lunedì 19 marzo 2018

Il voto italiano visto da Berlino e Parigi


Può essere un utile esercizio conoscere le opinioni di chi ci osserva dall’estero. Queste che seguono sono quelle di due giornalisti/politologi che seguono abitualmente le vicende politiche tedesche e francesi e che, partendo da questi due punti di vista “esterni”, raccontano in che modo a Berlino e Parigi è stato vissuto l’esito del 4 Marzo. L’esercizio è utile in due sensi: il primo è quello dello sguardo sull’Italia dal di fuori, il secondo è, di rimbalzo, il nostro sguardo su questo al di fuori



L’europeizzazione della politica nazionale
Le elezioni a Berlino, Parigi e Roma:
 storie diverse ma con molti punti in comune.



La bomba italiana - Le elezioni italiane viste da Berlino

Articolo di Lorenzo Monfregola (giornalista freelance. Si occupa principalmente di Germania, politica e geopolitica. È italo-tedesco e risiede a Berlino)



L’ augurio è che non ci vogliano sei mesi”. Così ha risposto il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, a una domanda sul prossimo governo italiano. Una risposta concreta, ma anche autocritica. L’esecutivo Merkel IV, infatti, entrerà in carica il prossimo 14 marzo, quando saranno trascorsi quasi sei mesi dalle elezioni tedesche del 24 settembre 2017. In qualche modo, Berlino ha passato il testimone dell’incertezza a Roma, dimostrando che la frammentazione politica è un problema complessivamente europeo. Restano, però, delle differenze strutturali tra il limbo tedesco da poco concluso e quello italiano che si è appena aperto. Una su tutte: in Germania ci sono i soldi per armonizzare diverse istanze politiche. La preoccupazione tedesca per il risultato delle elezioni italiane è stata palpabile, ma non eccessiva. I giornali hanno parlato di shock elettorale (curioso, visto il risultato annunciato da tempo). Non sono mancate analisi tedesche sulla cronica irresponsabilità latina, che potrebbe sabotare l’auto-proclamato ciclo europeista Merkel-Macron. L’impressione generale comunque è che, pur nel fisiologico nervosismo del caso, a Berlino e a Francoforte si scommetta che la ferocia della logica finanziaria s’imporrà presto come disciplinatore quasi automatico delle legittime urgenze espresse dagli elettori italiani.

Lo stallo post-elettorale italiano è simile a quello tedesco?

Si tratta di una domanda emersa spesso, in questi giorni. La risposta è ambivalente. Sia la Germania sia l’Italia hanno visto il rumoroso crollo dei propri partiti di centrosinistra: il 20,5% della SPD somiglia molto al 18,7% del PD italiano, così come è indicativo che, in caso di partecipazione al governo, il centrosinistra è o sarebbe destinato al ruolo di socio di minoranza. SPD e PD non sono ancora sulla strada della pasokification (la sostanziale estinzione politica che ha colpito i socialisti in Grecia, in Francia e in Olanda), ma le elezioni italiane, come quelle tedesche, hanno confermato la crisi delle socialdemocrazie europee. Nel confronto tra Italia e Germania ci sono, invece, differenze evidenti per quanto concerne il centrodestra. Malgrado una consistente flessione elettorale, la CDU-CSU è ancora una forza storicamente dominante (e lo sarà fino a quando l’estremismo di centro merkeliano non perderà il proprio baricentro). Il centrodestra italiano, al contrario, è così anomalo nel suo legame con il personalismo del suo leader che è difficile fare paragoni con altri paesi.

