ORIENTAMENTO SESSUALE, GENERE E
IDENTITA’
Tre concetti chiave per non confondersi
Nell’introdurre la conferenza che
conclude il ciclo di incontri organizzati come contributo dell’associazione al
progetto “Impronte”, Massima Bercetti chiarisce in primo luogo i motivi per cui
si è pensato di coinvolgere sul tema del “genere”, e sulle molte confusioni che
si addensano attorno a questo termine, una relatrice di cui il pubblico di
CircolarMente ha già potuto apprezzare la grande capacità comunicativa, coniugata
con una competenza professionale esercitata in vari ambiti (la dott.ssa
Rostagno è infatti psicoterapeuta, vice
direttrice della Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica dell’IPP, e svolge inoltre
il ruolo di perito e consulente presso il tribunale dei minori di Torino).
A titolo di esempio, Massima Bercetti cita diversi episodi che da contesti
diversi hanno conquistato uno spazio sui giornali, soprattutto negli scorsi
anni, e in cui questo tema, collegato ad una peraltro imprecisata “teoria del
genere”, è diventato oggetto di conflitto culturale fra chi valuta
positivamente le differenze e il diritto al riconoscimento delle stesse, e chi dall’altro
lato paventa invece una possibile deriva “antropologica”.
Si va da iniziative alquanto discutibili, come quelle assunte da certi
amministratori che sono entrati a gamba tesa nelle biblioteche scolastiche
delle scuole per l’infanzia, propugnando una sorta di “messa all’indice” di
alcuni libri che sono stati accusati di passare ai bambini un’idea troppo positiva di certe differenze e
delle famiglie “diverse”, a cui hanno fatto seguito vibranti proteste in merito
all’apprestamento di una pièce teatrale pensata per gli studenti delle scuole
superiori, che si è ritenuta troppo sbilanciata sull’idea che si possa
scegliere a quale genere appartenere, mentre nel frattempo anche il Papa interveniva per stigmatizzare una teoria che
ai suoi occhi veniva a rappresentare un
grosso pericolo per il matrimonio e la famiglia.
Dall’altro lato, in una monografia dedicata lo scorso anno a questo tema
dal National Geographic Magazine, si leggevano notizie a dire il vero
sconcertanti sulle nuove denominazioni (50?) con cui chiedono di essere riconosciute
le varie percezioni di identità sessuali, alcune delle quali rivendicano una
declinazione diversa dal punto di vista grammaticale dei pronomi personali, a
seconda di quella in cui ciascun soggetto si riconosce.
Tutto questo non poteva non creare qualche inquietudine e qualche
perplessità, soprattutto per coloro che avevano a suo tempo legato il concetto
di genere agli studi che a partire dagli anni sessanta molte studiose avevano
condotto per evidenziare il ruolo esercitato dalle donne in vari ambiti, prima
misconosciuto, o al cosiddetto “pensiero della differenza”, elaborato sempre a
partire da quegli anni da alcune filosofe femministe riunite attorno alla
storica rivista Diotima. Sembrava dunque davvero opportuno fare chiarezza e
mettere un po’ d’ordine rispetto all’uso delle parole che cambiano col tempo,
assumendo valenze diverse. Da qui, la scelta di questo tema.
1.
Le tappe evolutive nella
definizione dell’identità di genere
e dell’orientamento sessuale:
Nel dare inizio al suo
intervento, la dott.ssa Rostagno precisa che non saranno oggetto del discorso i
cambiamenti nel tempo con cui il tema della sessualità e del genere è stato
affrontato. Il suo tentativo sarà piuttosto quello di ripercorrere le tappe
evolutive della crescita del bambino, per provare a comprendere come si arriva
a definire un orientamento sessuale, che cosa significa porsi delle domande
rispetto al genere e soprattutto che cosa intendiamo quando parliamo di
identità di genere. E’ sua convinzione infatti che se non facciamo chiarezza su
questi concetti chiave, difficilmente riusciremo a renderci conto della
complessità di un problema che poi ovviamente è stato utilizzato in modo
diverso, dal punto di vista sociale e politico, a seconda dei vari periodi
storici (comprese le “mode” del momento, perché anche di questo dobbiamo tener
conto).
