lunedì 11 maggio 2020

Pensiamoci - due contributi a riflettere sul dopo pandemia


E’ auspicio condiviso da tutti noi che la cosiddetta “fase due”, che dal prossimo 18 Maggio dovrebbe vedere un’ulteriore avanzamento, prosegua positivamente a conferma che la pandemia sta allentando la sua presa. Sarà così possibile uscire progressivamente dall’emergenza sanitaria per concentrarci, mantenendo la giusta attenzione e cautela nei nostri comportamenti, sui tanti e pesanti problemi che la pandemia inevitabilmente ha comportato. In molti dei nostri precedenti post abbiamo in particolare raccolti spunti di riflessione su due tematiche indubbiamente centrali: il ripristino delle libertà individuali e dei diritti collettivi comprensibilmente sospesi nell’ambito del “lockdown”, e l’indispensabile rilancio dell’economia e delle attività produttive. Peraltro ambedue queste tematiche, che hanno visto in questi mesi di pandemia una inevitabile accentuazione, già da tempo sono al centro del dibattito politico e culturale italiano ed europeo. Come abbiamo più volte evidenziato questa fase storica, nella sua tragicità epidemiologica, può quindi rappresentare una occasione per riflettere e per correggere storture, contraddizioni, limiti, rischi. Pubblichiamo come contributo in questo senso due post: un articolo di Massimo Cacciari che ribadisce la necessità di prestare la massima attenzione alla “salute” della nostra democrazia offrendo indicazioni sugli aspetti che di più e da subito richiedono risposte (con una aggiunta collegata) e, per quanto concerne la seconda tematica, un documento del Forum Disuguaglianze Diversità (promosso ed animato fra gli altri da Fabrizio Barca che ancora confidiamo di poter avere nostro relatore in un prossimo futuro) dettagliato nell’analisi e nelle proposte e quindi lungo e corposo, ma che riteniamo meriti davvero di essere conosciuto, discusso, sostenuto. Visto l’impegno di lettura che il documento richiede consigliamo di leggere innanzitutto la parte finale “sette cose da fare subito
 Pensiamoci
Articolo di Massimo Cacciari
 L’Espresso 10 Maggio
In questi giorni abbiamo accettato necessarie limitazioni di libertà e diritti. Occorre vigilare perché non dilaghino
Sembra essere legge di natura che nei momenti di svolta o di crisi, quando “cresce il pericolo”, e massimamente dovremmo impegnarci per comprendere cause e conseguenze, la nostra attenzione, la nostra voglia di pensare, invece vadano rapidamente affievolendosi. La fatica del giorno per giorno, il duro mestiere di tirare avanti in qualche modo divorano lo spazio che, in momenti più normali, destiniamo qualche volta anche all’esercizio dell’analisi e della critica. E diventiamo propensi ad affidarci ai cosiddetti “dati di fatto, a volte comunicati da esperti veri, altre volte decretati a mò di dogmi dal condottiero di turno e dalla sue “task force”. Non si vuole tornare qui su ciò che è stato scritto e detto in questi mesi, anche dal sottoscritto, sulla “gestione dell’emergenza” corona virus. Sul fatto (questo sì incontestabilmente tale!) che “l’emergenza” è anche dovuta ai continui tagli per ricerca, strutture, personale, subiti dalla sanità pubblica nel corso degli ultimi decenni, che la crisi ha evidenziato ancora una volta l’assenza di ogni sistema di efficace collaborazione tra potere centrale, Regioni e Autonomie locali, che nessuna strategia si va definendo sul “convivere” con l’epidemia nel medio-lungo periodo, dal momento che è verosimilmente impossibile bloccare sine die l’attività di settori fondamentali e il movimento delle persone. Aggiungo che non mi interessa neppure spigolare sui recenti provvedimenti se non per quegli aspetti che si connettono a tendenze culturali-antropologiche di fondo: le palesi illogicità, contraddizioni, improvvisazioni che li caratterizzano potrebbero apparire, alla fine, dettagli trascurabili, fonte solo di molti fastidi e disagi (e per certuni, purtroppo, di fallimento economico). Ciò che andrebbe davvero pensato è la prospettiva storica generale in cui questa crisi si colloca e quale ruolo essa sia destinata a giocare al suo interno. Circola un documento-manifesto (qui di sotto riprodotto) della Fondazione Vargas Llosa che ha avuto larga eco in Spagna, Francia e Oltreoceano, da noi invece pressoché ignorato, che ci ricorda una “regolarità” storica: la situazione di emergenza (reale o fatta vivere come tale) genera per sua natura spinte “autoritarie”. In alcuni paesi queste possono essere assunte all’interno di una consapevole strategia politica. Il manifesto – che è firmato da numerosi ex premier di Stati latino-americani – si riferisce in particolare a quanto accade in Venezuela, Cuba, Nicaragua, Messico. In altri casi di democrazia più “matura” la tendenza può procedere inavvertita, perché in fondo non si presenta che come il naturale palesarsi di quanto in atto da tempo. Si protesta per un Parlamento esautorato? Ma da quanti anni è in quarantena? Da quanti anni non svolge sostanzialmente altra funzione che quella di ratifica dei decreti dell’esecutivo? Una volta lo si definiva “anticamera dei partiti”, che almeno erano organismi politici, ma ora? E chi non ha invocato task force, che nessuna assemblea democratica ha nominato, per risolvere le perenni emergenze? Non vedo alcun segnale di nella gestione di questa crisi di un possibile cambio di punto di vista. Nessun segnale che se ne voglia uscire con riforme radicali del Parlamento e del rapporto tra i diversi livelli dello Stato. All’opposto proprio la crisi viene nei fatti interpretata come dimostrazione della necessità di accelerare il processo di “liberazione” degli esecutivi, dei governi e dei loro capi, da ogni impedimento “assembleare”. Se nel mondo contemporaneo l’emergenza è endemica al Sovrano, chiunque esso sia, e solo al Sovrano tocca decidere. Ritornano le antiche metafore della nave in tempesta e del suo nocchiero: è bene che uno solo comandi. Prima che sia troppo tardi, prima di adottare poco alla volta, mitridatizzandoci con giudizio, modelli cinesi o putiniani, prima di diventare tutti sostenitori convinti di Trump e dei suoi nipotini europei, pensiamoci. La crisi genera pulsioni che possono diventare irresistibili verso soluzioni burocratiche-centralistiche. Il populistico appello alla pseudo-sovranità degli staterelli si fonda su tali oggettive pulsioni. O insicurezza, e magari morte, oppure bisogna affidarsi alla Madre-patria antica: lei ci vuole bene, i suoi politici ci amano. Fuori dalle sue mura regna l’anonimo nemico senza volto dei Poteri forti. Queste mura non esistono più, ma la tendenza a nuove forme di statalismo, contrabbandate magari per stato di necessità, possono dilagare. Pensiamoci, ora non dopo. Pensiamo a come già vengono interpretate certe trasformazioni dei nostri comportamenti in questo periodo in cui ragionevoli limitazioni dei nostri diritti sono ovviamente comprensibili. Perfino queste limitazioni sembrano essere considerate da certuni un preambolo a una sorta di obbligo giuridico alla salute, a introdurre norme per cui sia lecito essere seguiti, tracciati, interrogati sulle proprie condizioni fisiche. Vi è poi la scoperta del lavoro a distanza. Quanto sarebbe economico “stare a casa” sempre: un professore potrebbe magari servire mille classi, niente traffico, niente e tempi sprecati e spazi occupati. Convegni, conferenze, uffici, che arcaica organizzazione del lavoro! Che bisogno abbiamo del contatto personale? Dal contatto al contagio il passo è breve e questa esperienza lo insegna, non è vero? Impariamo da essa e proseguiamo sulla sua strada. L’informazione è tutto, la comunicazione (che avviene soltanto attraverso il rapporto diretto, il guardarsi in volto) un lusso. Il muoversi solo con il web non va vissuto come una triste necessità imposta dal virus, immaginiamolo come il nostro radioso futuro.  Formidabile prevenzione per ogni pandemia. Pensiamoci. Perché queste pulsioni corrono ovunque , si esprimono sempre più nettamente e si esprimono nei fatti. Pensiamo anche alle grandi potenze che le sostengono, che ne condividono l’implicita visione del mondo. Ogni giorno di crisi per Amazon, Google e compagnia sono miliardi di utile. Il colossale sistema dei big data raccoglierà miliardi di ulteriori informazioni, “conoscerà” ciascuno di noi, smantellerà ogni residua privacy.  E continuerà a non pagare tasse. La libertà dello “stare a casa” avrà questo prezzo inevitabile. Vi è nell’uomo una “naturale servitù” dicevano i saggi e può darsi perciò che questo prezzo lo si voglia pagare. Pensiamoci.