Prima del 4 marzo, Angela Merkel aveva addirittura puntato su Berlusconi, riabilitandolo politicamente nel quadro del Partito Popolare Europeo. La speranza della Kanzlerin era che l’anziano leader potesse dar vita a un esecutivo centrista o a un governo di destra all’austriaca. Non è andata così: la Lega ha superato Forza Italia, le carte in tavola sono velocemente cambiate e il PPE non potrà muoversi agevolmente come garante sovranazionale. In Germania, per note motivazioni di cultura politica, un’alleanza tra conservatori e destra populista è impossibile. La destra di Alternative für Deutschland vive un ostracismo quasi assoluto e nessuna forza politica si sogna (ancora) di utilizzarne il patrimonio di seggi nel Bundestag. I paralleli tra Lega e AfD sono semplici da tracciare (anche se le similitudini non sono così potenti come tra Lega e Front National francese). Salviniani e AfD hanno chiaramente costruito il proprio capitale politico sul rifiuto dell’immigrazione in senso securitario, presentando anche un particolare mix di tradizionalismo cristiano e difesa del laicismo di fronte alle culture islamiche. Tramite l’etnicizzazione del dissenso sociale, i due partiti sono penetrati sia nel crescente disagio della classe media sia in quello del proletariato bianco più abbandonato a se stesso. Infine, le destre sovraniste italiana e tedesca sono entrambe fortemente contrarie alla moneta unica, in un’alleanza temporanea degli intenti che, paradossalmente, difende un’essenziale conflittualità tra le due parti. Conflittualità che, ad esempio, crea un ambivalente campo minato quando si considera l’intreccio di competizione-collaborazione tra la Germania e un bastione leghista come il Nord-Est, che è parte integrante della filiera produttiva tedesca. Sul piano matematico del consenso elettorale, la CDU italiana è oggi il Movimento 5 Stelle. I risultati delle due forze sono quasi uguali: 32,9% per i cristiano democratici tedeschi, 32,6% per il M5S. L’atteggiamento tedesco nei confronti del Movimento è confuso, in linea con la stessa ambiguità ed estrema eterogeneità di idee dei 5S su molti temi, inclusi i dossier UE ed euro. Il Movimento è stato guardato a lungo con sospetto in Germania, non solo per la sua particolare origine (anti)politica e per altre specifiche storture, ma anche a causa della sua affiliazione allo stesso gruppo di AfD nel Parlamento Europeo (EFDD). A questo proposito, lo scorso gennaio, Luigi di Maio ha portato fino in Germania il processo di normalizzazione del Movimento, con un’intervista in cui ha presentato il M5S come forza moderata di riformismo dell’UE, aggiungendo: “Vi posso assicurare che siamo lontani anni luce da AfD”. In merito al M5S, bisogna anche notare come, in questi giorni, alcuni dei sostenitori italiani più convinti di un’inedita alleanza M5S-PD stiano facendo riferimento al modello della Grosse Koalition. Si tratta di una prospettiva che può essere correttamente utilizzata per descrivere scenari futuri, ma che è molto superficiale da proporre come un modello direttamente trasferibile. SPD e CDU hanno appena governato insieme 4 anni e, sul piano ideologico, sono praticamente arrivate a fondersi nel centrismo merkeliano. Durante l’ultima campagna elettorale tedesca, quasi nessuno credeva alle contrapposizioni tra socialdemocratici e cristiano-democratici, malgrado qualche sparata comunicativa che mirava proprio a distinguere l’indistinguibile. Una dinamica diametralmente opposta alle due forze politiche italiane, M5S e PD, che si sono fino a oggi presentate l’una come la nemesi dell’altra.
