martedì 5 maggio 2020

Tre diverse riflessioni ssul coronavirus


Per non sommergervi di ripetute mail di “avviso pubblicazione post” abbiamo pensato che sia consigliabile concentrarne la pubblicazione ricorrendo così ad una sola mail di avviso. La partenza della “Fase due” non ha certo esaurito la tante riflessioni e discussioni sulle varie questioni legate alla pandemia ed alle misure per fronteggiarla, ed anzi ha sollevato molte altre domande legate alla “ripartenza”.  Anche questa tornata di post non poteva quindi non vertere su alcune di queste tematiche, in particolare proponendo tre articoli, come sempre reperiti nell’infinito mare di siti dentro il quale ormai si muove buona parte del dibattito pubblico, che affrontano rispettivamente il rapporto emergenza climatica e pandemia, il lavoro al tempo del covis19, ed infine la commistione di elementi di “barbarie” ed intelligenza che si è venuta a creare in questa fase. Con una piccola dose di pazienza potete, se interessati, leggerli tutti tre, altrimenti scegliete liberamente quello/quelli che più vi attirano. Iniziamo da un articolo che cerca di prefigurare le linee guida che dovrebbero ispirare la relazione fra emergenza ambientale ed emergenza pandemica, a giudizio di molti tra di loro strettamente collegate non solo nel determinare l’insorgere stesso della pandemia ma soprattutto perché la vera soluzione di questa passa, di conseguenza, anche attraverso una ferma e concreta volontà di affrontare la prima, Una volontà che sembrava, nei mesi appena precedenti la pandemia, essersi finalmente più allargata e consolidata, anche grazie alle campagne di mobilitazione come “Fridays for future”, e che aveva visto un importante riscontro nella decisione UE di avviare una consistente politica di sostegno alla “riconversione verde”, che rischia purtroppo di essere condizionata dalle urgenze pandemiche. Davvero impossibile coniugare questi due aspetti?
Come cambia l’emergenza clima
con la Pandemia
Articolo di Donato Speroni (docente di Economia e Statistica presso l’Università di Urbino) pubblicato nel sito online “Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile”
“Stiamo muovendo le montagne per affrontare il Coronavirus. Perché non facciamo altrettanto per la crisi climatica?”. Si intitola così, su Newweek l’articolo scritto da Robert Walker, presidente del Population Institute di Washington. Bob, che conosco bene perché sono stato suo ospite a Ravello dove trascorre l’estate, è un tipo con la vista lunga. Nel 2009, quando uscì il rapporto del capo dei consulenti scientifici del governo inglese John Beddington, che preannunciava una “tempesta perfetta” entro il 2030, in mancanza di una adeguata governance internazionale, trasformò questo documento in un opuscolo distribuito in centinaia di migliaia di copie nelle scuole americane, perché era necessario che i giovani fossero informati delle sfide che li attendono. La traduzione di questo opuscolo è allegata al libro “2030 La tempesta perfetta – Come sopravvivere alla grande crisi”, che ho scritto con Gianluca Comin nel 2012 per Rizzoli. Il Population Institute di Walker si batte per diffondere il family planning in tutto il mondo e per promuovere i diritti delle donne che quando ottengono una migliore istruzione tendono ad avere famiglie meno numerose. Tra gli strumenti più efficaci, la produzione di telenovelas (o radionovelas nei Paesi più arretrati) che convogliano il messaggio del maggior benessere derivante da una famiglia meno numerosa. Da qualche tempo, l’impegno di Walker si è concentrato anche sugli aspetti climatici. Ecco alcuni passaggi del suo articolo per Newsweek: …….. Viviamo in un mondo che sta cambiando rapidamente, pieno di sfide. Con la crescita dei centri urbani, i sistemi sanitari pubblici inadeguati e il maggior contatto degli umani con animali in grado di trasmettere virus mortali, il Covid 19 era una pandemia in agguato, ma non è l’unica sfida globale che dobbiamo affrontare. L’anno scorso 11mila scienziati hanno firmato una dichiarazione nella quale si avverte che senza una radicale riduzione dei gas serra il mondo si avvia a ‘sofferenze mai viste’. Se non cambiamo rotta, entro il 2050 più di 200 milioni di persone dovranno emigrare per la siccità, le inondazioni e l’aumento del livello dei mari. Molto prima della fine di questo secolo la quantità di persone uccise ogni anno dall’aumento della temperatura e dagli altri effetti climatici, compresa la diffusione delle malattie portate dagli insetti, potrebbe superare ampiamente il costo umano del Covid 19. L’anno scorso