E’ auspicio condiviso da tutti noi che la
cosiddetta “fase due”, che dal prossimo 18 Maggio dovrebbe vedere un’ulteriore
avanzamento, prosegua positivamente a conferma che la pandemia sta allentando
la sua presa. Sarà così possibile uscire progressivamente dall’emergenza
sanitaria per concentrarci, mantenendo la giusta attenzione e cautela nei
nostri comportamenti, sui tanti e pesanti problemi che la pandemia
inevitabilmente ha comportato. In molti dei nostri precedenti post abbiamo in
particolare raccolti spunti di riflessione su due tematiche indubbiamente
centrali: il ripristino delle libertà individuali e dei diritti collettivi
comprensibilmente sospesi nell’ambito del “lockdown”, e l’indispensabile
rilancio dell’economia e delle attività produttive. Peraltro ambedue queste
tematiche, che hanno visto in questi mesi di pandemia una inevitabile accentuazione,
già da tempo sono al centro del dibattito politico e culturale italiano ed
europeo. Come abbiamo più volte
evidenziato questa fase storica, nella sua tragicità epidemiologica, può quindi
rappresentare una occasione per riflettere e per correggere storture, contraddizioni,
limiti, rischi. Pubblichiamo come contributo in questo senso due post: un
articolo di Massimo Cacciari che ribadisce la necessità di prestare la massima
attenzione alla “salute” della nostra democrazia offrendo indicazioni sugli
aspetti che di più e da subito richiedono risposte (con una aggiunta collegata)
e, per quanto concerne la seconda tematica, un documento del Forum Disuguaglianze
Diversità (promosso ed animato fra
gli altri da Fabrizio Barca che ancora confidiamo di poter avere nostro
relatore in un prossimo futuro) dettagliato
nell’analisi e nelle proposte e quindi lungo e corposo, ma che riteniamo meriti
davvero di essere conosciuto, discusso, sostenuto. Visto l’impegno di
lettura che il documento richiede consigliamo di leggere innanzitutto la parte finale
“sette cose da fare subito”
Pensiamoci
Articolo
di Massimo Cacciari
L’Espresso 10 Maggio
In questi giorni abbiamo accettato necessarie limitazioni
di libertà e diritti. Occorre vigilare perché non dilaghino
Sembra essere legge
di natura che nei momenti di svolta o di crisi, quando “cresce il pericolo”, e
massimamente dovremmo impegnarci per comprendere cause e conseguenze, la nostra
attenzione, la nostra voglia di pensare, invece vadano rapidamente affievolendosi.
La fatica del giorno per giorno, il duro mestiere di tirare avanti in qualche
modo divorano lo spazio che, in momenti più normali, destiniamo qualche volta
anche all’esercizio dell’analisi e della critica. E diventiamo propensi ad
affidarci ai cosiddetti “dati di fatto, a volte comunicati da esperti veri,
altre volte decretati a mò di dogmi dal condottiero di turno e dalla sue “task
force”. Non si vuole tornare qui su ciò che è stato scritto e detto in questi
mesi, anche dal sottoscritto, sulla “gestione dell’emergenza” corona virus. Sul
fatto (questo sì incontestabilmente tale!) che “l’emergenza” è anche dovuta ai
continui tagli per ricerca, strutture, personale, subiti dalla sanità pubblica
nel corso degli ultimi decenni, che la crisi ha evidenziato ancora una volta
l’assenza di ogni sistema di efficace collaborazione tra potere centrale,
Regioni e Autonomie locali, che nessuna strategia si va definendo sul
“convivere” con l’epidemia nel medio-lungo periodo, dal momento che è
verosimilmente impossibile bloccare sine die l’attività di settori fondamentali
e il movimento delle persone. Aggiungo che non mi interessa neppure spigolare
sui recenti provvedimenti se non per quegli aspetti che si connettono a
tendenze culturali-antropologiche di fondo: le palesi illogicità,
contraddizioni, improvvisazioni che li caratterizzano potrebbero apparire, alla
fine, dettagli trascurabili, fonte solo di molti fastidi e disagi (e per
certuni, purtroppo, di fallimento economico). Ciò che andrebbe davvero pensato
è la prospettiva storica generale in cui questa crisi si colloca e quale ruolo
essa sia destinata a giocare al suo interno. Circola un documento-manifesto (qui di sotto riprodotto) della Fondazione Vargas Llosa che ha
avuto larga eco in Spagna, Francia e Oltreoceano, da noi invece pressoché
ignorato, che ci ricorda una “regolarità” storica: la situazione di emergenza
(reale o fatta vivere come tale) genera per sua natura spinte “autoritarie”. In
alcuni paesi queste possono essere assunte all’interno di una consapevole
strategia politica. Il manifesto – che è firmato da numerosi ex premier di
Stati latino-americani – si riferisce in particolare a quanto accade in
Venezuela, Cuba, Nicaragua, Messico. In altri casi di democrazia più “matura”
la tendenza può procedere inavvertita, perché in fondo non si presenta che come
il naturale palesarsi di quanto in atto da tempo. Si protesta per un Parlamento
esautorato? Ma da quanti anni è in quarantena? Da quanti anni non svolge
sostanzialmente altra funzione che quella di ratifica dei decreti dell’esecutivo?
Una volta lo si definiva “anticamera dei partiti”, che almeno erano organismi
politici, ma ora? E chi non ha invocato task force, che nessuna assemblea
democratica ha nominato, per risolvere le perenni emergenze? Non vedo alcun
segnale di nella gestione di questa crisi di un possibile cambio di punto di
vista. Nessun segnale che se ne voglia uscire con riforme radicali del
Parlamento e del rapporto tra i diversi livelli dello Stato. All’opposto
proprio la crisi viene nei fatti interpretata come dimostrazione della
necessità di accelerare il processo di “liberazione” degli esecutivi, dei
governi e dei loro capi, da ogni impedimento “assembleare”. Se nel mondo
contemporaneo l’emergenza è endemica al Sovrano, chiunque esso sia, e solo al
Sovrano tocca decidere. Ritornano le antiche metafore della nave in tempesta e
del suo nocchiero: è bene che uno solo comandi. Prima che sia troppo tardi,
prima di adottare poco alla volta, mitridatizzandoci con giudizio, modelli
cinesi o putiniani, prima di diventare tutti sostenitori convinti di Trump e
dei suoi nipotini europei, pensiamoci. La crisi genera pulsioni
che possono diventare irresistibili verso soluzioni
burocratiche-centralistiche. Il populistico appello alla pseudo-sovranità degli
staterelli si fonda su tali oggettive pulsioni. O insicurezza, e magari morte,
oppure bisogna affidarsi alla Madre-patria antica: lei ci vuole bene, i suoi
politici ci amano. Fuori dalle sue mura regna l’anonimo nemico senza volto dei
Poteri forti. Queste mura non esistono più, ma la tendenza a nuove forme di
statalismo, contrabbandate magari per stato di necessità, possono dilagare. Pensiamoci,
ora non dopo. Pensiamo a come già vengono interpretate certe trasformazioni dei
nostri comportamenti in questo periodo in cui ragionevoli limitazioni dei
nostri diritti sono ovviamente comprensibili. Perfino queste limitazioni
sembrano essere considerate da certuni un preambolo a una sorta di obbligo
giuridico alla salute, a introdurre norme per cui sia lecito essere seguiti,
tracciati, interrogati sulle proprie condizioni fisiche. Vi è poi la scoperta
del lavoro a distanza. Quanto sarebbe economico “stare a casa” sempre: un
professore potrebbe magari servire mille classi, niente traffico, niente e
tempi sprecati e spazi occupati. Convegni, conferenze, uffici, che arcaica
organizzazione del lavoro! Che bisogno abbiamo del contatto personale? Dal
contatto al contagio il passo è breve e questa esperienza lo insegna, non è
vero? Impariamo da essa e proseguiamo sulla sua strada. L’informazione è tutto,
la comunicazione (che avviene soltanto attraverso il rapporto diretto, il
guardarsi in volto) un lusso. Il muoversi solo con il web non va vissuto come
una triste necessità imposta dal virus, immaginiamolo come il nostro radioso
futuro. Formidabile prevenzione per ogni
pandemia. Pensiamoci. Perché queste pulsioni corrono ovunque , si
esprimono sempre più nettamente e si esprimono nei fatti. Pensiamo anche alle
grandi potenze che le sostengono, che ne condividono l’implicita visione del
mondo. Ogni giorno di crisi per Amazon, Google e compagnia sono miliardi di
utile. Il colossale sistema dei big data raccoglierà miliardi di ulteriori
informazioni, “conoscerà” ciascuno di noi, smantellerà ogni residua privacy. E continuerà a non pagare tasse. La libertà
dello “stare a casa” avrà questo prezzo inevitabile. Vi è nell’uomo una
“naturale servitù” dicevano i saggi e può darsi perciò che questo prezzo lo si
voglia pagare. Pensiamoci.
Che la pandemia non
sia un pretesto per l’autoritarismo.
È questo il titolo del Manifesto redatto
dal premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa e pubblicato sul
sito della sua Fundación Internacional para la Libertad (FIL).