 Che la pandemia non sia un pretesto per l’autoritarismo.
È questo il titolo del Manifesto redatto dal premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa e pubblicato sul sito della sua Fundación Internacional para la Libertad (FIL).
Noi firmatari condividiamo la preoccupazione per la pandemia di Covid-19 che ha provocato una gran quantità di contagi e morte in tutto il mondo, e estendiamo la nostra solidarietà alle famiglie in lutto. Mentre i lavoratori della sanità pubblica e privata combattono il coronavirus valorosamente, molti governi adottano misure che restringono indefinitamente libertà e diritti di base. Invece di alcune comprensibili restrizioni alla libertà, in vari paesi impera un confinamento con minime eccezioni, la impossibilità di lavorare e produrre, e la manipolazione informativa. Alcuni governi hanno individuato una opportunità per arrogarsi un potere smisurato. Hanno sospeso lo Stato di diritto e, persino, la democrazia rappresentativa e il sistema giudiziario. Nelle dittature di Venezuela, Cuba e Nicaragua la pandemia serve come pretesto per aumentare la persecuzione politica e l’oppressione. In Spagna e in Argentina dirigenti un marcato pregiudizio ideologico cercano di utilizzare le dure circostanze per accaparrare prerogative politiche e economiche che in un altro contesto la cittadinanza gli rifiuterebbero risolutamente. In Messico cresce la pressione contro l’impresa privata e si utilizza il Gruppo di Puebla per attaccare i governi di orientamento differente. Su entrambe le sponde dell’Atlantico risorgono lo statalismo, l’interventismo e il populismo con un impeto che fa pensare a un cambio di modello lontano dalla democrazia liberale e dall’economia di mercato. Vogliamo affermare con forza che questa crisi non deve essere affrontata sacrificando i diritti e le libertà che è costato molto raggiungere. Respingiamo il falso dilemma che queste circostanze ci costringano a scegliere tra l’autoritarismo e l’insicurezza, tra l’Orco Filantropico e la morte.
Fra i molti firmatari compaiono i nomi di
Vargas Llosa, Mario. Premio Nobel della Letteratura, presidente Fundación Internacional para la Libertad (FIL), Perú.
Aznar, José María. Ex-primo ministro, Spagna.
Macri, Mauricio. Ex-presidente, Argentina.
Zedillo, Ernesto. Ex-presidente, Messico.
Uribe Vélez, Álvaro. Ex-presidente, Colombia.
Lacalle, Luis Alberto. Ex-presidente, Uruguay.
Sanguinetti, Julio María. Ex-presidente, Uruguay.
Cristiani, Alfredo. Ex-presidente, El Salvador.
Franco, Federico. Ex-presidente, Paraguay.
Machado, María Corina. Coordinatrice Vente Venezuela, Venezuela.
Savater, Fernando. Filosofo e scrittore, Spagna.

DURANTE E DOPO LA CRISI:
 PER UN MONDO DIVERSO
Perché, cosa, come, con chi
Documento del Forum Disuguaglianze Diversità
Le pandemie hanno sempre costretto gli esseri umani a rompere con il passato e a immaginare il loro mondo da capo. Questa non è diversa. È un portale, un cancello tra un mondo e un altro. Possiamo scegliere di attraversarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro odio, dei nostri pregiudizi, l’avidità, le nostre banche dati, le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e cieli fumosi. Oppure possiamo attraversarlo con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso. E a lottare per averlo. Arundhati Roy, Aprile 2020
Una radicale incertezza, molte domande, un tentativo di risposta
Come fermare l’impoverimento avviato dalla crisi Covid-19? Come contenere la distruzione di capacità produttiva e di lavoro? Come far sì che l’onere della straordinaria caduta di reddito si redistribuisca fra tutta la popolazione? Come costruire da subito, nelle tutele sociali e nei criteri di riapertura, un “dopo” più giusto? Come assicurare la “distanza fisica” necessaria senza “distanza sociale”? Come evitare di scaricare ogni soluzione ultima sulla famiglia e sulle donne? Come conciliare indirizzi nazionali certi con l’attenzione alla diversità dei contesti territoriali? Come evitare che il ritrovato ruolo del “pubblico” degeneri in uno statalismo autoritario? O viceversa che sotto la bandiera ambigua del “progresso digitale” passi un’ulteriore concentrazione del controllo privato della conoscenza, e una mortificazione di scelte democratiche, società civile e imprenditorialità produttiva? E che il gran parlare di “disuguaglianze” si risolva in misure compensative vecchio stile che coltivano comportamenti parassitari e non accrescono capacità e potere delle persone? Come trasformare le fratture e gli squilibri creatisi in un cambio di rotta verso la giustizia sociale e ambientale? A quali proposte dare priorità? E, per attuarle, come innalzare la qualità del “pubblico”? Con quali alleanze e mobilitazioni promuovere visione e proposte? Quali soggetti politici sapranno raccogliere questa bandiera?  Che fare affinché lo facciano? Sono le domande che muovono questo documento di analisi e di proposte, frutto di un intenso confronto fra tutti noi membri e partner di progetto del Forum Disuguaglianze Diversità (ForumDD), luogo comune di cittadinanza attiva e ricerca. In due mesi dall’inizio della crisi Covid-19, mettendo a frutto i risultati di tre anni di vita e un metodo di lavoro fondato sul confronto aperto fra culture diverse, abbiamo dato un contributo sulle urgenze di breve termine: proponendo una tutela a tutte le persone, a misura delle persone, e una misurazione campionaria della diffusione del virus e divenendo luogo di confronto su molti aspetti della crisi, con un’attività quotidiana di informazione e pressione sulle autorità. Ora è il momento di raccogliere le nostre valutazioni in uno schema concettuale che faccia sintesi. L’incertezza è ancora grande e radicale, ma è nostro dovere rischiare una lettura dei fatti e offrire una visione e un principio di ordine. Per farlo, partiamo dall’identificazione delle principali disuguaglianze e debolezze rese eclatanti dalla crisi e delle principali tendenze e biforcazioni che essa ha generato, e prefiguriamo tre scenari possibili. Per muovere verso lo scenario da noi desiderato, un “nuovo mondo” che abbia al centro giustizia sociale e ambientale, prospettiamo sette cose da fare subito e cinque obiettivi strategici, fatti di proposte concrete. Sono alla nostra portata, se alla visione e alle proposte sapremo accompagnare la mobilitazione.  