Come
abbiamo già evidenziato in altri post la caratteristica che
dovrebbe improntare le varie riflessioni sollecitate dalla vicenda mondiale del
coronavirus è quella di non ritenere che si debba ragionare su una “eccezionalità”,
che ovviamente purtroppo ben esiste, ma di avere piena consapevolezza essa si è
inserita in un precedente quadro che già era fortemente critico. Sotto moltissimi
punti di vista, e a livello globale. Anche solo restando allo specifico
italiano deve ad esempio essere ben chiaro a tutti che il coronavirus non ha
colpito, tragicamente e pesantemente, un paese “in buona salute”. Non lo erano
la nostra economia e la finanza statale, il nostro sistema produttivo, il
funzionamento delle istituzioni democratiche, i legami sociali, la politica ed
i partiti, il rapporto con l’Europa, la consapevolezza dell’emergenza climatica
ed ambientale, e l’elenco non si esaurisce certo qui. Immaginare quindi che
superata l’emergenza sanitaria e “riavviato” in qualche modo il paese sia
garantita la riconquista di una preesistente felice situazione sarebbe un gravissimo
errore. Riflettiamo allora sulla eccezionalità ma, per dare senso e sostanza positivi
allo slogan “nulla sarà più come prima”, alziamo lo sguardo a tutte le questioni
di fondo, molte delle quali hanno in buona misura contribuito ad accentuare questa stessa emergenza, Il contributo che presentiamo oggi, come quelli precedenti,
si muove n questa direzione, perché parte dal contingente attuale ma subito
punta al generale entrando nel merito delle questioni. Va subito detto che è un
contributo “schierato” perché viene da un filosofo-sociologo-psicologo sloveno:
Slavoj Zizek, più volte citato in questo blog, decisamente schierato a
sinistra. Estrema. Ha, meritatamente, guadagnato fama non solo per la sostanza delle sue
riflessioni e prese di posizione, culturali e politiche, ma anche per la
capacità mediatica a tutto campo di diffonderle. Non ha certo perso tempo
Zizek, avendo ben intuito l’importanza storica di questa fase mondiale, per
intervenire sulla pandemia coronavirus. Lo ha fatto pubblicando un saggio “Virus”,
appena edito da “Ponte alle Grazie” in formato ebook, con la particolarità di essere via via aggiornato con altri successivi interventi
dell’autore sull’argomento, che i lettori potranno leggere riscaricando gratuitamente
le edizioni successive a quella acquistata. Abbiamo ripreso, dal sito online “Internazionale.it”
due articoli che dovrebbero comporre due brevi capitoli di tale saggio online e
che, al di là della loro condivisione, sono un buon esempio di profondità di
analisi coniugata con capacità di farsi comprendere, seguire e coinvolgere
Perché siamo sempre stanchi?
Articolo di Slavoj Žižek del 14 Marzo – Rivista online “Internazionale.it”
L’epidemia di
coronavirus ha fatto emergere due tipologie di persone che in questo momento si
contrappongono: quelle che sono esauste perché lavorano troppo (medici,
personale ospedaliero…) e quelle che non hanno niente da fare perché sono
forzatamente o volontariamente confinate a casa. Dato che personalmente
appartengo alla seconda categoria, mi sento obbligato ad approfittare di questa
situazione per proporvi una breve riflessione sui diversi modi in cui possiamo
essere stanchi. Ho deciso di ignorare l’ovvio paradosso della stanchezza dovuta
all’inattività forzata, quindi permettetemi di partire dal filosofo Byung-Chul
Han, che ci offre un’analisi sistematica di come e perché viviamo in una
“società della stanchezza”. Quello che segue è un breve riassunto del
capolavoro di Byung-Chul Han La società della stanchezza (Nottetempo 2012),
spudoratamente copiato da Wikipedia. Spinti dalla richiesta sociale di
persistere nella ricerca del successo, oltre che dall’ambizione
dell’efficienza, diventiamo al tempo stesso mandanti e sacrificatori ed
entriamo in una spirale di autolimitazione, autosfruttamento e collasso.