Noi firmatari condividiamo la
preoccupazione per la pandemia di Covid-19 che ha provocato una gran quantità
di contagi e morte in tutto il mondo, e estendiamo la nostra solidarietà alle
famiglie in lutto. Mentre i lavoratori della sanità pubblica e privata
combattono il coronavirus valorosamente, molti governi adottano misure che
restringono indefinitamente libertà e diritti di base. Invece di alcune
comprensibili restrizioni alla libertà, in vari paesi impera un confinamento
con minime eccezioni, la impossibilità di lavorare e produrre, e la
manipolazione informativa. Alcuni governi hanno individuato una opportunità per
arrogarsi un potere smisurato. Hanno sospeso lo Stato di diritto e, persino, la
democrazia rappresentativa e il sistema giudiziario. Nelle dittature di
Venezuela, Cuba e Nicaragua la pandemia serve come pretesto per aumentare la
persecuzione politica e l’oppressione. In Spagna e in Argentina dirigenti un
marcato pregiudizio ideologico cercano di utilizzare le dure circostanze per
accaparrare prerogative politiche e economiche che in un altro contesto la
cittadinanza gli rifiuterebbero risolutamente. In Messico cresce la pressione
contro l’impresa privata e si utilizza il Gruppo di Puebla per attaccare i
governi di orientamento differente. Su entrambe le sponde dell’Atlantico
risorgono lo statalismo, l’interventismo e il populismo con un impeto che fa
pensare a un cambio di modello lontano dalla democrazia liberale e
dall’economia di mercato. Vogliamo affermare con forza che questa crisi
non deve essere affrontata sacrificando i diritti e le libertà che è costato
molto raggiungere. Respingiamo il falso dilemma che queste circostanze ci
costringano a scegliere tra l’autoritarismo e l’insicurezza, tra l’Orco
Filantropico e la morte.
Fra i molti firmatari
compaiono i nomi di Vargas Llosa, Mario. Premio Nobel della Letteratura, presidente Fundación Internacional para la Libertad (FIL), Perú.
Aznar, José María. Ex-primo ministro, Spagna.
Macri, Mauricio. Ex-presidente, Argentina.
Zedillo, Ernesto. Ex-presidente, Messico.
Uribe Vélez, Álvaro. Ex-presidente, Colombia.
Lacalle, Luis Alberto. Ex-presidente, Uruguay.
Sanguinetti, Julio María. Ex-presidente, Uruguay.
Cristiani, Alfredo. Ex-presidente, El Salvador.
Franco, Federico. Ex-presidente, Paraguay.
Machado, María Corina. Coordinatrice Vente Venezuela, Venezuela.
Savater, Fernando. Filosofo e scrittore, Spagna.
DURANTE E DOPO LA CRISI:
PER UN MONDO
DIVERSO
Perché, cosa, come, con chi
Documento del Forum
Disuguaglianze Diversità
Le pandemie hanno sempre costretto gli esseri umani a rompere con il
passato e a immaginare il loro mondo da capo. Questa non è diversa. È un portale, un cancello
tra un mondo e un altro. Possiamo scegliere di attraversarlo trascinandoci
dietro le carcasse del nostro odio, dei nostri pregiudizi, l’avidità, le nostre
banche dati, le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e cieli fumosi. Oppure
possiamo attraversarlo con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un
mondo diverso. E a lottare per averlo. Arundhati Roy, Aprile 2020
Una
radicale incertezza, molte domande, un tentativo di risposta
Come fermare
l’impoverimento avviato dalla crisi Covid-19? Come contenere la distruzione di
capacità produttiva e di lavoro? Come far sì che l’onere della straordinaria
caduta di reddito si redistribuisca fra tutta la popolazione? Come costruire da
subito, nelle tutele sociali e nei criteri di riapertura, un “dopo” più giusto?
Come assicurare la “distanza fisica” necessaria senza “distanza sociale”? Come
evitare di scaricare ogni soluzione ultima sulla famiglia e sulle donne? Come
conciliare indirizzi nazionali certi con l’attenzione alla diversità dei
contesti territoriali? Come evitare che il ritrovato ruolo del “pubblico”
degeneri in uno statalismo autoritario? O viceversa che sotto la bandiera
ambigua del “progresso digitale” passi un’ulteriore concentrazione del
controllo privato della conoscenza, e una mortificazione di scelte
democratiche, società civile e imprenditorialità produttiva? E che il gran
parlare di “disuguaglianze” si risolva in misure compensative vecchio stile che
coltivano comportamenti parassitari e non accrescono capacità e potere delle
persone? Come trasformare le fratture e gli squilibri creatisi in un cambio di
rotta verso la giustizia sociale e ambientale? A quali proposte dare priorità?
E, per attuarle, come innalzare la qualità del “pubblico”? Con quali alleanze e
mobilitazioni promuovere visione e proposte? Quali soggetti politici sapranno
raccogliere questa bandiera? Che fare
affinché lo facciano? Sono
le domande che muovono questo documento di analisi e di proposte, frutto di un
intenso confronto fra tutti noi membri e partner di progetto del Forum Disuguaglianze
Diversità (ForumDD), luogo comune di cittadinanza attiva e ricerca.
In due mesi dall’inizio della crisi Covid-19, mettendo a frutto i risultati di
tre anni di vita e un metodo di lavoro fondato sul confronto aperto fra culture
diverse, abbiamo dato un contributo sulle urgenze di breve termine: proponendo una tutela a
tutte le persone, a misura delle persone, e una misurazione
campionaria della diffusione del virus
e divenendo luogo di confronto su molti aspetti della crisi, con un’attività
quotidiana di informazione e pressione sulle autorità. Ora è il momento di
raccogliere le nostre valutazioni in uno schema concettuale che faccia sintesi.
L’incertezza è ancora grande e radicale, ma è nostro dovere rischiare una
lettura dei fatti e offrire una visione e un principio di ordine. Per farlo,
partiamo dall’identificazione delle principali disuguaglianze e debolezze rese eclatanti dalla
crisi e delle principali tendenze e biforcazioni che essa ha generato, e prefiguriamo tre scenari possibili. Per muovere verso lo
scenario da noi desiderato, un “nuovo mondo” che abbia al centro giustizia
sociale e ambientale, prospettiamo sette cose da fare subito e cinque obiettivi strategici, fatti di proposte concrete. Sono alla nostra portata,
se alla visione e alle proposte sapremo accompagnare la mobilitazione. Non abbiamo ricominciato da capo, perché la
crisi Covid-19 conferma la nostra diagnosi
delle gravi disuguaglianze
che si sono create nell’ultimo quarantennio e l’urgenza delle 15 proposte
elaborate nel 2018-19,
in tema di cambiamento tecnologico, dignità e partecipazione strategica del
lavoro e crisi generazionale, nonché del nuovo progetto di
contrasto della povertà educativa.
Sono proposte che toccano in modo radicale i processi di formazione della
ricchezza. La gravissima crisi, la distruzione di capacità produttiva, i
presumibili cambiamenti delle preferenze, le fratture nelle catene internazionali
del valore danno ora a queste proposte pre-distributive un nuovo e più forte
significato.
Il massiccio ricorso al “pubblico” ci ricorda il suo ruolo fondamentale, ma
sollecita i cambiamenti di metodo da noi proposti nelle pubbliche
amministrazioni, nel governo dei servizi fondamentali, nell’indirizzo delle
ancora robuste imprese pubbliche, nelle politiche di sviluppo. Ma serve anche altro. L’aumento di spesa
e debito pubblico, il ridimensionamento del PIL, l’asimmetria con cui sono
colpite fasce sociali e territori, richiedono anche di ripensare i dispositivi
della redistribuzione fiscale e sociale. Di fronte allo shock violento del Covid-19
e all’incertezza sistemica che ne è derivata, nulla è scritto. Come e più che
in precedenti crisi, la gravità della situazione rende possibili cambiamenti sociali,
istituzionali e tecnologici che in tempi ordinari sarebbero impossibili o ben
più lenti. Ma l’esito ultimo di questi cambiamenti è indeterminato. Il
nostro futuro, le sorti di società e democrazia, il suo grado di giustizia
sociale e ambientale, dipendono ancora dalle nostre scelte. È l’insegnamento
che viene da precedenti crisi, a cominciare da quella del 1929, che negli Stati
Uniti condusse al New Deal, in Germania al nazismo. Sta a noi scegliere. Per farlo il confronto
deve essere acceso e informato. Questo è il nostro contributo
I tre
scenari post covid
Lo shock prodotto dal Covid-19 è violentissimo ed è fonte
di “incertezza radicale”. Qualunque sistema ne è stato e ne sarebbe stato colpito,
teniamone ben conto. Ma altrettanto evidenti sono l’universale impreparazione,
sul piano sanitario, economico, sociale e politico, nell’affrontare
un’emergenza che era stata da tempo prevista, la vulnerabilità dei nostri
sistemi istituzionali, economici ed ecologici, l’inadeguatezza delle classi
dirigenti, la straordinaria differenza delle condizioni di partenza personali e
territoriali con cui ognuno di noi ha affrontato lo shock. Il virus ha reso
eclatanti fragilità e disuguaglianze, in Italia, come in tutto l’Occidente. La crisi globale
Covid-19 avviene infatti in un contesto segnato in Occidente da profonde
ingiustizie e da un indebolimento della democrazia, frutto di una lunga
stagione di politiche errate, e dalla dinamica autoritaria che ne è seguita. Il capitalismo non è mai
stato così forte nella storia, nel senso dell’estensione geografica (ben
fuori dell’Occidente) e della mercatizzazione della vita umana (ogni nostro
tempo o strumento di vita ci appare “vendibile”), e questa forza eccessiva ha
finito per favorire il parassitismo contro l’imprenditorialità produttiva,
erodere la giustizia sociale e la sovranità popolare, “masticare” persone,
ambiente e beni comuni e aggravare la minaccia per l’intero ecosistema. Un
paradosso, perché il capitalismo è malleabile abbastanza da poter funzionare
senza l’assoluta centralità dell’accumulazione patrimoniale come misura di
merito e valore. I partiti hanno perso la capacità di rappresentare, mentre
decisioni politiche sono state dissimulate da soluzioni tecniche ineluttabili.
Noi del ForumDD lo abbiamo pensato e scritto, come altri, prima della pandemia,
non lo scopriamo ora in preda all’emozione. Ora, la nostra analisi ci aiuta a
immaginare un futuro post-Covid-19. Ma esistono diversi “futuri possibili”. La gravità
dell’impatto della crisi sulla vita di ognuno di noi, lo stato di profonda,
generale incertezza e il massiccio ricorso alle risorse pubbliche aprono almeno
tre distinti
scenari e progetti politici:
Prima
opzione,
riprendere
la strada correggendo le “imperfezioni”: l’obiettivo è tornare alla
“normalità” pre-Covid-19 compensandone meglio le disuguaglianze, ma affidandosi
agli stessi principi e dispositivi che le hanno prodotte, presentando la
“digitalizzazione” come un processo univoco di progresso, promettendo “semplificazioni”
e inibendo l’esercizio di discrezionalità da parte degli amministratori
pubblici nell’assunzione delle decisioni, favorendo i rentier rispetto agli
imprenditori, mortificando partecipazione strategica di lavoro e società
civile, e scaricando su quest’ultima e sulla famiglia ogni ruolo di mediazione
sociale.
