Per non sommergervi di
ripetute mail di “avviso pubblicazione post” abbiamo pensato che sia
consigliabile concentrarne la pubblicazione ricorrendo così ad una sola mail di
avviso. La partenza della “Fase due” non ha certo esaurito la tante riflessioni
e discussioni sulle varie questioni legate alla pandemia ed alle misure per
fronteggiarla, ed anzi ha sollevato molte altre domande legate alla “ripartenza”.
Anche questa tornata di post non poteva quindi
non vertere su alcune di queste tematiche, in particolare proponendo tre articoli,
come sempre reperiti nell’infinito mare di siti dentro il quale ormai si muove
buona parte del dibattito pubblico, che affrontano rispettivamente il rapporto
emergenza climatica e pandemia, il lavoro al tempo del covis19, ed
infine la commistione di elementi di “barbarie” ed
intelligenza che si è venuta a
creare in questa fase. Con una piccola dose di pazienza potete, se interessati,
leggerli tutti tre, altrimenti scegliete liberamente quello/quelli che più vi
attirano. Iniziamo da un articolo che cerca di prefigurare le linee guida che
dovrebbero ispirare la relazione fra emergenza ambientale ed emergenza pandemica,
a giudizio di molti tra di loro strettamente collegate non solo nel determinare
l’insorgere stesso della pandemia ma soprattutto perché la vera soluzione di
questa passa, di conseguenza, anche attraverso una ferma e concreta volontà di
affrontare la prima, Una volontà che sembrava, nei mesi appena precedenti la
pandemia, essersi finalmente più allargata e consolidata, anche grazie alle
campagne di mobilitazione come “Fridays for future”, e che aveva visto un
importante riscontro nella decisione UE di avviare una consistente politica di
sostegno alla “riconversione verde”, che rischia purtroppo di essere
condizionata dalle urgenze pandemiche. Davvero impossibile coniugare questi due
aspetti?
Come cambia l’emergenza clima
con la Pandemia
Articolo di Donato Speroni
(docente di Economia e Statistica presso l’Università di Urbino) pubblicato nel
sito online “Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile”
“Stiamo muovendo le montagne
per affrontare il Coronavirus. Perché non facciamo altrettanto per la crisi
climatica?”. Si intitola così, su Newweek l’articolo scritto da Robert Walker, presidente del
Population Institute di Washington. Bob, che conosco bene perché sono stato suo
ospite a Ravello dove trascorre l’estate, è un tipo con la vista lunga. Nel
2009, quando uscì il rapporto del capo dei consulenti scientifici del governo
inglese John Beddington, che
preannunciava una “tempesta perfetta” entro il 2030, in mancanza di una
adeguata governance internazionale, trasformò questo documento in un
opuscolo distribuito in centinaia di migliaia di copie nelle scuole americane,
perché era necessario che i giovani fossero informati delle sfide che li
attendono. La traduzione di questo opuscolo è allegata al libro “2030 La
tempesta perfetta – Come sopravvivere alla grande crisi”, che ho scritto con Gianluca Comin nel 2012 per
Rizzoli. Il Population Institute di Walker si batte per diffondere il family
planning in tutto il mondo e per promuovere i diritti delle donne che
quando ottengono una migliore istruzione tendono ad avere famiglie meno
numerose. Tra gli strumenti più efficaci, la produzione di telenovelas (o
radionovelas nei Paesi più arretrati) che convogliano il messaggio del
maggior benessere derivante da una famiglia meno numerosa. Da qualche tempo,
l’impegno di Walker si è concentrato anche sugli aspetti climatici. Ecco alcuni
passaggi del suo articolo per Newsweek: …….. Viviamo in un mondo che sta
cambiando rapidamente, pieno di sfide. Con la crescita dei centri urbani, i
sistemi sanitari pubblici inadeguati e il maggior contatto degli umani con
animali in grado di trasmettere virus mortali, il Covid 19 era una pandemia in
agguato, ma non è l’unica sfida globale che dobbiamo affrontare. L’anno scorso
11mila scienziati hanno firmato una dichiarazione nella quale si avverte che
senza una radicale riduzione dei gas serra il mondo si avvia a ‘sofferenze mai
viste’. Se non cambiamo rotta, entro il 2050 più di 200 milioni di persone
dovranno emigrare per la siccità, le inondazioni e l’aumento del livello dei
mari. Molto prima della fine di questo secolo la quantità di persone uccise
ogni anno dall’aumento della temperatura e dagli altri effetti climatici,
compresa la diffusione delle malattie portate dagli insetti, potrebbe superare
ampiamente il costo umano del Covid 19. L’anno scorso Michael Greenstone,
co-direttore del Climate Impact Lab, ha avvertito il Congresso che attorno al
2100 le morti premature dovute ai cambiamenti climatici supereranno ogni anno
il numero di quelli che oggi muoiono per tutte le malattie infettive messe
insieme. L’insieme delle perdite economiche derivanti dalla crisi climatica
sarà di gran lunga maggiore dei costi finanziari che subiremo quest’anno a
seguito del Covid 19. Se la temperatura globale salirà di 2° centigradi il
prezzo da pagare potrebbe arrivare a 69mila di miliardi entro il 2100.