Michael Greenstone, co-direttore del Climate Impact Lab, ha avvertito il Congresso che attorno al 2100 le morti premature dovute ai cambiamenti climatici supereranno ogni anno il numero di quelli che oggi muoiono per tutte le malattie infettive messe insieme. L’insieme delle perdite economiche derivanti dalla crisi climatica sarà di gran lunga maggiore dei costi finanziari che subiremo quest’anno a seguito del Covid 19. Se la temperatura globale salirà di 2° centigradi il prezzo da pagare potrebbe arrivare a 69mila di miliardi entro il 2100. L’aumento delle temperature ridurrà anche la resa dei raccolti perché ogni grado di aumento riduce del 6% la produzione agricola. Ci sarà anche un’accelerazione della perdita di biodiversità. Entro cinquant’anni un terzo delle specie vegetali e animali andrà perduto. …….. L’appello di Walker è molto forte, ma certo non è il primo. Come spingere i governi e l’opinione pubblica mondiale ad affrontare l’emergenza climatica con la stessa determinazione con la quale stiamo affrontando la Pandemia? È chiaro che la mancanza di una minaccia immediatamente percepibile rende questa mobilitazione più difficile, anche se giustamente i più giovani hanno capito i rischi a cui vanno incontro e non sono più disposti a stare zitti. Qualcuno dice che stiamo sbagliando tutto. Per esempio, Michael Moore, nel suo nuovo documentario “Planet of the humans””, liberamente scaricabile, sostiene con il suo consueto radicalismo che abbiamo intrapreso la strada sbagliata per salvare il Pianeta, “vendendo il movimento verde agli interessi dei ricchi e alla corporate America. ……. Il dibattito non affronta la sola cosa che POTREBBE salvarci: ridurre l’impronta dell’umanità e i consumi che sono sfuggiti al controllo. Perché non è questo IL problema? Perché danneggerebbe i profitti e il business. Noi ambientalisti siamo caduti nella trappola di delle illusioni verdi (...) e abbiamo puntato tutte le nostre speranze sulle biomasse, sulle turbine a vento e sulle macchine elettriche? ……… In sostanza Moore, che nel suo documentario si avvale anche delle testimonianze di Al Gore, Michael Bloomberg, Vandana Shiva e altri, sostiene che per fermare l’aumento della temperatura ci vuole ben altro: un drastico cambiamento del nostro modo di consumare (e della quantità dei nostri consumi) anche a costo di danneggiare temporaneamente l’economia. Propone un dilemma che non è molto dissimile da quello che stiamo affrontando in questa Pandemia, alla ricerca di un difficile equilibrio tra rischio sanitario e rischio economico. È vero, del resto, che molte teorizzazioni “verdi” tendono a farci credere che la crisi climatica possa essere affrontata con limitati sacrifici e quelli che lo stesso Moore chiama tecno-fixes and band aids, cerotti e aggiustamenti tecnologici. È però possibile che la stessa crisi da Coronavirus ci renda meglio attrezzati per affrontare la crisi climatica in tutta la sua complessità. Questa per esempio è la tesi di Jane McDonald e Anne Hammill in un articolo pubblicato sul National Observer che guarda al Canada, ma contiene indicazioni di carattere generale: …...Dobbiamo agire subito. Questa pandemia ha messo in evidenza quanto sia importante continuare a investire nelle protezioni contro possibili scenari di crisi. Ci sono molti elenchi di investimenti infrastrutturali che il Canada dovrebbe affrontare immediatamente per prepararsi ai prossimi shock, specialmente quelli che possono provenire dal cambiamento climatico: inondazioni più severe, siccità, ondate di calore e uragani. Alcuni di questi investimenti sono di piccole dimensioni e possono essere realizzati rapidamente a casa propria, come l’installazione di valvole antiriflusso per evitare l’inondazione delle cantine. Altri, come le protezioni contro l’aumento del livello del mare sono così importanti da poter dare un contributo allo stimolo economico necessario per la ripresa dopo il Covid 19. In ogni caso tutti i progetti infrastrutturali devono essere soggetti al controllo del governo federale. …….I profondi cambiamenti economici indotti da questa Pandemia mutano anche il contesto della transizione energetica. Per esempio, il crollo del prezzo del petrolio potrebbe rendere meno conveniente il passaggio alle energie rinnovabili, come abbiamo documentato in questo focus e discusso con Daniele Agostini di Enel e Davide Tabarelli di Nomisma Energia nella più recente puntata di Alta sostenibilità. Con la ripresa, il prezzo del petrolio avrà comunque un rimbalzo, perché, come spiega l'Economist, non siamo ancora al picco della domanda: la crescita dei fabbisogni di energia nel Paesi emergenti e in via di sviluppo farà ancora aumentare la richiesta di fossili. Ma le compagnie petrolifere sono sul chi vive perché da anni valutano l’ipotesi che la domanda possa calare strutturalmente, a seguito di scelte più decise dei governi contro la crisi climatica……… La volatilità dei prezzi ha affossato l’appetito degli investitori per nuovi progetti in questo settore. Quest’anno le compagnie petrolifere hanno già ridotto i loro investimenti del 25% e una parte del petrolio più costoso da estrarre rimarrà sottoterra. La frenetica crescita dello shale oil si fermerà. Grandi esportatori come l’Arabia Saudita dovranno tagliare la spesa pubblica e diversificarsi. ……… Anche la corsa al petrolio dell’Artico che si era aperta con la prospettiva del disgelo sembra essersi fermata, perché la remunerazione non giustifica più l’investimento. Nei Paesi consumatori, il rischio di un rimbalzo a favore dei fossili può essere bloccato con interventi che limitino i vantaggi dell’uso di combustibili e carburanti inquinanti, nonostante la caduta del prezzo del barile. Secondo Euractive è quanto ha proposto il governo francese in una riunione dei ministri dell’Energia dell’Unione martedì 28 aprile. …….. Questo meccanismo potrebbe prendere la forma di un ‘carbon price floor’, un prezzo minimo per le emissioni di carbonio, da realizzarsi sia attraverso una riforma del sistema europeo Ets,(l’emissions trading scheme che riguarda le industrie più inquinanti, ndr), sia attraverso la direttiva sulla tassazione dell’energia che è in discussione nel contesto dello European Green Deal. …….. Dunque, la Pandemia ha rimescolato le carte, ma non ha necessariamente allontanato le azioni da realizzare per fronteggiare la crisi climatica. Ha fatto capire alla popolazione mondiale che il mondo sta cambiando rapidamente, con avvenimenti drammatici ai quali bisogna far fronte rapidamente, anche con grandi sacrifici. Ha messo in luce la necessità di scelte difficili, tra costi in vite umane e costi economici che possono tradursi in povertà e diseguaglianze. Ha sensibilizzato i leader politici su scelte di investimento che guardino al futuro. Ha ribadito, infine, la necessità di tenere fermo il timone della riconversione energetica, senza farsi allettare dalle sirene del basso costo del petrolio. Grandi temi di discussione, che siamo tutti impegnati a tenere vivi con proposte, dibattiti, iniziative che coinvolgano l’opinione pubblica. Una ricerca di Ipsos mette in evidenza che la maggior parte della popolazione mondiale considera il cambiamento climatico un evento grave quanto la Pandemia. È necessario però che l’aumentata sensibilità della popolazione si traduca in un cambiamento della politica. Per questo è indispensabile che siano cambiati i parametri che misurano i valori davvero importanti. Anche in questa crisi, è giusto guardare con preoccupazione al previsto crollo del Pil, il Prodotto interno lordo, ma è necessario guardare anche agli impatti sul reddito delle famiglie e all’occupazione, che sono gli effetti più avvertiti dalla collettività. Perché questo non avviene? Nella presentazione del libro di Lorenzo Fioramonti “Il mondo dopo il Pil. Economia e politica nell'era della post-crescita”, a Ecofuturo Festival, il portavoce dell’ASviS Enrico Giovannini ha dato due motivazioni: la prima è una questione di potere, perché guardare a una serie di indicatori più ampia diminuisce l’importanza di quegli economisti che prescrivono ricette basate solo sul Pil. La seconda riguarda l’allergia dei media alla complessità. È certamente più difficile raccontare una batteria di indicatori anziché concentrare l’attenzione solo sul Pil. Insomma, in base all’esperienza della Pandemia dobbiamo cambiare visione, cambiare politiche, cambiare comportamenti, cambiare parametri. Un vasto programma, come avrebbe detto il Generale De Gaulle, ma non disperiamo.
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Le parole pronunciate da Papa Francesco in occasione del 1° maggio hanno dato ancor più rilevanza alla “riscoperta” del ruolo centrale del lavoro. Le inevitabile ripercussioni del lockdown su economia e produzione stanno facendo esplodere la crisi occupazionale che le varie trasformazioni tecnologiche e di sistema da tempo avevano innescato. Al tempo stesso stanno imponendo una necessità di meglio conoscere l’attuale “mondo del lavoro”, ad esempio capendo cosa effettivamente indicano i vari aggettivi che di questi tempi lo definiscono, per comprenderne le tante contraddizioni e problematiche.