Non abbiamo ricominciato da capo, perché la crisi Covid-19 conferma la nostra diagnosi delle gravi disuguaglianze che si sono create nell’ultimo quarantennio e l’urgenza delle 15 proposte elaborate nel 2018-19, in tema di cambiamento tecnologico, dignità e partecipazione strategica del lavoro e crisi generazionale, nonché del nuovo progetto di contrasto della povertà educativa. Sono proposte che toccano in modo radicale i processi di formazione della ricchezza. La gravissima crisi, la distruzione di capacità produttiva, i presumibili cambiamenti delle preferenze, le fratture nelle catene internazionali del valore danno ora a queste proposte pre-distributive un nuovo e più forte significato. Il massiccio ricorso al “pubblico” ci ricorda il suo ruolo fondamentale, ma sollecita i cambiamenti di metodo da noi proposti nelle pubbliche amministrazioni, nel governo dei servizi fondamentali, nell’indirizzo delle ancora robuste imprese pubbliche, nelle politiche di sviluppo. Ma serve anche altro. L’aumento di spesa e debito pubblico, il ridimensionamento del PIL, l’asimmetria con cui sono colpite fasce sociali e territori, richiedono anche di ripensare i dispositivi della redistribuzione fiscale e sociale. Di fronte allo shock violento del Covid-19 e all’incertezza sistemica che ne è derivata, nulla è scritto. Come e più che in precedenti crisi, la gravità della situazione rende possibili cambiamenti sociali, istituzionali e tecnologici che in tempi ordinari sarebbero impossibili o ben più lenti. Ma l’esito ultimo di questi cambiamenti è indeterminato. Il nostro futuro, le sorti di società e democrazia, il suo grado di giustizia sociale e ambientale, dipendono ancora dalle nostre scelte. È l’insegnamento che viene da precedenti crisi, a cominciare da quella del 1929, che negli Stati Uniti condusse al New Deal, in Germania al nazismo. Sta a noi scegliere. Per farlo il confronto deve essere acceso e informato. Questo è il nostro contributo
I tre scenari post covid
Lo shock prodotto dal Covid-19 è violentissimo ed è fonte di “incertezza radicale”. Qualunque sistema ne è stato e ne sarebbe stato colpito, teniamone ben conto. Ma altrettanto evidenti sono l’universale impreparazione, sul piano sanitario, economico, sociale e politico, nell’affrontare un’emergenza che era stata da tempo prevista, la vulnerabilità dei nostri sistemi istituzionali, economici ed ecologici, l’inadeguatezza delle classi dirigenti, la straordinaria differenza delle condizioni di partenza personali e territoriali con cui ognuno di noi ha affrontato lo shock. Il virus ha reso eclatanti fragilità e disuguaglianze, in Italia, come in tutto l’Occidente. La crisi globale Covid-19 avviene infatti in un contesto segnato in Occidente da profonde ingiustizie e da un indebolimento della democrazia, frutto di una lunga stagione di politiche errate, e dalla dinamica autoritaria che ne è seguita. Il capitalismo non è mai stato così forte nella storia, nel senso dell’estensione geografica (ben fuori dell’Occidente) e della mercatizzazione della vita umana (ogni nostro tempo o strumento di vita ci appare “vendibile”), e questa forza eccessiva ha finito per favorire il parassitismo contro l’imprenditorialità produttiva, erodere la giustizia sociale e la sovranità popolare, “masticare” persone, ambiente e beni comuni e aggravare la minaccia per l’intero ecosistema. Un paradosso, perché il capitalismo è malleabile abbastanza da poter funzionare senza l’assoluta centralità dell’accumulazione patrimoniale come misura di merito e valore. I partiti hanno perso la capacità di rappresentare, mentre decisioni politiche sono state dissimulate da soluzioni tecniche ineluttabili. Noi del ForumDD lo abbiamo pensato e scritto, come altri, prima della pandemia, non lo scopriamo ora in preda all’emozione. Ora, la nostra analisi ci aiuta a immaginare un futuro post-Covid-19. Ma esistono diversi “futuri possibili”. La gravità dell’impatto della crisi sulla vita di ognuno di noi, lo stato di profonda, generale incertezza e il massiccio ricorso alle risorse pubbliche aprono almeno tre distinti scenari e progetti politici:
Prima opzione, riprendere la strada correggendo le “imperfezioni”: l’obiettivo è tornare alla “normalità” pre-Covid-19 compensandone meglio le disuguaglianze, ma affidandosi agli stessi principi e dispositivi che le hanno prodotte, presentando la “digitalizzazione” come un processo univoco di progresso, promettendo “semplificazioni” e inibendo l’esercizio di discrezionalità da parte degli amministratori pubblici nell’assunzione delle decisioni, favorendo i rentier rispetto agli imprenditori, mortificando partecipazione strategica di lavoro e società civile, e scaricando su quest’ultima e sulla famiglia ogni ruolo di mediazione sociale.
Seconda opzione, accelerare la dinamica autoritaria in atto prima della crisi: l’ulteriore impoverimento, la rabbia e l’ansia per il domani vengono alleviate offrendo barriere che promettono una rassicurante “purezza identitaria”, nemici da sconfiggere (migranti, stranieri, diversi, esperti), uno Stato accentrato e accentratore pronto a prendere rapide decisioni e a sanzionare comportamenti devianti, senza la pretesa di un pubblico confronto.
Terza opzione, cambiare rotta verso un futuro di emancipazione sociale: gli equilibri di potere e i dispositivi che riproducono le disuguaglianze vengono modificati, orientando il cambiamento tecnologico digitale, offrendo uno spazio di confronto acceso e informato al mondo del lavoro, alla società civile e a ogni persona che vive sulla nostra terra, legando welfare e sviluppo economico e realizzando un salto di qualità delle amministrazioni pubbliche.
In ognuno dei tre scenari il rinnovato ricorso al “pubblico” subisce una diversa evoluzione. Nel primo caso, il “pubblico” viene relegato a un ruolo passivo, prima di salvataggio da condizioni di emergenza, poi di erogatore di spesa e riproduttore di standard e regole procedurali uniformi che assecondano strategie decise da gruppi dirigenti e tecnocrazie chiuse in sé stesse. Nel secondo caso, il “pubblico” degenera in uno Stato accentratore, invasivo e autoritario, che erode le nostre libertà formali e sostanziali. Nel terzo caso, il “pubblico” viene rinno vato e rinvigorito con risorse, missioni e metodi e si evolve in una piattaforma democratica dove possano manifestarsi e trovare intersezione le preferenze e le conoscenze dei cittadini, per arrivare a decisioni condivise. L’impianto delle proposte del ForumDD è volto a configurare le condizioni per realizzare questo terzo scenario. E a costruire, sulla base delle migliori esperienze già realizzate, le modalità di un’azione pubblica che ai sensi degli articoli 3 e 118 della nostra Costituzione riconosca e favorisca la partecipazione dei “lavoratori” e dei “cittadini singoli e associati”. Per disegnare questa terza strada, servono due passi preliminari. Prima di tutto, dobbiamo muovere dalle disuguaglianze e dalle fragilità della situazione in cui eravamo il giorno in cui Covid-19 ha fatto la sua comparsa, e che ne hanno aggravato gli effetti. Poi, nonostante la grande incertezza, dobbiamo farci un quadro delle tendenze e delle biforcazioni a cui la crisi sta dando vita.