L’aumento delle temperature ridurrà anche la resa dei raccolti perché ogni
grado di aumento riduce del 6% la produzione agricola. Ci sarà anche
un’accelerazione della perdita di biodiversità. Entro cinquant’anni un terzo
delle specie vegetali e animali andrà perduto. …….. L’appello di Walker è molto
forte, ma certo non è il primo. Come spingere i governi e l’opinione pubblica
mondiale ad affrontare l’emergenza climatica con la stessa determinazione con
la quale stiamo affrontando la Pandemia? È chiaro che la mancanza di una
minaccia immediatamente percepibile rende questa mobilitazione più difficile,
anche se giustamente i più giovani hanno capito i rischi a cui vanno incontro e
non sono più disposti a stare zitti. Qualcuno dice che stiamo sbagliando tutto.
Per esempio, Michael Moore, nel
suo nuovo documentario “Planet of the humans””, liberamente scaricabile,
sostiene con il suo consueto radicalismo che abbiamo intrapreso la strada
sbagliata per salvare il Pianeta, “vendendo il movimento verde agli interessi
dei ricchi e alla corporate America. ……. Il dibattito non affronta la
sola cosa che POTREBBE salvarci: ridurre l’impronta dell’umanità e i consumi
che sono sfuggiti al controllo. Perché non è questo IL problema? Perché
danneggerebbe i profitti e il business. Noi ambientalisti siamo caduti nella
trappola di delle illusioni verdi (...) e abbiamo puntato tutte le nostre
speranze sulle biomasse, sulle turbine a vento e sulle macchine elettriche? ……… In sostanza Moore, che nel
suo documentario si avvale anche delle testimonianze di Al Gore, Michael Bloomberg,
Vandana Shiva e altri, sostiene
che per fermare l’aumento della temperatura ci vuole ben altro: un drastico
cambiamento del nostro modo di consumare (e della quantità dei nostri consumi)
anche a costo di danneggiare temporaneamente l’economia. Propone un dilemma che
non è molto dissimile da quello che stiamo affrontando in questa Pandemia, alla
ricerca di un difficile equilibrio tra rischio sanitario e rischio economico. È
vero, del resto, che molte teorizzazioni “verdi” tendono a farci credere che la
crisi climatica possa essere affrontata con limitati sacrifici e quelli che lo
stesso Moore chiama tecno-fixes and band aids, cerotti e aggiustamenti
tecnologici. È però possibile che la stessa crisi da Coronavirus ci renda
meglio attrezzati per affrontare la crisi climatica in tutta la sua
complessità. Questa per esempio è la tesi di Jane McDonald e Anne
Hammill in un articolo pubblicato sul National Observer che
guarda al Canada, ma contiene indicazioni di carattere generale: …...Dobbiamo agire subito.
Questa pandemia ha messo in evidenza quanto sia importante continuare a
investire nelle protezioni contro possibili scenari di crisi. Ci sono molti
elenchi di investimenti infrastrutturali che il Canada dovrebbe affrontare
immediatamente per prepararsi ai prossimi shock, specialmente quelli che
possono provenire dal cambiamento climatico: inondazioni più severe, siccità,
ondate di calore e uragani. Alcuni di questi investimenti sono di piccole
dimensioni e possono essere realizzati rapidamente a casa propria, come
l’installazione di valvole antiriflusso per evitare l’inondazione delle
cantine. Altri, come le protezioni contro l’aumento del livello del mare sono
così importanti da poter dare un contributo allo stimolo economico necessario
per la ripresa dopo il Covid 19. In ogni caso tutti i progetti infrastrutturali
devono essere soggetti al controllo del governo federale. …….I profondi cambiamenti
economici indotti da questa Pandemia mutano anche il contesto della transizione
energetica. Per esempio, il crollo del prezzo del petrolio potrebbe rendere
meno conveniente il passaggio alle energie rinnovabili, come abbiamo
documentato in questo focus e discusso con Daniele
Agostini di Enel e Davide
Tabarelli di Nomisma Energia nella più recente puntata di Alta sostenibilità. Con la ripresa, il prezzo del petrolio avrà comunque un rimbalzo,
perché, come spiega l'Economist, non siamo ancora al picco della domanda: la crescita dei
fabbisogni di energia nel Paesi emergenti e in via di sviluppo farà ancora
aumentare la richiesta di fossili. Ma le compagnie petrolifere sono sul chi
vive perché da anni valutano l’ipotesi che la domanda possa calare
strutturalmente, a seguito di scelte più decise dei governi contro la crisi
climatica……… La volatilità dei prezzi ha
affossato l’appetito degli investitori per nuovi progetti in questo settore.