Gli aggettivi del lavoro
Il primo maggio del Covid
Articolo di Roberta Carlini (giornalista e saggista. Si occupa di economia, lavoro, politica, società, questioni di genere, condirettrice di Pagina99 e, dal 1999 al 2005, vicedirettrice del quotidiano il Manifesto)  - rivista online DoppioZero
Alla vigilia del primo maggio il servizio pubblico ha portato in tv il giovane Marx che legge e recita Ricardo: “Il valore reale di una cosa per colui che l’ha acquistata e per chi vuole venderla o scambiarla con qualcos’altro è la fatica e la sofferenza che può risparmiare a se stesso e che può imporre ad altre persone. Il lavoro è stato quindi il primo prezzo, l’originale moneta d’acquisto pagata per ogni cosa”. Nello stesso giorno, l’Istat aveva diffuso i primi dati ufficiali sul lavoro nella pandemia. Meno 94mila occupati, più 301mila inattivi se si confronta il primo trimestre di quest’anno con lo stesso periodo dell’anno prima. Se i numeri italiani a prima vista non paiono catastrofici come quelli americani (decine di milioni di disoccupati) , è perché abbiamo un diverso sistema di protezione sociale e del lavoro; perché i cassintegrati non sono contati tra i disoccupati; perché lo choc di marzo è “annacquato” nel dato trimestrale; e per vari altri motivi. Ma si può dire, alla prima impressione, che la festa del lavoro del 2020 è all’insegna dell’inattività: che statisticamente fotografa la moltitudine che il lavoro non ce l’ha e non lo cerca. “Inattivo” è un aggettivo che contiene una negazione, come i lunghi elenchi dei dpcm che scandiscono la nostra vita dai primi di marzo del 2020 e che ci dicono cosa non dobbiamo fare per preservare la salute pubblica. Da allora il lavoro – misura del valore di ogni cosa, secondo Ricardo-Marx – è stato chiuso, negato, allontanato dalla sua sede, cambiato, esaltato, digitalizzato, contingentato, evocato. Proprio mentre si è smaterializzato, per molti, ed è sparito, per troppi, è tornato al centro; sempre accompagnato da aggettivi che lo qualificano. E forse gli aggettivi qualificativi del lavoro nella pandemia sono più utili, per capire dove si andrà, delle previsioni quantitative sul lavoro che ci mancherà nella prima recessione della storia indotta da misure di salute pubblica. Il primo a tornare al centro è stato il lavoro manuale. Che, il più delle volte, non si può svolgere a distanza. Fino a due mesi fa ci stavamo interrogando sulla quantità di lavori umani che saranno cancellati dall’intelligenza artificiale; improvvisamente ci siamo trovati a fare il conto di quanti lavori si possono fare senza metterci le mani, il contatto fisico con l’oggetto che si produce e/o con le altre persone. E il mondo si è diviso in due: chi può lavorare a distanza, e chi no. Come per il catalogo delle attività produttive, la statistica soccorre fino a un certo punto. Una ricognizione della classifica delle professionidell’Istat, che abbiamo fatto con l’aiuto della Fondazione Di Vittorio, dà qualche indizio. Tra i dipendenti, gli “operai specializzati ed agricoltori” sono 2 milioni e 139mila, poi ci sono 1 milione 722 mila fra conduttori di impianti, operari di macchinari fissi e mobili e conducenti di veicoli. A queste cifre si aggiungono 2 milioni 293 mila dipendenti nelle professioni non qualificate. Ma si potrebbe dire: non tutti gli operai, qualificati o meno, devono per forza “metterci le mani”. Scorrendo le sotto-voci, i cui dettagli evocano mestieri nuovi e altri rimasti lì per inerzia (ci sono anche i “conduttori di veicoli a motore a trazione animale”, per dire), si intuisce però che la grande maggioranza di quei lavori operai, specializzati o meno, richiedono di “metterci le mani”; e si può arrivare a stimare il numero totale dei lavoratori dipendenti che, in termini generali, si possono considerare impegnati in attività manuali è tra 5,5 e 6 milioni. A questi vanno aggiunti gli eroi di questi giorni, dall’Istat qualificati come “professioni intellettuali” ma che devono stare a portata di mano (e di contagio): i medici (168 mila lavoratori dipendenti e 140 mila autonomi), i tecnici della salute (632 mila lavoratori dipendenti e 122 mila autonomi). E ancora: i tecnici della sicurezza e protezione ambientale (58 mila dipendenti più 16 mila autonomi), i profili qualificati nei servizi sociali e sanitari (256 mila, quasi tutti dipendenti), solo per citare le categorie più numerose. In totale, si superano i 7 milioni di persone: lavoratori e lavoratrici che non si possono tenere a distanza, nonostante il grande balzo della digitalizzazione (secondo il capo di Microsoft Satya Nadella abbiamo avuto in due mesi la trasformazione che in tempi normali avremmo avuto in due anni). Tra questi, la decisione sul farli lavorare o meno è affidata a un altro aggettivo: essenziale. La lista delle produzioni essenziali è stata fatta, contestata, interpretata, aggirata con autocertificazione e comunicazione prefettizia. Ma al di là della portata burocratica, legale, statistica, quell’aggettivo – essenziale – è andato ben oltre il destino delle persone addette alle produzioni vitali, per interrogare tutti gli altri, anche gli addetti ai