Il nervosismo tedesco di fronte al M5S deriva anche dal fatto che, al di là di un antieuropeismo tout court di tanti suoi elettori (ed eletti), ci sono proposte del Movimento in tema Europa che mettono il dito nella piaga dell’effettivo squilibrio strutturale interno all’Unione. Si tratta di richieste di riforma che non possono essere liquidate con il bollino passepartout del populismo, sempre che non si voglia giudicare come populista qualunque critica che si approcci all’Unione a partire dalle istanze contingenti delle rispettive cittadinanze. Dati gli attuali assetti interni all’UE, ad esempio, la Germania non ha bisogno di eleggere un governo apertamente anti-europeo, ma una buona parte della CDU, l’intera CSU bavarese e tutti i liberali di FDP non sono meno euroscettici di tante altre realtà politiche del continente. Stessa cosa vale per il ruolo geopolitico del surplus commerciale tedesco, sostanzialmente supportato anche dai socialdemocratici e da chiunque altro sia mai arrivato a governare a Berlino. Il surplus della Germania è una legittima religione nazionale, ma è pur sempre ben poco europeista, visto che favorisce soprattutto la cosiddetta Kerneuropa (mitteleuropa + partner produttivi). La stessa proposta del M5S di attivare in Italia un sistema di reddito minimo garantito (anche se confusamente definito “reddito di cittadinanza”) impone la riflessione sulla disomogeneità del welfare nell’Unione Europea. L’Italia e la Grecia sono i soli paesi dell’eurozona a non avere un simile sistema di reddito minimo per chi è disoccupato o non è mai stato occupato. L’introduzione di un reddito minimo garantito, quindi, sarebbe un passaggio che potrebbe allineare l’Italia ai modelli di welfare pubblico dei maggiori partner UE. Le cose, però, possono complicarsi velocemente: molto dipende da come verrebbe materialmente implementata una simile riforma, che, dati alla mano, non potrà in alcun modo essere sganciata da provvedimenti che rilancino davvero la produttività dell’economia italiana. Non è ancora del tutto chiaro se, come criterio discriminante per l’accesso al reddito minimo, il M5S voglia utilizzare solo le entrate mensili o considerare anche l’eventuale patrimonio dei nuclei familiari. Resta il fatto che la proposta tenda ad andare proprio nella direzione della matrice del sistema dei Jobcenter tedeschi, nati dalla riforma Hartz IV dei primi anni 2000. L’Hartz IV è parte dell’Agenda 2010, un’epocale ristrutturazione del welfare che ha reso la Germania molto più competitiva su scala globale, ma che ha anche declinato in senso più liberista l’economia sociale di mercato, attuando drastici tagli dello stato sociale complessivamente inteso. Sul tema del reddito minimo garantito, il confronto con il modello tedesco sarebbe quindi istruttivo e utile per analizzare le luci e le ombre dell’inserimento di specifiche tipologie di sussidio. Un approfondimento farebbe emergere anche i particolari ostacoli all’implementazione di un Hartz IV all’italiana: si va da un profilo socioeconomico storicamente fatto di welfare familiare e risparmio privato (ostile alla massiccia invasività dello stato sociale di tipo tedesco), si passa da una burocrazia italiana poco efficiente nella gestione di sistemi complessi e si arriva a problematiche endemiche come la (grande e piccola) corruzione.