Quest’anno le compagnie petrolifere hanno già ridotto i loro investimenti del
25% e una parte del petrolio più costoso da estrarre rimarrà sottoterra. La
frenetica crescita dello shale oil si fermerà. Grandi esportatori come l’Arabia
Saudita dovranno tagliare la spesa pubblica e diversificarsi. ……… Anche la corsa al petrolio
dell’Artico che si era aperta con la prospettiva del disgelo sembra essersi
fermata, perché la remunerazione non giustifica più l’investimento. Nei Paesi
consumatori, il rischio di un rimbalzo a favore dei fossili può essere bloccato
con interventi che limitino i vantaggi dell’uso di combustibili e carburanti
inquinanti, nonostante la caduta del prezzo del barile. Secondo Euractive è quanto ha proposto il governo francese in una riunione dei ministri
dell’Energia dell’Unione martedì 28 aprile. …….. Questo meccanismo potrebbe
prendere la forma di un ‘carbon price floor’, un prezzo minimo per le emissioni
di carbonio, da realizzarsi sia attraverso una riforma del sistema europeo
Ets,(l’emissions trading scheme che riguarda le industrie più inquinanti, ndr),
sia attraverso la direttiva sulla tassazione dell’energia che è in discussione
nel contesto dello European Green Deal. …….. Dunque, la Pandemia ha
rimescolato le carte, ma non ha necessariamente allontanato le azioni da
realizzare per fronteggiare la crisi climatica. Ha fatto capire alla
popolazione mondiale che il mondo sta cambiando rapidamente, con avvenimenti
drammatici ai quali bisogna far fronte rapidamente, anche con grandi sacrifici.
Ha messo in luce la necessità di scelte difficili, tra costi in vite umane e
costi economici che possono tradursi in povertà e diseguaglianze. Ha
sensibilizzato i leader politici su scelte di investimento che guardino al
futuro. Ha ribadito, infine, la necessità di tenere fermo il timone della
riconversione energetica, senza farsi allettare dalle sirene del basso costo
del petrolio. Grandi temi di discussione, che siamo tutti impegnati a tenere
vivi con proposte, dibattiti, iniziative che coinvolgano l’opinione pubblica. Una ricerca di Ipsos mette in
evidenza che la maggior parte della popolazione mondiale considera il cambiamento
climatico un evento grave quanto la Pandemia. È necessario però che l’aumentata
sensibilità della popolazione si traduca in un cambiamento della politica. Per
questo è indispensabile che siano cambiati i parametri che misurano i valori
davvero importanti. Anche in questa crisi, è giusto guardare con preoccupazione
al previsto crollo del Pil, il Prodotto interno lordo, ma è necessario guardare
anche agli impatti sul reddito delle famiglie e all’occupazione, che sono gli
effetti più avvertiti dalla collettività. Perché questo non avviene? Nella
presentazione del libro di Lorenzo
Fioramonti “Il mondo dopo il Pil. Economia e politica nell'era della
post-crescita”, a Ecofuturo Festival, il portavoce
dell’ASviS Enrico Giovannini ha
dato due motivazioni: la prima è una questione di potere, perché guardare a una
serie di indicatori più ampia diminuisce l’importanza di quegli economisti che
prescrivono ricette basate solo sul Pil. La seconda riguarda l’allergia dei
media alla complessità. È certamente più difficile raccontare una batteria di
indicatori anziché concentrare l’attenzione solo sul Pil. Insomma, in base
all’esperienza della Pandemia dobbiamo cambiare visione, cambiare politiche, cambiare
comportamenti, cambiare parametri. Un vasto programma, come avrebbe detto il
Generale De Gaulle, ma non disperiamo.
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Le parole pronunciate da Papa Francesco in occasione del 1° maggio hanno
dato ancor più rilevanza alla “riscoperta” del ruolo centrale del lavoro. Le
inevitabile ripercussioni del lockdown su economia e produzione stanno facendo
esplodere la crisi occupazionale che le varie trasformazioni tecnologiche e di
sistema da tempo avevano innescato. Al tempo stesso stanno imponendo una
necessità di meglio conoscere l’attuale “mondo del lavoro”, ad esempio capendo
cosa effettivamente indicano i vari aggettivi che di questi tempi lo definiscono,
per comprenderne le tante contraddizioni e problematiche.