lavori intellettuali che si possono convertire alla modalità “smart”. E molti di noi si sono chiesti: quanto è “essenziale” il mio lavoro? Passando dai numeri all’aneddotica, voglio qui raccontare una esperienza vissuta il 25 aprile. Tra i tanti effetti del lockdown, ci è stata l’improvvisa conoscenza di vicini di casa che per anni si erano ignorati nella fretta dei contatti quotidiani, del saluto in ascensore con la testa già proiettata sui luoghi di lavoro dove si stava, all’epoca, andando. Non sapevo, per esempio, che nel mio condominio viveva una coppia di cantanti, tenore e soprano. Il 25 aprile, dopo Bella ciao, ci hanno regalato un mini-concerto dalla finestra. Nel giardino condominiale, il pubblico abbastanza ben distanziato e commosso li ha ringraziati. Lei è scesa, ha detto: siamo noi che ringraziamo voi, ci avete fatto cantare. Siamo fermi da un mese e mezzo e per noi è un problema non allenare la voce. Alla domanda: ma perché non potete andare a provare uno per volta nelle sale dell'accademia?, la soprano ha risposto di getto: non possiamo, non è considerato un lavoro… Poi ha aggiunto: non è un lavoro essenziale. Era evidente, in quel momento, che per la dozzina delle persone presenti quei pochi minuti di bellezza erano stati essenziali, un vero sollievo in tempi drammatici. E che quei due lavoratori-artisti lo hanno percepito, pur accettando con disciplina la limitazione da lockdown che ha circoscritto l’essenziale nella definizione dei lavori che salvano vite, che ci permettono di non morire, di mangiare, di avere i beni di prima necessità. Abbiamo scoperto, in questa circostanza, che di molti dei lavori super-pagati possiamo fare a meno, mentre spesso i lavori essenziali sono quelli che paghiamo di meno: il cui valore ci risparmia non solo la fatica, ma anche il rischio. È il caso dei fattorini e dei magazzinieri di Amazon e di tutta la gig-economy, mani e gambe di quelle infrastrutture sociali che sono diventata le grandi piattaforme digitali. Molto è destinato a cambiare, nella soggettività (sono partiti gli scioperi, forse saliranno un po’ i salari) e nella percezione del valore di quei lavori. E anche di tutti gli altri, che essenziali – nel senso di salva-vita – non sono, ma che ci consentono di vivere e non solo sopravvivere. Molti di questi possono, in teoria, svolgersi a distanza e sempre più e sempre meglio lo faranno. Forse interrogandoci su cosa è davvero essenziale continueremo a fare almeno una parte delle riunioni e degli eventi pubblici sul web, risparmiando tempo e soldi. Ma c’è un ultimo aggettivo del lavoro in questo primo maggio 2020: individuale. Quasi tutti i lavori che si possono svolgere da remoto sono fatti da una persona, sola. A volte in connessione con altri, a volte no. Con il lavoro a distanza, è rimasta la parte “produttiva”, funzionale di quella connessione – le procedure, gli accordi, le regole, i file condivisi, i rendiconti, la consegna –, mentre è sparita, o si è molto ridotta, quella informale, sociale, relazionale. È come se l’atomizzazione della condizione del lavoro con la quale si è chiuso il Novecento fosse diventata improvvisamente plastica, visibile, concreta. Ciascuno davanti al suo schermo, a produrre la sua parte di utile. Il segretario della Cgil Landini ha detto in un’intervista a Repubblica che occorrerà fare un contratto anche per il lavoro da casa, cogliendo un problema enorme che si apre. Ma allo stesso tempo occorrerà riflettere, e non solo da un punto di vista sindacale, sui pericoli di un futuro di lavoratori-monadi smart, puliti, non inquinanti, anche meno stressati da pendolarismo e tempi morti, ma che toglie al lavoro la sua dimensione fisica di socialità. 
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Ed infine un articolo meno specifico perché affronta in generale le caratteristiche culturali che stanno caratterizzando i nostri modi diffusi di analizzare e valutare la pandemia in alcuni dei suoi aspetti di fondo collegandosi così a precedenti interventi sul tema che abbiano avuto modo di pubblicare in questo nostro blog
Intelligenza e barbarie
Articolo di Dino Baldi (ricercatore in Filologia presso l’Università di Firenza, editorialista per diverse riviste online) – Pubblicato nel sito online “Antinomie”
Nell’antichità greca e latina le più gravi pestilenze (così venivano chiamate tutte le malattie ad alto tasso di contagiosità e mortalità, invisibili, imprevedibili e incurabili) hanno come conseguenza, nella tradizione letteraria, il tracollo delle norme religiose, sociali e politiche, e un azzeramento delle sovrastrutture create dagli uomini nel tempo. Le epidemie sono insieme causa ed effetto di barbarie, vale a dire di una colpa morale, di una violazione dell’ordine religioso e naturale (che erano, semplifico, la stessa cosa). La spiegazione religiosa si accompagnava spesso a quella razionale senza soluzione di continuità. Anche oggi molti credono che questa pandemia sia la punizione per gli oltraggi inflitti dall’uomo alla natura, che da tempo ha assunto i contorni di un idolo, una religione con i suoi dogmi e i suoi riti, e si può immaginare che ancora di