Invita pertanto i suoi
ascoltatori a ripercorrere con lei le diverse fasi della vita del bambino, a
partire da quei primissimi anni in cui egli non riconosce ancora una propria
individuazione come maschio o come femmina, ma semplicemente si percepisce come
oggetto di investimento da parte di figure genitoriali o sostitutive che lo
accudiscono interpretando, indipendentemente dal loro genere, la funzione
materna o paterna.*
*la dott.ssa Rostagno precisa, facendo riferimento non soltanto alla
lezione della psicoanalisi, ma a quanto possiamo riconoscere nella nostra
stessa esperienza, che il maschile e il femminile – se intendiamo con questi
termini l’attitudine normativa e quella di cura - non dipendono dal genere, ma
dalla personalità di ognuno, così come ci sono dei ruoli non necessariamente
legati al genere che vengono assunti all’interno della famiglia, dove può
essere maggiormente regolativa la madre, e incline invece alla cura, alla confidenza,
all’intimità il padre
Sarà soltanto nel
periodo successivo, e cioè nella cosiddetta “fase fallica” (che secondo Freud
fa seguito alla “fase orale” e alla “fase anale”) - dunque a partire dai due
anni e mezzo - che il bambino comincerà ad interrogarsi sulla sua identità, a
confrontarsi con un corpo che non sarà più soltanto un oggetto di esplorazione,
ma anche di turbamento rispetto alle differenze che verranno scoperte e
riscontrate nel corpo degli altri; un corpo in cui si porrà, come primo dato
fondamentale, la presenza o l’assenza del pene a definire una prima linea
distintiva su cui il bambino e la bambina cominceranno a porsi domande, a
confrontarsi con le figure genitoriali percependole ora più chiaramente come
maschio o femmina, dando così l’avvio a tutta
una serie di identificazioni che potranno avere influenze rilevanti sul futuro
orientamento sessuale.
E’ importante, secondo
la dott.ssa Rostagno, sottolineare questo aspetto, perché nella definizione dell’oggetto
d’amore – è di questo infatti che parliamo, quando parliamo di orientamento
sessuale – non intervengono soltanto fattori biologici, legati al confronto con
la corporeità dell’altro e all’appartenenza ad un determinato genere, ma anche
dei fattori che possiamo definire ambientali: le fantasie che il bambino intesse rispetto alle
differenze che ha cominciato a notare, le cose che non solo vede, ma percepisce
rispetto ad esse, le identificazioni che costruisce nella sua mente nei
riguardi del maschile e del femminile per come vengono declinati all’interno delle funzioni
genitoriali e nei ruoli che vengono assunti in famiglia.
2.
Una scelta
multifattoriale, che può rivolgersi
verso l’altro da sé o verso l’uguale a sé:
Sono tanti dunque, a partire
da queste prime identificazioni che il bambino costruisce nella sua mente, i
fattori che intervengono a condizionare quella che sarà la scelta dell’oggetto
d’amore: cosa che peraltro avverrà più tardi, quando la pulsionalità,
riemergendo nella pubertà dopo un lungo periodo di latenza, contribuirà a
precisare l’identità e l’orientamento sessuale, che sono pertanto da intendersi
come la fase finale di un processo che parte da lontano e che non può essere
preventivato, ma solo ricostruito a ritroso.
*Spiega infatti la dott.ssa Rostagno che nel trattamento di persone
sofferenti per vissuti non chiariti di omosessualità, o per esperienze che non
sono state egosintoniche, cioè che non sono state accettate dal soggetto per
motivi diversi, anche socioculturali - non sempre l’ambiente circostante aiuta,
nella definizione del sé -, occorre ricostruire di volta in volta la storia
personale del soggetto, perché è difficile individuare una volta per tutte una
vera e propria eziologia della diversità Può esserci stata l’assenza o la
lontananza di un padre rispetto ad una madre molto accudente e vicina ad aver
spinto il figlio ad una identificazione col materno e al desiderio di
avvicinarsi ad una presenza maschile che non è stata sufficientemente conosciuta;
potrebbero invece esserci stati dei
maltrattamenti o degli abusi ad incidere sulla scelta di oggetti d’amore diversi da
quelli che ci si aspetterebbe da un maschio o da una femmina ….
