Giornali
e televisioni hanno velocemente presentato i dati più rilevanti, ma
l’importanza della fotografia del nostro paese che emerge da questa indagine
della Banca d’Italia è tale che abbiamo ritenuto utile ed interessante
recuperare, anche se in modo ancora sintetico, un suo quadro più completo
Sintesi per punti
dell’indagine sui bilanci delle famiglie italiane nel 2016 svolta da Bankitalia
I principali risultati
· Il reddito medio
delle famiglie italiane rilevato dall’indagine sul 2016, a prezzi costanti
e corretto per confrontare tra loro nuclei familiari di diversa composizione, è cresciuto del 3,5 per cento rispetto a quello rilevato
dalla precedente indagine sul 2014, dopo essere pressoché
ininterrottamente caduto dal 2006.
· La crescita è stata
sospinta dall’aumento sia dei redditi unitari da lavoro dipendente sia del
numero di percettori.
· In tutte le
principali classi di reddito, è cresciuta la quota di nuclei familiari che nel
corso del 2016 sono riusciti a risparmiare.
· Secondo le famiglie,
il reddito avrebbe continuato a crescere anche nel corso del 2017
· È aumentata la
disuguaglianza nella distribuzione dei redditi che, misurata dall’indice di
Gini, è tornata in prossimità dei livelli prevalenti alla fine degli anni
novanta del secolo scorso.
·
È aumentata anche la quota di individui a rischio di
povertà,
definiti come quelli che dispongono di un reddito equivalente inferiore al 60
per cento di quello mediano. L’incidenza di questa condizione,
che interessa perlopiù le famiglie giovani, del Mezzogiorno o dei nati
all’estero, è salita al 23 per cento, un livello molto
elevato.
· La ricchezza
netta media e quella mediana sono diminuite del 5 e 9 per cento a prezzi
costanti.
Come in passato, il calo ha riflesso quasi interamente la caduta dei prezzi
delle case.
· La quota di
famiglie indebitate ha continuato a ridursi, al 21 per cento; il valore mediano
del rapporto tra l’ammontare complessivo dei debiti familiari e il reddito è
sceso al 63 per cento, dal picco dell’80 registrato nel 2012.
l reddito delle famiglie
e la sua distribuzione
· Nel 2016 il
reddito annuo familiare, al netto delle imposte sul reddito e dei contributi
sociali, è stato in media pari a circa 30.700 euro (30.600 euro nel
2014). Al netto della variazione dei prezzi è un valore sostanzialmente analogo
a quello rilevato nelle indagini sul 2012 e sul 2014 ma ancora inferiore
di circa il 15 per cento a quello registrato nel 2006, prima
dell’avvio della crisi finanziaria globale
· Tra il 2014 e il 2016 il reddito medio familiare è stato
sospinto da quello da lavoro dipendente che ha beneficiato della crescita del
numero di percettori e dell’aumento delle retribuzioni medie annue pro capite. Per contro, sono
diminuiti, ancorché in misura contenuta, i redditi da lavoro autonomo, da
proprietà e da pensioni e trasferimenti
·
Nel Mezzogiorno, il 13,3 per cento degli individui vive
in famiglie senza alcun percettore di reddito da lavoro rispetto al 6,1 nel
Nord e 6,9 nel Centro.
· A fronte della
sostanziale stabilità del reddito medio familiare in termini reali, il reddito
medio equivalente, una misura che meglio approssima il benessere economico individuale tenendo
conto della dimensione familiare e delle economie di scala che ne derivano, è salito a circa 18.600 euro nel
2016, il 3,5 per cento in più rispetto a due anni prima, dopo essere
diminuito, ancorché con diversa intensità, tra il 2006 e il 2014.
· L’andamento
favorevole del reddito equivalente si è accompagnato con la ripresa, a tutti i livelli di
reddito, della quota di famiglie che hanno dichiarato di essere riuscite, nel
complesso dell’anno, a risparmiare parte del loro reddito (in media, dal
27 al 33 per cento).
· Tra le famiglie
appartenenti al 30 per cento con reddito più basso è però cresciuta anche la
quota di quelle che hanno dichiarato di aver fatto ricorso ai risparmi o di
essersi indebitate per finanziare la propria spesa.
·
È altresì diminuita la quota di
famiglie che nel 2017, al momento dell’intervista, hanno dichiarato di arrivare
a fine mese con difficoltà (al 31 dal 35 per cento della rilevazione di due
anni prima); il calo è stato più evidente tra le famiglie con redditi al di
sotto di quello mediano.