Ovviamente, nell’analisi fin qui svolta, manca ancora un dato principale, fondamentale e ineliminabile. Se ci sono degli ostacoli a un riposizionamento italiano nell’UE e a una riforma del welfare in Italia, è l’ecosistema in cui sono inseriti questi stessi ostacoli a definire davvero la situazione. L’ecosistema in questione è il meccanismo del debito. Come noto, il debito pubblico italiano è al 130% circa del PIL, con tutto quello che ne consegue. Il debito non è uno degli elementi dello scenario, ma è lo scenario stesso, lo spazio in cui tutto è destinato ad accadere, almeno nel perdurare della razionalità del capitalismo finanziario. L’ecosistema-debito è anche lo spazio in cui la Germania vede l’Italia, a prescindere da quale nuovo governo italiano andrà a discutere a Berlino, a Francoforte o a Bruxelles. In tedesco la parola “debito” si traduce con la parola “Schuld”, termine il cui significato primario è “colpa” (il che definisce a sufficienza il piano culturale dell’intera questione). Se, da un lato, una parte della Germania vuole realmente aprirsi al resto d’Europa, dall’altro i tedeschi vedono il debito altrui come un virus contagioso e letale, nel terrore di dover spendere di tasca propria nel caso qualcuno scelga, ad esempio, di attaccare l’eurozona. Se ciò avvenisse, la Germania centrista lascerebbe velocemente il posto a una nuova generazione di falchi interni e l’UE crollerebbe quasi automaticamente.
L’ecosistema del debito definisce quindi la sempre più esasperata fragilità interna dell’Unione Europea. Ecco perché gli europeisti più convinti insistono sulla necessità di nuove forme di condivisione del debito, ad esempio partendo dagli Eurobond. Si tratterebbe di un’unione finanziaria che non si limiterebbe alla vigilanza tra partner e che porterebbe a un nuovo livello le istituzioni europee, magari procedendo contemporaneamente a un progetto di difesa militare comune e generalizzando il sistema di welfare. Attualmente, però, questo tipo di UE non ha molti sostenitori, tanto meno in Germania, dove si preferisce un’Unione che si limiti a imitare il FMI e a far rispettare i sacri vincoli di bilancio. Malgrado i grandi annunci, anche il nuovo europeismo Merkel-Macron sembra essere poco inclusivo e ostinatamente bilaterale in questo senso. La concessione di benefit di flessibilità sembra soprattutto dedicata alla Francia, la cui economia non è certo in piena salute, ma viene protetta da un asso nella manica praticamente imbattibile: essere la sola potenza nucleare dell’Unione Europea post-Brexit.