Non possiamo saperlo in
partenza: sappiamo però che ci possono essere scelte rivolte non verso l’altro
da sé (eterosessuali), ma verso l’uguale a sé (omosessuali), e che in questo
caso non si tratta né di una malattia né di una perversione, bensì di
una scelta che l’individuo fa a partire dal proprio desiderio, dalla propria
storia, dai propri oggetti di identificazione che hanno cominciato a definirsi
in quei primi anni, restando per così dire “accantonati” nella lunga fase di
latenza (quella che il bambino attraversa negli anni che corrispondono alla
scuola elementare) per definirsi al termine della pubertà.
Nella latenza infatti la
pulsionalità se ne sta un po’ in disparte, mentre i processi cognitivi e la
tensione verso l’apprendimento sono particolarmente attivi, e si privilegiano i
gruppi fra simili (maschi con maschi, femmine tra femmine) come se ci fosse la
necessità di distanziarsi per poi reincontrarsi nell’adolescenza, quando i
giochi si riaprono e il corpo, prima silenzioso, viene rimesso al centro della
scena. L’adolescenza rappresenta per i ragazzi un momento cruciale, come ben
sappiamo, l’esposizione al gruppo dei pari si fa dominante e il confrontarsi
sessualmente con un corpo diverso dal proprio può generare a volte paura e
insicurezza ed indurre a rifugiarsi nel contatto con l’uguale, che viene
percepito come meno minaccioso.
Si tratta in tal caso di
scelte non definitive. Si dà infatti spesso il caso che ad un primo momento, in
cui il bisogno forte che l’adolescente ha di conoscere il proprio corpo trova
nel rispecchiamento nel corpo di un altro simile a lui una sorta di conferma,
succeda poi un riequilibrio eterosessuale: è così turbinosa l’adolescenza,
osserva la dott.ssa Rostagno, che questi fenomeni possono essere
tranquillamente interpretati come evolutivi. C’è però un pericolo, che è
necessario a suo giudizio segnalare: e cioè che la suscettibilità degli
adolescenti alle influenze esterne e alle mode possa essere strumentalizzata,
spingendoli a fare della propria supposta omosessualità una bandiera, un modo
per distinguersi, così che si crea attorno ad essa una sorta di “super
investimento”.
Rispetto a questo, e ai
problemi che ne possono derivare, l’eventuale intervento terapeutico non è
certo volto ad incidere sulla scelta di un oggetto d’amore piuttosto che un
altro, ma soltanto a capire se è davvero definitiva, se è davvero sintonica, o se
invece provoca sofferenza e disagio, vuoi per un senso di vergogna interno o
per la difficoltà che la famiglia mostra ad accettare la sessualità del figlio;
si tratta cioè solo di aiutare il soggetto a trovare l’equilibrio necessario a
vivere in un modo soddisfacente la sua sessualità riuscendo ad esprimere e a
trovare risposta al suo desiderio. Cosa peraltro non sempre facile, perché
mentre chi è eterosessuale può trovare mille occasioni per incontrare i suoi
oggetti d’amore alla luce del sole, chi non lo è deve muoversi con maggiore
cautela, per capire se potrà portare la sua domanda senza essere deriso, se
potrà trovare una risposta non perversa ma sana da parte di chi può
corrispondere ai suoi desideri.
Succede così che la
maggior parte dei ragazzi che vivono questa esperienza passino attraverso le
chat, oppure per luoghi deputati ad incontri omosessuali, e questo li espone
purtroppo a dei rischi enormi di strumentalizzazione da cui possono
determinarsi tutta una serie di disturbi emotivi, anche gravi.
E’ pur vero, osserva la
dott.ssa Rostagno, che in questi ultimi anni c’è stato un cambiamento positivo
nella sensibilità collettiva*, ma non è ancora facile per questi ragazzi vivere
senza sofferenza una realtà che riguarda puramente la dimensione relazionale e
affettiva, e non il genere. E’ importante sottolinearlo, a suo giudizio, perché
questa è proprio una delle confusioni che vanno assolutamente evitate: nell’omosessualità
il genere non viene affatto messo in discussione, non c’è un rifiuto del corpo
sessuato, anzi, sotto certi aspetti, questo viene ancora di più idealizzato.