Le fragilità e disuguaglianze messe in luce dal covid19
La crisi globale Covid-19 ha fatto emergere disuguaglianze e fragilità frutto in gran parte delle politiche del passato quarantennio. È allora utile immaginarla come l’interfaccia tra due crisi. Da un lato, sta la crisi ecologica del pianeta, la perdita di biodiversità, la crisi climatica, il consumo di natura, l’inquinamento, la deforestazione, l’invadenza dei sistemi agroindustriali: non conosciamo ancora le cause dell’insorgenza di questo virus, ma per precedenti epidemie è stato accertato il contributo di sovrappopolazioni geneticamente omogene, specie se contigue alla fauna selvatica; e andrà analizzata la relazione fra effetti e letalità del Covid-19 e la diffusione delle malattie croniche dell’apparato respiratorio, notoriamente assai influenzate dall’inquinamento atmosferico che ogni anno produce nel mondo centinaia di migliaia di decessi prematuri (oltre 70mila in Italia, secondo l’Agenzia europea per l’ambiente). Dall’altro lato, stanno le fragilità e le disuguaglianze economiche, personali e territoriali, nell’accesso e qualità dei servizi fondamentali e di riconoscimento che caratterizzavano la presunta “normalità” pre-Covid-19, fragilità e disuguaglianze che hanno amplificato la diffusione e gli effetti sanitari, economici e sociali del virus. Con riguardo a questo secondo aspetto, la pandemia ha messo in forte evidenza almeno otto aspetti:   
Impreparazione globale alla pandemia, connessa ai processi di privatizzazione della conoscenza. Il rischio era noto da tempo, ed era stato richiamato nel settembre 2019 dal Rapporto “A World at Risk” del Global Preparedness Monitoring Board, descrivendo la “minaccia assolutamente reale di una pandemia altamente letale e in rapida diffusione prodotta da un agente patogeno delle vie respiratorie”. Lo stesso Rapporto, nel formulare precise raccomandazioni (iscritte nell’ambito dei 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile), denunziava l’impreparazione, attribuendola fra l’altro all’”insufficienza di investimenti e pianificazione della ricerca nello sviluppo e nella produzione di vaccini innovativi”, tanto che “le tecnologie impiegate per la produzione di vaccini contro l’influenza sono sostanzialmente immodificate dagli anni ‘60”. Si manifesta qui, in modo insopportabile, quel paradosso per cui tutti noi finanziamo la ricerca pubblica di migliaia di straordinarie infrastrutture di ricerca per poi vedere i loro risultati utilizzati e privatizzati da grandi corporations private, secondo una logica monopolista che non mette al centro il nostro benessere. È una delle distorsioni da cui l’analisi del ForumDD ha preso le mosse e che si manifesta ancora in piena crisi, con i tentativi di accaparramento delle capacità di ricerca per usi non universali che scoraggiano la cooperazione degli scienziati di tutto il mondo
Fallimento della cooperazione politica internazionale e stallo dell’Unione Europea. La cultura neoliberista dell’ultimo quarantennio non si è limitata a indebolire il ruolo della politica a livello nazionale, schiacciando i partiti e i corpi intermedi sullo Stato, negando l’esistenza di alternative, riducendo le decisioni a un confronto di tecniche, togliendo voce a lavoratori e lavoratrici, cittadini e cittadine, ma ha anche eroso il ruolo politico degli organismi della cooperazione internazionale, la loro capacità di operare come luoghi di scontro e poi di compromesso fra opzioni politiche diverse. Di fronte alla crisi del Covid-19, è stata eclatante l’assenza di concertazione e persino di una pretesa di concertazione dei leader politici del mondo. Colpisce la mancanza di ruolo delle agenzie globali del “sistema ONU”, come se le loro notevoli competenze maturate in gravi calamità nei “paesi poveri” non servissero anche per i paesi industriali. Non c’è alleanza politica o mi litare, o luogo di cooperazione internazionale che sia stato catalizzatore di un confronto. Né sono state all’opera alleanze internazionaliste politiche di sorta, a sinistra o a destra. Ogni paese si è presentato da solo all’appuntamento. È ragionevole che in questi momenti emergano le culture di ogni paese e comunità, e scontiamo pure che emergano gli interessi di potenza: non è questo il punto. A mancare in modo assoluto sono stati i luoghi di composizione anche conflittuale di queste culture e interessi. L’Unione Europea, poi, ha perso l’ennesima occasione. Al clamoroso ritardo iniziale, è subentrata una consapevolezza quando la crisi ha toccato i paesi del Nord Europa e comunque gli interessi economici, ma la logica intergovernativa, per di più male attuata, rallenta tuttora ogni decisione operativa in merito a un Fondo Europeo dedicato. Ancora una volta, pur dopo esitazioni e gravi parole, all’altezza della situazione è stata sinora solo la Banca Centrale Europea: non a caso interprete di una logica federale, e spinta di nuovo ai limiti del proprio ambito di legittimità dall’assenza di un’autorità federale di politica economica e fiscale. Sono, tutti questi, segnali sconfortanti per i cittadini.
Peggioramento e precarizzazione delle condizioni di lavoro. La moltiplicazione in quest’ultimo ventennio del numero di lavori precari, a tempo, orari, a cottimo, pseudo-autonomi o irregolari – in Italia 1/3 dei 21 milioni di lavoratori e lavoratrici privati/e - fa sì che la caduta della domanda si rifletta immediatamente sul lavoro, nel giro di giorni, senza negoziazione o confronto. Centinaia di migliaia di persone, dalla mattina alla sera, si sono trovate e continuano a trovarsi senza lavoro e senza reddito. All’opposto, chi governa i movimenti illimitatamente liberi dei capitali non solo è in grado di difendersi, sempre nel giro di ore, ma può cavalcare e amplificare la paura delle persone di cui gestisce i risparmi e costruire operazioni speculative alla ricerca di nuovi guadagni. E così i governi del mondo, mentre fronteggiano la crisi sanitaria e disegnano meccanismi di assistenza sociale di vaste proporzioni, devono anche distogliere testa e risorse per “inseguire i mercati”. No. Questo non è un modello di società giusto e sostenibile. 
Disuguaglianze, personali e territoriali, che influenzano anche la capacità di reagire. Disuguaglianze hanno prima di tutto caratterizzato l’impatto del virus: disuguaglianze di suscettibilità (legate alle condizioni di salute e ambientali), di esposizione (a seconda del lavoro svolto), di capacità nell’accedere alle cure. Disuguaglianze hanno riguardato la qualità di vita nelle abitazioni. E poi ci sono le disuguaglianze degli effetti economici. Una larghissima quota di persone è in povertà o rischia di cadere immediatamente in povertà, essendo priva (in Italia, almeno 10 milioni di adulti) di risparmi liquidi (depositi postali e bancari e titoli di stato a breve) necessari a reggere un periodo anche breve (tre mesi) di mancate entrate. E l’impoverimento riduce la possibilità delle persone di reagire allo shock. Sono, infine, diventati ancor più evidenti i forti divari territoriali, in termini di accesso al digitale per studenti e persone, di servizi della salute, di infrastrutturazione sociale. In Italia, essi toccano molte periferie, le aree interne, campagne deindustrializzate e vaste aree del Sud. 
      Specificità italiana n.1: forte polarizzazione delle PMI in innovatrici e vulnerabili. Nel sistema produttivo italiano, come in quello tedesco, svolgono un ruolo centrale le PMI. Capaci fino a inizio anni ottanta di combinare adattamento della tecnologia (incorporata nelle macchine acquisite) e diversificazione flessibile dell’offerta, sono state da tempo messe in difficoltà da una trasformazione tecnologica in cui l’innovazione è scorporata dalle macchine e posseduta da poche grandi imprese. Assente una politica industriale che, come in Germania, promuova l’adattamento delle PMI al cambiamento tecnologico, solo una parte di questo sistema ha retto, accrescendo la propria produttività. Il resto – almeno un terzo – sopravvive grazie a bassi salari, spesso sotto i minimi contrattuali (a causa dell’esistenza di circa 600 contratti pirata). Questa sezione del sistema produttivo, essendo priva di capacità di reazione, sia nel settore manifatturiero che nel terziario,  può oggi amplificare in modo grave o gravissimo gli effetti della crisi, con una violenta caduta della capacità produttiva e dell’occupazione. 
      Specificità italiana n.2: amministrazioni pubbliche arcaiche e trascurate e disinvestimento nella salute pubblica. La crisi ha messo in luce il generale, sistematico disinvestimento nelle amministrazioni pubbliche: il disincentivo della discrezionalità e dell’attenzione al risultato; l’eccesso di regolazione; i metodi inadeguati di reclutamento e di inserimento al lavoro; l’utilizzo improprio della valutazione; la delegittimazione del ruolo. Nel settore della sanità, le fragilità, già indi viduate dal Global Health Security Index del John Hopkins Center for Health Security (che nel 2019 illustrava i nostri ritardi, soprattutto nella rapidità di risposta a un’epidemia e nella protezione degli operatori sanitari) sono state create dall’abbattimento sistematico della spesa sanitaria pubblica, dal mancato rinnovo del personale medico e dalla dominanza del paradigma ospedaliero, con la penalizzazione dei presidi territoriali che combinino salute e servizi sociali.