‘Quando la produzione è immateriale, tutti ne possiedono i mezzi. Il sistema
neoliberista non è più un sistema classista nel vero senso della parola. Non è
più costituito da classi in conflitto tra loro. Questo ne garantisce la
stabilità. Han sostiene che tutti sono diventati sfruttatori di se stessi.
‘Oggi ognuno è un
lavoratore autonomo che si autosfrutta. Ognuno è al tempo stesso schiavo e
padrone. Perfino la lotta di classe si è trasformata in una ‘lotta contro se stessi’. Gli individui sono
diventati quello che Han chiama ‘soggetti orientati all’obiettivo’; non pensano
di essere ‘soggetti’ soggiogati ma piuttosto ‘progetti’ che si modificano e si
reinventano continuamente, il che diventa una forma di compulsione e
costrizione, quindi un tipo
più efficiente di soggetivazione e sottomissione. Essendo un progetto
che si ritiene libero da limitazioni esterne, adesso l’Io si sottomette a
limitazioni interne e costrizioni autoimposte, che stanno assumendo la forma di
una ricerca compulsiva del successo tramite l’ottimizzazione”. Anche se Han ci
offre alcune interessanti riflessioni sulla nuova modalità di percezione di se
stesso da parte di un soggetto, dalle quali possiamo imparare molto (quella che
individua è la nuova forma di Super-io) penso comunque che sia possibile
rivolgergli un paio di critiche. In primo luogo, i limiti e le costrizioni non
sono solo interni: si stanno affermando nuove rigide regole di comportamento,
soprattutto tra gli appartenenti alla nuova classe di “intellettuali” – pensate
solo a quelle che impone la correttezza politica – che costituiscono un aspetto
particolare della “lotta contro se stessi”, contro la tentazione di essere “scorretti”.
Oppure considerate il seguente esempio di limitazione esterna. Un paio di anni
fa, il regista e scrittore israelo-americano Udi Aloni organizzò una
performance a New York del gruppo palestinese Jenin freedom theatre, e sul New
York Times apparve un articolo su questa visita che rischiò di non essere mai
pubblicato. Il giornale aveva chiesto ad Aloni il titolo della sua ultima
pubblicazione per poterlo citare nell’articolo e lui aveva fatto il nome di un
volume che aveva curato. Il problema era che il sottotitolo del libro conteneva
l’espressione “stato binazionale” e, temendo di irritare gli israeliani, la
direzione aveva chiesto che fosse eliminata, altrimenti il pezzo non sarebbe
uscito. Un esempio simile ma più recente è quello della scrittrice
anglo-pachistana Kamila Shamsie. Il suo libro Io sono il nemico (Ponte alle Grazie 2017), una versione modernizzata dell’Antigone di grande successo, ha ricevuto diversi
premi, tra cui il premio Nelly Sachs della città di Dortmund. Ma quando si è
venuto a sapere che era una sostenitrice del movimento Bds (Boicottaggio,
disinvestimento e sanzioni), le sono stati retroattivamente revocati tutti i
premi, con la giustificazione che, quando avevano deciso di attribuirglieli, “i
membri della giuria non erano a conoscenza del fatto che l’autrice aveva
partecipato ad azioni di boicottaggio contro il governo israeliano per le
politiche adottate nei confronti dei palestinesi dal 2014”. Questa è la
situazione oggi. Handke ha ottenuto il Nobel nonostante fosse un sostenitore
delle operazioni militari serbe in Bosnia, mentre partecipare a una protesta
pacifica contro la politica di Israele nei confronti della Striscia di Gaza non
consente di ricevere premi. In secondo luogo, la nuova forma di soggettività
descritta da Han è condizionata dalla più recente fase del capitalismo globale,
che rimane un sistema classista con sempre maggiori disuguaglianze, in cui le
lotte e i conflitti non sono in nessun modo riducibili alla “lotta contro se
stessi”. Nei paesi in via di sviluppo ci sono ancora milioni di lavoratori
manuali, e ci sono enormi differenze tra i diversi tipi di lavoratori
immateriali (basti pensare al crescente settore dei “servizi umani” come
l’assistenza agli anziani). C’è un grande divario tra il manager che dirige o
possiede un’azienda e il lavoratore precario che passa le giornate a casa da
solo davanti a un computer, non sono entrambi padroni e schiavi di se stessi
nello stesso senso.