Seconda
opzione,
accelerare
la dinamica autoritaria in atto prima della crisi: l’ulteriore
impoverimento, la rabbia e l’ansia per il domani vengono alleviate offrendo
barriere che promettono una rassicurante “purezza identitaria”, nemici da
sconfiggere (migranti, stranieri, diversi, esperti), uno Stato accentrato e
accentratore pronto a prendere rapide decisioni e a sanzionare comportamenti
devianti, senza la pretesa di un pubblico confronto.
Terza opzione, cambiare rotta verso un futuro di
emancipazione sociale: gli equilibri di potere e i dispositivi che riproducono
le disuguaglianze vengono modificati, orientando il cambiamento tecnologico
digitale, offrendo uno spazio di confronto acceso e informato al mondo del
lavoro, alla società civile e a ogni persona che vive sulla nostra terra,
legando welfare e sviluppo economico e realizzando un salto di qualità delle
amministrazioni pubbliche.
In ognuno dei tre scenari il rinnovato ricorso al “pubblico” subisce
una diversa evoluzione. Nel primo caso, il “pubblico” viene relegato a un ruolo
passivo, prima di salvataggio da condizioni di emergenza, poi di erogatore di spesa
e riproduttore di standard e regole procedurali uniformi che assecondano strategie
decise da gruppi dirigenti e tecnocrazie chiuse in sé stesse. Nel secondo caso,
il “pubblico” degenera in uno Stato accentratore, invasivo e autoritario, che
erode le nostre libertà formali e sostanziali. Nel terzo caso, il “pubblico”
viene rinno vato e rinvigorito con risorse, missioni e metodi e si evolve in
una piattaforma democratica dove possano manifestarsi e trovare intersezione le
preferenze e le conoscenze dei cittadini, per arrivare a decisioni condivise. L’impianto delle proposte
del ForumDD è volto a configurare le condizioni per realizzare questo terzo
scenario. E a costruire, sulla base delle migliori esperienze già realizzate,
le modalità di un’azione pubblica che ai sensi degli articoli 3 e 118 della
nostra Costituzione riconosca e favorisca la partecipazione dei “lavoratori” e
dei “cittadini singoli e associati”. Per disegnare questa terza strada, servono
due passi preliminari. Prima di tutto, dobbiamo muovere dalle disuguaglianze e
dalle fragilità della situazione in cui eravamo il giorno in cui Covid-19 ha
fatto la sua comparsa, e che ne hanno aggravato gli effetti. Poi, nonostante la
grande incertezza, dobbiamo farci un quadro delle tendenze e delle biforcazioni
a cui la crisi sta dando vita.
Le
fragilità e disuguaglianze messe in luce dal covid19
La crisi globale Covid-19 ha
fatto emergere disuguaglianze e fragilità frutto in gran parte delle politiche
del passato quarantennio. È allora utile immaginarla come l’interfaccia tra due crisi. Da un lato, sta la crisi
ecologica del pianeta, la perdita di
biodiversità, la crisi climatica, il consumo di natura, l’inquinamento, la
deforestazione, l’invadenza dei sistemi agroindustriali: non conosciamo ancora
le cause dell’insorgenza di questo virus, ma per precedenti epidemie è stato
accertato il contributo di sovrappopolazioni geneticamente omogene, specie se contigue alla
fauna selvatica; e andrà analizzata la relazione fra effetti e letalità del
Covid-19 e la diffusione delle malattie croniche dell’apparato respiratorio,
notoriamente assai influenzate dall’inquinamento atmosferico che ogni anno
produce nel mondo centinaia di migliaia di decessi prematuri (oltre 70mila in
Italia, secondo l’Agenzia europea per l’ambiente). Dall’altro lato, stanno le
fragilità e le disuguaglianze economiche, personali e territoriali, nell’accesso e qualità dei servizi fondamentali e di riconoscimento
che caratterizzavano la presunta “normalità” pre-Covid-19, fragilità e disuguaglianze che hanno amplificato la diffusione e gli effetti sanitari,
economici e sociali del virus. Con riguardo a questo secondo aspetto, la pandemia ha
messo in forte evidenza almeno otto aspetti:
Impreparazione globale alla
pandemia, connessa ai processi di privatizzazione della conoscenza. Il rischio era noto
da tempo, ed era stato richiamato nel settembre 2019 dal Rapporto “A World at Risk” del Global
Preparedness Monitoring Board, descrivendo la “minaccia assolutamente reale di
una pandemia altamente letale e in rapida diffusione prodotta da un agente
patogeno delle vie respiratorie”. Lo stesso Rapporto, nel formulare precise
raccomandazioni (iscritte nell’ambito dei 17 obiettivi dello sviluppo
sostenibile), denunziava l’impreparazione, attribuendola fra l’altro
all’”insufficienza di investimenti e pianificazione della ricerca nello
sviluppo e nella produzione di vaccini innovativi”, tanto che “le tecnologie
impiegate per la produzione di vaccini contro l’influenza sono sostanzialmente
immodificate dagli anni ‘60”. Si manifesta qui, in modo insopportabile, quel
paradosso per cui tutti noi finanziamo la ricerca pubblica di migliaia di
straordinarie infrastrutture di ricerca per poi vedere i loro risultati
utilizzati e privatizzati da grandi corporations private, secondo una logica
monopolista che non mette al centro il nostro benessere. È una delle
distorsioni da cui l’analisi del ForumDD ha preso le mosse e che si manifesta
ancora in piena crisi, con i tentativi di accaparramento delle capacità di
ricerca per usi non universali che scoraggiano la cooperazione degli scienziati
di tutto il mondo
Fallimento della cooperazione
politica internazionale e stallo dell’Unione Europea. La cultura
neoliberista dell’ultimo quarantennio non si è limitata a indebolire il ruolo
della politica a livello nazionale, schiacciando i partiti e i corpi intermedi
sullo Stato, negando l’esistenza di alternative, riducendo le decisioni a un
confronto di tecniche, togliendo voce a lavoratori e lavoratrici, cittadini e
cittadine, ma ha anche eroso il ruolo politico degli organismi della
cooperazione internazionale, la loro capacità di operare come luoghi di scontro
e poi di compromesso fra opzioni politiche diverse. Di fronte alla crisi del
Covid-19, è stata eclatante l’assenza di concertazione e persino di una pretesa
di concertazione dei leader politici del mondo. Colpisce la mancanza di ruolo
delle agenzie globali del “sistema ONU”, come se le loro notevoli competenze
maturate in gravi calamità nei “paesi poveri” non servissero anche per i paesi
industriali. Non c’è alleanza politica o mi litare, o luogo di cooperazione
internazionale che sia stato catalizzatore di un confronto. Né sono state
all’opera alleanze internazionaliste politiche di sorta, a sinistra o a destra.
Ogni paese si è presentato da solo all’appuntamento. È ragionevole che in
questi momenti emergano le culture di ogni paese e comunità, e scontiamo pure
che emergano gli interessi di potenza: non è questo il punto. A mancare in modo
assoluto sono stati i luoghi di composizione anche conflittuale di queste
culture e interessi. L’Unione Europea, poi, ha perso l’ennesima occasione. Al
clamoroso ritardo iniziale, è subentrata una consapevolezza quando la crisi ha
toccato i paesi del Nord Europa e comunque gli interessi economici, ma la
logica intergovernativa, per di più male attuata, rallenta tuttora ogni
decisione operativa in merito a un Fondo Europeo dedicato. Ancora una volta,
pur dopo esitazioni e gravi parole, all’altezza della situazione è stata sinora
solo la Banca Centrale Europea: non a caso interprete di una logica federale, e
spinta di nuovo ai limiti del proprio ambito di legittimità dall’assenza di
un’autorità federale di politica economica e fiscale. Sono, tutti questi,
segnali sconfortanti per i cittadini.
Peggioramento e precarizzazione
delle condizioni di lavoro. La
moltiplicazione in quest’ultimo ventennio del numero di lavori precari, a
tempo, orari, a cottimo, pseudo-autonomi o irregolari – in Italia 1/3 dei 21
milioni di lavoratori e lavoratrici privati/e - fa sì che la caduta della domanda
si rifletta immediatamente sul lavoro, nel giro di giorni, senza negoziazione o
confronto. Centinaia di migliaia di persone, dalla mattina alla sera, si sono
trovate e continuano a trovarsi senza lavoro e senza reddito. All’opposto, chi
governa i movimenti illimitatamente liberi dei capitali non solo è in grado di
difendersi, sempre nel giro di ore, ma può cavalcare e amplificare la paura
delle persone di cui gestisce i risparmi e costruire operazioni speculative
alla ricerca di nuovi guadagni. E così i governi del mondo, mentre fronteggiano
la crisi sanitaria e disegnano meccanismi di assistenza sociale di vaste
proporzioni, devono anche distogliere testa e risorse per “inseguire i
mercati”. No. Questo non è un modello di società giusto e sostenibile.
Disuguaglianze, personali e territoriali, che influenzano
anche la capacità di reagire. Disuguaglianze
hanno prima di tutto caratterizzato l’impatto del virus: disuguaglianze di
suscettibilità (legate alle condizioni di salute e ambientali), di esposizione
(a seconda del lavoro svolto), di capacità nell’accedere alle cure.