* la relatrice cita a questo
proposito un testo di Kamin, Lewontin e Rose, intitolato “Il gene e la sua
mente”, in cui si analizza in modo esauriente e coinvolgente l’evoluzione della
sensibilità culturale rispetto alle differenze, a partire da quella
fondamentale fra maschio e femmina. In particolare, trattando il tema
dell’omosessualità, gli autori riportano tutta una serie di studi da cui si
evidenzia l’accanimento con cui molti studiosi hanno cercato la
“giustificazione” scientifica di questa diversità dal punto di vista ormonale,
senza peraltro approdare a nulla perché non è una diversa distribuzione di
ormoni a determinare una tendenza piuttosto che un’altra, ma una serie di
fattori diversi che comunque posano la loro radice su processi relazionali e
identificativi.
3.
Nascere con una doppia
predisposizione:
il problema della scelta da parte dei genitori
Se nell’omosessualità il
genere viene chiamato in causa in modo erroneo, esiste pur tuttavia un caso
particolarmente problematico in cui il genere c’entra per davvero. Sappiamo
infatti che alcuni bambini presentano alla nascita una doppia predisposizione,
sia dal punto di vista biologico che genetico (sono i cosiddetti
“ermafroditi”).
In questi casi, almeno
attualmente, i genitori vengono chiamati ad una scelta molto difficile
sull’intervento medico da attuare per bloccare lo sviluppo in un senso o
nell’altro, dal momento che si determinerebbe altrimenti per il bambino un
enorme disagio psichico dal punto di vista non solo sessuale ma identitario.
L’intervento peraltro non risolve completamente il problema: un bambino che
nasce con una doppia valenza, anche se poi crescerà come maschio o come
femmina, conserverà sempre un’eco di questa duplicità, almeno a livello
inconscio (sappiamo bene infatti che esiste una sorta di memoria del corpo), e
con essa dovrà fare i conti. Allo stesso modo, i genitori che hanno dovuto fare
una scelta di questo tipo, per quanto abbiano cercato con la massima onestà di
agire chiedendosi quale fosse la migliore soluzione per il bambino*, avranno
sempre nella mente la scelta mancata, il bambino o la bambina “altro”.
* Non esistono infatti dei criteri standard che ci consentano di stabilire
quale possa essere il “meglio” per il bambino.
Essi possono essere trovati solo all’interno della storia familiare, come
spiega la dott.ssa Rostagno facendo riferimento ad una scelta che l’ha
profondamente coinvolta come terapeuta e in cui la decisione di optare per il
genere maschile ha tenuto conto di alcune circostanze specifiche: intanto il
fatto che il bambino in questione fosse il terzo nato, dopo due femmine, e che sarebbe
forse stato più difficile, per i genitori, confrontarsi con un’altra bambina,
evitando i paragoni con esperienze già
vissute; e ancora, che presumibilmente era proprio un maschietto quello che era
stato atteso e fantasticato nella mente, prima della sua nascita. In questo
caso dunque si è pensato che la scelta di privilegiare il sesso maschile, che
dava ai genitori la possibilità di evitare un confronto difficile coniugandosi
con un loro desiderio, potesse dare le migliori opportunità perché il bambino
fosse più garantito all’interno della famiglia.
4.
Abitare un corpo che non
si percepisce come nostro:
le disforie di genere
Con le cosiddette
“disforie di genere” - il termine tecnico con cui si definisce la condizione di
una persona che prova una forte e persistente inclinazione ad identificarsi nel
sesso opposto a quello biologico - la dott.ssa Rostagno introduce una tematica
assai complessa e dolorosa per chi ne è portatore, e i cui segni spesso sono
già percepibili nell’infanzia (ricordiamo che il processo di formazione
dell’identità comincia molto presto, non è qualcosa che ad un certo punto salta
improvvisamente fuori…). Succede infatti che alcuni bambini manifestino, fin da
piccoli, una difficoltà a stare dentro quel corpo sessuato che si ritrovano
alla nascita, maschile o femminile che sia.