Si parla molto del fatto che alla vecchia modalità della catena di montaggio fordista si stia sostituendo un nuovo tipo di lavoro collaborativo che lascia molto più spazio alla creatività individuale. Ma quella che si sta effettivamente verificando non è tanto una sostituzione quanto un’esternalizzazione: alla Microsoft e alla Apple il lavoro sarà anche organizzato in modo più collaborativo, ma il prodotto finale poi viene assemblato in Cina o in Indonesia, in un modo molto fordista. La catena di montaggio è stata semplicemente esternalizzata. Quindi abbiamo una nuova divisione del lavoro: nell’occidente sviluppato ci sono i lavoratori autonomi che si autosfruttano (come quelli descritti da Han), nei paesi in via di sviluppo quelli che fanno lavori debilitanti alla catena di montaggio, a cui si aggiunge il sempre maggior numero di individui che lavorano nel settore dei servizi (badanti, camerieri…) dove lo sfruttamento abbonda. Solo quelli del primo gruppo (i lavori autonomi spesso precari) corrispondono alla descrizione di Han.
Ognuno di questi tre gruppi ha un modo specifico di stancarsi. Il lavoro alla catena di montaggio è debilitante per la sua ripetitività, ci si stanca da morire a montare iPhone uno dietro l’altro nella fabbrica Foxconn alla periferia di Shanghai. Per altri versi, quello che rende così faticoso il lavoro di assistenza è il fatto di essere pagati (anche) per fingere di farlo con vera partecipazione, di tenere veramente ai propri “assistiti”: una maestra d’asilo è pagata anche per mostrare sincero affetto nei confronti dei bambini, e la stessa cosa vale per chi bada agli anziani. Riuscite a immaginare lo stress che comporta essere sempre “affettuosi”? In contrasto con i due casi precedenti, nei quali è possibile almeno mantenere una certa distanza nei confronti di quello che si sta facendo (anche se ci viene richiesto di essere affettuosi con un bambino, possiamo sempre fingere di esserlo), il terzo caso richiede qualcosa che è molto più stancante. Immaginate che io venga assunto per pubblicizzare un prodotto in modo tale da convincere la gente a comprarlo, anche se il prodotto non mi interessa o addirittura lo odio, devo sfruttare al massimo la mia creatività, cercando di trovare soluzioni originali, e quello sforzo può stancarmi molto di più del noioso lavoro ripetitivo alla catena di montaggio. Questa è la specifica stanchezza di cui parla Han. Ma non sono solo i precari che lavorano al pc da casa che si stancano perché si autosfruttano. Esiste anche un altro tipo di attività per la quale di solito si usa il termine ingannevole di “lavoro creativo di squadra”: in questo caso ci si aspetta che le persone assumano funzioni imprenditoriali, al posto dei manager o dei proprietari, e si occupino “in modo creativo” dell’organizzazione sociale della produzione e della distribuzione. Il ruolo di questo gruppo è ambiguo: da una parte “appropriandosi delle funzioni imprenditoriali, vedono il carattere sociale e il significato del loro lavoro dal punto di vista limitato del profitto”: “La capacità di organizzare la forza lavoro e la collaborazione in modo efficiente ed economico, e di pensare all’aspetto socialmente utile della forza lavoro, è utile per l’umanità e lo sarà sempre”. Ma lo fanno in condizioni di continua subordinazione al capitale, vale a dire allo scopo di rendere l’azienda più efficiente e redditizia, ed è questa tensione che rende così estenuante il “lavoro creativo di squadra”. Sono ritenuti responsabili del successo dell’azienda, senza contare che il lavoro di squadra implica la competizione tra loro e con altri gruppi. Sono lavoratori pagati per svolgere compiti che tradizionalmente spetterebbero ai capitalisti in quanto organizzatori del processo di produzione, perciò in un certo senso si trovano ad avere l’aspetto peggiore di entrambe le funzioni: hanno tutte le preoccupazioni e le responsabilità dei manager pur rimanendo lavoratori retribuiti senza alcuna sicurezza per il proprio futuro, la situazione più stressante