Gli aggettivi del
lavoro
Il primo maggio del Covid
Articolo di Roberta Carlini (giornalista e saggista. Si occupa di economia, lavoro, politica,
società, questioni di genere, condirettrice di Pagina99 e, dal 1999 al 2005, vicedirettrice
del quotidiano il Manifesto) - rivista online DoppioZero
Alla
vigilia del primo maggio il servizio pubblico ha portato in tv il giovane Marx
che legge e recita Ricardo: “Il valore reale di una cosa per colui che l’ha
acquistata e per chi vuole venderla o scambiarla con qualcos’altro è la fatica
e la sofferenza che può risparmiare a se stesso e che può imporre ad altre
persone. Il lavoro è stato quindi il primo prezzo, l’originale moneta
d’acquisto pagata per ogni cosa”. Nello stesso giorno, l’Istat aveva diffuso i
primi dati ufficiali sul lavoro nella pandemia. Meno 94mila occupati, più
301mila inattivi se si confronta il primo trimestre di quest’anno con lo stesso
periodo dell’anno prima. Se i numeri italiani a prima vista non paiono
catastrofici come quelli americani (decine
di milioni di disoccupati) , è perché abbiamo un diverso sistema di protezione sociale e del
lavoro; perché i cassintegrati non sono contati tra i disoccupati; perché lo
choc di marzo è “annacquato” nel dato trimestrale; e per vari altri motivi. Ma
si può dire, alla prima impressione, che la festa del lavoro del 2020 è
all’insegna dell’inattività: che statisticamente fotografa la moltitudine che
il lavoro non ce l’ha e non lo cerca. “Inattivo” è un aggettivo che
contiene una negazione, come i lunghi elenchi dei dpcm che scandiscono la
nostra vita dai primi di marzo del 2020 e che ci dicono cosa non dobbiamo fare
per preservare la salute pubblica. Da allora il lavoro – misura del valore di
ogni cosa, secondo Ricardo-Marx – è stato chiuso, negato, allontanato dalla sua
sede, cambiato, esaltato, digitalizzato, contingentato, evocato. Proprio mentre
si è smaterializzato, per molti, ed è sparito, per troppi, è tornato al centro;
sempre accompagnato da aggettivi che lo qualificano. E forse gli aggettivi
qualificativi del lavoro nella pandemia sono più utili, per capire dove si
andrà, delle previsioni quantitative sul lavoro che ci mancherà nella prima
recessione della storia indotta da misure di salute pubblica. Il primo a
tornare al centro è stato il lavoro manuale. Che, il più delle volte, non si può
svolgere a distanza. Fino a due mesi fa ci stavamo interrogando sulla quantità
di lavori umani che saranno cancellati dall’intelligenza artificiale;
improvvisamente ci siamo trovati a fare il conto di quanti lavori si possono
fare senza metterci le mani, il contatto fisico con l’oggetto che si produce
e/o con le altre persone. E il mondo si è diviso in due: chi può lavorare a
distanza, e chi no. Come per il catalogo delle attività produttive, la
statistica soccorre fino a un certo punto. Una ricognizione della “classifica delle professioni” dell’Istat,
che abbiamo fatto con l’aiuto della Fondazione Di Vittorio, dà qualche indizio.
Tra i dipendenti, gli “operai specializzati ed agricoltori” sono 2 milioni e
139mila, poi ci sono 1 milione 722 mila fra conduttori di impianti, operari di
macchinari fissi e mobili e conducenti di veicoli. A queste cifre si aggiungono
2 milioni 293 mila dipendenti nelle professioni non qualificate. Ma si potrebbe
dire: non tutti gli operai, qualificati o meno, devono per forza “metterci le
mani”. Scorrendo le sotto-voci, i cui dettagli evocano mestieri nuovi e altri
rimasti lì per inerzia (ci sono anche i “conduttori di veicoli a motore a
trazione animale”, per dire), si intuisce però che la grande maggioranza di
quei lavori operai, specializzati o meno, richiedono di “metterci le mani”; e
si può arrivare a stimare il numero totale dei lavoratori dipendenti che, in
termini generali, si possono considerare impegnati in attività manuali è tra
5,5 e 6 milioni. A questi vanno aggiunti gli eroi di questi giorni, dall’Istat
qualificati come “professioni intellettuali” ma che devono stare a portata di
mano (e di contagio): i medici (168 mila lavoratori dipendenti e 140 mila
autonomi), i tecnici della salute (632 mila lavoratori dipendenti e 122 mila
autonomi). E ancora: i tecnici della sicurezza e protezione ambientale (58 mila
dipendenti più 16 mila autonomi), i profili qualificati nei servizi sociali e
sanitari (256 mila, quasi tutti dipendenti), solo per citare le categorie più
numerose. In totale, si superano i 7 milioni di persone: lavoratori e
lavoratrici che non si possono tenere a distanza, nonostante il grande balzo
della digitalizzazione (secondo il capo di Microsoft Satya Nadella abbiamo avuto in due
mesi la trasformazione che in tempi normali avremmo avuto in due anni). Tra
questi, la decisione sul farli lavorare o meno è affidata a un altro aggettivo:
essenziale. La lista delle
produzioni essenziali è stata fatta, contestata, interpretata, aggirata con
autocertificazione e comunicazione prefettizia. Ma al di là della portata
burocratica, legale, statistica, quell’aggettivo – essenziale – è andato ben
oltre il destino delle persone addette alle produzioni vitali, per interrogare
tutti gli altri, anche gli addetti ai lavori intellettuali che si possono
convertire alla modalità “smart”. E molti di noi si sono chiesti: quanto è
“essenziale” il mio lavoro? Passando dai numeri all’aneddotica, voglio qui
raccontare una esperienza vissuta il 25 aprile. Tra i tanti effetti del
lockdown, ci è stata l’improvvisa conoscenza di vicini di casa che per anni si
erano ignorati nella fretta dei contatti quotidiani, del saluto in ascensore
con la testa già proiettata sui luoghi di lavoro dove si stava, all’epoca,
andando. Non sapevo, per esempio, che nel mio condominio viveva una coppia di
cantanti, tenore e soprano. Il 25 aprile, dopo Bella ciao, ci hanno regalato un
mini-concerto dalla finestra. Nel giardino condominiale, il pubblico abbastanza
ben distanziato e commosso li ha ringraziati. Lei è scesa, ha detto: siamo noi
che ringraziamo voi, ci avete fatto cantare. Siamo fermi da un mese e mezzo e
per noi è un problema non allenare la voce. Alla domanda: ma perché non potete
andare a provare uno per volta nelle sale dell'accademia?, la soprano ha
risposto di getto: non possiamo, non è considerato un lavoro… Poi ha aggiunto:
non è un lavoro essenziale. Era evidente, in quel momento, che per la dozzina
delle persone presenti quei pochi minuti di bellezza erano stati essenziali, un
vero sollievo in tempi drammatici. E che quei due lavoratori-artisti lo hanno
percepito, pur accettando con disciplina la limitazione da lockdown che ha
circoscritto l’essenziale nella definizione dei lavori che salvano vite, che ci
permettono di non morire, di mangiare, di avere i beni di prima necessità.