Di questo disagio noi
possiamo cogliere solo le manifestazioni esterne, più evidenti se si tratta di
un maschietto che si traveste, che indossa i gioielli della mamma, che si
trucca, o altrimenti predilige quei giochi che vengono considerati tipicamente
“femminili”. Cose che peraltro non indicano necessariamente un’inclinazione
transessuale: tutti i bambini, soprattutto nel periodo della scuola materna,
amano travestirsi perché questo consente loro di stare per un po’ nei panni di
un altro, e parimenti non privilegiano solo un certo tipo di giochi, se hanno
la possibilità di farlo (eventualità del
resto augurabile, osserva la dott.ssa Rostagno, perché devono essere loro ad
andare verso il gioco, non il gioco verso di loro: non dobbiamo temere che i giochi non predisposti secondo il genere modifichino la
loro identità).
Quando però la tendenza
a questi giochi e travestimenti si fa persistente e continuativa, quando il
bambino comincia a farlo di nascosto,
perché sente il bisogno di sperimentare da solo questa esperienza, quando
diventa un elemento di vergogna e di ansia, dal momento che questa differenza viene
sottolineata creando un disagio esponenziale, il problema non è più eludibile e
occorre pertanto chiedersi come stia vivendo il bambino dentro quel corpo in
cui evidentemente non si riconosce, e soprattutto capire come comportarsi di
fronte a questi atteggiamenti, o alle richieste che il bambino stesso fa (essere chiamati, per esempio, con un nome
diverso, come nel caso portato come esempio dalla dott.ssa Rostagno in cui una
bambina, Giulia, voleva a tutti i costi
che i genitori e gli amici la chiamassero Giulio…)
In generale, quando si
presentano al terapeuta dei genitori che chiedono aiuto di fronte a questo
problema, il consiglio è di temporeggiare, per darsi il tempo di capire che
cosa c’è dietro a queste richieste che non sono ancora per nulla centrate
sull’oggetto del desiderio sessuale, ma in modo specifico sull’identità: chi le
fa si sta evidentemente chiedendo, nel solo modo in cui sa farlo, “chi sono io? sono quello che questo corpo esprime,
o sono un’altra cosa”?
Pensiamo poi a quanto
possa diventare grande la sofferenza di sentirsi imprigionati in un genere che
non si percepisce come proprio quando la pubertà va a trasformare e a definire
sempre più il corpo: se arrivano alla terapia, questi ragazzi - che la dott.
Rostagno ha conosciuto indirettamente lavorando come supervisore con dei
colleghi specializzati nelle disforie di genere - pongono infatti domande
angoscianti, chiedono soprattutto di poter cambiare quelle parti di sé che sono
percepite come indicatori di mascolinità o di femminilità (ridurre il seno,
cancellarne quasi la forma, ad esempio, nel caso delle ragazze).
Richieste che
sollecitano i terapeuti ad andare a ricostruire la loro storia, scoprendo che
spesso fin da piccoli essi cercavano di
mettere in atto tutta una serie di strategie volte a sentirsi meno a disagio
con quel loro corpo (nel caso delle
ragazze, portare i capelli cortissimi, per sottolineare il proprio lato maschile,
privilegiare la compagnia e i giochi dei maschi, pretendere magari di essere
chiamate con un nome maschile – come nel caso di Giulia - e poi, nella pubertà, cominciare a mimetizzare il
seno…)
E’ chiaro, precisa la
dott.ssa Rostagno, che il terapeuta non va ad acconsentire immediatamente a
queste richieste, deve prima essere ben sicuro che non vengano fatte solo per
esigenze estetiche e per seguire le mode del momento, ma perché in gioco c’è la
stessa sopravvivenza psichica di chi le pone. Non esiste infatti sofferenza più
grande di quando il corpo non corrisponde alla mente, di quando si è
riconosciuti dagli altri senza potersi riconoscere nei loro sguardi. Non è raro
che questi ragazzi arrivino ad atti di autolesionismo, nel tentativo di
sopprimere quelle parti di sé o quel corpo che non li rappresenta, pur di
uscirne in qualche modo, perché nelle loro fantasie autorappresentative si può
arrivare all’uccisione di un corpo che non percepiscono come proprio.
Una situazione
potenzialmente drammatica, dunque, che oggi può essere risolta attraverso un
complesso percorso di mutamento di sesso, certo meno traumatico e fatale di
quello che abbiamo visto in un film recente (“La ragazza danese”), ma comunque non facile.