che si possa immaginare. Dovremmo anche osservare che le divisioni di classe hanno acquistato una nuova dimensione con il panico per il coronavirus. Pur stando in isolamento a casa, siamo bombardati da chiamate dall’ufficio. Ma chi può lavorare così? Solo quelli che svolgono lavori di tipo intellettuale o manageriale come me, che possono collaborare in teleconferenza o usando altri sistemi digitali, così che, anche quando siamo in quarantena, il nostro lavoro può procedere più o meno tranquillamente, possiamo perfino avere più tempo per “sfruttare noi stessi”. Ma quelli che devono lavorare fuori, nelle fabbriche e nei campi, nei negozi, negli ospedali e nei trasporti pubblici? Molte cose devono andare lisce nell’insicuro mondo esterno perché io possa sopravvivere in quarantena. E, l’ultima cosa, anche se non la meno importante, è che dovremmo sfuggire alla tentazione di criticare la rigida autodisciplina e la dedizione al lavoro, invitando gli altri a “prenderla con filosofia” – Arbeit macht frei è ancora il motto giusto nonostante il pessimo uso che ne hanno fatto i nazisti. Certo, il lavoro di quelli che devono combattere gli effetti dell’epidemia è durissimo, ma è un lavoro gratificante a beneficio della comunità, molto diverso dallo stupido sforzo per rincorrere il successo. Quando un medico o un infermiere sono esausti perché hanno lavorato più ore del dovuto, la loro stanchezza è molto diversa da quella di chi è ossessionato dalla propria carriera.
Si parla molto del fatto che alla vecchia modalità della catena di montaggio fordista si stia sostituendo un nuovo tipo di lavoro collaborativo che lascia molto più spazio alla creatività individuale. Ma quella che si sta effettivamente verificando non è tanto una sostituzione quanto un’esternalizzazione: alla Microsoft e alla Apple il lavoro sarà anche organizzato in modo più collaborativo, ma il prodotto finale poi viene assemblato in Cina o in Indonesia, in un modo molto fordista. La catena di montaggio è stata semplicemente esternalizzata. Quindi abbiamo una nuova divisione del lavoro: nell’occidente sviluppato ci sono i lavoratori autonomi che si autosfruttano (come quelli descritti da Han), nei paesi in via di sviluppo quelli che fanno lavori debilitanti alla catena di montaggio, a cui si aggiunge il sempre maggior numero di individui che lavorano nel settore dei servizi (badanti, camerieri…) dove lo sfruttamento abbonda. Solo quelli del primo gruppo (i lavori autonomi spesso precari) corrispondono alla descrizione di Han.
Ognuno di questi tre gruppi ha un modo specifico di stancarsi. Il lavoro alla catena di montaggio è debilitante per la sua ripetitività, ci si stanca da morire a montare iPhone uno dietro l’altro nella fabbrica Foxconn alla periferia di Shanghai. Per altri versi, quello che rende così faticoso il lavoro di assistenza è il fatto di essere pagati (anche) per fingere di farlo con vera partecipazione, di tenere veramente ai propri “assistiti”: una maestra d’asilo è pagata anche per mostrare sincero affetto nei confronti dei bambini, e la stessa cosa vale per chi bada agli anziani. Riuscite a immaginare lo stress che comporta essere sempre “affettuosi”? In contrasto con i due casi precedenti, nei quali è possibile almeno mantenere una certa distanza nei confronti di quello che si sta facendo (anche se ci viene richiesto di essere affettuosi con un bambino, possiamo sempre fingere di esserlo), il terzo caso richiede qualcosa che è molto più stancante. Immaginate che io venga assunto per pubblicizzare un prodotto in modo tale da convincere la gente a comprarlo, anche se il prodotto non mi interessa o addirittura lo odio, devo sfruttare al massimo la mia creatività, cercando di trovare soluzioni originali, e quello sforzo può stancarmi molto di più del noioso lavoro ripetitivo alla catena di montaggio. Questa è la specifica stanchezza di cui parla Han. Ma non sono solo i precari che lavorano al pc da casa che si stancano perché si autosfruttano. Esiste anche un altro tipo di