Abbiamo scoperto, in questa circostanza, che di molti dei lavori super-pagati
possiamo fare a meno, mentre spesso i lavori essenziali sono quelli che
paghiamo di meno: il cui valore ci risparmia non solo la fatica, ma anche il
rischio. È il caso dei fattorini e dei magazzinieri di Amazon e di tutta la
gig-economy, mani e gambe di quelle infrastrutture sociali che sono diventata
le grandi piattaforme digitali. Molto è destinato a cambiare, nella
soggettività (sono partiti gli scioperi, forse saliranno un po’ i salari) e
nella percezione del valore di quei lavori. E anche di tutti gli altri, che
essenziali – nel senso di salva-vita – non sono, ma che ci consentono di vivere
e non solo sopravvivere. Molti di questi possono, in teoria, svolgersi a
distanza e sempre più e sempre meglio lo faranno. Forse interrogandoci su cosa
è davvero essenziale continueremo a fare almeno una parte delle riunioni e
degli eventi pubblici sul web, risparmiando tempo e soldi. Ma c’è un ultimo
aggettivo del lavoro in questo primo maggio 2020: individuale. Quasi tutti i lavori
che si possono svolgere da remoto sono fatti da una persona, sola. A volte in
connessione con altri, a volte no. Con il lavoro a distanza, è rimasta la parte
“produttiva”, funzionale di quella connessione – le procedure, gli accordi, le
regole, i file condivisi, i rendiconti, la consegna –, mentre è sparita, o si è
molto ridotta, quella informale, sociale, relazionale. È come se
l’atomizzazione della condizione del lavoro con la quale si è chiuso il
Novecento fosse diventata improvvisamente plastica, visibile, concreta.
Ciascuno davanti al suo schermo, a produrre la sua parte di utile. Il
segretario della Cgil Landini ha detto in un’intervista a Repubblica che
occorrerà fare un contratto anche per il lavoro da casa, cogliendo un problema
enorme che si apre. Ma allo stesso tempo occorrerà riflettere, e non solo da un
punto di vista sindacale, sui pericoli di un futuro di lavoratori-monadi smart,
puliti, non inquinanti, anche meno stressati da pendolarismo e tempi morti, ma
che toglie al lavoro la sua dimensione fisica di socialità.
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Ed infine un articolo meno specifico perché
affronta in generale le caratteristiche culturali che stanno caratterizzando i
nostri modi diffusi di analizzare e valutare la pandemia in alcuni dei suoi
aspetti di fondo collegandosi così a precedenti interventi sul tema che abbiano
avuto modo di pubblicare in questo nostro blog
Intelligenza
e barbarie
Articolo
di Dino Baldi (ricercatore in Filologia presso l’Università di Firenza,
editorialista per diverse riviste online) – Pubblicato nel sito online “Antinomie”
Nell’antichità
greca e latina le più gravi pestilenze (così venivano chiamate tutte le
malattie ad alto tasso di contagiosità e mortalità, invisibili, imprevedibili e
incurabili) hanno come conseguenza, nella tradizione letteraria, il tracollo
delle norme religiose, sociali e politiche, e un azzeramento delle
sovrastrutture create dagli uomini nel tempo. Le epidemie sono insieme causa ed
effetto di barbarie, vale a dire di una colpa morale, di una violazione
dell’ordine religioso e naturale (che erano, semplifico, la stessa cosa). La
spiegazione religiosa si accompagnava spesso a quella razionale senza soluzione
di continuità. Anche oggi molti credono che questa pandemia sia la punizione
per gli oltraggi inflitti dall’uomo alla natura, che da tempo ha assunto i
contorni di un idolo, una religione con i suoi dogmi e i suoi riti, e si può
immaginare che ancora di più lo sarà da qui in avanti. La scienza a sua volta
(intesa come vulgata scientifica banalizzata e indiscutibile) dimostra la
violazione della natura e guida gli uomini nel cammino di risanamento del
mondo, e alla scienza dunque occorre inchinarsi, a maggior ragione oggi.