APPROFONDIMENTI E
CONFRONTI
L’intervento della
dott.ssa Rostagno su temi di tale rilevanza psicologica e sociale apre
ovviamente a riflessioni e a interrogativi da parte del pubblico, che rendono a
questo punto interattiva la conversazione, consentendo l’approfondimento di
alcune questioni che per una maggiore economia del discorso ci permettiamo qui
di accorpare secondo le linee principali secondo cui si sono articolate.
sulla necessità di diversi apporti disciplinari
per allargare il campo
interpretativo:
Alcune domande vertono
in primo luogo sui meccanismi mentali he sottendono a queste scelte di vita (ci si chiede cioè quali siano le basi
scientifiche, oltre a quelle legate alla sfera psicologica e comportamentale,
che stanno dietro alla non identificazione col proprio corpo, e in particolare
come si forma e si consolida il concetto di “genere”), e ancora su quale
sia, in generale, il rapporto fra le acquisizioni della psicoanalisi e quanto
può venirci dalla genetica e dalle neuroscienze, che potrebbero forse allargare
il campo aprendo a prospettive diverse, com’ è successo nel caso dell’autismo.
La dott.ssa Rostagno
ritorna pertanto al tema della multifattorialità e al testo cui ha fatto prima
riferimento (“Il gene e la sua mente”), in cui sono analizzati in modo
specifico questi rapporti.
La psicoanalisi non
pretende infatti di occupare da sola tutto il campo. Quello che è in grado di
dire, e che dal canto suo la relatrice può offrire per la sua specializzazione
di studiosa e di clinica, è rilevare - per rimanere nell’ambito delle disforie
di genere - come spesso alle spalle di chi vive la difficoltà di stare dentro
ad un corpo che non gli corrisponde ci siano situazioni familiari altamente
problematiche: ad esempio, madri che non sono state in grado di rispondere ai
bisogni emotivi del bambino, di contenerlo, di riconoscerlo, senza che nessuno
in famiglia sapesse svolgere in modo sostitutivo questa essenziale funzione
materna. Se il bambino viene lasciato solo di fronte ad un corpo che non può
riconoscere come suo se non è stato in primis riconosciuto da chi deve
esercitare una indispensabile funzione di “rispecchiamento“ (la psicoanalisi ci insegna infatti che i
contenuti della mente del bambino si creano grazie al contenimento di una mente
che lo rispecchia), può arrivare
a rifiutare il suo stesso corpo, e in qualche caso, come abbiamo detto pocanzi,
ad attaccarlo con gesti di autolesionismo.
Queste acquisizioni
della psicoanalisi non implicano certamente che da altri apporti disciplinari non
possano venire indicazioni preziose, anche se al momento la dott. Rostagno non
è in grado di fare il punto sugli studi specifici e sulle ipotesi che vengono
costruite in questi ambiti, se non facendo riferimento al fatto che alcune di
esse su cui molto si è lavorato in passato (come l’ipotesi ormonale, messa in
campo per spiegare l’omosessualità) siano poi state abbandonate. C’è
sicuramente tutta un’area da scoprire, e dal canto suo la psicoanalisi è più
che disponibile ad accogliere le acquisizioni, le competenze e i saperi provenienti
da altre discipline: se ormai è sufficientemente chiaro infatti che tutta una
serie di fenomeni sono legati ad una interazione corpo mente, su come questo
avviene sappiamo ancora poco. L’unica strada da percorrere è pertanto quella
dell’interdisciplinarietà, nella speranza di avere sempre più elementi per dare
un senso complessivo alle situazioni di difficoltà, e contribuire a risolverle.