più lo sarà da qui in avanti. La scienza a sua volta (intesa come vulgata scientifica banalizzata e indiscutibile) dimostra la violazione della natura e guida gli uomini nel cammino di risanamento del mondo, e alla scienza dunque occorre inchinarsi, a maggior ragione oggi. Infatti i progressisti (termine vago, ma non saprei in che altro modo chiamarli) apprezzano il fatto che la maggior parte dei governi abbia avuto il buon senso di obbedire alla scienza anziché al mercato (o vi sia stata costretta): vi intravedono la possibilità di un nuovo ordine, più giusto e più rispettoso dei diritti dell’uomo e dell’ambiente. Per Giorgio Agamben invece con questa pestilenza si è oltrepassata la soglia che separa l’umanità dalla barbarie. Utilizza in parte, per dimostrarlo, stilemi tucididei (anche se il riferimento esplicito è ad Antigone): i corpi bruciati senza un funerale e i funerali senza corteo, l’eclissi dei più nobili tra i sentimenti umani, come l’amicizia, l’amore, la pietà, l’abdicazione della religione tradizionale (i cadaveri ammassati nei templi, nei quali gli uomini si rifugiavano cercando aiuto dal cielo, corrispondono oggi al silenzio di Dio nelle chiese deserte). Nella Fase due si può fare visita solo ai congiunti, nei quali vanno inclusi anche gli «affetti stabili»: chi si vuole bene, ma non ha una relazione documentabile o dimostrabile in qualche modo, non rientra nelle deroghe al confinamento. Anche in Tucidide e in Lucrezio muoiono del resto per primi i buoni, che non si astengono dal soccorrere i malati e i bisognosi, e così facendo portano la pestilenza di casa in casa. È difficile non vedere in provvedimenti come questo e in quelli che nei giorni scorsi hanno delimitato il campo delle libertà individuali e collettive, con glosse bizantine cresciute le une sulle altre, un segno di degrado sociale, se proprio non si vuole chiamarla barbarie; perché quella che stiamo vivendo è oggettivamente una forma sofisticata di barbarie, e il fatto che nasca da una necessità non la fa diventare un’altra cosa. Anche gli antichi, e i romani in particolare, la conoscevano bene: era il decadimento prodotto da un eccesso di civiltà, che si esprimeva in primo luogo nella sovrabbondanza di legislazione che noi diremmo speciale e andava a colpire soprattutto la sfera dei comportamenti individuali. La perdita della libertà esteriore era specchio della schiavitù interiore (incapacità di autogovernarsi), in un circolo vizioso: il principato era causa ed effetto della crisi morale dei cittadini. Allo stesso modo, per proseguire con i circoli viziosi, la logica prima dell’etica dovrebbe far nutrire qualche dubbio sulla propaganda della comunità che fa quadrato per proteggere i più deboli, considerando lo sterminio degli anziani nelle Rsa (una retorica giustificazionista di questo genere si trova ad esempio in un articolo di Tiziano Scarpa, esemplare per densità di luoghi comuni, nel quale si spiega, contro Agamben, che tutto quello che stiamo vivendo non è barbarie, ma squisitissima civiltà). Quegli anziani, ammassati in lager legalizzati, sono invisibili e quasi non fanno statistica. Mi permetto una considerazione personale. Sono orgoglioso di pubblicare quel poco che scrivo per Quodlibet, che in un momento come questo sta dando spazio ad Agamben sul suo sito web (e senza premettere esergo farisaici come “La casa editrice non si riconosce…” o simili). Mi disgusta che si imputi ad Agamben, non si sa da quali altezze, l’aver pubblicato anche in un giornale come «La Verità», quando non è libero di farlo in luoghi formalmente più rispettabili per l’autocensura dei medesimi. Lo sono per principio e perché penso che in quello che scrive si trovino spunti e argomenti rispetto ai quali, tra chi si considera e viene considerato un intellettuale (il mio Facebook ne trabocca), dovrebbe aprirsi una discussione libera e di merito, cosa che non è avvenuta salvo in modalità sommerse o irrilevanti (distruttive, supponenti etc.). Io ad esempio, nel mio piccolo, non sono convinto che quanto sta accadendo prefiguri un nuovo totalitarismo, un ritorno allo Stato onnipotente e onnipresente; che cioè questa sia un’occasione che i governi stanno cogliendo o addirittura inventando (esasperando a bella posta) per imporre un sistema di controllo e la limitazione delle libertà individuali. Mi sembra che le reazioni di molti governi, in apparenza vigorose, dimostrino invece la debolezza strutturale dei rispettivi Stati, l’incapacità o l’impossibilità di fare scelte davvero politiche, che subordinino il qui e ora a una valutazione di sistema, e siano dunque un’ulteriore testimonianza di una crisi che prelude a una metamorfosi radicale, autodistruttiva della forma Stato novecentesca. Allo spettacolo di questa emergenza gestita in maniera confusa e contraddittoria assistono in silenzio le più grandi aziende che governano le frontiere del web, che questa pandemia non solo non scalfisce ma rafforza, e che già adesso hanno un potere economico assimilabile a quello di Stati veri e propri (ma in salute) e un potere di controllo e indirizzamento delle scelte collettive infinitamente superiore. Questi