Infatti i progressisti (termine vago, ma non saprei in che altro modo
chiamarli) apprezzano il fatto che la maggior parte dei governi abbia avuto il
buon senso di obbedire alla scienza anziché al mercato (o vi sia stata
costretta): vi intravedono la possibilità di un nuovo ordine, più giusto e più
rispettoso dei diritti dell’uomo e dell’ambiente. Per Giorgio
Agamben invece con questa pestilenza si è oltrepassata
la soglia che separa l’umanità dalla barbarie. Utilizza in parte, per
dimostrarlo, stilemi tucididei (anche se il riferimento esplicito è ad
Antigone): i corpi bruciati senza un funerale e i funerali senza corteo,
l’eclissi dei più nobili tra i sentimenti umani, come l’amicizia, l’amore, la
pietà, l’abdicazione della religione tradizionale (i cadaveri ammassati nei
templi, nei quali gli uomini si rifugiavano cercando aiuto dal cielo,
corrispondono oggi al silenzio di Dio nelle chiese deserte). Nella Fase due si
può fare visita solo ai congiunti, nei quali vanno inclusi anche gli «affetti
stabili»: chi si vuole bene, ma non ha una relazione documentabile o
dimostrabile in qualche modo, non rientra nelle deroghe al confinamento. Anche
in Tucidide e in Lucrezio muoiono del resto per primi i buoni, che non si
astengono dal soccorrere i malati e i bisognosi, e così facendo portano la
pestilenza di casa in casa. È difficile non vedere in provvedimenti come questo
e in quelli che nei giorni scorsi hanno delimitato il campo delle libertà
individuali e collettive, con glosse bizantine cresciute le une sulle altre, un
segno di degrado sociale, se proprio non si vuole chiamarla barbarie; perché
quella che stiamo vivendo è oggettivamente una forma sofisticata di barbarie, e
il fatto che nasca da una necessità non la fa diventare un’altra cosa. Anche
gli antichi, e i romani in particolare, la conoscevano bene: era il decadimento
prodotto da un eccesso di civiltà, che si esprimeva in primo luogo nella
sovrabbondanza di legislazione che noi diremmo speciale e andava a colpire
soprattutto la sfera dei comportamenti individuali. La perdita della libertà
esteriore era specchio della schiavitù interiore (incapacità di
autogovernarsi), in un circolo vizioso: il principato era causa ed effetto
della crisi morale dei cittadini. Allo stesso modo, per proseguire con i
circoli viziosi, la logica prima dell’etica dovrebbe far nutrire qualche dubbio
sulla propaganda della comunità che fa quadrato per proteggere i più deboli, considerando
lo sterminio degli anziani nelle Rsa (una retorica giustificazionista di questo
genere si trova ad esempio in un articolo di
Tiziano Scarpa, esemplare per densità di
luoghi comuni, nel quale si spiega, contro Agamben, che tutto quello che stiamo
vivendo non è barbarie, ma squisitissima civiltà). Quegli anziani, ammassati in
lager legalizzati, sono invisibili e quasi non fanno statistica. Mi permetto
una considerazione personale. Sono orgoglioso di pubblicare quel poco che
scrivo per Quodlibet, che in un momento come questo sta dando spazio ad Agamben
sul suo sito web (e senza premettere esergo farisaici come “La casa editrice
non si riconosce…” o simili). Mi disgusta che si imputi ad Agamben, non si sa
da quali altezze, l’aver pubblicato anche in un giornale come «La Verità»,
quando non è libero di farlo in luoghi formalmente più rispettabili per
l’autocensura dei medesimi. Lo sono per principio e perché penso che in quello
che scrive si trovino spunti e argomenti rispetto ai quali, tra chi si
considera e viene considerato un intellettuale (il mio Facebook ne trabocca),
dovrebbe aprirsi una discussione libera e di merito, cosa che non è avvenuta
salvo in modalità sommerse o irrilevanti (distruttive, supponenti etc.). Io ad
esempio, nel mio piccolo, non sono convinto che quanto sta accadendo prefiguri
un nuovo totalitarismo, un ritorno allo Stato onnipotente e onnipresente; che
cioè questa sia un’occasione che i governi stanno cogliendo o addirittura
inventando (esasperando a bella posta) per imporre un sistema di controllo e la
limitazione delle libertà individuali. Mi sembra che le reazioni di molti
governi, in apparenza vigorose, dimostrino invece la debolezza strutturale dei
rispettivi Stati, l’incapacità o l’impossibilità di fare scelte davvero
politiche, che subordinino il qui e ora a una valutazione di sistema, e siano
dunque un’ulteriore testimonianza di una crisi che prelude a una metamorfosi
radicale, autodistruttiva della forma Stato novecentesca. Allo spettacolo di
questa emergenza gestita in maniera confusa e contraddittoria assistono in
silenzio le più grandi aziende che governano le frontiere del web, che questa
pandemia non solo non scalfisce ma rafforza, e che già adesso hanno un potere
economico assimilabile a quello di Stati veri e propri (ma in salute) e un
potere di controllo e indirizzamento delle scelte collettive infinitamente
superiore. Questi feudatari del web saranno gli unici in grado di trarre un
vantaggio concreto dalla deriva economica e sociale che si preannuncia, dallo
screditamento e indebolimento delle istituzioni democratiche fondamentali