L’Italia, da parte sua, non ha jolly di questo tipo. Senza una concreta evoluzione del progetto europeo, alla politica estera italiana non resterebbe che un gioco pericoloso di posizionamenti che sfrutti il crescente disordine mondiale, ad esempio muovendosi tra le varie sponde multipolari europee (gruppo Visegrád, questione catalana, Brexit) e globali (rapporti con la Russia o con l’USA neo-protezionista di Trump). Nonostante i cambiamenti interni che si prospettano nel paese, quindi, il rischio per l’Italia è di continuare a riprodurre una tipica scena dei film d’azione: il protagonista è accerchiato da nemici arrabbiati ma tiene in mano una bomba, facendo intendere che un’eventuale esplosione coinvolgerebbe tutti quanti. Nei film, di solito, funziona.

Verso una struttura europea dei partiti nazionali- Le elezioni italiane viste da Parigi .

Articolo di Gilles Gressani (Dirige il Groupe d'études géopolitiques in Parigi).



È uno dei problemi teorici più affascinanti dello strutturalismo, il grande movimento scientifico e filosofico che ha animato il novecento francese. Come fare per spiegare la molteplice serie di variazioni di un mito, come seguire l’innumerevole ricomposizione e la permutazione dei suoi elementi? In meno di un anno, dal secondo turno delle elezioni francesi del 7 maggio alle elezioni italiane del 4 marzo, in Europa una domanda molto simile sembra porsi nell’ambito della configurazione politica dei nostri sistemi elettorali e rappresentativi. Le forze in campo vagano in un’inquieta ricerca di un ordine e di una tensione attorno a cui definirsi. Tra aperto e chiuso, tra patriota e nazionalista, la disordinata ricomposizione dell’ordine politico di origine novecentesca è alla ricerca, nel contesto della crisi dello stato nazione, di una relativa stabilità. Il caso francese sembra, nel contesto di europeizzazione del politico, mostrare alcune direzioni fondamentali di questo processo. Possiamo isolare due movimenti fondamentali. Da una parte lo svuotamento dei partiti tradizionali a opera di un nuovo movimento di indirizzo ideologico fluido. Si riconoscerà l’esperienza d’En Marche, la formazione politica lanciata nell’aprile 2016 da Emmanuel Macron per prendere d’assalto la presidenza della Repubblica, contribuendo, grazie a un fortunato gioco di domino alla fine dell’assetto che aveva definito la vita politica della quinta repubblica da De Gaulle à Hollande. Dall’altra, la chiara affermazione elettorale, in un contesto di violenta ricomposizione politica, di una destra neo-nazionalista, per il momento strutturalmente incapace di giungere al governo del paese, il cui rapporto con l’Unione europea è caratterizzato da una diffidenza o da un rifiuto, ma il cui rapporto con l’Europa non sembra trovare una formulazione sufficientemente leggibile. Si riconoscerà in questa descrizione il nuovo Front National di Marine Le Pen, drammaticamente sconfitto nel secondo turno dell’elezione, in gran parte proprio a causa di un’incomprensibile proposta di scita dall’euro. Questo doppio movimento sembra fornire un’ottima griglia di analisi per capire il caos molle” delle elezioni italiane, secondo la bella formula utilizzata da Mélenchon per definirne il contesto.
Innanzi tutto, per capire il successo della Lega di Matteo Salvini, capace di passare dal 4% al 17% dei voti, bisogna seguire la profonda ricollocazione della sua formula politica, in gran parte ispirata alla trasformazione del nuovo Front National di Marine Le Pen, che ha portato un partito in larga misura regionalista a diventare un partito capace di ambire al premierato. Nella selva di messaggi di congratulazione a Salvini, Marine Le Pen ha insistito sui meriti della “strategia salviniana di rottura dell’isolamento geografico”. La nazionalizzazione del partito è stata ottenuta da Salvini attraverso una disciplinata ricerca di contraddizioni politiche poste su una nuova scala geografica. Dall’odio per Roma a quello per i Rom (si ricorderà il funesto
slogan “RUSPE IN AZIONE”) dall’ostilità verso il sud a quella verso le banche e i migranti, dal partito concepito, in parte, da Miglio all’odio degli intellettuali. Come Marine Le Pen, Matteo Salvini ha saputo aprire il campo politico a una nuova opposizione geopolitica fondamentale: quella tra i sedentari essenziali (coloro per cui lo spostamento è un declassamento e che trovavano nella forma dello Stato nazione, ora in crisi, una tutela simbolica e sostanziale) e i nomadi virtuali (quelli per cui si verifica l’inverso, e che potrebbero cioè decidere di partire anche quando decidono di restare). Così facendo però, la configurazione politica di riferimento non si limita solamente ad un allargamento alla scala nazionale ma diventa inter-nazionale o almeno europea. In questo contesto, l’ipotesi di un’europeizzazione della politica deve essere presa seriamente. Non soltanto la classe politica nazionale segue ormai un’agenda europea che la porta a interessarsi alle elezioni degli altri Stati membri (fondamentali per esempio nella definizione degli equilibri diplomatici