      Specificità italiana n.3: un decentramento attuato male. Il decentramento dei poteri di governo realizzato con la riforma del Titolo V della Costituzione ha mostrato tutte le sue debolezze: indipendentemente dal giudizio sull’impianto normativo, a emergere sono state le falle nell’attuazione. Le tensioni ripetute fra Stato e Regioni vanno, infatti, in larga misura ricondotte all’assenza di un luogo istituzionale adeguato di ricomposizione tecnica e politica dei disaccordi: ne è segno lo stato di abbandono della Conferenza Stato-Regioni, che la Corte Costituzionale (sentenza 33/2011) individua come luogo di “intesa” nelle materie rilevanti per la crisi Covid-19 (tutela della salute, sicurezza sul lavoro e ricerca). Decisamente inadeguato si è rivelato, come già in condizioni ordinarie, il rapporto dello Stato e delle Regioni con i Comuni: a questi ultimi, spesso governati dalla parte più innovativa della classe dirigente del paese e che portano la responsabilità ultima dell’erogazione dei servizi fondamentali, non è stata in genere data la possibilità di incidere sul disegno e sulle modalità di attuazione degli interventi. Quanto all’azione dei “cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (Cost. art. 118), che pure si è manifestata con forza durante la crisi, essa ha trovato ben scarsa corrispondenza nell’azione pubblica, non attrezzata a governare processi partecipativi e non convinta del loro essenziale contributo cognitivo.
      Specificità italiana n.4: un welfare carente. Il sistema di welfare italiano è fortemente ancorato al lavoro e trascura, sul piano quantitativo e qualitativo, tutte le forme di welfare non connesse al lavoro; ma al tempo stesso esclude in realtà una parte significativa del lavoro, come è risultato manifesto con la crisi. Queste carenze trovano compensazione in un ruolo spesso ancillare della società civile che anziché integrare l’azione pubblica finisce per sostituirla, anche accettando condizioni di lavoro non dignitose.
Queste e altre deficienze sono state messe a nudo dalla crisi Covid-19 e ne hanno aggravato l’impatto economico e sociale. Ora sono sotto gli occhi di tutti noi. Ciò dovrebbe rappresentare, può rappresentare, uno sprone a cambiare rotta, utilizzando gli spazi assolutamente nuovi aperti da una crisi così grave. Ma non c’è nulla di automatico. Le cose sono più complicate di così e dobbiamo capire quali sono gli scenari alternativi che la crisi apre e cosa fare per favorire lo scenario di giustizia sociale e ambientale in cui crediamo.
Il futuro: tendenze e biforcazioni prodotte da covid19
Nonostante la grande incertezza e il susseguirsi, ogni giorno, di nuovi fatti e nuove intuizioni, dobbiamo, allora, cimentarci nella previsione delle tendenze prodotte da Covid-19 che influenzano il nostro futuro. In quasi ogni campo queste tendenze aprono biforcazioni: quale strada si prenderà a ogni biforcazione dipende dalla capacità degli individui e dei sistemi di reagire e accrescere le proprie capacità a seguito dello shock e da quali soggetti sapranno reagire con più forza, per quali interessi e per quali valori. Abbiamo qui tentato un’”eroica sintesi”, seguendo una tripartizione: mercato e società; finanza pubblica; politica e politiche.
Mercato e società: cambiamento nei comportamenti e nell’organizzazione di vita, lavoro e produzione. L’effetto immediato sarà quello di un drastico ridimensionamento della domanda e della capacità di offerta, generato dalle regole di distanziamento fisico delle persone, dal divieto di circolazione, dalla chiusura obbligatoria delle attività, dal perdurare del rischio (reale e percepito) di contagio. A questo seguiranno progressivamente altri cambiamenti legati sia a scelte imprenditoriali, sia a modifiche delle preferenze, indotte dal ridimensionamento del reddito, dai “sentimenti” suscitati dalla crisi e dal processo di apprendimento dall’esperienza. In particolare, è possibile immaginare le seguenti tendenze:
1.     Distruzione di capacità produttiva e lavoro ed erosione della competitività. La distruzione di capacità produttiva è un effetto certo della crisi. Con la ripresa delle attività, essa diverrà ancor più manifesta, colpendo sia il settore dei servizi privati (per il consumo e di intermediazione), sia una parte dei settori industriali (meccanica, tessile-abbigliamento, beni durevoli), e riducendo l’occupazione e la competitività del paese. La misura di questo fenomeno dipenderà da fattori esogeni – colti dalle tendenze di seguito descritte, a cui si aggiungono la capacità comparata di altri paesi di tornare con le loro esportazioni sul mercato internazionale e la possibile più rapida risposta della domanda asiatica - e da fattori endogeni: la capacità di reazione di tutti noi, individuale e collettiva, sociale e imprenditoriale; e la capacità delle politiche pubbliche di rimuovere ostacoli a tale reazione e di dare certezze alla società e al mercato con le proprie leve (servizi pubblici e domanda collettiva, imprese pubbliche, indirizzi strategici, welfare/fisco, finanziamenti).
2.   Minore circolazione delle persone e dei beni e rottura delle catene internazionali del valore. Il primo fenomeno potrebbe permanere nel tempo, a causa di comportamenti precauzionali o di aggiustamenti delle preferenze, e potrà avere effetti di notevole portata sulle attività culturali, turistiche e di ristorazione e della mobilità delle persone, comparti decisivi per molte aree del paese: è prevedibile, dunque, un effetto territorialmente assai differenziato. Il secondo fenomeno, che amplificherebbe un processo di cosiddetto “reshoring” già in corso per Cina e Stati Uniti, potrebbe investire in modo particolare le produzioni agro-alimentari e farmaceutiche, ma anche altri settori dove è emerso il rischio di improvvise interruzioni degli approvvigionamenti. La natura e l’entità degli effetti di questi fenomeni sui livelli di attività e di occupazione saranno influenzate dalla capacità di adattamento dell’offerta alle nuove condizioni e dalla capacità dell’azione pubblica sia di rimuovere gli ostacoli a tale adattamento, sia di promuoverlo nelle aree più marginalizzate. Si accentuerà inoltre il paradosso rispetto alla libertà assoluta (intoccata) dei movimenti di capitale, una libertà che, anche in condizioni ordinarie, non appare compatibile con la democrazia, come diffusamente argomentato nel dibattito internazionale
3.   Accelerazione del ricorso al digitale con apertura di possibili scenari assai diversi. Le pratiche di “lavoro a distanza” presumibilmente si consolideranno per attività e servizi che prima avvenivano con contiguità fisica e ricorrendo alla mobilità. L’impatto sulla qualità del lavoro e del prodotto dipenderà dal fatto se tali pratiche saranno accompagnate da modifiche nell’organizzazione del lavoro e dalla natura di tali modifiche: ne potrà allora derivare uno scenario di ulteriore frammentazione del lavoro, nuove disuguaglianze e forme di isolamento dei lavoratori/trici, ovvero uno scenario in cui cresce la responsabilità dei singoli e la coesione delle unità di lavoro. Sempre nel lavoro, il vantaggio comparato delle produzioni largamente automatizzate ne promuoverà presumibilmente la diffusione: di nuovo, ciò può tagliare l’occupazione e creare cattivi lavori di ausilio alle macchine, ovvero può migliorare le condizioni di sicurezza e dare vita a nuovi buoni lavori. Del tutto aperti sono anche gli effetti del mescolamento fra tempo di vita e di lavoro: in particolare, per le donne si possono aprire opportunità, ma possono in alternativa aggravarsi le iniquità nella ripartizione dei compiti di cura; mentre la sperimentazione di forme estreme di invasività del lavoro nel contesto domestico potrà (o potrà non) fare emergere un diritto alla disconnessione. Più in generale, la crisi ha accelerato il ricorso al digitale in tutti i campi, con effetti potenziali non univoci sulle disuguaglianze: dalla tracciabilità sistematica delle persone (dipende da chi controlla le informazioni e dall’utilità e verificabilità del loro uso), all’impiego nell’organizzazione sanitaria e nello sviluppo dei vaccini; dal ricorso alla rete come strumento integrativo dell’”insegnamento in presenza” (dipende dall’uguaglianza nell’accesso e nella capacità di fruizione), allo sviluppo di nuovi rapporti mutualistici; fino all’impiego per identificare i beneficiari di interventi di protezione sociale e per accelerare i versamenti (purché ne siano inibiti altri usi a fini di sorveglianza dei comportamenti sociali). Su ogni biforcazione peseranno le decisioni pubbliche e l’azione collettiva. Ma c’è altro.