attività per la quale di solito si usa il termine ingannevole di “lavoro creativo di squadra”: in questo caso ci si aspetta che le persone assumano funzioni imprenditoriali, al posto dei manager o dei proprietari, e si occupino “in modo creativo” dell’organizzazione sociale della produzione e della distribuzione. Il ruolo di questo gruppo è ambiguo: da una parte “appropriandosi delle funzioni imprenditoriali, vedono il carattere sociale e il significato del loro lavoro dal punto di vista limitato del profitto”: “La capacità di organizzare la forza lavoro e la collaborazione in modo efficiente ed economico, e di pensare all’aspetto socialmente utile della forza lavoro, è utile per l’umanità e lo sarà sempre”. Ma lo fanno in condizioni di continua subordinazione al capitale, vale a dire allo scopo di rendere l’azienda più efficiente e redditizia, ed è questa tensione che rende così estenuante il “lavoro creativo di squadra”. Sono ritenuti responsabili del successo dell’azienda, senza contare che il lavoro di squadra implica la competizione tra loro e con altri gruppi. Sono lavoratori pagati per svolgere compiti che tradizionalmente spetterebbero ai capitalisti in quanto organizzatori del processo di produzione, perciò in un certo senso si trovano ad avere l’aspetto peggiore di entrambe le funzioni: hanno tutte le preoccupazioni e le responsabilità dei manager pur rimanendo lavoratori retribuiti senza alcuna sicurezza per il proprio futuro, la situazione più stressante che si possa immaginare. Dovremmo anche osservare che le divisioni di classe hanno acquistato una nuova dimensione con il panico per il coronavirus. Pur stando in isolamento a casa, siamo bombardati da chiamate dall’ufficio. Ma chi può lavorare così? Solo quelli che svolgono lavori di tipo intellettuale o manageriale come me, che possono collaborare in teleconferenza o usando altri sistemi digitali, così che, anche quando siamo in quarantena, il nostro lavoro può procedere più o meno tranquillamente, possiamo perfino avere più tempo per “sfruttare noi stessi”. Ma quelli che devono lavorare fuori, nelle fabbriche e nei campi, nei negozi, negli ospedali e nei trasporti pubblici? Molte cose devono andare lisce nell’insicuro mondo esterno perché io possa sopravvivere in quarantena. E, l’ultima cosa, anche se non la meno importante, è che dovremmo sfuggire alla tentazione di criticare la rigida autodisciplina e la dedizione al lavoro, invitando gli altri a “prenderla con filosofia” – Arbeit macht frei è ancora il motto giusto nonostante il pessimo uso che ne hanno fatto i nazisti. Certo, il lavoro di quelli che devono combattere gli effetti dell’epidemia è durissimo, ma è un lavoro gratificante a beneficio della comunità, molto diverso dallo stupido sforzo per rincorrere il successo. Quando un medico o un infermiere sono esausti perché hanno lavorato più ore del dovuto, la loro stanchezza è molto diversa da quella di chi è ossessionato dalla propria carriera.
Coronavirus: un
nuovo comunismo
può salvarci
Articolo di Slavoj
Žižek del 21 Marzo 2020 – Rivista
online “Internazionale.it”
I nostri mezzi
d’informazione ripetono ossessivamente “Niente panico!”. E poi arriva una
montagna di dati che inevitabilmente scatena il panico. La situazione mi fa
tornare in mente i tempi della mia giovinezza in un paese comunista: quando le
autorità del governo dicevano all’opinione pubblica che non c’era motivo di aver
paura, tutti prendevano quelle rassicurazioni come un chiaro segnale del fatto
che erano loro stesse a essere spaventate. Il panico segue una logica propria.
Il fatto che nel Regno Unito, a causa del Covid-19, la malattia originata dal
nuovo coronavirus, dai negozi siano scomparsi perfino i rotoli di carta
igienica mi ricorda un incidente avvenuto nella Jugoslavia socialista. Di punto
in bianco cominciò a circolare la voce che nei negozi scarseggiava la carta
igienica. Le autorità rilasciarono subito delle dichiarazioni, assicurando che
c’erano sufficienti scorte di carta per il consumo ordinario.