(parlo in termini fattuali, non giuridici) e dalla progressiva omologazione
delle coscienze, cioè della riduzione dello spazio dell’intelligenza critica,
osservabile proprio nei luoghi del web dove si svolgono più fitte le
conversazioni. Qualcosa si può rilevare già da adesso: in queste settimane si
sta compiendo (nell’indifferenza generale, se non vedo male) la colonizzazione
della scuola nella sua modalità emergenziale, da parte di Google e in
percentuale molto inferiore di Microsoft, che hanno offerto le loro efficienti
piattaforme per la didattica a distanza (con molti ossequi da parte del
governo, incapace di fornire strumenti e linee guida) e stanno garantendo
dunque una forma di continuità alla maggior parte delle scuole italiane; ma
questo significa aprire ad aziende private uno spazio che dovrebbe essere
protetto da ogni intrusione esterna, peraltro senza una reale possibilità di
controllo sui dati raccolti. Un altro tema riguarda i sistemi di contact tracing per
contenere i contagi: di fronte al proliferare di applicazioni annunciate dai
diversi governi, Apple e Google hanno avviato una collaborazione per introdurre
funzionalità di tracciamento direttamente all’interno dei sistemi operativi iOs
e Android (vale a dire in tutti gli smartphone in commercio). Al di là del tema
della tutela dei dati personali (formalmente garantita, ma occorre allargare lo
sguardo), si tratta in entrambi i casi di una sovrapposizione e progressiva
sostituzione di prerogative e funzioni che i settori pubblici, ormai estenuati,
non sono più in grado di garantire in maniera adeguata: gli Stati dovranno
affidarsi in misura sempre maggiore a chi ha le forze e gli strumenti per
prendersene carico, cedendo progressivamente spazi di sovranità fino a
diventare la parodia di sé stessi. Più del totalitarismo nella sua forma
classica, io temo dunque in prospettiva una forma di totalitarismo apolitico e
libertario, dove la libertà non è quella del cittadino, sancita dalla
costituzione, ma quella strumentale ed eterodiretta del consumatore, al quale
deve essere garantito tutto il margine di manovra necessario a generare
profitto e i dati necessari ad accrescerlo (purché rimanga all’interno
dell’ecosistema dal quale, del resto, lui per primo non ha nessuna voglia di
uscire: in rete l’equivalente del lockdown
è il lock-in,
la prigione dorata dove proliferano i surrogati della felicità). In questo
contesto, il sovranismo mi sembra un’appendice tristemente patetica del
Novecento, che potrà ulteriormente prosperare, per qualche anno, sulle macerie
dell’Europa (forse l’istituzione più colpita da questa pandemia) e che potrà
ritardare ma non impedire sviluppi completamente diversi. Non credo neppure che
nell’insieme si possa parlare di “complotto”, di una strategia elaborata nelle
segrete stanze per approfittare dell’emergenza sanitaria e imporre una qualche
forma di dittatura (tranne eccezioni da manuale come quella ungherese). Prima
di tutto perché mi pare che il lessico tradizionale del potere non sia più
adeguato o sufficiente a descrivere in mondo in cui viviamo, e in secondo luogo
perché sono convinto che le cose vadano in parte come si vuole che vadano, e in
gran parte come non possono non andare, una volta presa una direzione che è
semplice e naturale assecondare, anche solo per mancanza di immaginazione o per
conformismo (un esempio è la “Netflix della cultura” di cui ha
parlato il ministro Franceschini). L’emergenza sanitaria esiste e richiede
scelte radicali: il discutere puntualmente il merito di queste decisioni, le
cause, le criticità, le alternative mi interessa meno del fatto che queste
decisioni nel loro complesso, anche se prese in perfetta buona fede o
addirittura controvoglia, costituiscano un punto di svolta, un’inclinazione del
piano che accelera un processo di ridefinizione degli equilibri economici e
politici che si sta svolgendo da almeno venti anni. Per questo, la convinzione
che si possa tornare allo status
quo ante senza conseguenze sostanziali mi sembra piuttosto ingenua,
e trovo anche semplicistica, seppure comprensibile, la giustificazione di
questi provvedimenti come temporanea: nella sostanza, il danno prodotto a tutti
i livelli è di lunga durata se non permanente. Non ho affatto chiaro,
naturalmente, quale possa essere l’esito di questo processo, né dei tempi in
cui potrà avvenire. Dipende anche dal modo in cui vi reagiremo, lo
comprenderemo, vi ci adatteremo o lo rifiuteremo. Quello che vedo, dal mio
limitato punto di osservazione (e anche osservando me stesso), non è
particolarmente incoraggiante. Il controllo dei comportamenti per decreto è
senz’altro meno efficace di quello che giorno dopo giorno ognuno ha sviluppato
nel chiuso della propria coscienza: alla quarantena imposta dall’alto si
accompagna una quarantena autoimposta del pensiero, un confinamento nelle zone
più tranquillizzanti del buon senso, in una gara a farsi di volta in volta
poliziotti, propagandisti o puntuali chiosatori delle norme restrittive, dei