4.     Aumento del potere e della capacità di disintermediazione e re-intermediazione delle 7 “sorelle digitali”. A essere posizionate per trarre immediati e forti vantaggi dall’accelerazione della digitalizzazione e per indirizzarla, a ogni biforcazione, ad un’ulteriore concentrazione di conoscenza, potere e ricchezza, sono le sette mega-imprese digitali e le altre grandi imprese del settore. Esse hanno ora l’opportunità di accrescere ulteriormente il potere di disintermediare e re-intermediare lo scambio in moltissimi mercati (trasporto di persone e merci, cultura, turismo, informazione, credito, ecc.), raccogliendo e trattando dati attraverso le loro piattaforme digitali. Mescolando indifferenza di fronte ai Parlamenti e paternalismo solidale, questi soggetti saranno i principali sostenitori di uno scenario in cui venga ripreso e accelerato il modello di sviluppo in atto prima di Covid-19, sostenendo che il processo di digitalizzazione è sostanzialmente univoco – “non ci sono alternative, c’è poco da discutere, o si è contro la scienza o a favore”. Eppure, se queste grandi imprese saranno fronteggiati da una diffusa consapevolezza, da azioni collettive e da una robusta azione pubblica a livello europeo e nazionale, le scelte a ogni biforcazione potranno essere diverse e la società potrà piegare gradualmente il loro sapere a interessi collettivi e di giustizia sociale.
5.     Consapevolezza del ruolo dei “lavori materiali” e delle interdipendenze dell’economia. L’enfasi sulle “attività essenziali”, necessarie alla produzione dei beni e dei servizi necessari per la nostra vita quotidiana ha reso visibili tanti lavori materiali che avevamo cessato di “riconoscere”: questo riconoscimento dei lavori materiali potrebbe restituire loro forza negoziale e rendere l’intera società più sensibile alle profonde e non giustificabili disuguaglianze nella divisione del lavoro, fondate non sulla natura essenziale del contributo ma sulla sua sostituibilità. Allo stesso tempo, l’accresciuta consapevolezza della circolarità e delle interdipendenze del processo produttivo potrà lasciare il segno nel tornare ad avvertire l’importanza dell’intera filiera produttiva delle imprese e del lavoro e della loro continua interazione con l’ambiente. Con effetti su comportamenti e preferenze
6.   Modifica delle preferenze a favore di servizi fondamentali e di prodotti di prossimità. Molteplici fattori concorrono a tale modifica, creando nuove opportunità di produzione e lavoro: la consapevolezza dei bisogni essenziali maturata nelle settimane di vita sotto costrizione; l’esperienza in “comunità strette” e il bisogno di cura legato alla sofferenza personale di queste settimane e all’ansia per il futuro; il desiderio di cautelarsi a fronte di simili o peggiori contingenze, in particolare nella salvaguardia della salute e dell’integrità fisica, nell’approvvigionamento alimentare ed energetico, nella copertura digitale, nella programmazione del proprio tempo libero e nel rapporto con l’ambiente circostante. Queste mutate preferenze potranno impattare su molteplici settori di attività, spesso con attenzione alla prossimità della produzione: servizi di cura e assistenza alle persone, istruzione/formazione, intrattenimento, cultura, beni alimentari prodotti da filiere corte, turismo di prossimità e rarefatto, auto-produzione di energia elettrica, qualità abitativa, etc. Dalla capacità di rendere pagante questa nuova domanda e di rimuovere gli ostacoli e dare certezze all’imprenditorialità privata e sociale e all’auto-organizzazione in questi campi dipenderà l’impatto delle mutate preferenze sulla capacità produttiva, sul lavoro, sulle disuguaglianze.
7.   Rilegittimazione schizofrenica di ciò che è “pubblico”. L’azione straordinaria del personale medico pubblico, il ruolo e l’inventiva degli insegnanti, l’azione diffusa di monitoraggio delle forze dell’ordine, la necessità che sia assicurato il rispetto universale di regole di comportamento, l’attesa e poi il materializzarsi di una tutela finanziaria pubblica a persone e imprese, l’attesa di strumenti pubblici che effettuino il monitoraggio della diffusione o di possibili nuovi focolai del virus, l’attesa che lo Stato assicuri un’ordinata, universale e gratuita somministrazione del vaccino appena sia possibile, l’attesa di un’azione pubblica che rilanci lo sviluppo: improvvisamente, “pubblico” è divenuta una parola invocata da tutti, anche da chi la disprezzava. Emerge qui la schizofrenia fra il bisogno di “pubblico” e la sfiducia nelle amministrazioni pubbliche: quasi un matrimonio forzoso che queste settimane hanno costretto a celebrare. Ecco dunque che questa rilegittimazione del “pubblico” si presta a diverse evoluzioni, che segnano i tre scenari politici già accennati prima. Per molti si tratta di una situazione di necessità, un “settore pubblico a gettone”, che faccia poi presto un passo indietro nella sua capacità di autonoma iniziativa. Altri, colpiti dalle tensioni fra Regioni e Stato e dalla percezione di frammentazione nell’azione pubblica sul fronte economico e sociale, sono attratti dall’idea di una centralizzazione semplificatrice e autoritaria (se non può essere autorevole) dell’azione pubblica. Altri ancora, osservando i risultati migliori ottenuti dove il “pubblico” sa aprire le proprie decisioni al confronto con il lavoro, la società civile e le imprese, auspicano una diffusione sistematica di questo metodo e ritengono indispensabile investire per un deciso miglioramento della qualità delle amministrazioni pubbliche che tramuti la rilegittimazione di queste settimane in un rinnovato patto fiduciario fra cittadini e “pubblico”. È la triforcazione politica su cui torniamo
8.     Caduta del PIL, distribuzione di questa caduta e indurimento delle disuguaglianze. La caduta del PIL rappresenta l’inevitabile sintesi monetaria delle precedenti tendenze. L’entità e persistenza di questa caduta dipenderanno anche dalla qualità delle scelte politiche di breve- medio termine, a cominciare dall’universalità (o meno) degli interventi di tutela sociale e dall’efficacia (o meno) degli interventi di garanzia della liquidità alle imprese, e dalla capacità di compiere scelte strategiche come quelle che più avanti suggeriamo. Comunque vadano le cose, è certo che il nostro PIL, come quello di tutti gli altri paesi, si riposizionerà a un livello assai più basso del pre-Covid-19; come avviene a esito di un conflitto bellico, ma senza la certezza che il conflitto sia terminato. E diventa allora decisivo come questa caduta di PIL si distribuirà. La storia delle crisi passate non ci aiuta a prevederlo, ma ci dice che l’impatto distributivo dipende dalle politiche adottate. Sta allora a politica e politiche agire per evitare un aumento delle disuguaglianze: per un senso evidente di giustizia, per la tenuta sociale e democratica del paese, per scongiurare che la criminalità organizzata si presenti per molti come la sola soluzione. Infatti, né i milioni di poveri, né gli altri milioni di persone senza risparmio precauzionale, ma neppure una parte significativa della metà meno ricca degli adulti possono sopportare una caduta concentrata (e neppure proporzionale alla media) sulle proprie spalle. Ne deriverebbero un indurimento della povertà, un aumento della dispersione scolastica, un deterioramento delle relazioni famigliari, soprattutto nei contesti di arretratezza e sovraffollamento. Siamo dunque sfidati a trovare metodi per redistribuire la perdita, vuoi all’interno dei processi produttivi (a cominciare da una riduzione dell’orario di lavoro), vuoi a valle di essi, attraverso una redistribuzione fiscale. Il che ci porta alla seconda dimensione del futuro.