Disuguaglianze hanno riguardato la qualità di vita nelle abitazioni. E poi ci
sono le disuguaglianze degli effetti economici. Una larghissima quota di
persone è in povertà o rischia di cadere immediatamente in povertà, essendo
priva (in Italia, almeno 10 milioni di adulti) di risparmi liquidi (depositi
postali e bancari e titoli di stato a breve) necessari a reggere un periodo
anche breve (tre mesi) di mancate entrate. E l’impoverimento riduce la
possibilità delle persone di reagire allo shock. Sono, infine, diventati ancor
più evidenti i forti divari territoriali, in termini di accesso al digitale per
studenti e persone, di servizi della salute, di infrastrutturazione sociale. In
Italia, essi toccano molte periferie, le aree interne, campagne
deindustrializzate e vaste aree del Sud.
•
Specificità
italiana n.1: forte polarizzazione delle PMI in innovatrici e vulnerabili. Nel
sistema produttivo italiano, come in quello tedesco, svolgono un ruolo centrale
le PMI. Capaci fino a inizio anni ottanta di combinare adattamento della
tecnologia (incorporata nelle macchine acquisite) e diversificazione flessibile
dell’offerta, sono state da tempo messe in difficoltà da una trasformazione
tecnologica in cui l’innovazione è scorporata dalle macchine e posseduta da
poche grandi imprese. Assente una politica industriale che, come in Germania,
promuova l’adattamento delle PMI al cambiamento tecnologico, solo una parte di
questo sistema ha retto, accrescendo la propria produttività. Il resto – almeno
un terzo – sopravvive grazie a bassi salari, spesso sotto i minimi contrattuali
(a causa dell’esistenza di circa 600 contratti pirata). Questa sezione del
sistema produttivo, essendo priva di capacità di reazione, sia nel settore
manifatturiero che nel terziario, può
oggi amplificare in modo grave o gravissimo gli effetti della crisi, con una
violenta caduta della capacità produttiva e dell’occupazione.
•
Specificità
italiana n.2: amministrazioni pubbliche arcaiche e trascurate e disinvestimento
nella salute pubblica. La crisi ha messo in luce
il generale, sistematico disinvestimento nelle amministrazioni pubbliche: il
disincentivo della discrezionalità e dell’attenzione al risultato; l’eccesso di
regolazione; i metodi inadeguati di reclutamento e di inserimento al lavoro;
l’utilizzo improprio della valutazione; la delegittimazione del ruolo. Nel
settore della sanità, le fragilità, già indi viduate dal Global
Health Security Index del John Hopkins Center for
Health Security (che nel 2019 illustrava i nostri ritardi, soprattutto nella
rapidità di risposta a un’epidemia e nella protezione degli operatori sanitari)
sono state create dall’abbattimento sistematico della spesa sanitaria pubblica,
dal mancato rinnovo del personale medico e dalla dominanza del paradigma
ospedaliero, con la penalizzazione dei presidi territoriali che combinino
salute e servizi sociali.
•
Specificità
italiana n.3: un decentramento attuato male. Il decentramento dei poteri
di governo realizzato con la riforma del Titolo V della Costituzione ha
mostrato tutte le sue debolezze: indipendentemente dal giudizio sull’impianto
normativo, a emergere sono state le falle nell’attuazione. Le tensioni ripetute
fra Stato e Regioni vanno, infatti, in larga misura ricondotte all’assenza di
un luogo istituzionale adeguato di ricomposizione tecnica e politica dei
disaccordi: ne è segno lo stato di abbandono della Conferenza Stato-Regioni,
che la Corte Costituzionale (sentenza 33/2011) individua come luogo di “intesa”
nelle materie rilevanti per la crisi Covid-19 (tutela della salute, sicurezza
sul lavoro e ricerca). Decisamente inadeguato si è rivelato, come già in
condizioni ordinarie, il rapporto dello Stato e delle Regioni con i Comuni: a
questi ultimi, spesso governati dalla parte più innovativa della classe
dirigente del paese e che portano la responsabilità ultima dell’erogazione dei
servizi fondamentali, non è stata in genere data la possibilità di incidere sul
disegno e sulle modalità di attuazione degli interventi. Quanto all’azione dei
“cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (Cost. art. 118), che pure
si è manifestata con forza durante la crisi, essa ha trovato ben scarsa
corrispondenza nell’azione pubblica, non attrezzata a governare processi
partecipativi e non convinta del loro essenziale contributo cognitivo.
•
Specificità
italiana n.4: un welfare carente. Il sistema di welfare
italiano è fortemente ancorato al lavoro e trascura, sul piano quantitativo e
qualitativo, tutte le forme di welfare non connesse al lavoro; ma al tempo
stesso esclude in realtà una parte significativa del lavoro, come è risultato
manifesto con la crisi. Queste carenze trovano compensazione in un ruolo spesso
ancillare della società civile che anziché integrare l’azione pubblica finisce
per sostituirla, anche accettando condizioni di lavoro non dignitose.
Queste e altre
deficienze sono state messe a nudo dalla crisi Covid-19 e ne hanno aggravato
l’impatto economico e sociale. Ora sono sotto gli occhi di tutti noi. Ciò
dovrebbe rappresentare, può rappresentare, uno sprone a cambiare rotta,
utilizzando gli spazi assolutamente nuovi aperti da una
crisi così grave. Ma non c’è nulla di automatico. Le cose sono più complicate di così e
dobbiamo capire quali sono gli scenari alternativi che la crisi apre e cosa
fare per favorire lo scenario di giustizia sociale e ambientale in cui
crediamo.
Il futuro: tendenze e biforcazioni prodotte da covid19
Nonostante la grande incertezza e il susseguirsi, ogni
giorno, di nuovi fatti e nuove intuizioni, dobbiamo, allora, cimentarci nella
previsione delle tendenze prodotte da Covid-19 che influenzano il nostro
futuro. In quasi ogni campo queste tendenze aprono biforcazioni: quale strada
si prenderà a ogni biforcazione dipende dalla capacità degli individui e dei
sistemi di reagire e accrescere le proprie capacità a seguito dello shock e da
quali soggetti sapranno reagire con più forza, per quali interessi e per quali
valori. Abbiamo qui tentato un’”eroica sintesi”, seguendo una tripartizione: mercato e società; finanza pubblica; politica e politiche.
Mercato e società:
cambiamento nei comportamenti e nell’organizzazione di vita, lavoro e
produzione. L’effetto immediato sarà quello di un
drastico ridimensionamento della domanda e della capacità di offerta, generato
dalle regole di distanziamento fisico delle persone, dal divieto di
circolazione, dalla chiusura obbligatoria delle attività, dal perdurare del
rischio (reale e percepito) di contagio. A questo seguiranno progressivamente
altri cambiamenti legati sia a scelte imprenditoriali, sia a modifiche delle
preferenze, indotte dal ridimensionamento del reddito, dai “sentimenti”
suscitati dalla crisi e dal processo di apprendimento dall’esperienza. In
particolare, è possibile immaginare le seguenti tendenze:
1.
Distruzione
di capacità produttiva e lavoro ed erosione della competitività. La distruzione di capacità produttiva
è un effetto certo della crisi. Con la ripresa delle attività, essa diverrà
ancor più manifesta, colpendo sia il settore dei servizi privati (per il
consumo e di intermediazione), sia una parte dei settori industriali
(meccanica, tessile-abbigliamento, beni durevoli), e riducendo l’occupazione e la
competitività del paese. La misura di questo fenomeno dipenderà da fattori esogeni – colti dalle tendenze di seguito
descritte, a cui si aggiungono la capacità comparata di altri paesi di tornare
con le loro esportazioni sul mercato internazionale e la possibile più rapida
risposta della domanda asiatica - e da fattori endogeni:
la capacità di reazione di tutti noi, individuale e collettiva, sociale e
imprenditoriale; e la capacità delle politiche pubbliche di rimuovere ostacoli
a tale reazione e di dare certezze alla società e al mercato con le proprie
leve (servizi pubblici e domanda collettiva, imprese pubbliche, indirizzi
strategici, welfare/fisco, finanziamenti).
2.
Minore
circolazione delle persone e dei beni e rottura delle catene internazionali del valore.
Il primo fenomeno potrebbe permanere nel tempo, a causa di comportamenti precauzionali
o di aggiustamenti delle preferenze, e potrà avere effetti di notevole portata
sulle attività culturali, turistiche e di ristorazione e della mobilità delle
persone, comparti decisivi per molte aree del paese: è prevedibile, dunque, un effetto territorialmente assai differenziato. Il secondo fenomeno, che
amplificherebbe un processo di cosiddetto “reshoring”
già in corso per Cina e Stati Uniti, potrebbe investire in modo particolare le
produzioni agro-alimentari e farmaceutiche, ma anche altri settori dove è
emerso il rischio di improvvise interruzioni degli approvvigionamenti. La
natura e l’entità degli effetti di questi fenomeni sui livelli di attività e di
occupazione saranno influenzate dalla capacità di adattamento dell’offerta alle
nuove condizioni e dalla capacità dell’azione pubblica sia di rimuovere gli
ostacoli a tale adattamento, sia di promuoverlo nelle aree più marginalizzate.
Si accentuerà inoltre il paradosso rispetto alla libertà assoluta (intoccata)
dei movimenti di capitale, una libertà che, anche in condizioni
ordinarie, non appare compatibile con la democrazia, come diffusamente
argomentato nel dibattito internazionale
3.