· Nel loro complesso,
le famiglie si attendevano un andamento ancora positivo del loro reddito nel
corso del 2017: la quota di nuclei che ne prevedevano una crescita superiore a
quella dei prezzi è raddoppiata all’8 per cento, mentre è diminuita di oltre 8
punti, al 44 per cento, quella di famiglie che ne prefiguravano una flessione.
· La crescita del
reddito equivalente reale non è stata uniforme tra gruppi socio-demografici. La ripresa ha
interessato, pur in misura difforme, i nuclei con capofamiglia (ovvero il
componente con il reddito maggiore) fino a 55 anni e con oltre 65 anni e quelli
dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. È invece proseguita la caduta dei
redditi equivalenti per le famiglie con capofamiglia tra i 56 e i 65 anni e per
quelle dei lavoratori autonomi, il cui livello resta tuttavia in media più
elevato
· L’indice di Gini
del reddito equivalente, una misura sintetica di disuguaglianza che varia tra 0
e 1, nel 2016 è salito al 33,5 per cento, dal 33 per cento del 2012 e del 2014.
· La crescita della
disuguaglianza si è accompagnata a un ulteriore aumento, a circa il 23 per
cento,
un livello molto elevato, della quota di individui con
reddito equivalente inferiore al 60 per cento di quello mediano, una
soglia convenzionalmente usata per individuare il rischio di povertà e pari nel
2016 a circa 830 euro mensili4 L’incidenza di questa condizione
è più elevata tra le famiglie con capofamiglia più giovane, meno istruito, nato
all’estero, e per le famiglie residenti nel Mezzogiorno.
· Nei dieci anni precedenti,
seguiti alla crisi finanziaria globale, il livello della disuguaglianza,
misurato dall’indice di Gini, è aumentato di 1,5 punti percentuali riportandosi
in prossimità dei livelli toccati alla fine degli anni novanta del secolo
scorso (34,3 per cento) per effetto della prolungata caduta dei redditi
familiari, il rischio di povertà è più elevato rispetto a quel periodo, ma
inferiore per i nuclei il cui capofamiglia ha più di 65 anni o è pensionato.
La ricchezza
·
Alla
fine del 2016 le famiglie italiane disponevano in media di una ricchezza netta,
costituita dalla somma delle attività reali e delle attività finanziarie al
netto delle passività finanziarie, di circa 206.000 euro (218.000 euro nel
2014). Il valore mediano, che separa la metà più povera delle
famiglie dalla metà più ricca, era significativamente inferiore (126.000 euro,
da 138.000 euro nel 2014), riflettendo la forte asimmetria della
distribuzione6.
· Secondo
l’indagine, la quota di ricchezza netta detenuta dal 30 per cento più povero
delle famiglie, in media pari a circa 6.500 euro, è l’1 per cento; tre quarti di
queste famiglie sono anche a rischio di povertà
· Il 30 per cento
più ricco delle famiglie, di cui solo poco più di un decimo è a rischio di
povertà, detiene invece circa il 75 per cento del patrimonio netto
complessivamente rilevato, con una ricchezza netta media pari a 510.000 euro.
·
Oltre il 40 per cento di questa quota è detenuta dal 5
per cento più ricco, che ha un patrimonio netto in media pari a 1,3 milioni di
euro.
· Le attività reali
(immobili, aziende, oggetti di valore) rappresentano l’87 per cento del
patrimonio lordo delle famiglie italiane rilevato nell’indagine. Il loro valore, perlopiù determinato dalla casa di residenza,
diviene però apprezzabile dal quarto decimo più povero, dove è in media pari a circa 70.000 euro, e sale fino a quasi 800.000 euro
nella media del decimo più ricco delle famiglie. Per queste
famiglie, la quota di attività finanziarie sul patrimonio lordo oscilla attorno
al 10 per cento, avvicinandosi al 20 per cento solo per il 5 per cento più
ricco
· Per contro, circa
il 70 per cento delle famiglie appartenenti al decimo più povero della
popolazione non detiene attività finanziarie e circa metà non possiede attività
reali
· Per chi le detiene,
i valori sono contenuti (in media pari a circa 1.500 e 2.500 euro,
rispettivamente).
