano a penetrare in altri ambiti intellettuali, scientifici e umanistici, quando non sono accolte con aperta ostilità. La prima operazione è esplicitare, anziché nascondere, la posizionalità storica e sociale delle conoscenze, non nel senso della cumulatività di un sapere in grado di avvicinarci sempre più a una descrizione “vera” delle cose, ma nel senso che le domande cui si cerca risposta sono domande, e quindi risposte (“verità”), che sorgono e hanno senso presso collettività storicamente posizionate, in base a certi modi di concepire individui, comunità, relazioni sociali e tra umani e non-umani; diciamo pure in base a “interessi”, tanto nel senso restrittivo del termine che in quello estensivo. Soffermarsi qui sul senso restrittivo sarebbe scontato, anche se è ovviamente di primaria importanza. Ma il senso estensivo non lo è di meno. Se autori come George Lakoff hanno da tempo posto l’accento sul ruolo cruciale delle metafore nella costruzione del sapere, il traffico concettuale entro e tra discipline scientifiche e umanistiche, con relativo passaggio da senso metaforico a senso letterale, è attestato da numerosi studi. I discorsi odierni sull’emergenza in corso ci ricordano che l’immunologia e l’infettivologia si avvalgono di immagini belliche, riverberandosi a loro volta su razzismo e sovranismo. Che dire poi del modo in cui la metafora linguistica (“codice”) applicata alla genetica ha supportato l’avvento delle biotecnologie (fusione di biologia e ICT) e la loro regolazione in termini di diritti di proprietà simultaneamente estesi all’informazione e all’oggetto che la contiene, con conseguente asservimento delle pratiche agricole? Esplicitare la posizionalità storica e sociale del sapere significa tutt’altro che sostenere che ogni affermazione vale l’altra, che “tutto va bene”, ma che ciò che “va bene”, le conoscenze che acquisiamo e le tecniche che vengono messe a punto e applicate, possono e devono essere oggetto di discussione pubblica perché racchiudono in sé modelli di società e di futuro. Le diverse “vie nazionali” alla gestione del Covid-19 si spiegano anche così: alla luce di “culture epistemiche (relative al “sapere”) ” che differiscono non solo nel tempo ma anche in base alle culture politiche nazionali e alle relative specificazioni del legame comunitario, come ha mostrato, fra gli altri, Sheila Jasanoff. Ancora, dire che la formulazione dei quesiti di ricerca, dei disegni sperimentali e degli artefatti tecnici non è indipendente dal contesto socio-culturale in cui gli scienziati si trovano a formarsi e operare, con il suo bagaglio di valori, interessi, preferenze, pregiudizi, disuguaglianze e rapporti di potere, non significa indebolire la scienza, ma rafforzarne il ruolo e la credibilità, ovviamente qualora queste scelte vengano pubblicamente argomentate e giustificate. Cosa indubbiamente difficile da fare nel corso di un’emergenza, ma la cui necessità è proprio quest’ultima a evidenziare. Tanto più quanto più sono in gioco “vita” e “salute”, ossia cose che Foucault chiamava “indicatori epistemologici”: segni della forma e dei limiti raggiunti, in un dato contesto storico e sociale, dal senso attribuito al mondo, agli eventi, alle azioni. La posta in gioco nella definizione di questi indicatori è cruciale, perché è lì che si stabiliscono (e possono essere eventualmente discusse e modificate) le modalità di reciproca affezione tra umano e non-umano di cui il Covid-19 rappresenta una materializzazione, intimamente legata alla globalizzazione capitalista. La seconda operazione, strettamente legata alla prima (e su cui, se posso aggiungere una nota personale, insisto da tempo nei miei lavori e interventi pubblici ottenendo di solito sguardi perplessi se non irritati da parte di chi si sente chiamato in causa), è quella di chiarire una volta per tutte la differenza tra scienziato ed esperto. Può trattarsi, e spesso si tratta, dello stesso individuo, ma di due ruoli profondamente diversi. Lo scienziato è qualcuno che ha un controllo su oggetto e domande di indagine; l’esperto è qualcuno chiamato ad applicare conoscenze e capacità di giudizio a un problema che altri gli pongono e che spesso non è riconducibile a un campo disciplinare preciso. L’emergenza del Covid-19 lo mostra in tutta chiarezza. Virologi ed epidemiologi devono, nel formulare le proprie indicazioni, tenere conto sia di questioni di propria specifica competenza sia di aspetti economici, sociali, di organizzazione dei servizi ospedalieri, di ordine pubblico, di disponibilità di presidi medici come i