feudatari del web saranno gli unici in grado di trarre un vantaggio concreto dalla deriva economica e sociale che si preannuncia, dallo screditamento e indebolimento delle istituzioni democratiche fondamentali (parlo in termini fattuali, non giuridici) e dalla progressiva omologazione delle coscienze, cioè della riduzione dello spazio dell’intelligenza critica, osservabile proprio nei luoghi del web dove si svolgono più fitte le conversazioni. Qualcosa si può rilevare già da adesso: in queste settimane si sta compiendo (nell’indifferenza generale, se non vedo male) la colonizzazione della scuola nella sua modalità emergenziale, da parte di Google e in percentuale molto inferiore di Microsoft, che hanno offerto le loro efficienti piattaforme per la didattica a distanza (con molti ossequi da parte del governo, incapace di fornire strumenti e linee guida) e stanno garantendo dunque una forma di continuità alla maggior parte delle scuole italiane; ma questo significa aprire ad aziende private uno spazio che dovrebbe essere protetto da ogni intrusione esterna, peraltro senza una reale possibilità di controllo sui dati raccolti. Un altro tema riguarda i sistemi di contact tracing per contenere i contagi: di fronte al proliferare di applicazioni annunciate dai diversi governi, Apple e Google hanno avviato una collaborazione per introdurre funzionalità di tracciamento direttamente all’interno dei sistemi operativi iOs e Android (vale a dire in tutti gli smartphone in commercio). Al di là del tema della tutela dei dati personali (formalmente garantita, ma occorre allargare lo sguardo), si tratta in entrambi i casi di una sovrapposizione e progressiva sostituzione di prerogative e funzioni che i settori pubblici, ormai estenuati, non sono più in grado di garantire in maniera adeguata: gli Stati dovranno affidarsi in misura sempre maggiore a chi ha le forze e gli strumenti per prendersene carico, cedendo progressivamente spazi di sovranità fino a diventare la parodia di sé stessi. Più del totalitarismo nella sua forma classica, io temo dunque in prospettiva una forma di totalitarismo apolitico e libertario, dove la libertà non è quella del cittadino, sancita dalla costituzione, ma quella strumentale ed eterodiretta del consumatore, al quale deve essere garantito tutto il margine di manovra necessario a generare profitto e i dati necessari ad accrescerlo (purché rimanga all’interno dell’ecosistema dal quale, del resto, lui per primo non ha nessuna voglia di uscire: in rete l’equivalente del lockdown è il lock-in, la prigione dorata dove proliferano i surrogati della felicità). In questo contesto, il sovranismo mi sembra un’appendice tristemente patetica del Novecento, che potrà ulteriormente prosperare, per qualche anno, sulle macerie dell’Europa (forse l’istituzione più colpita da questa pandemia) e che potrà ritardare ma non impedire sviluppi completamente diversi. Non credo neppure che nell’insieme si possa parlare di “complotto”, di una strategia elaborata nelle segrete stanze per approfittare dell’emergenza sanitaria e imporre una qualche forma di dittatura (tranne eccezioni da manuale come quella ungherese). Prima di tutto perché mi pare che il lessico tradizionale del potere non sia più adeguato o sufficiente a descrivere in mondo in cui viviamo, e in secondo luogo perché sono convinto che le cose vadano in parte come si vuole che vadano, e in gran parte come non possono non andare, una volta presa una direzione che è semplice e naturale assecondare, anche solo per mancanza di immaginazione o per conformismo (un esempio è la “Netflix della cultura” di cui ha parlato il ministro Franceschini). L’emergenza sanitaria esiste e richiede scelte radicali: il discutere puntualmente il merito di queste decisioni, le cause, le criticità, le alternative mi interessa meno del fatto che queste decisioni nel loro complesso, anche se prese in perfetta buona fede o addirittura controvoglia, costituiscano un punto di svolta, un’inclinazione del piano che accelera un processo di ridefinizione degli equilibri economici e politici che si sta svolgendo da almeno venti anni. Per questo, la convinzione che si possa tornare allo status quo ante senza conseguenze sostanziali mi sembra piuttosto ingenua, e trovo anche semplicistica, seppure comprensibile, la giustificazione di questi provvedimenti come temporanea: nella sostanza, il danno prodotto a tutti i livelli è di lunga durata se non permanente. Non ho affatto chiaro, naturalmente, quale possa essere l’esito di questo processo, né dei tempi in cui potrà avvenire. Dipende anche dal modo in cui vi reagiremo, lo comprenderemo, vi ci adatteremo o lo rifiuteremo. Quello che vedo, dal mio limitato punto di osservazione (e anche osservando me stesso), non è particolarmente incoraggiante. Il controllo dei comportamenti per decreto è senz’altro meno efficace di quello che giorno dopo giorno ognuno ha sviluppato nel chiuso della propria coscienza: alla quarantena imposta dall’alto si accompagna una quarantena autoimposta del pensiero, un confinamento nelle zone più tranquillizzanti del buon senso, in una gara a farsi di