Siamo ormai alla vigilia di una nuova
svolta nella gestione della pandemia covid19. Molte delle tanto attese
riaperture da una parte ci restituiranno abitudini e pratiche da
due mesi sospese dall’altra saranno sicuramente un banco di prova decisivo per
capire se davvero si è ad una svolta finalmente positiva. Sono però molte le
voci che ricordano la provvisorietà di ogni passaggio a fronte di una epidemia
in buona misura ancora da scoprire in tutte le sue caratteristiche. Questo
vale, ovviamente, per tutte le diverse modalità con le quali nel mondo intero è
stata affrontata l’emergenza. Scontata questa provvisorietà è però possibile un
primo bilancio della loro efficacia. Il seguente articolo
esamina, da questo punto di vista, alcune di quelle più significative
Le strategie più efficaci
contro la pandemia di Covid-19
I ricercatori studiano quali misure hanno funzionato meglio nell’arginare il contagio: saranno essenziali per gestire la difficile convivenza con il nuovo coronavirus.
Mai
era accaduto che metà della popolazione globale finisse in quarantena
nel tentativo di contenere la diffusione di un’epidemia. Quando a gennaio la
Cina ha congelato la socialità di decine di milioni di persone a Wuhan e
nella provincia dell’Hubei, il mondo aveva guardato con stupore al rigore del
governo di Pechino. Ben presto, tuttavia, di fronte all’avanzata inarrestabile
del contagio e in assenza di farmaci e vaccini, ogni governo è stato costretto
a introdurre misure di distanziamento sociale e procedure per identificare e isolare le
persone contagiate dal coronavirus SARS-CoV-2, che ha già causato più di 250
mila vittime. Oggi i ricercatori si interrogano sulle strategie
che finora si sono dimostrate più efficaci nell’arginare la diffusione
dell’epidemia. Pur nella consapevolezza che azzardare paragoni
non è semplice a causa dei molteplici fattori epidemiologici, sociali e
culturali che possono decretare il successo o il fallimento degli interventi,
diversi gruppi di ricerca sono all’opera nel tentativo di comprendere quali lezioni possiamo trarre dalle esperienze vissute nei Paesi più colpiti dal
contagio. A differenza delle prime settimane della pandemia, quando si potevano
fare solo ipotesi sugli effetti delle misure di contenimento, ora i modelli
possono basarsi sui dati reali raccolti nei diversi Paesi in seguito
agli interventi effettivamente disposti, dalla chiusure delle scuole agli adesivi
applicati sui marciapiedi per segnalare le distanze da rispettare. I risultati
convergeranno in un database realizzato dagli esperti della London
School of Hygiene and Tropical Medicine per l’Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS). La speranza è che possano emergere indicazioni preziose per
gestire la complicata fase di convivenza con la COVID-19. In particolare, racconta la rivista
scientifica Nature, l’intento è comprendere come
l’aggiunta o la rimozione delle misure di restrizione influenzi la circolazione
virale, ricavando informazioni cruciali per governare l’uscita in sicurezza dal lockdown e per affrontare l’eventualità di una
seconda ondata pandemica.
Nel frattempo, diverse analisi hanno già provato a discernere quali strategie
hanno funzionato meglio: la rivista Forbes, per esempio, ha pubblicato persino
le “classifiche” dei governi più virtuosi realizzate dal consorzio Deep
Knowledge Group in collaborazione con gli esperti del King’s College di Londra.
In attesa che le conoscenze siano consolidate da analisi rigorose, alcune
indicazioni cominciano a emergere. Senza pretesa di esaustività, ecco quel che
abbiamo imparato da ciò che è stato fatto nei Paesi che finora hanno gestito
meglio l’epidemia di COVID-19.