tamponi, e così via. Il reciproco vale per economisti, sindacalisti, imprenditori, assessori alla sanità e ai servizi sociali, ministri, vescovi e via discorrendo: tutti (eventualmente) “esperti” nel proprio campo, ma nessuno dei quali può vantare “competenza” simultanea sull’assieme delle problematiche evocate dal Covid-19, pur essendo chiamati a esprimersi, a dire o fare qualcosa. Da qui oscillazioni e incertezze da parte di tutti, a cominciare dagli esperti che di professione sono scienziati. La “politicizzazione della medicina” cui accenna Esposito nell’intervento sopra citato, non è un fatto nuovo, né riguarda solo la medicina, ma tutti i saperi scientifici, anche quelli che non hanno direttamente a che fare con l’essere umano. Semplicemente l’emergenza pone questo fatto in piena evidenza, mostrando anche a che livello si è giunti. Ma ancora una volta, per gli scienziati richiesti di indossare il vestito degli esperti, riconoscere incertezze e oscillazioni di giudizio non significa asserire incompetenza o inutilità della scienza, bensì chiarire i termini complessi in cui proposte e decisioni vengono formulate. Soprattutto, negarle serve a poco, in particolare rispetto a ciò per cui la negazione dovrebbe teoricamente servire: ottenere fiducia e disciplinare i comportamenti. Le incongruenze nelle linee di condotta sono facilmente rilevabili dal cittadino medio, che, proprio perché non riconosciute e spiegate, ne ricava diffidenza e ansia. Lo stesso avviene quando la manifestazione di sicurezza e la conseguente richiesta di affidamento, viene seguita, se i risultati deludono, dalla rammemorazione della natura ipotetica e sperimentale di ogni evidenza scientifica, con relativo scarico di responsabilità verso il cittadino che avrebbe chiesto certezza quando invece chiedeva solo chiarezza e onestà. Anche di ciò l’emergenza Covid-19 offre esempi il cui studio potrà arricchire una letteratura cospicua ma tutt’altro che fissata in canoni definitivi, e soprattutto misconosciuta fuori dall’ambito degli STS. Gli errori comunicativi compiuti in queste settimane non sono solo dettati dall’urgenza (anche se non ci volevano grandi esperti in comunicazione del rischio per prevedere che l’annuncio delle restrizioni alla mobilità in Lombardia avrebbe provocato un fuggi-fuggi generale), ma affondano nella perniciosa assunzione – diffusa presso le comunità scientifiche, anche quelle che operano più a ridosso delle policy – che il “cittadino” sia o irrimediabilmente irrazionale, e quindi da dirigere autoritariamente, o ignorante e quindi da (ri)educare scientificamente, in vista di una sua entusiastica adesione alle magnifiche sorti dell’innovazione rampante. Coloro che oggi pensano che il Covid-19 sia una lezione salutare che, per fede o per studio, volenti o nolenti, riporterà nel recinto della “scienza” e della “competenza” individui apparsi negli ultimi anni sempre più diffidenti e riottosi, potrebbero però trovarsi, a emergenza superata, di fronte a un’amara delusione. Non è con la paura che si (ri)conquista fiducia e legittimazione, ma andando al fondo delle sue cause che l’emergenza sta facendo affiorare, a partire dai tagli alla sanità e alla ricerca, le privatizzazioni, le esternalizzazioni di produzioni non sufficientemente remunerative, le priorità definite in base a criteri commerciali e la connivenza o l’indifferenza al riguardo da parte delle comunità scientifiche. Se non si approfitta dell’occasione per ripensare la relazione scienza-economia-politica ed esperti-cittadini, il ritorno alla “normalità”, con il graduale oblio della dedizione a volte eroica di tanti, potrebbe creare pericolosi contraccolpi di rigetto e rancore. Tutte le cose qui menzionate sono note da tempo (nel caso dei fenomeni di panico e della sottostima del rischio individuale si tratta per giunta di uno dei pochi ambiti sociali in cui si possono fare previsioni con precisione paragonabile a quella delle scienze “esatte”), ma ogni emergenza, inclusa quella che stiamo vivendo, sembra trarne ben poco beneficio. Il Covid-19 offre però l’opportunità per ripensarle, ridefinirle, precisarle; cosa che dipende in parte dal riconoscimento pubblico della loro rilevanza e dalle risorse che si vorranno investire al riguardo, ma in parte anche dalla misura in cui le scienze umane, in primis i filosofi, riusciranno a lasciarsi alle spalle la schizofrenia, tra sublime indifferenza e sudditanza acritica, che spesso contraddistingue il loro rapporto con la “scienza” e che emerge con tutta chiarezza nel dibattito sopra accennato.