Sorprendentemente, non solo era vero ma la gente per lo più ci credette. Il
consumatore medio, però, ragionò in un altro modo: so che c’è abbastanza carta
igienica e che si tratta di una voce senza fondamento, ma che succederebbe se
qualcuno la prendesse sul serio e, in preda al panico, cominciasse a comprare
quantità eccessive di carta igienica, facendo esaurire le scorte? Quindi è
meglio che ne compri un po’ anch’io. Non occorre neppure credere che altri
prendano questa voce sul serio, basta supporre che altri credano che ci siano
persone che prendono la voce sul serio: l’effetto è lo stesso, vale a dire la
mancanza di carta igienica nei negozi. Oggi non sta forse succedendo qualcosa
di simile nel Regno Unito (e in California)? Lo strano contraltare di questo
genere di panico è la totale assenza di panico quando sarebbe pienamente
giustificato. Negli ultimi due anni, dopo l’epidemia di Sars e di ebola, ci
hanno ripetuto molte volte che sarebbe arrivata una nuova epidemia, molto più
grave. Era solo questione di tempo, il punto non era se, ma quando sarebbe
successo. Anche se razionalmente eravamo convinti della fondatezza di queste
tragiche previsioni, in qualche modo non le prendevamo sul serio ed eravamo
restii ad agire e a impegnarci in preparativi seri. Gli unici ad affrontarle
sono stati i film apocalittici come Contagion. Questa contraddizione ci dice che il
panico non è il modo giusto di affrontare una minaccia reale. Quando reagiamo
con il panico non prendiamo una minaccia troppo sul serio, ma al contrario la
banalizziamo. Pensate solo a quanto è ridicolo l’acquisto eccessivo di carta
igienica: come se avere abbastanza carta igienica potesse contare qualcosa nel
bel mezzo di un’epidemia mortale. E allora quale sarebbe una reazione
appropriata all’epidemia del nuovo coronavirus? Cosa dovremmo imparare e cosa
dovremmo fare per affrontarla seriamente? Quando ho suggerito che questa
epidemia potrebbe dare nuovo slancio vitale al comunismo, la mia tesi, come
previsto, è stata messa in ridicolo. Sembra che l’approccio drastico dello
stato cinese alla crisi abbia funzionato, o almeno ha funzionato meglio di
quello che sta facendo l’Italia. Ma la vecchia logica autoritaria dei comunisti
al potere ha anche dimostrato chiaramente i suoi limiti. Uno di questi limiti è
che la paura di dare cattive notizie a chi ha il potere (e all’opinione
pubblica) conta più dei risultati: è per questo che i primi ad annunciare il
nuovo virus sono stati arrestati. Oggi sembra che stia succedendo qualcosa di
simile, come ha raccontato il 1 marzo il sito Bloomberg News: “Le pressioni per
far tornare al lavoro la Cina dopo la paralisi provocata dal coronavirus stanno
risuscitando una vecchia tentazione: manipolare le cifre in modo da mostrare
alle autorità quello che vogliono vedere. Questo fenomeno è evidente nei dati
sul consumo di elettricità nella provincia di Zhejiang, un centro industriale della
costa orientale. Stando a persone che conoscono bene la questione, almeno tre
città hanno dato alle fabbriche locali obiettivi da raggiungere nel consumo di
energia elettrica perché questo dato serve a dimostrare una ripresa della
produzione. E si dice che alcune aziende siano state spinte a mettere in
movimento le macchine anche se gli impianti rimangono vuoti”. Possiamo solo
indovinare cosa succederà quando le autorità al potere si accorgeranno di
questo inganno: i dirigenti locali saranno accusati di sabotaggio e saranno
puniti, riproducendo il circolo vizioso della sfiducia. Ci vorrebbe un Julian
Assange cinese per rivelare all’opinione pubblica questo lato nascosto della
lotta nazionale contro l’epidemia. Ma allora, se non è questo il comunismo che
ho in mente, cosa intendo per comunismo? Per capirlo, basta leggere le
dichiarazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Il 5 marzo il
direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato che sebbene le autorità
sanitarie di tutto il mondo siano in grado di combattere con successo la
diffusione del virus, l’organizzazione è preoccupata perché in alcuni paesi il
livello d’impegno politico non corrisponde al livello della minaccia. “Questa