Questa necessità viene
sottolineata anche da parte di un membro di CircolarMente, che osserva come
delle ultime due conferenze proposte dall’associazione l’una – quella sul
futuro della procreazione – abbia posto l’accento soprattutto sulla genetica
(facendoci immaginare un futuro alquanto asettico in cui il feto si svilupperà
in un utero artificiale) senza considerare le implicazioni psicologiche di
questi processi, mentre in quella odierna l’attenzione è stata posta in modo specifico su questo secondo aspetto. Appare chiara dunque la
necessità di collegare i diversi ambiti in modo che non siano autoreferenziali
e possano così giungere a livelli di conoscenza ancora più profondi.
sul concetto di “terapia”
come accompagnamento
che non presuppone il
fatto che ci sia una “malattia” da curare:
In altri interventi si
chiede invece di ritornare sul concetto di terapia, e su di un termine che per
come viene utilizzato nella pratica medica sembrerebbe implicare l’esistenza di
una malattia da curare e sconfiggere, cosa che per fortuna nessuno pensa più
riferendosi alla condizione omosessuale, che può essere oggi vissuta con grande
serenità anche grazie alle battaglie per il riconoscimento portate avanti da
gruppi come l’Arcigay o l’Agedo (una Onlus che unisce e sostiene persone di
diverso orientamento sessuale, offrendo aiuto anche alle loro famiglie).
La dott.ssa Rostagno
accoglie molto volentieri queste richieste di chiarificazione, ridefinendo e
ampliando alcune delle esemplificazioni già fatte in precedenza. Che cosa si
fa, in effetti, quando si presentano in terapia un ragazzo o una ragazza che
portano una loro sofferenza per vissuti non chiariti di omosessualità o ancora,
per rimanere e completare il discorso sulle disforie di genere, per un profondo
disagio che provano rispetto ad un corpo sessuato da cui non si sentono
rappresentati?
Li si accompagna,
intanto, entrando in una relazione profonda con loro, cercando anzitutto di
capire, nell’ottica di una diagnosi differenziale, se ci si trova di fronte ad
un fenomeno transitorio, ad un momento di difficoltà e di insicurezza non certo
raro nell’adolescenza, oppure se si è in presenza di una non autorizzazione
rispetto ai propri desideri o infine se
si tratta di una vera e propria disforia di genere che porta il soggetto a sentirsi davvero “imprigionato” nel suo
corpo (una difficoltà, spiega la dott.ssa Rostagno, che non va confusa col
travestitismo, dal momento che in questo caso non si chiede di cambiare genere
ma si gode nel vestire i panni di un altro)
Occorre ancora essere
certi che su di una eventuale richiesta di entrare in un percorso che può
portare ad un vero e proprio cambiamento di sesso non incidano influenze
culturali che possano trasformare un bisogno personale in una bandiera politica
e ideologica, rendendo irreversibile un momento di transizione. Non possiamo
negare infatti che nel calderone delle rivendicazioni tutto diventa molto
confuso, e non c’è un approfondimento rispetto alla sofferenza del soggetto.
Perché questo è il discrimine, rispetto al quale il rapporto terapeutico trova
la sua bussola: si tratta infatti di aiutare una persona ad avvicinare il
proprio mondo emotivo, a chiarificarlo, facendo ordine in situazioni che sono
necessariamente complesse e spesso confuse. Un compito non facile, osserva la
dott.ssa Rostagno, che richiede sensibilità e competenza e che in effetti deve
avere alle spalle un percorso di formazione professionale molto lungo e
articolato.
Da quanto si è detto, non ci dovrebbero essere
a suo giudizio equivoci residui sul termine “terapia”, che non implica affatto,
nell’accezione in cui è stato utilizzato in questa conversazione, che si sia in
presenza di una malattia (cosa che certo l’omosessualità non è, come
giustamente è stato sottolineato). Non è però troppo lontano il tempo in cui
era considerata davvero una malattia o peggio ancora una perversione, come
devianza dalla norma*, e ancora oggi sono presenti nella nostra società residui
di pregiudizio per cui molti ragazzi e ragazze possono ancora viverla con
vergogna e fatica.
*la dott.ssa Rostagno cita a questo proposito un testo di Vittorio
Lingiardi, uno psicoanalista e psichiatra che si è occupato in particolare di
identità e orientamento sessuale, in cui si fa un excursus molto dettagliato
sui passaggi che si sono resi necessari per arrivare alla chiarificazione del
fatto che l’omosessualità riguarda semplicemente una scelta diversa di
orientamento sessuale. Prima si tendeva a confondere la scelta dell’oggetto
d’amore con la capacità di amare, che non è affatto messa in gioco: a giudizio
della relatrice non c’è dunque alcun motivo per cui le persone omosessuali non
possano, ad esempio, adottare, se accettiamo il fatto che nella genitorialità
non contano i generi, ma le funzioni in cui il maschile e il femminile possono
essere interferenti.