Accelerazione
del ricorso al digitale con apertura
di possibili scenari assai diversi. Le pratiche di “lavoro a distanza” presumibilmente si consolideranno per
attività e servizi che prima avvenivano con contiguità fisica e ricorrendo alla
mobilità. L’impatto sulla qualità del lavoro e del prodotto dipenderà dal fatto
se tali pratiche saranno accompagnate da modifiche nell’organizzazione del
lavoro e dalla natura di tali modifiche: ne potrà allora derivare uno scenario
di ulteriore frammentazione del lavoro, nuove disuguaglianze e forme di
isolamento dei lavoratori/trici, ovvero uno scenario in cui cresce la responsabilità
dei singoli e la coesione delle unità di lavoro. Sempre nel lavoro, il vantaggio comparato delle produzioni largamente
automatizzate ne promuoverà presumibilmente la diffusione: di nuovo, ciò può
tagliare l’occupazione e creare cattivi lavori di ausilio alle macchine, ovvero
può migliorare le condizioni di sicurezza e dare vita a nuovi buoni lavori. Del
tutto aperti sono anche gli effetti del mescolamento fra tempo di vita e di
lavoro: in particolare, per le donne si possono aprire opportunità, ma possono
in alternativa aggravarsi le iniquità nella ripartizione dei compiti di cura;
mentre la sperimentazione di forme estreme di invasività del lavoro nel
contesto domestico potrà (o potrà non) fare emergere un diritto alla
disconnessione. Più in generale, la crisi ha accelerato il ricorso al digitale
in tutti i campi, con effetti
potenziali non univoci sulle disuguaglianze: dalla tracciabilità sistematica delle persone (dipende
da chi controlla le informazioni e dall’utilità e verificabilità del loro uso),
all’impiego nell’organizzazione sanitaria e nello sviluppo dei vaccini; dal
ricorso alla rete come strumento integrativo dell’”insegnamento in presenza”
(dipende dall’uguaglianza nell’accesso e nella capacità di fruizione), allo
sviluppo di nuovi rapporti mutualistici; fino all’impiego per identificare i
beneficiari di interventi di protezione sociale e per accelerare i versamenti
(purché ne siano inibiti altri usi a fini di sorveglianza dei comportamenti
sociali). Su ogni biforcazione peseranno le decisioni pubbliche e l’azione
collettiva. Ma c’è altro.
4. Aumento del potere e della capacità di
disintermediazione e re-intermediazione delle 7 “sorelle digitali”. A essere posizionate per trarre
immediati e forti vantaggi dall’accelerazione della digitalizzazione e per
indirizzarla, a ogni biforcazione, ad un’ulteriore concentrazione di
conoscenza, potere e ricchezza, sono le sette mega-imprese digitali e le altre
grandi imprese del settore. Esse hanno ora l’opportunità di accrescere
ulteriormente il potere di disintermediare e re-intermediare lo
scambio in moltissimi mercati (trasporto di persone e merci,
cultura, turismo, informazione, credito, ecc.), raccogliendo e trattando dati
attraverso le loro piattaforme digitali. Mescolando indifferenza di fronte ai
Parlamenti e paternalismo solidale, questi soggetti saranno i principali
sostenitori di uno scenario in cui venga ripreso e accelerato il modello di
sviluppo in atto prima di Covid-19, sostenendo che il processo di
digitalizzazione è
sostanzialmente univoco – “non ci sono alternative, c’è poco da discutere, o si
è contro la scienza o a favore”. Eppure, se queste grandi imprese saranno
fronteggiati da una diffusa consapevolezza, da azioni collettive e da una
robusta azione pubblica a livello europeo e nazionale, le scelte a ogni
biforcazione potranno essere diverse e la società potrà piegare gradualmente il
loro sapere a interessi collettivi e di giustizia sociale.
5. Consapevolezza del ruolo dei “lavori
materiali” e delle
interdipendenze dell’economia. L’enfasi sulle “attività essenziali”,
necessarie alla produzione dei beni e dei servizi necessari per la nostra vita
quotidiana ha reso visibili tanti lavori materiali che avevamo cessato di
“riconoscere”: questo riconoscimento dei lavori materiali potrebbe restituire
loro forza
negoziale e rendere l’intera società più sensibile alle profonde e
non giustificabili disuguaglianze nella divisione del lavoro, fondate non sulla
natura essenziale del contributo ma sulla sua sostituibilità. Allo stesso
tempo, l’accresciuta consapevolezza della circolarità e delle interdipendenze
del processo produttivo potrà lasciare il segno nel tornare ad avvertire
l’importanza dell’intera filiera produttiva delle imprese e del lavoro e della
loro continua interazione con l’ambiente. Con effetti su comportamenti
e preferenze
6. Modifica delle preferenze a favore di servizi
fondamentali e di prodotti di prossimità. Molteplici fattori
concorrono a tale modifica, creando nuove opportunità di produzione e lavoro:
la consapevolezza dei
bisogni essenziali maturata nelle settimane di vita sotto costrizione; l’esperienza in
“comunità strette” e il bisogno di cura legato alla sofferenza personale di
queste settimane e all’ansia per il futuro; il desiderio di cautelarsi a
fronte di simili o peggiori contingenze, in particolare nella salvaguardia
della salute e dell’integrità fisica, nell’approvvigionamento alimentare ed
energetico, nella copertura digitale, nella programmazione del proprio tempo
libero e nel rapporto con l’ambiente circostante. Queste mutate preferenze
potranno impattare su molteplici settori di attività, spesso con attenzione
alla prossimità della produzione: servizi di cura e assistenza alle persone,
istruzione/formazione, intrattenimento, cultura, beni alimentari prodotti da
filiere corte, turismo di prossimità e rarefatto, auto-produzione di energia
elettrica, qualità abitativa, etc. Dalla capacità di rendere
pagante questa nuova domanda e di rimuovere
gli ostacoli e dare certezze all’imprenditorialità privata e sociale e
all’auto-organizzazione in questi campi dipenderà l’impatto
delle mutate preferenze sulla capacità produttiva, sul lavoro, sulle
disuguaglianze.
7. Rilegittimazione schizofrenica di ciò che è
“pubblico”. L’azione straordinaria del personale medico pubblico,
il ruolo e l’inventiva degli insegnanti, l’azione diffusa di monitoraggio delle
forze dell’ordine, la necessità che sia assicurato il rispetto universale di
regole di comportamento, l’attesa e poi il materializzarsi di una tutela
finanziaria pubblica a persone e imprese, l’attesa di strumenti pubblici che
effettuino il monitoraggio della diffusione o di possibili nuovi focolai del
virus, l’attesa che lo Stato assicuri un’ordinata, universale e gratuita
somministrazione del vaccino appena sia possibile, l’attesa di un’azione
pubblica che rilanci lo sviluppo: improvvisamente, “pubblico” è divenuta una parola invocata da
tutti, anche da chi la disprezzava. Emerge qui la schizofrenia
fra il bisogno di “pubblico” e la sfiducia nelle amministrazioni pubbliche:
quasi un matrimonio forzoso che queste settimane hanno costretto a celebrare.
Ecco dunque che questa rilegittimazione del “pubblico” si presta a diverse
evoluzioni, che segnano i tre scenari politici già
accennati prima. Per molti si tratta di una situazione di necessità, un
“settore pubblico a gettone”, che faccia poi presto un passo indietro nella sua
capacità di autonoma iniziativa. Altri, colpiti dalle tensioni fra Regioni e
Stato e dalla percezione di frammentazione nell’azione pubblica sul fronte
economico e sociale, sono attratti dall’idea di una centralizzazione
semplificatrice e autoritaria (se non può essere autorevole) dell’azione
pubblica. Altri ancora, osservando i risultati migliori ottenuti dove il
“pubblico” sa aprire le proprie decisioni al confronto con il lavoro, la
società civile e le imprese, auspicano una diffusione sistematica di questo
metodo e ritengono indispensabile investire per un deciso miglioramento della
qualità delle amministrazioni pubbliche che tramuti la rilegittimazione di
queste settimane in un rinnovato patto fiduciario fra cittadini e “pubblico”. È
la triforcazione politica su cui torniamo
8.
Caduta
del PIL, distribuzione di questa caduta e indurimento delle disuguaglianze. La caduta del
PIL rappresenta l’inevitabile
sintesi monetaria delle precedenti tendenze. L’entità e persistenza di questa caduta dipenderanno
anche dalla qualità delle scelte politiche di breve- medio termine, a
cominciare dall’universalità (o meno) degli interventi di tutela sociale e
dall’efficacia (o meno) degli interventi di garanzia della liquidità alle
imprese, e dalla capacità di compiere scelte strategiche come quelle che più
avanti suggeriamo. Comunque vadano le cose, è certo che il nostro PIL, come
quello di tutti gli altri paesi, si riposizionerà a un livello assai più basso
del pre-Covid-19; come avviene a esito di un conflitto bellico, ma senza la
certezza che il conflitto sia terminato. E diventa allora decisivo come questa caduta di PIL si distribuirà. La storia delle crisi passate non ci aiuta a prevederlo, ma ci dice
che l’impatto distributivo dipende dalle politiche adottate. Sta allora a politica e politiche
agire per evitare un aumento delle disuguaglianze: per un senso evidente di
giustizia, per la tenuta sociale e democratica del paese, per scongiurare che
la criminalità organizzata si presenti per molti come la sola soluzione.
Infatti, né i milioni di poveri, né gli altri milioni di persone senza
risparmio precauzionale, ma neppure una parte significativa della metà meno
ricca degli adulti possono sopportare una caduta concentrata (e neppure
proporzionale alla media) sulle proprie spalle. Ne deriverebbero un indurimento
della povertà, un aumento della dispersione scolastica, un deterioramento delle
relazioni famigliari, soprattutto nei contesti di arretratezza e
sovraffollamento. Siamo dunque sfidati a trovare metodi per redistribuire la
perdita, vuoi all’interno dei processi produttivi (a cominciare da una
riduzione dell’orario di lavoro), vuoi a valle di essi, attraverso una
redistribuzione fiscale. Il che ci porta alla seconda dimensione del futuro.
Finanza pubblica. Chi pagherà? Alle spese per la
tutela si aggiungeranno quelle che deriveranno dalla garanzia pubblica ai
prestiti bancari alle imprese, indispensabili per evitare il collasso di molte
di esse; e le spese che verranno sostenute per il rilancio economico e sociale.