Finanza pubblica. Chi pagherà? Alle spese per la tutela si aggiungeranno quelle che deriveranno dalla garanzia pubblica ai prestiti bancari alle imprese, indispensabili per evitare il collasso di molte di esse; e le spese che verranno sostenute per il rilancio economico e sociale. L’onere di queste spese sarebbe tanto minore quanto più esse fossero coperte da strumenti finanziari emessi dall’Unione Europea – da qui l’importanza della battaglia che l’Italia sta conducendo in questa direzione - e da un’efficace programmazione dei fondi comunitari. Ma in ogni caso, vi sarà un aumento del debito pubblico, a partire dai nostri già assai elevati livelli, e vi saranno scelte fiscali da compiere: “chi pagherà?” Anche immaginando un’evoluzione ordinata delle cose, in cui il nostro maggiore debito pubblico dovuto agli interventi emergenziali sia assorbito dai mercati grazie soprattutto all’azione della Banca Centrale Europea, è evidente che la ripresa dello sviluppo e il rinnovamento dei sistemi di protezione sociale, per affrontare sia l’ordinarietà sia futuri altri shock, richiederanno nuove spese e che queste dovranno essere finanziate da maggiori entrate. Chi provvederà queste maggiori entrate in un paese segnato da fortissime disuguaglianze di reddito e ricchezza (il 50% meno ricco degli adulti possiede il 3% della ricchezza personale netta, i 5.000 più ricchi il 7%) e da iniquità orizzontali del sistema impositivo? Come non redistribuire con equità i miliardi di sconti fiscali ai contribuenti accumulatisi nel tempo? Come non porre il massimo impegno a recuperare quel centinaio di miliardi che, secondo il Ministero Economia, sfugge al fisco, chiamando alle proprie responsabilità chi oggi usa il sistema sanitario nazionale e non ha pagato le imposte? Come migliorare rapidamente la base informativa sulla distribuzione dei redditi e della ricchezza? Come disegnare un’eventuale imposta di solidarietà mirata a una migliore protezione sociale? E ancora: come tenere conto del forte divario fra chi in questa fase vedrà cadere i propri profitti e chi li vedrà crescere, come nel settore digitale? E fra chi vedrà erodersi i propri esigui risparmi e chi li vedrà aumentare? Le risposte a queste e simili domande segnerà fortemente le future tendenze. Ancor più se una nuova diffusione del virus costringesse dall’autunno a rinnovare i divieti e divenissero necessarie misure più impegnative per garantire a tutta la popolazione servizi e beni essenziali.
Politica e politiche. Tre scenari. Ogni crisi, e questa crisi più ancora di altre, favorisce il cambiamento. Ma la direzione del cambiamento non è segnata. “Decisioni che in tempi normali richiederebbero anni per essere prese – scrive Yuval Noah Harari - sono approvate nel giro di ore. Tecnologie immature e anche pericolose sono messe di corsa al lavoro perché il rischio di non farlo è più grande. Interi paesi diventano cavie di esperimenti sociali in larga scala”. Ma ovunque, come visto, si aprono biforcazioni. Si può muovere – prosegue Harari – verso una sorveglianza totalitaria oppure più poteri ai cittadini e, in parallelo, verso un isolamento nazionalista oppure una solidarietà globale. E ancora – aggiungiamo noi – verso un’ulteriore frammentazione del lavoro oppure la ricostruzione di una sua unitarietà lungo le filiere produttive. Di fronte a queste e altre opzioni aperte dal cambiamento, la politica e le politiche hanno diverse possibilità. Che noi riassumiamo, come anticipato, in una triforcazione: tre diverse opzioni che si contenderanno l’egemonia nel prossimo futuro:
ü Opzione 1: Normalità e progresso
 In molti di noi, anche in chi “prima” stava male, esiste una pulsione istintiva e ragionevole a tornare a quel “prima”, perché oggi stiamo peggio. Da qui a considerare il “prima” come “normalità” il passo è lungo assai, ma a cercare di farcelo compiere agirà la pressione culturale di una larga parte delle classi dirigenti, politiche ed economiche, che già sono in azione. Convinte che non vi sia alternativa al disegno neoliberale dell’ultimo quarantennio, o interessate a sostenere e realizzare questa tesi, esse proporranno come obiettivo il ritorno alla normalità perduta, sostenendo che ogni altra strada è vana. Alzeranno la bandiera della riduzione delle disuguaglianze – come non farlo? – ma le affronteranno con strumenti di mera compensazione, mentre torneranno a proporre: pseudo-semplificazioni fatte di standard uniformi e bandi di progetto in assenza di visioni strategiche; ulteriore inibizione sia della  discrezionalità  delle amministrazioni pubbliche nell’adattare servizi e interventi ai contesti territoriali, sia delle forme di partecipazione civica e del lavoro; scaricamento su famiglia e “terzo settore” del ruolo ultimo di ammortizzatore sociale; ulteriore flessibilità del mercato del lavoro; digitalizzazione dei servizi e delle produzioni, come fine in sé, come se le scelte fossero univoche; una visione patrimonialista dell’impresa, che svuotando gli obiettivi mondiali dello sviluppo sostenibile, è sostanzialmente ignara degli altri stakeholders (lavoro, ambiente) e incoraggia il parassitismo contro l’imprenditorialità
ü Opzione 2: Sicurezza e identità
La crisi ha creato un forte bisogno di sicurezza e di decisioni forti e sanzionate, ha rinnovato insofferenze e pregiudizi etnici (anche verso noi Italiani, alimentando il “vittimismo” storico del nostro paese), ha rinforzato il sospetto verso globalizzazione (avvicinamento di cose e persone) e cosmopolitismo, ha reso accettabili significative restrizioni della libertà, ha mostrato un’Unione europea assai lontana. Inoltre, agli occhi di molti, l’esercizio di forti poteri autoritari potrà apparire più efficace dei processi democratici, specialmente quando la collaborazione fra livelli di governo è stata insoddisfacente. L’attrazione dell’opzione autoritaria sarà ulteriormente rafforzata se lo Stato fallirà nel tutelare le persone più vulnerabili dagli effetti economici della crisi. La possiamo immaginare accompagnata da un’invocazione di “purezza identitaria” o addirittura da messaggi di “palingenesi”, l’invocazione di un futuro migliore che è in realtà il ritorno a un mitizzato stato originario. Quanto alla rilegittimazione di ciò che è “pubblico”, avvenuta in queste settimane, essa verrebbe trasformata nel sostegno a un potere centrale autoritario presentato come capace di aderire tempestivamente, senza bilanciamenti istituzionali, ai bisogni e alla volontà delle persone.