comportamenti e dei pensieri altrui. La ninna nanna della responsabilità
individuale è comprensibile ed è un’altra delle strategie messe in atto per
accettare e farci accettare un’esperienza altrimenti inaccettabile; ma ha come
effetto collaterale l’atrofizzazione della disciplina del dubbio critico, che
dovrebbe far mettere in discussione ogni provvedimento calato dall’alto, fino
alla disobbedienza se necessario, e ogni idea vulgata: questa per quanto mi
riguarda è la competenza più preziosa nel difficile mestiere della
cittadinanza. Il buon senso, quel positivismo grossolano nel quale ci
esercitiamo quotidianamente, non basta a spiegare quanto sta accadendo, se mai
è stato sufficiente a spiegare qualcosa, né tantomeno può servire a indicare
una strada, se non altro perché ha la vista troppo corta e troppo spesso non si
distingue dal senso comune. Il buon senso serve oggi a ricondurre ogni
esperienza alla dimensione del ragionevole, nella quale l’inquietudine e
l’angoscia diventano fatti personali (e dunque dilagano, soprattutto fra i
letterati, i resoconti autoreferenziali, nonostante ci sia ben poco da
raccontare). La preoccupazione maggiore, accanto a quella di aggiungere lievito
al proprio ego, è quella di non dire qualcosa che possa essere qualificato come
una sciocchezza, di non farsi cogliere in fallo, e specularmente di cogliere in
fallo ed esporre alla berlina chi è meno cauto o più ingenuo o meno allineato;
mi sembra che almeno in parte sia un effetto della campagna contro la
disinformazione (le fake
news), talmente interiorizzata da essere diventata l’unica
missione, la più alta e civile (perché la più semplice) alla quale si sentono
chiamati molti liberi pensatori, che prendono a modello la sguaiata
ragionevolezza degli esperti e degli scienziati più alla moda, ed esercitano il
proprio brillante conformismo con un’arroganza proporzionata alla convinzione
di possedere strumenti di comprensione del mondo superiori a quelli dei propri
simili; ma sempre senza allontanarsi troppo, nella sostanza, dalla strada più
battuta. In psicologia sociale esiste una teoria che mi sembra si adatti bene a
queste forme di individualità di massa, quella della «distintività ottimale»,
per la quale ognuno di noi cerca di trovare un equilibrio tra il bisogno di
essere come tutti e quello di distinguersi muovendosi «fra le piante dai nomi
poco usati». In questi giorni, di equilibrismi del genere si possono osservare
esempi luminosi. Un corollario dei meccanismi di autolimitazione dell’intelligenza
è il culto nefasto e quasi superstizioso della specializzazione, del “parli
solo chi ha i titoli per farlo”, come se un titolo bastasse a rendere vera
un’idea, e come se in questo momento non fossero necessari sguardi il più
possibile estesi e non vincolati, anche al prezzo di leggere qualche
sciocchezza (nella critica del testo esiste la «congettura diagnostica»: una
proposta di emendazione che, anche se alla fine si dimostra sbagliata, serve
comunque a segnalare che in quel punto c’è un problema, attirando su di esso
l’attenzione degli studiosi). È interessante, dal mio punto di vista, che i più
bravi in questo esercizio di compartimentazione del pensiero siano i più colti
ed eterodossi, quelli che leggono Céline, Bernhard, Gadda, Manganelli e tutta la
schiera degli irregolari: il loro anticonformismo è confinato nella dimensione
della letteratura (nella quale includerei anche la saggistica più in voga, dei
vari Harari, Byung-chul Han, Sloterdijk, Žižek), che si riduce a un irrilevante
svago decorativo, compensando, in tutto il resto, un cervello perfettamente in
riga. Secondo le logiche del buon senso ad esempio la tutela della privacy è
solo un intralcio, un feticcio che limita la possibilità di tenere sotto
controllo i percorsi del virus e quindi di difendere la comunità dall’egoismo e
dall’irresponsabilità dei singoli; ma la privacy è sempre più obsoleta e sempre
meno considerata dalla maggioranza un valore da proteggere perché ostacola il
percorso verso quei paradisi di felicità artificiale di cui ho parlato sopra:
l’emergenza che stiamo vivendo è un’occasione per fare un passo avanti decisivo
in questa direzione, soprattutto in termini di percezione individuale (il
principio correlato è quello del “non ho niente da nascondere”). Basterebbe
aver letto uno dei tanti distopici in maniera meno letteraria e più curiosa per
rendersi conto che la questione è più spinosa di come può apparire alla luce,
ancora una volta, di quella miope assennatezza che è l’unico criterio per
valutare quello che sta accadendo, e che porta a contrassegnare come falso o
inappropriato o pericoloso tutto ciò che non ha il carattere dell’evidenza
assoluta e immediata (l’eikòs
di Aristotele: quanto accade di solito o è appropriato, molto diverso dal vero
necessario). Anche per questi motivi dovremmo a mio parere riconsiderare la
stucchevole vulgata dei libri e delle librerie come presìdi di civiltà. Per
quanto mi riguarda è tutto il contrario.
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