Emergenze di ieri e di oggi
Il terzo aspetto che voglio brevemente affrontare riguarda il confronto tra emergenze socio-ambientali di ieri e di oggi. La domanda che Urbinati, Agamben e altri si pongono non è peregrina: quale sarà l’eredita di questo stato di eccezione? Vogliamo veramente credere che, in assenza di una stringente vigilanza pubblica, possibilità come il tracciamento dei movimenti saranno rimesse nel cassetto? E, più al fondo: può una società sempre più schiacciata sul valore della pura sopravvivenza (il Covid-19 giunge buon ultimo dopo decenni di crescente impero dell’economia e dei “mercati”) rimanere democratica? Può, aggiungo io, spostandomi dall’idea dell’esclusione inclusiva a quella dell’isomorfismo tra bios e zoe che sta emergendo nel nuovo ordine mondiale, assumere una qualsiasi forma diversa dall’incubo? Il problema non è nuovo; anzi, è antico. Comunità di ogni epoca e latitudine hanno dovuto affrontare carestie, pestilenze e altre catastrofi che minacciavano di distruggerle. La risposta che sempre è stata data è creare forme ritualizzate e sistemi di senso capaci di mantenere il legame sociale nelle condizioni più avverse, evitando che il forte prevalesse sul debole e che il sacrificio di qualcuno per il bene comune (il vecchio eschimese che si avvia verso la morte bianca per ridurre il numero delle bocche da sfamare) si compisse nella solitudine dell’anima. Il tempo odierno, però, è segnato da un lato dal parossismo di un’ideologia darwinista applicata su scala individuale e nazionale, ovviamente aporetica (convinta dell’impossibilità di trovare una soluzione, scettica)  poiché se compiutamente applicata decreterebbe la propria stessa inapplicabilità (la razionalità egoistica funziona, nei limiti in cui funziona, perché non tutti e non sempre siamo egoisti razionali), ma che non cessa di creare danni incalcolabili alle persone e al mondo, come l’individualismo nazionale nella gestione dell’emergenza Covid-19 indica con dolorosa evidenza. Dall’altro è catturato dalla dicotomia onnipotenza/impotenza della tecnica, che sembra paralizzare la capacità di discernimento collettivo. Il ritorno dello stato e del bene pubblico, di cui si fanno oggi campioni personaggi che per anni hanno argomentato e celebrato lo smantellamento del primo e la derisione del secondo e che potrebbero avere la decenza di stare zitti, indica che il “cigno nero” Covid-19 sta forse davvero aprendo uno spazio inatteso, un momento kairologico (del tempo visto da un punto di vista qualitativo come l’arrivo del momento giusto) nello scorrere di un tempo sempre uguale cui ci siamo assuefatti. Spazio e momento in cui torniamo o diventiamo consapevoli che la tecnica non ha in sé altra dimensione di senso se non la mera sopravvivenza (o la sua negazione), e che, come storia, antropologia e buona filosofia (Benjamin, per esempio) ci insegnano, solo di sopravvivenza non si vive.  Ogni tecnica, come sopra ricordato, include un modello di società, di rapporti umani e tra umano e non-umano. E una scienza sempre più schiacciata sulla tecnica assimila sempre più la propria verità alla verità di quest’ultima: non l’avvicinamento progressivo di ciò che si sa a ciò che è ma la massimizzazione dell’operatività rispetto all’obiettivo prefissato; non la rappresentazione ma la presentazione, il dispiegamento del mondo secondo volontà. Il “successo” nell’organizzazione delle cose, che costituisce il grado zero della tecnica in quanto condiviso da qualsiasi tecnica, corrisponde a ciò che, per il vivente che per una misteriosa alchimia ha preso coscienza di sé, è il sopravvivere; il tentativo di prolungare i propri giorni sul pianeta. Ma perché farlo, a quale scopo volgere tali giorni, insieme a chi e in che modo, questo la tecnica non lo spiega: si limita a imporlo, in base a come è stata sviluppata, anche a prescindere dall’intenzione di chi l’ha fatto. Il problema è allora la logica di fondo secondo cui scienza e tecnica moderne si sono dipanate e avvinghiate in un crescendo vorticoso di cui il capitalismo è parte integrante, al tempo stesso come causa e esito. Il Covid-19 e i suoi simili ci avvertono che è urgente un profondo ripensamento del rapporto che il nostro sapere e fare intrattiene con il mondo, mediato dall’illusione di un’illimitata auto-affermazione, un infinito dispiegamento della potenza.

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