· Le passività
finanziarie delle famiglie italiane rappresentano meno del 5 per cento del loro
patrimonio lordo; la quota è di circa il 18 per cento se riferita alle sole
famiglie indebitate (circa il 21 per cento del totale). Il valore medio delle
passività di queste ultime è abbastanza omogeneo lungo gran parte della
distribuzione della ricchezza netta, attorno a 50.000 euro; è tuttavia molto
inferiore, circa 12.000 euro, per il 20 per cento delle famiglie più povere e
molto superiore, 171.000 euro, per il 5 per cento delle famiglie più abbienti.
· Tra il 2014 e il
2016 la ricchezza netta media è diminuita del 5 per cento a prezzi costanti, in linea con le
evidenze desumibili dalle statistiche aggregate disponibili, proseguendo la
flessione avviatasi nel 2010. Come in passato, il calo è stato determinato
dall’andamento delle attività reali che ha riflesso prevalentemente la riduzione
del valore degli immobili. Ha pertanto interessato prevalentemente i patrimoni
dei proprietari, che sono più elevati: mentre la mediana e il nono decile della
ricchezza netta sono diminuiti, a prezzi costanti, rispettivamente del 9 e di
oltre il 6 per cento, il secondo decile è cresciuto di circa il 4 per cento.
· Nel decennio tra il
2006 e il 2016, i due decili più bassi della ricchezza netta sono passati,
rispettivamente, da 2.300 a 1.100 euro e da 12.000 a 6.200 euro, la mediana è
scesa da 166.000 a 126.000 euro e il nono decile da 580.000 a 462.000 euro.
· La flessione della
ricchezza nel corso del decennio tra il 2006 e il 2016 ha interessato tutte le
famiglie, in misura pressoché indipendente dall’età o dall’attività principale.
Nel complesso del periodo, l’indice di Gini della ricchezza netta è rimasto
sostanzialmente stabile, intorno al 61 per cento, tornando sui valori iniziali
dopo essere aumentato tra il 2008 e il 2012.
· Alla fine del
2016, la quota di famiglie che detenevano attività finanziarie è ancora salita,
all’84 per cento dal minimo del 79 per cento raggiunto nel 2012, tornando sui
livelli prevalenti prima della crisi finanziaria.
· Il valore medio
familiare di tali attività era pari, tra chi le possedeva, a 33.000 euro
(31.000 euro a prezzi costanti nel 2014). Solo circa il 22 per cento deteneva
almeno un’attività finanziaria diversa da depositi bancari o postali in conto
corrente (circa il 26 per cento nel 2014), per la maggior parte nella forma di
investimenti diretti in titoli di Stato, obbligazioni private, azioni e titoli
esteri. Il valore medio della ricchezza finanziaria di queste ultime famiglie
era pari a circa 87.000 euro.
· La distribuzione
delle attività finanziarie è analoga a quella della ricchezza netta. Il 30 per cento delle famiglie italiane con patrimonio netto più basso
detiene solo circa il 4 per cento della ricchezza finanziaria complessiva (in
media circa 4.000 euro a famiglia); il 30 per cento di quelle più abbienti ne
possiede poco meno dell’80 per cento (in media circa 72.000 euro), di cui oltre
metà riconducibile ai nuclei appartenenti al 5 per cento più ricco, che
detengono in media circa 220.000 euro in attività finanziarie.
· A tali divari si
associano portafogli con composizione molto diversa. Le famiglie appartenenti al
quinto più povero detengono principalmente depositi; nelle classi centrali di
ricchezza netta cresce progressivamente la quota di titoli di Stato,
obbligazioni private e investimenti gestiti (prevalentemente fondi comuni);
sono soprattutto le famiglie appartenenti al 20 per cento più abbiente a
detenere direttamente azioni e ad affidare la gestione di una parte cospicua
delle loro attività finanziarie a operatori professionali.
· Tra il 2006 e il
2016 la ricchezza finanziaria è divenuta più concentrata: la quota di attività finanziarie posseduta dalla metà delle famiglie
con ricchezza netta più bassa è scesa di circa 5 punti percentuali, a poco meno
dell’11 per cento; quella detenuta dal 10 per cento più abbiente è salita di
quasi 5 punti, a poco meno del 53 per cento. La maggiore
concentrazione si è accompagnata con una diffusa riduzione della quota di
famiglie che detengono titoli di Stato, obbligazioni, azioni, fondi comuni e
gestioni patrimoniali, mentre è aumentata, pur restando complessivamente contenuta,
la quota di famiglie più abbienti che detengono titoli esteri.