Corea del Sud
Il
cosiddetto “modello coreano” è stato forse il più elogiato nel discorso
pubblico, soprattutto per il successo nel contenere l’epidemia conseguito
grazie a un elevato numero di tamponi (fino a 15 mila al giorno) e
un’efficace tracciamento tecnologico della catena del contagio. Il
cosiddetto contact
tracing di tutti i
casi sospetti si è basato su più sistemi di sorveglianza integrati fra loro: la
localizzazione dei telefoni cellulari, le transazioni delle carte di credito
e le numerose telecamere a circuito chiuso dislocate in tutto
il Paese. Come racconta Jung Won Sonn sulle colonne di The Conversation, in Corea del Sud si registra la più
alta proporzione al mondo di transazioni senza contanti, ci sono più cellulari
che persone e almeno otto milioni di videocamere di sorveglianza: già dieci
anni fa, chiunque si spostasse in qualsiasi regione del Paese veniva ripreso in
media una volta ogni nove secondi. È stato soprattutto grazie al dispiego di
questo invasivo apparato tecnologico che è stato possibile fermare il contagio
(dopo circa 10.800 casi confermati e 254 vittime) senza ricorrere al lockdown
e nonostante l’epidemia si fosse già estesa a un numero elevato di persone.
Tuttavia il sistema ha funzionato perché non aveva nulla di improvvisato: il piano di risposta rapida
alle pandemie era stato messo a punto dopo l’esperienza vissuta nel 2003 con la
SARS, e in dicembre era stato collaudato mediante un’esercitazione. Nella gestione delle emergenze la
pianificazione in tempo di pace è l’elemento che più di ogni altro è in grado
di fare la differenza. Il modello coreano, tuttavia, non si cura della privacy dei cittadini
e perciò difficilmente potrebbe essere esportato nel contesto europeo.
Taiwan
Sebbene
in queste settimane si sia parlato di Taiwan più per ragioni geopolitiche – il
piccolo Stato insulare non è infatti riconosciuto dalla Cina e non fa parte dell’OMS
per il veto imposto da Pechino – il governo di Taipei, nonostante la vicinanza
con i confini cinesi, è riuscito a evitare che l’epidemia dilagasse: su una
popolazione di 23 milioni di persone (poco meno del Nord Italia) si sono
infatti registrati appena 438 casi e 6 vittime. Un successo ottenuto grazie a una risposta immediata
ai primi segnali di allarme ma, come in Corea del Sud, senza alcun lockdown: scuole, aziende e negozi sono sempre
rimasti aperti. Già il 31 dicembre, lo stesso giorno in cui la Cina informava
l’OMS dei primi casi di polmonite anomala, Taiwan aveva cominciato a monitorare i viaggiatori
provenienti da Wuhan. A quel punto si è messo in moto il Central Epidemic
Command Center per la gestione delle epidemie e sono stati applicati i
protocolli di sicurezza elaborati dopo l’epidemia di SARS del 2003. La rivista
medica Jama ha pubblicato l’elenco completo delle misure intraprese dal governo
di Taipei. È stata data grande importanza alla ricerca proattiva delle
persone contagiate (attivata addirittura prima che Wuhan entrasse in
quarantena) e all’impiego obbligatorio delle mascherine,
la cui produzione è stata finanziata e controllata dallo Stato, arrivando in
poco tempo a 10 milioni di pezzi al giorno; è stato quindi stabilito un prezzo
di vendita di 20 centesimi di dollaro affinché fossero disponibili per tutti e
pene fino a sette anni di carcere per chi speculava sul prezzo. E per chi
diffondeva fake news
sull’epidemia, sono state previste multe salatissime: fino a 100 mila euro.
Nuova Zelanda
Il
4 maggio la Nuova Zelanda ha raggiunto l’agognato traguardo di “zero contagi”
dopo avere registrato 1.486 casi e 20 vittime. L’obiettivo del governo non è
mai stato il contenimento bensì la completa soppressione
del contagio. Ancora una volta l’impresa sembra essere riuscita giocando
d’anticipo con misure molto restrittive sull’ingresso nel Paese e
l’imposizione del lockdown quando i contagi erano appena un
centinaio. La capacità di analizzare fino a 8.000 tamponi al giorno (come in
Lombardia, che però ha il doppio degli abitanti) ha inoltre favorito un contact tracing capillare che, secondo il direttore
della Sanità pubblica Ashley Bloomfield, avrebbe addirittura permesso di
risalire all’origine di tutti i casi confermati. La curva epidemica è scesa
verso lo zero in appena due settimane, ma il governo non si è accontentato
e ha mantenuto le restrizioni finché non è stato possibile sopprimere
completamente la trasmissione del coronavirus. Nel complesso, però, questa
strategia appare più facilmente applicabile in un territorio con le
caratteristiche della Nuova Zelanda: un’isola raggiungibile soltanto per via
aerea o per nave e con una popolazione di appena cinque milioni di abitanti.