dell’Eurogruppo), ma è proprio l’opinione pubblica europea a essere interconnessa in maniera totalmente inedita all’attualità politica. In una dichiarazione ufficiale del 5 marzo il Front National spiega questa tendenza molto chiaramente. “Intendiamo continuare e intensificare i contatti e le alleanze su scala europea. È nostro dovere cercare di sostituire a questa Unione anti-europea, un progetto fondato sul rispetto della libertà delle nazioni e della volontà dei cittadini…” D’altro canto, come mostrano gli studi parlamentari applicati alle dinamiche elettorali, è proprio nell’Europarlamento che l’attività politica recente dei neo-nazionalisti trova la sua origine e la sua prima fonte di sostentamento. Il meeting di Coblenza del febbraio 2017, organizzato dall’Europa delle nazioni e delle libertà, il gruppo politico di estrema destra del parlamento europeo che raccoglie assieme alla Lega, tra gli altri, il Front National, aveva già chiaramente mostrato i vari partiti neo-nazionalisti sfilare assieme, sventolando le loro bandiere nazionali come sulla piazza del parlamento di Strasburgo.  L’attesa e la pazienza non sono parole solitamente associate al carattere politico di Emmanuel Macron. Ciononostante la presa di posizione del presidente della Repubblica francese alle elezioni italiane è stata caratterizzata da un certo rispetto ampolloso delle istituzioni “per ora resto prudente, e aspetto le decisioni del presidente della Repubblica italiana”. In realtà, come ci è stato suggerito da alcune persone vicine alla presidenza, questa attesa accompagna un messaggio politico implicito. Il riconoscimento del ruolo di mediazione di Mattarella sottintende un lavoro di ricomposizione di un’alleanza di governo che non veda la partecipazione dei neo-nazionalisti, fosse anche nell’ottica di un governo di scopo, in una sorta di “grande coalizione” all’italiana. Gli osservatori più acuti lo hanno fin da subito sottolineato. Se la sorpresa di questa elezione risiede nel Movimento Cinque Stelle è perché il Movimento ha ripetuto da un punto di vista strutturale, partendo in larga parte da temi e parole chiavi opposte, l’opera di svuotamento dei partiti nazionali propria del movimento macroniano. Con alcune differenze semantiche (En Marche insisteva sulla grandeur, il M5S sull’onestà) da un punto di vista sintattico, l’effetto sull’assetto politico è stato analogo. Come dimostrato da Raffaele Alberto Ventura in un articolo pubblicato sul Grand Continent che ha avuto un certo effetto in Francia, “il Movimento Cinque Stelle è l’erede della democrazia cristiana al tempo di Internet”. In questo contesto, contrariamente allo scenario che sembra predire Le Monde, la vittoria elettorale del Movimento Cinque Stelle potrebbe iscriversi plasticamente nella grande operazione europeista di Emmanuel Macron soprattutto a causa della vittoria concomitante della Lega, che riproduce in Italia il rapporto di forze del contesto francese. Non sarebbe il primo errore di apprezzamento del giornale della Rue Solferino: cade quest’anno il 50 anniversario della sua prima pagina “La Francia si annoia”, pubblicata ad una settimana dall’esplosione del 68. Il Partito socialista francese, ancora tramortito dal coup de force di En Marche e in lenta ricomposizione attraverso un complicato congresso e delle primarie dal seguito, per il momento, molto ridotto, si inquieta del destino che aspetta il PD. “Il risultato interpella la sinistra” dice uno dei suoi membri, Vallaud. La posizione di Renzi, ostinatamente contrario a ogni ipotesi di governo di scopo o di grande o piccola coalizione, sembra in un certo senso appoggiarsi sulla riflessione che era stata formulata già qualche mese fa da Thomas Piketty nel contesto tedesco (prova, ancora una volta, dell’europeizzazione degli scenari politici nazionali): “la scelta politica di un’alleanza con la CDU non è per forza una cattiva scelta, però, chiaramente, non sembra condurre le istanze della sinistra al potere”. L’ipotesi di europeizzazione del “politico” sembra ormai essenziale per ritrovarsi nella vita politica nazionale, e ben al di là della sua utilità nel racconto del politico che ci porta a sovrapposizioni un po’ rapide tra traiettorie politiche – ancora recentemente, e molto superficialmente, l’editorialista di estrema destra, Eric Zemmour, analizzava con accenti di soddisfazione la sconfitta di Renzi: “Renzi è il passato di Macron e rischia di diventare il suo futuro”. Se il neonazionalismo sembra tendenzialmente diventare una soluzione politica transnazionale capace di dare una prospettiva politica continentale attorno ad una formula politica identitaria, la formula politica tecno-cesarista di Emmanuel Marcon potrebbe giungere ad una ridefinizione degli equilibri di forza su scala europea, creando un gruppo centrista capace di alleare istanze contraddittorie, per riformare nel senso di una più grande integrazione gli equilibri europei.



N.B. = entrambi questi articoli sono stati tratti dalla rivista on-line “La Tascabile”

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