·
Questi andamenti hanno tuttavia contribuito solo
marginalmente alla maggiore concentrazione che ha invece riflesso
prevalentemente la riduzione del valore complessivo dei portafogli detenuti dai
quattro quinti delle famiglie meno abbienti e la crescita di quello detenuto
dal 20 per cento più ricco.
Gli immobili e le abitazioni
· Alla fine del
2016, quasi il 70 per cento delle famiglie italiane possedeva l’abitazione di
residenza e circa un quarto di esse possedeva anche altri immobili; solo il 2 per
cento delle famiglie possedeva immobili che non comprendevano l’abitazione
principale. La quota di
famiglie proprietarie dell’abitazione di residenza è rimasta sostanzialmente
stabile rispetto al 2006.
· Il calo di 7 punti
percentuali, al 52 per cento, della quota di proprietari tra i nuclei familiari
con capofamiglia fino a 45 anni è stato controbilanciato dalla forte riduzione
del peso di queste famiglie sul totale, dal 37 al 27 per cento, proseguendo la
tendenza avviatasi all’inizio degli anni novanta.
· Secondo la
valutazione delle famiglie, l’abitazione di residenza, indipendentemente dal
titolo di occupazione, valeva in media poco meno di 1.800 euro al metro
quadrato, il 7 per cento in meno rispetto al valore del 2014 e il 23 per cento
in meno rispetto a quello del 2006, un andamento complessivamente in linea con
quello evidenziato dall’Indice dei prezzi delle abitazioni dell’Istat. Le
famiglie interpellate prevedono un sostanziale assestamento dei prezzi nel
corso del 2018, prefigurando in media un calo di circa un punto percentuale.
· Circa un quinto
delle famiglie risiedeva in un’abitazione in affitto e il restante decimo
l’occupava a titolo gratuito. Il canone annuo, in media poco sopra 4.000 euro e superiore di circa il
5 per cento a quello rilevato nella precedente rilevazione, rappresentava
almeno un quinto del reddito familiare per circa il 68 per cento dei nuclei con
reddito equivalente inferiore a quello mediano e per circa il 46 per cento di
quelli al di sopra.
L’indebitamento
· Nel 2016 la quota
di famiglie indebitate è ancora diminuita, al 21 per cento dal 23 nel 2014,
proseguendo la tendenza avviatasi nel 2010. La flessione ha interessato, pur in
misura diversa, tutte le principali forme di debito con l’eccezione di quelle,
complessivamente poco diffuse, riconducibili a ragioni professionali.
· Le famiglie sono
considerate indebitate quando sono titolari di almeno una tra le seguenti
tipologie di passività finanziarie: mutui per acquisto o ristrutturazione di
immobili; prestiti da intermediari finanziari per l’acquisto di beni durevoli,
non durevoli; prestiti da parenti e amici; debiti commerciali o prestiti
bancari legati all’attività di impresa individuale o impresa familiare;
scoperto di conto corrente; saldi negativi relativi a carte di credito revolving.
· Tra il 2006 e il
2016, la flessione della quota di famiglie indebitate ha interessato quasi
esclusivamente quelle il cui capofamiglia ha al più 45 anni (dal 38 al 29 per
cento), riflettendo la forte contrazione del ricorso al credito al consumo (dal
20 al 9 per cento);
è invece rimasta stabile (attorno al 17 per cento) la quota di chi è indebitato
per acquisto o ristrutturazione di immobili
· Il rapporto tra
l’ammontare del debito e il reddito monetario annuo (definito al netto degli
affitti imputati e al lordo degli oneri finanziari) si è ancora ridotto: per la
famiglia mediana è sceso al 63 per cento dal picco dell’80 per cento registrato
nel 2012; è però ancora elevato rispetto al 2006, quando era pari a circa il 45
per cento.
· Nel 2016 era indebitato per finanziare l’acquisto o la
ristrutturazione di un immobile o la spesa per consumi quasi il 28 per cento
delle famiglie con reddito monetario nel quarto di reddito più elevato; per
queste famiglie, la rata, in media pari a 7.300 euro, incideva sul reddito per
il 14 per cento.
Per contro, meno del 6 per cento delle famiglie con
reddito monetario nel primo quarto era indebitato, ma la rata ammontava a 3.200
euro e rappresentava il 37 per cento del loro reddito.