non è un’esercitazione. Questo non è il momento di arrendersi. Questo non è il
momento delle scuse. È il momento di fare ogni sforzo possibile. I paesi hanno
fatto piani per scenari come questo da decenni. Ora bisogna agire sulla base di
quei piani”, ha detto Tedros. “L’epidemia può essere respinta, ma solo con un
approccio ad ampio raggio, coordinato e collettivo che impegni l’intero
meccanismo di governo”. Si potrebbe aggiungere che questo approccio ad ampio
raggio dovrebbe estendersi ben oltre il meccanismo dei singoli governi:
dovrebbe andare dalla mobilitazione locale di persone al di fuori del controllo
statale a un coordinamento e a una collaborazione internazionali forti ed
efficienti. Se migliaia di persone saranno ricoverate in ospedale per problemi
respiratori servirà un numero molto superiore di apparecchi per la ventilazione
polmonare, e per averle lo stato dovrebbe intervenire direttamente, come
succede in condizioni di guerra quando servono migliaia di fucili, e dovrebbe
poter contare sulla collaborazione di altri stati. Come in una campagna
militare, le informazioni dovrebbero essere condivise e i piani perfettamente
coordinati. Questo è il “comunismo” che secondo me serve oggi. Come ha scritto Will Hutton sul Guardian: “Oggi una forma di globalizzazione senza regole del libero mercato, con
la sua propensione per crisi e pandemie, sta morendo. Però ne sta nascendo
un’altra, che riconosce l’interdipendenza e il primato dell’azione collettiva
basata sull’evidenza dei fatti. Quella che ancora predomina è la posizione
“ogni paese per sé”, spiega Hutton, e “ci sono divieti nazionali alle
esportazioni di prodotti cruciali come le forniture mediche, con paesi che si
affidano alle proprie analisi della crisi tra penurie e metodi improvvisati di
contenimento.” L’epidemia di Covid-19 non dimostra solo i limiti della
globalizzazione dei mercati, ma anche quelli ancora più letali del populismo
nazionalista che insiste sulla piena sovranità dello stato: è la fine di “Prima
l’America (o qualunque altro paese)!”, perché gli Stati Uniti si possono
salvare solo con il coordinamento e la collaborazione globale. Non sono un
utopista, non invoco una solidarietà idealizzata tra esseri umani. Ma la crisi
attuale dimostra chiaramente che la solidarietà e la collaborazione globale
sono nell’interesse di tutti e di ciascuno di noi, e sono l’unica cosa
razionale ed egoista da fare. E non è solo il nuovo coronavirus: la Cina
qualche mese fa è stata scossa dalla peste suina e ora è minacciata da una
possibile invasione di locuste. Oltretutto, come ha osservato Owen Jones sempre
sul Guardian, la crisi climatica uccide molte più persone del Covid-19 in tutto
il mondo, ma per questo non si scatena certo il panico. n una prospettiva
cinicamente vitalistica, si sarebbe tentati di considerare questo virus
un’infezione positiva che permette all’umanità di sbarazzarsi di vecchi, deboli
e malati, un po’ come sradicare le erbacce, e quindi contribuisce alla salute
globale. L’approccio comunista che propongo è l’unico modo per lasciarci alle
spalle questa posizione vitalistica e primitiva. I segnali di un freno alla
solidarietà incondizionata sono già riconoscibili nei dibattiti in corso, come
spiega questo articolo dell’Independent su un possibile ruolo dei “tre saggi”
nel Regno Unito: “Durante una grave epidemia di coronavirus, se i reparti di
terapia intensiva non riusciranno a far fronte all’emergenza, i pazienti del
servizio sanitario nazionale potrebbero vedersi negate cure salvavita. Seguendo
il cosiddetto protocollo dei tre saggi, nell’eventualità di un sovraffollamento
degli ospedali, tre esperti di ogni struttura sarebbero costretti a prendere le
decisioni sul razionamento di mezzi di assistenza come letti e ventilatori
polmonari”. Quali criteri seguiranno i tre saggi? Sacrificare i più deboli e i
più vecchi? E questa situazione non favorirà un’immensa corruzione? Queste
procedure non indicano che ci stiamo preparando a mettere in pratica la più
brutale logica della sopravvivenza dei più adatti? E allora, ancora una volta,
la scelta finale è: tutto questo o un qualche tipo di comunismo reinventato.
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