Portogallo
Il
successo del Portogallo nel contenere l’epidemia è stato forse una sorpresa nel
panorama europeo. Nonostante il Paese iberico abbia una popolazione piuttosto
anziana e non possa vantare un sistema sanitario di eccellenza (il numero di
posti letto in terapia intensiva per abitante è la metà di quello della Spagna
e sette volte più basso di quello della Germania), finora ha registrato poco
più di 25.500 contagi e 1.063 decessi; per confronto, la Spagna conta oltre 218
mila contagi e 25.428 morti. Secondo un’analisi di Politico,
questo risultato si deve alla decisione del governo di Lisbona di imporre
restrizioni che, pur meno stringenti di quelle adottate in altri Paesi europei,
sono state introdotte quando il numero di contagi era
ancora molto limitato.
Lo stop alle attività non essenziali è entrato in vigore il 18 marzo con appena
448 casi confermati; per confronto, in Italia il lockdown è stato introdotto il 10 marzo quando
si contavano già oltre novemila contagi. È possibile che il maggiore isolamento geografico del Portogallo possa avere dato una mano, facendo sì che
l’epidemia arrivasse nel Paese con circa un mese di ritardo rispetto all’Italia
e alla Spagna. L’esecutivo socialista di Antonio Costa ha infine potuto contare
su un patto di collaborazione con l’opposizione, che ha senz’altro favorito
l’accettazione sociale e il rispetto delle restrizioni decise del governo.
Durante il dibattito sullo stato di emergenza, il leader dell’opposizione di
centro-destra Rui Rio aveva dichiarato: «Per me, in questo momento, il governo non
è l’espressione di un partito avversario, ma la guida dell’intera nazione che
tutti abbiamo il dovere di aiutare. Non parliamo più di opposizione, ma di
collaborazione. Signor primo ministro Antonio Costa conti sul nostro
aiuto. Le auguriamo coraggio, nervi d’acciaio e buona fortuna perché la sua
fortuna è la nostra fortuna».
Germania
Il
fatto che la Germania abbia gestito con successo l’emergenza non sorprende più
di tanto considerata la robustezza del sistema sanitario tedesco. Tuttavia si è
discusso a lungo sulle ragioni che hanno permesso di contenere in modo
significativo il numero delle vittime: circa 7 mila a fronte di oltre 166
mila contagi; un tributo pur sempre tragico, ma sei o sette volte inferiore
rispetto ad altri Paesi europei come Italia, Francia e Spagna.
Di
certo la Germania rientra fra le nazioni che ha adottato misure di controllo precoci e severe.
Il lockdown nazionale è stato disposto con più
anticipo rispetto all’aumento dei casi e il contact tracing
è stato gestito in modo efficace. Tuttavia, come raccontano Luca Carra e Sergio
Cima su Scienza in Rete, le autorità sanitarie tedesche non
sono molto generose nel fornire i dati sull’epidemia, a partire dal numero di
tamponi eseguiti e dalla mortalità per tutte le cause, rendendo più complicato
fare analisi indipendenti. In ogni caso, più che la maggiore disponibilità di posti letto nelle terapie intensive, che non sono stati mai prossimi alla
saturazione, un ruolo cruciale potrebbe averlo giocato la maggiore protezione degli anziani,
a cui è stato chiesto di isolarsi fin dagli esordi dell’epidemia. Il risultato
è che l’età media dei contagiati in Germania è di 50 anni, contro i 57 della
Francia, i 59 della Spagna e i 62 dell’Italia: un fattore forse decisivo
considerato che la gran parte delle vittime europee si registra tra la
popolazione di età più avanzata.