L’onere di queste spese sarebbe tanto minore quanto più esse fossero coperte da
strumenti finanziari emessi dall’Unione Europea – da qui l’importanza della
battaglia che l’Italia sta conducendo in questa direzione - e da un’efficace
programmazione dei fondi comunitari. Ma in ogni caso, vi sarà un aumento del
debito pubblico, a partire dai nostri già assai elevati livelli, e vi saranno
scelte fiscali da compiere: “chi pagherà?” Anche immaginando un’evoluzione
ordinata delle cose, in cui il nostro maggiore debito pubblico dovuto agli
interventi emergenziali sia assorbito dai mercati grazie soprattutto all’azione
della Banca Centrale Europea, è evidente che la ripresa dello sviluppo e il
rinnovamento dei sistemi di protezione sociale, per affrontare sia
l’ordinarietà sia futuri altri shock, richiederanno nuove spese e che queste
dovranno essere finanziate da maggiori entrate. Chi provvederà queste maggiori
entrate in un paese segnato da fortissime disuguaglianze di reddito e ricchezza
(il 50% meno ricco degli adulti possiede il 3% della ricchezza personale netta,
i 5.000 più ricchi il 7%) e da iniquità orizzontali del sistema impositivo?
Come non redistribuire con equità i miliardi di sconti
fiscali ai contribuenti accumulatisi nel tempo? Come non porre il massimo
impegno a recuperare quel centinaio di miliardi che, secondo il Ministero
Economia, sfugge al fisco, chiamando alle proprie responsabilità chi oggi usa
il sistema sanitario nazionale e non ha pagato le imposte? Come migliorare
rapidamente la base informativa sulla distribuzione dei redditi e della
ricchezza? Come disegnare un’eventuale imposta di solidarietà mirata a una
migliore protezione sociale? E ancora: come tenere conto del forte divario fra
chi in questa fase vedrà cadere i propri profitti e chi li vedrà crescere, come
nel settore digitale? E fra chi vedrà erodersi i propri esigui risparmi e chi
li vedrà aumentare? Le risposte a queste e simili domande segnerà fortemente le
future tendenze. Ancor più se una nuova diffusione del virus costringesse
dall’autunno a rinnovare i divieti e divenissero necessarie misure più
impegnative per garantire a tutta la popolazione servizi e beni essenziali.
Politica e politiche. Tre scenari. Ogni crisi, e questa
crisi più ancora di altre, favorisce il cambiamento. Ma la direzione del
cambiamento non è segnata. “Decisioni
che in tempi normali richiederebbero anni per essere prese – scrive Yuval
Noah Harari - sono approvate nel giro di ore. Tecnologie immature e
anche pericolose sono messe di corsa al lavoro perché il rischio di non farlo è
più grande. Interi paesi diventano cavie di esperimenti sociali in larga
scala”. Ma ovunque, come visto, si aprono biforcazioni. Si può muovere –
prosegue Harari – verso una sorveglianza totalitaria oppure più poteri ai
cittadini e, in parallelo, verso un isolamento nazionalista oppure una
solidarietà globale. E ancora – aggiungiamo noi – verso un’ulteriore
frammentazione del lavoro oppure la ricostruzione di una sua unitarietà lungo
le filiere produttive. Di fronte a queste e altre opzioni aperte dal cambiamento,
la politica e le politiche hanno diverse possibilità. Che noi riassumiamo, come
anticipato, in una triforcazione: tre diverse opzioni che si contenderanno l’egemonia nel prossimo
futuro:
ü Opzione 1: Normalità e
progresso
In molti di noi,
anche in chi “prima” stava male, esiste una pulsione istintiva e ragionevole a
tornare a quel “prima”, perché oggi stiamo peggio. Da qui a considerare il
“prima” come “normalità” il passo è lungo assai, ma a cercare di farcelo
compiere agirà la pressione culturale di una larga parte delle classi
dirigenti, politiche ed economiche, che già sono in azione. Convinte che non vi
sia alternativa al disegno neoliberale dell’ultimo quarantennio, o interessate
a sostenere e realizzare questa tesi, esse proporranno come obiettivo il
ritorno alla normalità perduta, sostenendo che ogni altra strada è vana.
Alzeranno la bandiera della riduzione delle disuguaglianze – come non farlo? –
ma le affronteranno con strumenti di mera compensazione, mentre torneranno a
proporre: pseudo-semplificazioni fatte di standard uniformi e bandi di progetto
in assenza di visioni strategiche; ulteriore inibizione sia della discrezionalità delle amministrazioni pubbliche nell’adattare
servizi e interventi ai contesti territoriali, sia delle forme di
partecipazione civica e del lavoro; scaricamento su famiglia e “terzo settore”
del ruolo ultimo di ammortizzatore sociale; ulteriore flessibilità del mercato
del lavoro; digitalizzazione dei servizi e delle produzioni, come fine in sé,
come se le scelte fossero univoche; una visione patrimonialista dell’impresa,
che svuotando gli obiettivi mondiali dello sviluppo sostenibile, è
sostanzialmente ignara degli altri stakeholders (lavoro, ambiente) e incoraggia
il parassitismo contro l’imprenditorialità
ü Opzione
2: Sicurezza e identità
La crisi ha creato un forte bisogno di
sicurezza e di decisioni forti e sanzionate, ha rinnovato insofferenze e
pregiudizi etnici (anche verso noi Italiani, alimentando il “vittimismo”
storico del nostro paese), ha rinforzato il sospetto verso globalizzazione
(avvicinamento di cose e persone) e cosmopolitismo, ha reso accettabili
significative restrizioni della libertà, ha mostrato un’Unione europea assai
lontana. Inoltre, agli occhi di molti, l’esercizio di forti poteri autoritari
potrà apparire più efficace dei processi democratici, specialmente quando la
collaborazione fra livelli di governo è stata insoddisfacente. L’attrazione
dell’opzione autoritaria sarà ulteriormente rafforzata se lo Stato fallirà nel
tutelare le persone più vulnerabili dagli effetti economici della crisi. La
possiamo immaginare accompagnata da un’invocazione di “purezza identitaria” o
addirittura da messaggi di “palingenesi”, l’invocazione di un futuro migliore
che è in realtà il ritorno a un mitizzato stato originario. Quanto alla
rilegittimazione di ciò che è “pubblico”, avvenuta in queste settimane, essa
verrebbe trasformata nel sostegno a un potere centrale autoritario presentato
come capace di aderire tempestivamente, senza bilanciamenti istituzionali, ai
bisogni e alla volontà delle persone.
ü Opzione
3: Giustizia sociale e ambientale
Nel mescolarsi di sentimenti e di pratiche
nelle lunghe settimane di crisi sono emerse pulsioni e azioni di solidarietà,
in particolare nelle comunità territoriali. È tornato visibile il ruolo di lavoratori e lavoratrici grazie ai quali e alle
quali quale possiamo mangiare e accendere la luce. È emerso il ruolo
delle organizzazioni di cittadinanza attiva e di forme di auto-organizzazione,
capaci di affiancare i più vulnerabili, di dare loro voce e in alcuni casi di
avanzare proposte e di mobilitare supporto attorno a esse. Sono emersi i
bisogni essenziali. Da questi segni può venire la spinta per dare corpo a un
cambio di rotta, un progetto di emancipazione in cui: il lavoro ritrova dignità
e spazi di partecipazione strategica; l’imprenditorialità produttiva, innata
nel nostro paese, vede rimossi gli ostacoli a nuovi progetti adatti al mutato
contesto e si riprende spazi contro la rendita parassitaria; chiunque vive in
Italia può fare pesare le proprie conoscenze e preferenze sulle pubbliche
decisioni, territorio per territorio, anche attraverso un uso appropriato del
digitale; le donne vedono presa in considerazione la loro prospettiva nei
processi decisionali; vengono intaccate le cause della crisi generazionale;; il
welfare e lo sviluppo economico si ricompongono a livello delle comunità; e il
“pubblico” svolge un ruolo strategico ma non invasivo, attraverso le proprie
imprese pubbliche e attraverso amministrazioni pubbliche a cui vengono ridate
una missione e nuove risorse umane. A
seconda di quale opzione prevarrà si rafforzeranno o indeboliranno alcune
tendenze anziché altre e a ogni biforcazione si prenderà l’una o l’altra
strada. E lungo la strada potranno prodursi compromessi, ad esempio fra le
prime due opzioni, una sorta di “neoliberismo autoritario”, come già si
profilava prima della crisi.
Visione, proposte e mobilitazione
Affinché l’opzione della giustizia sociale e ambientale
possa sfidare con successo le altre due opzioni, servono tre requisiti: una visione del futuro che parli ai
sentimenti; proposte operative con obiettivi verificabili; una mobilitazione
organizzata. Sono
tre requisiti che proviamo a sperimentare nel lavoro che portiamo avanti anche
in queste settimane e che discutiamo in profondità nel volume “Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e
giustizia sociale”, che uscirà il 28 maggio per il
Mulino. Soffermiamoci un momento su questi tre requisiti.
Visione del
futuro. Una strategia di cambiamento deve tradursi in
una visione del futuro che dia speranza e sia convincente. Servono obiettivi
che parlino ai sentimenti delle persone, sentimenti che la
sofferenza e l’ansia della crisi hanno reso più suscettibili. È qui che
si apre la forbice fra le tre opzioni politiche che abbiamo prospettato. Ai
sentimenti oggi prevalenti, i sostenitori dell’opzione “normalità e
progresso” si rivolgeranno presumibilmente senza
particolari appelli, ma contando sul senso comune di questo quarantennio.
Qualcosa tipo: “il meglio a cui possiamo aspirare è di
tornare alla normalità di prima, correggendone con più impegno le imperfezioni
che hanno prodotto tante dolorose disuguaglianze, ma evitando che il ruolo
dello Stato richiesto dalla crisi assuma natura permanente, rimettendo al
centro mercato, merito e libera iniziativa – nel significato
mortificato che questa cultura assegna a tali importanti termini - e
sfruttando il cambiamento tecnologico che la crisi ha accelerato e i suoi
ineluttabili effetti. Non andate dietro a chi vi spinge a credere in
cambiamenti radicali; a volte sono brave persone, ma non hanno i piedi piantati
nella realtà, quando parlano di «partecipazione» o di «giustizia sociale».