Quanto alle battaglie
dei gruppi e delle associazioni che sono stati nominati, sono sicuramente state
fondamentali per richiamare l’attenzione, anche con provocazioni “positive”
(come del resto è avvenuto nel femminismo),
sul diritto alla scelta dei propri oggetti di investimento affettivo e
sessuale.
Ora però, secondo la
relatrice, non è più il tempo delle provocazioni, ma quello di vivere
serenamente l’esperienza, mettendosi nell’ottica che possiamo ben esprimere col
titolo di un piccolo testo della psicoanalista Simona Argentieri - “A qualcuno piace uguale” - che giocando
sull’accostamento ad un film famoso esprime in modo davvero efficace il
concetto dell’omosessualità come scelta oggettuale.
sull’importanza di un
ambiente “accogliente”
e sul ruolo della scuola:
Il tema dell’importanza
di un ambiente relazionale capace di rispettare la personalità di ognuno, con
cui concludiamo questa relazione, viene aperto dalla testimonianza di
un’insegnante sull’esperienza positiva vissuta con un suo allievo, che già
nella scuola elementare dava chiari segni di quella che si sarebbe poi
confermata come una disforia di genere (sciolta qualche anno più tardi attraverso
un vero e proprio cambiamento di sesso). Benché alle sue spalle ci fosse una
famiglia altamente disfunzionale, come quelle che sono state prese in considerazione
dalla dott.ssa Rostagno, l’intreccio fra le doti comunicative di questo bambino
e la presenza di un gruppo di insegnanti e compagni molto sereni rispetto alla
sua diversità gli ha permesso infatti di viverla in modo molto giocoso e
naturale.
In effetti, osserva la
dott.ssa Rostagno, come insegnanti e come genitori dovremmo fare proprio questo:
il che non vuol dire naturalmente passare ai bambini l’idea che il genere non
esiste, e che noi possiamo essere qualunque cosa ci aggradi, ma semplicemente
apprestare un ambiente educativo e relazionale accogliente, che si ponga nell’ottica
di una vera comprensione della persona.
……………………………..
N.B. = data la delicatezza dell’argomento,
abbiamo preferito seguire passo passo l’intervento della relatrice, senza
sintetizzarne le argomentazioni, pur accorpando nella parte finale alcuni
interventi del pubblico. Come sempre, ci assumiamo la responsabilità di
eventuali fraintendimenti
Per CircolarMente, Enrica Gallo
Caso ha voluto che, appena prima di inserire nel blog la relazione di Enrica dell'incontro con la dott.ssa Rostagno, io abbia letto (nell'inserto Robinson de la Repubblica di oggi) una simpatica intervista a Sally Rooney, giovane scrittrice dublinese che sta riscuotendo gran successo oltre che ottime recensioni da parte della critica. L’oggetto dell’intervista era il suo primo romanzo, appena uscito per l’Einaudi, dal titolo “Parlarne tra amici”: una storia con protagonisti giovani “millenials” alle prese con temi vari che vanno dalla politica al sesso. Sally Rooney in una risposta così descrive le due protagoniste…….Francis e Bobbi sono una bisessuale e l’altra lesbica e possono permettersi di vivere la loro sessualità senza ancorarsi all’identità di genere. Per le nuove generazioni ciò che si prova conta di più che rientrare in categorie sessualmente identificate. La loro identità sessuale è fluida…….Diffido delle generalizzazioni: giovani, vecchi, ad esempio, sono scatole dentro le quali ci sta tutto ed il contrario di tutto, con una gamma infinita di stati intermedi. Non so dire quindi quanti giovani, quanti millenials, sono come Francis e Bobbi. Ma questo poco conta. Mi è piaciuta la disarmante tranquillità con la quale Sally Rooney definisce il modo di vivere delle protagoniste del suo romanzo: “normale”. Forse attorno a questi temi l’ “anormalità” non sta nei vari comportamenti sessuali, ma nel modo, esasperato fino ad essere spesso aggressivo, con il quale altri “normali”, o presunti tali, ne parlano. Perché? Sarebbe stato bello avere avuto il tempo per poterne parlare
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