volta in volta poliziotti, propagandisti o puntuali chiosatori delle norme restrittive, dei comportamenti e dei pensieri altrui. La ninna nanna della responsabilità individuale è comprensibile ed è un’altra delle strategie messe in atto per accettare e farci accettare un’esperienza altrimenti inaccettabile; ma ha come effetto collaterale l’atrofizzazione della disciplina del dubbio critico, che dovrebbe far mettere in discussione ogni provvedimento calato dall’alto, fino alla disobbedienza se necessario, e ogni idea vulgata: questa per quanto mi riguarda è la competenza più preziosa nel difficile mestiere della cittadinanza. Il buon senso, quel positivismo grossolano nel quale ci esercitiamo quotidianamente, non basta a spiegare quanto sta accadendo, se mai è stato sufficiente a spiegare qualcosa, né tantomeno può servire a indicare una strada, se non altro perché ha la vista troppo corta e troppo spesso non si distingue dal senso comune. Il buon senso serve oggi a ricondurre ogni esperienza alla dimensione del ragionevole, nella quale l’inquietudine e l’angoscia diventano fatti personali (e dunque dilagano, soprattutto fra i letterati, i resoconti autoreferenziali, nonostante ci sia ben poco da raccontare). La preoccupazione maggiore, accanto a quella di aggiungere lievito al proprio ego, è quella di non dire qualcosa che possa essere qualificato come una sciocchezza, di non farsi cogliere in fallo, e specularmente di cogliere in fallo ed esporre alla berlina chi è meno cauto o più ingenuo o meno allineato; mi sembra che almeno in parte sia un effetto della campagna contro la disinformazione (le fake news), talmente interiorizzata da essere diventata l’unica missione, la più alta e civile (perché la più semplice) alla quale si sentono chiamati molti liberi pensatori, che prendono a modello la sguaiata ragionevolezza degli esperti e degli scienziati più alla moda, ed esercitano il proprio brillante conformismo con un’arroganza proporzionata alla convinzione di possedere strumenti di comprensione del mondo superiori a quelli dei propri simili; ma sempre senza allontanarsi troppo, nella sostanza, dalla strada più battuta. In psicologia sociale esiste una teoria che mi sembra si adatti bene a queste forme di individualità di massa, quella della «distintività ottimale», per la quale ognuno di noi cerca di trovare un equilibrio tra il bisogno di essere come tutti e quello di distinguersi muovendosi «fra le piante dai nomi poco usati». In questi giorni, di equilibrismi del genere si possono osservare esempi luminosi. Un corollario dei meccanismi di autolimitazione dell’intelligenza è il culto nefasto e quasi superstizioso della specializzazione, del “parli solo chi ha i titoli per farlo”, come se un titolo bastasse a rendere vera un’idea, e come se in questo momento non fossero necessari sguardi il più possibile estesi e non vincolati, anche al prezzo di leggere qualche sciocchezza (nella critica del testo esiste la «congettura diagnostica»: una proposta di emendazione che, anche se alla fine si dimostra sbagliata, serve comunque a segnalare che in quel punto c’è un problema, attirando su di esso l’attenzione degli studiosi). È interessante, dal mio punto di vista, che i più bravi in questo esercizio di compartimentazione del pensiero siano i più colti ed eterodossi, quelli che leggono Céline, Bernhard, Gadda, Manganelli e tutta la schiera degli irregolari: il loro anticonformismo è confinato nella dimensione della letteratura (nella quale includerei anche la saggistica più in voga, dei vari Harari, Byung-chul Han, Sloterdijk, Žižek), che si riduce a un irrilevante svago decorativo, compensando, in tutto il resto, un cervello perfettamente in riga. Secondo le logiche del buon senso ad esempio la tutela della privacy è solo un intralcio, un feticcio che limita la possibilità di tenere sotto controllo i percorsi del virus e quindi di difendere la comunità dall’egoismo e dall’irresponsabilità dei singoli; ma la privacy è sempre più obsoleta e sempre meno considerata dalla maggioranza un valore da proteggere perché ostacola il percorso verso quei paradisi di felicità artificiale di cui ho parlato sopra: l’emergenza che stiamo vivendo è un’occasione per fare un passo avanti decisivo in questa direzione, soprattutto in termini di percezione individuale (il principio correlato è quello del “non ho niente da nascondere”). Basterebbe aver letto uno dei tanti distopici in maniera meno letteraria e più curiosa per rendersi conto che la questione è più spinosa di come può apparire alla luce, ancora una volta, di quella miope assennatezza che è l’unico criterio per valutare quello che sta accadendo, e che porta a contrassegnare come falso o inappropriato o pericoloso tutto ciò che non ha il carattere dell’evidenza assoluta e immediata (l’eikòs di Aristotele: quanto accade di solito o è appropriato, molto diverso dal vero necessario). Anche per questi motivi dovremmo a mio parere riconsiderare la stucchevole vulgata dei libri e delle librerie come presìdi di civiltà. Per quanto mi riguarda è tutto il contrario.

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