Oppure hanno i piedi piantati nel vecchio statalismo del ‘900. Comunque sia, ad
ascoltarli son dolori”. Un messaggio semplice, non
emozionante, ma di una “sconsolata rassicurazione”. Soprattutto se accompagnato
dall’invocazione e dalla minaccia del “giudizio dei mercati” e della “fine
della politica” e da sussidi a singole categorie per placare le tensioni
sociali. Più incalzante, spregiudicato e vocale ci immaginiamo il messaggio di chi
cavalca la dinamica autoritaria puntando su “sicurezza e identità”.
Qualcosa tipo: “la colpa ultima delle grandi sofferenze umane
e sociali subite sta nella penetrabilità dei nostri confini e nell’inquinamento
delle nostre società frutto della sistematica disattenzione per il popolo e – forse
qualcuno aggiungerà - della violazione delle leggi naturali che ci
tenevano separati. È una deriva aggravata dall’eccessivo
decentramento dei poteri di governo e dalla pletora dei luoghi di
partecipazione e decisione e dalla fiducia riposta nell’Unione Europea, di cui
rischiamo di essere vittima. La crisi – concluderanno - è
l’ultimo avvertimento, l’ultima occasione per tornare a rinsaldarci nelle
nostre comunità, per tutelare la nostra unità e la nostra identità, per tornare
a ciò che siamo, e per affidarci alla protezione e alla garanzia di sicurezza –
leggi:
sorveglianza – da parte di poteri forti, indiscussi e
stabili, di uno Stato centrale che prenda decisioni rapidamente e per tutti”. Una
palingenesi, appunto, tutta giocata sul piano identitario e magari accompagnata
dalla promessa di forti trasferimenti compensativi ai più vulnerabili. Una
prospettiva che incontra, forse, un ostacolo nella tenuta e negli umori del
sistema delle imprese: come convincere questo sistema che l’uscita dall’Unione
Monetaria e il ritorno alle svalutazioni competitive siano credibili e
sostenibili? A questi due messaggi e al
rischio concreto, già evidente prima del Covid-19, che essi trovino un
compromesso, chi ritiene che il susseguirsi di crisi e il cumularsi di
ingiustizie possano essere contrastati governando in modo diverso capitalismo e
società, chi mette al centro del futuro e dello sviluppo la “giustizia sociale
e ambientale”, potrà dire qualcosa tipo: “la responsabilità
del susseguirsi di sofferenze umane e sociali e dell’incapacità di prevenirle e
fronteggiarle, sta nel fatto che anziché guidare in modo collettivo il
cambiamento tecnologico e l’apertura alla diversità che è insita nella nostra
umanità, abbiamo lasciato tutto nelle mani di pochi: nascondendosi dietro la
tecnica, essi hanno chiuso gli spazi di partecipazione per le persone e per
lavoratrici e lavoratori, mortificato il ruolo di indirizzo e di
redistribuzione dello Stato democratico, indebolito i servizi fondamentali,
squilibrato il potere a favore di chi controlla conoscenza e capitali,
depoliticizzato gli organismi internazionali, bloccato lo sviluppo di un’Unione
Europea federale. La crisi Covid-19 conferma questa diagnosi e mostra che i
caposaldi a cui ci rivolgiamo sono al dunque le istituzioni pubbliche, il senso
di solidarietà all’interno di ogni comunità, la nostra capacità di
auto-organizzazione e mutualismo. Questi caposaldi possono e devono essere
usati per mirare a lavori stabili e di qualità, a una libera circolazione della
conoscenza, a filiere energetiche e alimentari pulite e di prossimità, al
rilancio delle PMI basato su creatività e innovazione, ad abitazioni dignitose
e sicure, a servizi fondamentali a misura dei luoghi, a un riequilibrio nel
rapporto fra i generi, a diritti uguali a chiunque vive nel nostro paese, ad
una vita in sintonia con l’ecosistema. E ad un «pubblico»
competente e rinnovato, non invasivo e «anti-statalista», capace
di dare certezze e indirizzi e poi di adattarli, luogo per luogo, a misura
delle persone e dei contesti. Sono obiettivi alla nostra portata. Assieme,
possiamo raggiungerli”.
Proposte operative con obiettivi
verificabili. La
visione prende corpo e diviene credibile se si accompagna a proposte che
abbiano obiettivi verificabili, attorno alle quali si confrontino e si
raggrumino le forze pronte al cambiamento. Noi del ForumDD partiamo dalle
proposte che abbiamo costruito un anno fa e su cui abbiamo continuato a
lavorare. Proposte che mirano a riequilibrare i poteri, a orientare lo sviluppo
alla giustizia sociale e ambientale, puntando su un modo diverso di
amministrare fondato sulla partecipazione del lavoro e della cittadinanza. E da
lì andiamo oltre. Prima di presentare queste proposte, soffermiamoci sul terzo
requisito, la mobilitazione organizzata, che è necessaria per farle camminare.
Mobilitazione organizzata. Non è nostro compito
immaginare il “soggetto politico” che possa raccogliere il fermento politico e
sociale esistente e dargli struttura, organizzazione e capacità di
mobilitazione. Ma intravediamo con Pierre Rosanvallon che il fermento sociale e
politico di cui siamo parte con altre alleanze esistenti e in fieri è parte –
può essere pensato come parte – di un popolo
sociale
in formazione: un popolo che, affiancandosi al popolo numerico (quello delle
elezioni) e un popolo dei principi (quello della Costituzione), “esiste
attraverso rivendicazioni legate ai conflitti, attraverso la formazione di
comunità di prova, a partire da pezzi di storia vissuti in comune» oltre che
attraverso «quell’opinione indistinta e confusa che esiste attraverso
Internet». Si può così rinnovare la democrazia, mettendo «in discussione in
maniera permanente ciò che è oggetto di decisioni pubbliche» e mirando a
«un’interazione permanente tra potere e società», attorno a «una parola:
giustizia». Come possa realizzarsi
questa “interazione permanente tra potere e società”, fra partiti che
condividano il progetto di emancipazione e il “popolo sociale in formazione” è
questione a cui non diamo risposta, ma che riproponiamo nell’indicare più
avanti l’obiet tivo del rinnovamento dei gruppi dirigenti del paese. Ma una
cosa è certa. La forza del nostro modo di lavorare, della costruzione di
alleanze fra saperi diversi, della ricerca e della cittadinanza attiva, sta
nella capacità di costruire, come scrive Chantal Mouffe, «un’equivalenza fra una
molteplicità di domande eterogenee in modo che venga preservata la
differenziazione interna all’insieme». Il riferimento è qui alle molteplici
aspirazioni – legate alla classe, al genere, al contesto territoriale, alla
generazione, ecc. – sulla cui difficoltà di rappresentazione congiunta si era
arenato il progetto di emancipazione a fine anni ’70. “Ciò che conta è come queste diverse
aspirazioni e domande-offerte di azione politica vengono articolate; come si
alleano nel confronto e nel conflitto necessari per cambiare le cose. In questo
modo la «frontiera politica» fra «noi» e loro» cessa di riguardare, come nel
progetto autoritario, un’isolata e fittizia radice identitaria, e si trasforma
in una strategia di cambiamento che avrà i suoi avversari in chi non vuole
cambiare. È la
strategia che diviene il discrimine, non pregiudiziali e ingiustificabili muri
identitari.”
(nostra sottolineatura). Questa è la sintesi che nel volume sopra citato per Il
Mulino abbiamo dato dei processi sociali e politici in atto. La crisi Covid-19
ha messo alla prova questo tessuto e tutte le forme di azione politica che ne
fanno parte, riproponendo, nei modi esasperati tipici di una crisi, i punti di
forza e i rischi. Ha mostrato il ruolo essenziale delle organizzazioni di cittadinanza attiva e delle
molteplici forme di auto-organizzazione: decisive nello stare accanto ai più
vulnerabili, nel provvedere ai loro bisogni, ma anche nel tradurre queste
esperienze e conoscenze in ipotesi di sistema per affrontare la crisi, a
partire dall’esperienza a contatto diretto con situazioni e bisogni, e con
l’attuazione concreta dei provvedimenti adottati. Ma al tempo stesso, con la
crisi sono riemersi: sia il rischio di un ruolo meramente ancillare di quelle
organizzazioni, che sostituisca la doverosa azione pubblica e divenga catena di
distribuzione di decisioni già prese; sia una loro sostanziale esclusione dai luoghi di
elaborazione delle strategie, con eccezioni solo in alcuni contesti locali
in cui esistono spazi organizzati di confronto. Il tutto aggravato
dall’impossibilità di dimostrare democraticamente nelle strade e nelle piazze.
Ecco, dunque, che il tema della “mobilitazione organizzata” torna come centrale
e irrisolto, sfidando tutti a un salto di qualità.
Sette cose da fare subito
A indirizzare e dare concretezza a tutte le proposte è la
bussola delle disuguaglianze e delle diversità, ossia delle disuguaglianze
nell’espressione delle nostre diverse persone: disuguaglianze economiche (di
reddito, ricchezza e lavoro), nell’accesso e nella qualità dei servizi
fondamentali, e di riconoscimento (del nostro valore come persone). Sono le
disuguaglianze che hanno esasperato e differenziato gli effetti della crisi, e
che la crisi ora accresce. Per affrontarle, per realizzare il cambio di rotta
che abbiamo in animo, bisogna prima di tutto fare scelte giuste nel breve
termine e nel periodo che viene subito dopo, il medio termine, ossia l’incerto
e graduale (e forse con soste e passi indietro) periodo di ripresa della vita
ordinaria e delle attività, quando si inizieranno a manifestare le tendenze che
abbiamo prefigurato. E’ necessario dare alle persone e alle imprese i mezzi finanziari a loro misura, per
riprogrammare il futuro, assicurare informazioni robuste, tempestive e aperte, garantire che il
permanere della necessaria “distanza fisica” avvenga con il minimo di “distanza
sociale”,
assicurare a tale scopo che i necessari indirizzi unitari nazionali (relativi alla
ripresa di attività, alla scuola, alla mobilità) possano essere attuati territorio per
territorio (a livello comunale, sub-comunale o di alleanze comunali) a misura
dei contesti, attraverso un confronto informato che coinvolga lavoro,
cittadinanza e imprese. Questi tre principi si traducono nelle seguenti sette
linee di azione:
1. Una
protezione sociale per tutte le persone a misura delle persone, realizzata usando gli strumenti
esistenti: lo insegna l’esperienza internazionale, lo suggerisce il buon senso.