Svezia
Una
strategia molto discussa è stata infine quella seguita dalla Svezia, che ha
puntato sulla responsabilizzazione dei
cittadini
anziché sull’imposizione delle restrizioni. Il governo di Stoccolma ha vietato
gli assembramenti di più di cinquanta persone, gli eventi pubblici, le
manifestazioni sportive e l’ingresso ai musei, ma le scuole sono rimaste
parzialmente aperte, mentre non sono state imposte limitazioni alle attività
commerciali e produttive, né agli spostamenti delle persone, che sono stati
soltanto scoraggiati. Una scelta favorita dalla fiducia di
cui godono il governo e le istituzioni sanitarie nel Paese scandinavo, ma
dettata anche dalla legislazione svedese. Come infatti ha spiegato a Nature Anders Tegnell, epidemiologo
dell’agenzia indipendente di salute pubblica che ha formulato le
raccomandazioni per il governo, le leggi svedesi sulle malattie trasmissibili
si basano sul ricorso a misure volontarie e sulla responsabilità individuale,
impedendo di imporre un lockdown a un’intera area geografica. I
risultati non sono da primato, ma non si è assistito neppure all’ecatombe che
alcuni osservatori avevano previsto: finora si sono registrati quasi 23 mila casi e 2.769 vittime. Per confronto, in Belgio, che ha una popolazione
paragonabile, i morti sono stati quasi il triplo (8.016), a fronte di
restrizioni molto più rigorose. Rispetto però agli altri Paesi scandinavi, che
hanno optato per il lockdown, in Svezia si sono contate 22 vittime
ogni 100 mila abitanti, in Danimarca solo 7, appena 4 in Finlandia e in
Norvegia.
Forse
la Svezia non sarebbe stata neppure inclusa in questo breve elenco (peraltro
non esaustivo) dei Paesi che hanno meglio gestito la pandemia, se non fosse per
gli inattesi elogi ricevuti il 29 aprile dall’OMS, che ha indicato il Paese
scandinavo come modello per la fase di convivenza con il nuovo coronavirus. Secondo
Mike Ryan, responsabile del programma di emergenze sanitarie dell’OMS, ciò che
la Svezia ha fatto di diverso è basarsi su un rapporto di fiducia con la
cittadinanza, che l’OMS considera essenziale per gestire la “nuova normalità”
senza altri lockdown, insostenibili per l’economia e per
la tenuta sociale. Non è però mancato chi ha fatto notare che, per adottare con
il modello svedese, bisognerebbe essere svedesi.
Lezioni per il futuro
Da
questo scenario emerge che la capacità di gestire con successo l’epidemia è
strettamente correlata alla capacità di reagire rapidamente ai primi segnali di allerta, con
protocolli collaudati per gestire il contact tracing e implementare le misure restrittive quando il numero di contagi è ancora
basso. Come hanno dimostrato queste drammatiche settimane, è inoltre cruciale proteggere le fasce più a rischio, a partire dagli operatori sanitari e dagli anziani,
potenziando la medicina territoriale e disponendo di riserve adeguate di
dispositivi di protezione. Tuttavia, probabilmente non esiste una strategia più
efficace in assoluto, ma quella che meglio si adatta a ogni specifico contesto socioculturale,
che può indirizzare la risposta alla minaccia anche in modalità inattese.
Secondo gli studi preliminari dell’Università di Oxford (Gran Bretagna), per
esempio, le nazioni a basso reddito hanno spesso introdotto misure più rigorose
e precoci rispetto alle nazioni ad economia avanzata: una maggiore cautela
dettata dalla consapevolezza di non poter contare su sistemi sanitari
efficienti, e quindi dalla necessità di affidarsi più al contenimento che alla
mitigazione. Per contro, nazioni ricche come la Gran Bretagna e gli Stati
Uniti hanno probabilmente sopravvalutato la loro capacità di fronteggiare
l’epidemia, trovandosi più impreparate del previsto. La minore incidenza nei
Paesi a basso reddito può inoltre essere stata favorita dal loro maggiore isolamento,
che li ha protetti da un’epidemia che si sposta lungo le rotte commerciali. Dalla
ricerca avremo presto conferme, smentite e altre indicazioni importanti
per capire quali strategie potranno essere più utili per indirizzare le
politiche pubbliche dei prossimi mesi. «Senza sapere che cosa funziona e quanto
è efficace, è difficile gestire il dopo», ha detto a Nature Rosalind Eggo, matematica della
London School of Hygiene and Tropical Medicine. A cui si aggiunge il problema
di tenere conto sia dei costi economici, psicologici e
sociali di ogni
decisione, sia delle profonde differenze tra i contesti socioculturali
in cui gli interventi vengono applicati. Perché è da questo che dipenderà il
comportamento delle persone e dunque, in definitiva, il successo o il
fallimento di ogni strategia ideata per ostacolare un virus che si diffonde
attraverso i nostri corpi sempre in movimento.
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