· La quota di famiglie
finanziariamente vulnerabili, definite come quelle con un reddito monetario
inferiore a quello mediano e al contempo una spesa annuale per il servizio del
debito superiore al 30 per cento del reddito monetario, è rimasta stabile,
attorno all’11 per cento delle famiglie indebitate9 (circa il 2 per cento del
complesso delle famiglie). La condizione di vulnerabilità è
più diffusa quanto più basso è il reddito: nel 2016 era vulnerabile circa il 60
per cento delle famiglie indebitate appartenenti al primo quarto di reddito
e il 29 per cento di quelle nel secondo quarto (rispettivamente, circa il 57 e
il 34 per cento nel 2014).
Disagio economico basato
sulla ricchezza e sul reddito
· Il benessere
materiale di una famiglia è solitamente associato al reddito equivalente
(ovvero modificato per rendere confrontabili tra loro nuclei di dimensione e
composizione diversa) complessivamente percepito in un anno. Sono considerate a rischio di povertà le persone con un reddito al di
sotto di una soglia ritenuta socialmente accettabile, convenzionalmente posta
uguale al 60 per cento del reddito equivalente mediano. Questa
definizione non considera però le altre risorse finanziarie cui la famiglia può
attingere per soddisfare le proprie esigenze: tra i vari motivi, le famiglie
accumulano ricchezza per far fronte a eventi, attesi o inattesi, che comportino
riduzioni del reddito familiare, come ad esempio il pensionamento, la perdita
dell’impiego o l’insorgere di malattie gravi. Per misurare
l’incapacità di fronteggiare brevi periodi di difficoltà economica, si
definiscono “finanziariamente povere” quelle famiglie che detengono una
ricchezza in attività finanziarie, più facilmente liquidabili, modificata per
tenere conto della struttura familiare, inferiore a un quarto della soglia che
individua il rischio di povertà (60 per cento del reddito equivalente mediano).
In altre parole, una famiglia è finanziariamente povera se, anche liquidando
tutte le attività finanziarie immediatamente disponibili, non ha risorse
sufficienti per evitare il rischio di povertà per almeno tre mesi.
· Nel 2016, si
trovava in questa condizione di vulnerabilità il 44 per cento della
popolazione, una quota ancora decisamente superiore a quella registrata nel
2006,
prima dell’avvio della crisi finanziaria globale, ma in calo dal picco del
2012.
· La condizione di
povertà finanziaria è più concentrata tra le persone a rischio di povertà (di
reddito): circa l’85 per cento delle persone con reddito equivalente inferiore
al 60 per cento di quello mediano non dispone di attività finanziarie
sufficienti in caso di necessità.
· È tuttavia
finanziariamente povero anche poco meno di un terzo del complesso delle persone con reddito equivalente al di
sopra di questa soglia e circa il 15 per cento di quelle con reddito
equivalente nel quarto più alto della distribuzione.
·
Con
l’avvio della crisi finanziaria, l’incidenza della povertà finanziaria è
cresciuta più rapidamente di quella del rischio di povertà (di reddito). Ne è discesa una crescita rapida della quota di persone che ricadono in
entrambe le condizioni dal 15 per cento nel 2006 a quasi il 20 nel 2016, dopo
la sostanziale stabilità nei 10 anni precedenti. Gli effetti della prolungata crisi economica e finanziaria appaiono
quindi assai più pesanti quando si considerano insieme il reddito e la
ricchezza.
· Tra il 2006 e il
2016 l’andamento dell’incidenza delle condizioni di disagio materiale misurato
in base al reddito o alla ricchezza è stato difforme tra classi d’età; ne è
disceso un ampliamento dei divari, prima contenuti, tra questi gruppi.
L’incidenza della povertà finanziaria è scesa dal 39 al 35 per cento tra i
nuclei con capofamiglia oltre i 65 anni, mentre è aumentata tra quelli con
capofamiglia più giovane, in misura marcata in quelli con al massimo 40 anni
(dal 40 al 57 per cento). La quota di persone a rischio di povertà (di reddito)
ha avuto un’evoluzione analoga, sebbene su livelli più contenuti. La ricorrenza
di entrambe le condizioni è raddoppiata, quasi al 30 per cento, tra i nuclei
con capofamiglia con al massimo 40 anni, è aumentata di soli 5 punti
percentuali tra quelle tra i 41 e i 65 anni ed è scesa di 4 punti per quelle
più anziane.
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