E dunque (come da proposta ForumDD-ASviS): a) sviluppo della tutela agli
autonomi, utilmente introdotta dal governo nel decreto “Cura Italia”, legando
l’importo del trasferimento all’attività perduta e al reddito famigliare, b)
reddito di emergenza a 6-7 milioni di lavoratori (di cui metà regolari a tempo
determinato o a chiamata – al meglio tutelati solo fino a scadenza di contratto
- il resto irregolari) che il decreto lasciava scoperti, usando il Reddito di
Cittadinanza come infrastruttura a cui apportare modifiche che garantiscano
inclusione e tempestività. Questo secondo provvedimento raggiunge anche i
lavoratori migranti, per i quali il ForumDD ha comunque chiesto una
generalizzata concessione del permesso di soggiorno, utilizzando la previsione
normativa esistente: sarebbe un passo verso la costruzione di una cittadinanza
inclusiva per chi migra in Italia. L’estensione del provvedimento ai milioni di
lavoratori “in nero” – in larga misura impossibilitati a svolgere ogni lavoro -
non è solo un atto dovuto di giustizia che darebbe loro la tranquillità per
vivere il presente e riprogrammare la vita non cadendo preda dell’usura e della
criminalità, ma è anche l’occasione per lo Stato di stabilire con loro un
contatto che, con l’aiuto delle organizzazioni di cittadinanza attiva, possa
avviare la costruzione di percorsi di regolarizzazione e di graduale accesso ai
nuovi lavori che potrebbero emergere dalla crisi, costruendo un rapporto di
reciproca fiducia.
2. Miglioramento e garanzie delle informazioni
su contagi e tracciamento. È urgente l’avvio di un monitoraggio campionario dei contagi
che raccolga non solo dati anagrafici ma anche di reddito e istruzione e che
consenta di configurare e poi di verificare scenari alternativi sul prosieguo
della pandemia. Quanto all’eventuale introduzione di sistemi di tracciabilità,
essi dovranno essere rispettosi di
precisi requisiti, a tutela dei diritti personali e tali da elevare
la fiducia nel sistema: volontarietà, memorizzazione dei dati decentralizzata e
comunque con eventuale trasmissione solo di chiavi anonime, e soprattutto
chiara e convincente indicazione dell’uso che verrà fatto dei dati raccolti e
di come ne verrà valutata l’efficacia, escludendo ogni utilizzo non
programmato. In coerenza con il “diritto a un intervento umano”, sancito dal
Regolamento europeo (art.22), la responsabilità ultima nell’indirizzare e
rassicurare le persone dovrà restare affidata al personale sanitario.
3. Un
programma di ripresa delle attività a misura dei territori e dei contesti. Una
volta stabiliti indirizzi generali, la ripresa delle attività dovrebbe essere
attuata territorio per territorio attraverso una governance condivisa fra
imprese, lavoro e governi locali, accompagnata da forti investimenti nella
sicurezza e dal rafforzamento dei sistemi ispettivi INAIL, con il reclutamento
di nuovo personale. Il confronto territoriale è la strada per non scaricare sui
singoli imprenditori la responsabilità della riapertura e per assicurare che
essa abbia luogo con l’adozione di misure di sicurezza di utilità permanente e
da sostenere con risorse pubbliche. La stessa metodologia, integrata dalla
partecipazione delle organizzazioni di cittadinanza, dovrebbe accompagnare i
piani per adattare alla ripresa il disegno della mobilità, privata e pubblica.
4. Un programma di ripresa dell’attività
scolastica a misura della diversità dei territori e dei contesti. Il tema della ripresa
dell’attività scolastica non è un’appendice del tema della ripresa delle
attività produttive, né per la fascia 0-6 – troppo spesso trattata nelle
discussioni come un parcheggio per bimbe e bimbi di chi lavora – né per le
fasce più elevate. L’obiettivo primario è viceversa che le già elevate
disuguaglianze, nell’accesso e nella qualità, non si amplino ancora: per i
divari di efficacia dell’insegnamento a distanza (quando possibile), per
l’induzione all’abbandono della scuola che questo periodo di distacco può
generare come effetto nei più vulnerabili. In relazione alle condizioni
territoriali assai diverse del contagio e dell’effettiva disponibilità di spazi
alternativi alle aule (fra quartieri, fra città e fra aree urbane e rurali),
sono auspicabili indirizzi generali nazionali che possano essere attuati
territorio per territorio attraverso un confronto e una responsabilità collettiva
che, oltre alla scuola e al Comune, coinvolga le altre istituzioni pubbliche e
private del territorio e la società civile.
5. Credito agevolato e trasferimenti per
evitare il collasso della capacità produttiva e orientare la ripresa. I
provvedimenti volti a garantire liquidità alle imprese devono
contenere misure che consentano anche alle PMI l’assunzione di prestiti
aggiuntivi, per salvaguardare il loro potenziale produttivo e i livelli di
occupazione e di reddito. Per tale ragione, non può certo trattarsi della
sostituzione dei prestiti esistenti, così come tali interventi non devono
risolversi in operazioni quali il riacquisto delle azioni, il pagamento di
dividendi o stock option manageriali: il paese deve essere certo di aiutare
l’imprenditorialità produttiva, non il parassitismo. Il massiccio e necessario
sostegno pubblico alle imprese dovrebbe essere accompagnato da un patto tra
impresa e società, facendo in modo che la ripresa dell’attività sia indirizzata
a obiettivi di sviluppo sostenibile, con ricadute ambientali e sociali positive
(da un’organizzazione del lavoro che rispetti la dignità del lavoro all’impegno
per ridurre gli impatti ambientali negativi). Un rinnovamento manageriale,
necessario nella parte più debole del sistema delle PMI, potrebbe accompagnare
e favorire la ripresa
6.
Un sostegno finanziario alle organizzazioni
di cittadinanza attiva,
sulla base della qualità dell’azione passata (metodo dei “premi”, previsto
dalla politica di coesione europea) per permettere che esse adattino alle nuove
condizioni i loro interventi a favore dei più vulnerabili, dei poveri, dei
migranti, delle donne messe in particolare difficoltà dalle misure adottate, e
che sviluppino il lavoro di ricerca, monitoraggio e proposta e advocacy per la
riduzione delle disuguaglianze e la giustizia ambientale. In coerenza con il
ruolo di “sussidiarietà” previsto dalla Costituzione (art.118), le
organizzazioni di cittadinanza attiva possono svolgere ora e in prospettiva non
solo un’azione sussidiaria importante di supporto e adattamento dei servizi
pubblici territoriali, ma anche un ruolo importante di intercettazione di
condizioni di bisogno e di ricostruzione di un rapporto con una parte
significativa del lavoro informale e irregolare, specie se esso sarà raggiunto dalla
misura del reddito di emergenza (cfr. punto 1). E devono essere messe in
condizioni di contribuire, con le loro conoscenze, alla migliore definizione
delle misure di intervento.
7.
Contrasto e redistribuzione degli effetti
della caduta di capacità produttiva. Per quanto
efficaci siano i provvedimenti di fornitura di liquidità, è inevitabile che
nelle prossime settimane e mesi a una quota significativa del sistema delle
imprese, specie quelle colte dalla crisi in condizione di alta vulnerabilità,
vengano a mancare i mezzi e le prospettive economiche per proseguire l’attività.
Di fronte a questa prospettiva, non esiste una soluzione unica da adottare, ma
è possibile promuovere a livello nazionale e attuare a livello territoriale uno
o più dei seguenti strumenti:
a
Una riduzione
dell’orario di lavoro che consenta il riassorbimento di una parte del
lavoro delle imprese che hanno chiuso nelle imprese che restano in attività,
attraverso un ricorso diffuso ai “contratti di solidarietà” o in altre forme.
Si tratta di una soluzione particolarmente adatta nei numerosi distretti
industriali del paese, relativamente omogenei nelle attività svolte e nelle
competenze necessarie.
b
Il ricorso, quando ve ne siano le condizioni,
ai Workers Buyout, per cui i lavoratori
dell’azienda in difficoltà acquisiscono la proprietà dell’impresa, attraverso
la formazione di una cooperativa, anche grazie all’impiego dei trasferimenti
pubblici che avrebbero ricevuto in caso di fallimento e di un intervento
finanziario pubblico.
c
Ruolo
della Cassa Depositi e Prestiti come “banca di sviluppo”, sia utilizzando il ruolo di partner nel
capitale sociale per promuovere il rinnovamento del management delle imprese e la
soddisfazione di requisiti in termini ambientali e sociali, sia finanziando la
transizione energetica dei distretti produttivi anche attraverso l’emissione di
titoli appositi.
Queste
misure andrebbero integrate nel caso in cui ritorni nella diffusione del virus
costringessero dall’autunno e per molti mesi a rinnovare i provvedimenti di divieto.
In questo caso, si dovrà immaginare un dispositivo di solidarietà che, senza
ulteriore accumulo di debito pubblico, redistribuisca temporaneamente i redditi
da chi ne ha in eccesso a chi ne ha in difetto rispetto a quanto necessario per
sostenere le spese essenziali di vita (per alimentazione, elettricità, acqua,
gas, affitto/mutuo).
N.B. = Il documento prosegue
ulteriormente con una ampia sezione dedicata a “Cinque
obiettivi strategici per un mondo diverso” che qui non riproduciamo per non
appesantire ulteriormente la lettura. Il Documento nella sua interezza è
comunque visionabile cliccando sul seguente link:
Documento Forum Disuguaglianze
Documento Forum Disuguaglianze
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