ü Opzione 3: Giustizia sociale e ambientale
 Nel mescolarsi di sentimenti e di pratiche nelle lunghe settimane di crisi sono emerse pulsioni e azioni di solidarietà, in particolare nelle comunità territoriali. È tornato visibile il ruolo di lavoratori e lavoratrici grazie ai quali e alle quali quale possiamo mangiare e accendere la luce. È emerso il ruolo delle organizzazioni di cittadinanza attiva e di forme di auto-organizzazione, capaci di affiancare i più vulnerabili, di dare loro voce e in alcuni casi di avanzare proposte e di mobilitare supporto attorno a esse. Sono emersi i bisogni essenziali. Da questi segni può venire la spinta per dare corpo a un cambio di rotta, un progetto di emancipazione in cui: il lavoro ritrova dignità e spazi di partecipazione strategica; l’imprenditorialità produttiva, innata nel nostro paese, vede rimossi gli ostacoli a nuovi progetti adatti al mutato contesto e si riprende spazi contro la rendita parassitaria; chiunque vive in Italia può fare pesare le proprie conoscenze e preferenze sulle pubbliche decisioni, territorio per territorio, anche attraverso un uso appropriato del digitale; le donne vedono presa in considerazione la loro prospettiva nei processi decisionali; vengono intaccate le cause della crisi generazionale;; il welfare e lo sviluppo economico si ricompongono a livello delle comunità; e il “pubblico” svolge un ruolo strategico ma non invasivo, attraverso le proprie imprese pubbliche e attraverso amministrazioni pubbliche a cui vengono ridate una missione e nuove risorse umane.  A seconda di quale opzione prevarrà si rafforzeranno o indeboliranno alcune tendenze anziché altre e a ogni biforcazione si prenderà l’una o l’altra strada. E lungo la strada potranno prodursi compromessi, ad esempio fra le prime due opzioni, una sorta di “neoliberismo autoritario”, come già si profilava prima della crisi.
Visione, proposte e mobilitazione
Affinché l’opzione della giustizia sociale e ambientale possa sfidare con successo le altre due opzioni, servono tre requisiti: una visione del futuro che parli ai sentimenti; proposte operative con obiettivi verificabili; una mobilitazione organizzata. Sono tre requisiti che proviamo a sperimentare nel lavoro che portiamo avanti anche in queste settimane e che discutiamo in profondità nel volume “Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale”, che uscirà il 28 maggio per il Mulino. Soffermiamoci un momento su questi tre requisiti.
Visione del futuro. Una strategia di cambiamento deve tradursi in una visione del futuro che dia speranza e sia convincente. Servono obiettivi che parlino ai sentimenti delle persone, sentimenti che la sofferenza e l’ansia della crisi hanno reso più suscettibili. È qui che si apre la forbice fra le tre opzioni politiche che abbiamo prospettato. Ai sentimenti oggi prevalenti, i sostenitori dell’opzione “normalità e progresso” si rivolgeranno presumibilmente senza particolari appelli, ma contando sul senso comune di questo quarantennio. Qualcosa tipo: “il meglio a cui possiamo aspirare è di tornare alla normalità di prima, correggendone con più impegno le imperfezioni che hanno prodotto tante dolorose disuguaglianze, ma evitando che il ruolo dello Stato richiesto dalla crisi assuma natura permanente, rimettendo al centro mercato, merito e libera iniziativa – nel significato mortificato che questa cultura assegna a tali importanti termini - e sfruttando il cambiamento tecnologico che la crisi ha accelerato e i suoi ineluttabili effetti. Non andate dietro a chi vi spinge a credere in cambiamenti radicali; a volte sono brave persone, ma non hanno i piedi piantati nella realtà, quando parlano di «partecipazione» o di «giustizia sociale». Oppure hanno i piedi piantati nel vecchio statalismo del ‘900. Comunque sia, ad ascoltarli son dolori”. Un messaggio semplice, non emozionante, ma di una “sconsolata rassicurazione”. Soprattutto se accompagnato dall’invocazione e dalla minaccia del “giudizio dei mercati” e della “fine della politica” e da sussidi a singole categorie per placare le tensioni sociali. Più incalzante, spregiudicato e vocale ci immaginiamo il messaggio di chi cavalca la dinamica autoritaria puntando su “sicurezza e identità”. Qualcosa tipo: “la colpa ultima delle grandi sofferenze umane e sociali subite sta nella penetrabilità dei nostri confini e nell’inquinamento delle nostre società frutto della sistematica disattenzione per il popolo e – forse qualcuno aggiungerà - della violazione delle leggi naturali che ci tenevano separati. È una deriva aggravata dall’eccessivo decentramento dei poteri di governo e dalla pletora dei luoghi di partecipazione e decisione e dalla fiducia riposta nell’Unione Europea, di cui rischiamo di essere vittima. La crisi – concluderanno - è l’ultimo avvertimento, l’ultima occasione per tornare a rinsaldarci nelle nostre comunità, per tutelare la nostra unità e la nostra identità, per tornare a ciò che siamo, e per affidarci alla protezione e alla garanzia di sicurezza – leggi: sorveglianza – da parte di poteri forti, indiscussi e stabili, di uno Stato centrale che prenda decisioni rapidamente e per tutti”. Una palingenesi, appunto, tutta giocata sul piano identitario e magari accompagnata dalla promessa di forti trasferimenti compensativi ai più vulnerabili. Una prospettiva che incontra, forse, un ostacolo nella tenuta e negli umori del sistema delle imprese: come convincere questo sistema che l’uscita dall’Unione Monetaria e il ritorno alle svalutazioni competitive siano credibili e sostenibili?  A questi due messaggi e al rischio concreto, già evidente prima del Covid-19, che essi trovino un compromesso, chi ritiene che il susseguirsi di crisi e il cumularsi di ingiustizie possano essere contrastati governando in modo diverso capitalismo e società, chi mette al centro del futuro e dello sviluppo la “giustizia sociale e ambientale”, potrà dire qualcosa tipo: “la responsabilità del susseguirsi di sofferenze umane e sociali e dell’incapacità di prevenirle e fronteggiarle, sta nel fatto che anziché guidare in modo collettivo il cambiamento tecnologico e l’apertura alla diversità che è insita nella nostra umanità, abbiamo lasciato tutto nelle mani di pochi: nascondendosi dietro la tecnica, essi hanno chiuso gli spazi di partecipazione per le persone e per lavoratrici e lavoratori, mortificato il ruolo di indirizzo e di redistribuzione dello Stato democratico, indebolito i servizi fondamentali, squilibrato il potere a favore di chi controlla conoscenza e capitali, depoliticizzato gli organismi internazionali, bloccato lo sviluppo di un’Unione Europea federale. La crisi Covid-19 conferma questa diagnosi e mostra che i caposaldi a cui ci rivolgiamo sono al dunque le istituzioni pubbliche, il senso di solidarietà all’interno di ogni comunità, la nostra capacità di auto-organizzazione e mutualismo. Questi caposaldi possono e devono essere usati per mirare a lavori stabili e di qualità, a una libera circolazione della conoscenza, a filiere energetiche e alimentari pulite e di prossimità, al rilancio delle PMI basato su creatività e innovazione, ad abitazioni dignitose e sicure, a servizi fondamentali a misura dei luoghi, a un riequilibrio nel rapporto fra i generi, a diritti uguali a chiunque vive nel nostro paese, ad una vita in sintonia con l’ecosistema. E ad un «pubblico» competente e rinnovato, non invasivo e «anti-statalista», capace di dare certezze e indirizzi e poi di adattarli, luogo per luogo, a misura delle persone e dei contesti. Sono obiettivi alla nostra portata. Assieme, possiamo raggiungerli”.
Proposte operative con obiettivi verificabili. La visione prende corpo e diviene credibile se si accompagna a proposte che abbiano obiettivi verificabili, attorno alle quali si confrontino e si raggrumino le forze pronte al cambiamento. Noi del ForumDD partiamo dalle proposte che abbiamo costruito un anno fa e su cui abbiamo continuato a lavorare. Proposte che mirano a riequilibrare i poteri, a orientare lo sviluppo alla giustizia sociale e ambientale, puntando su un modo diverso di amministrare fondato sulla partecipazione del lavoro e della cittadinanza. E da lì andiamo oltre. Prima di presentare queste proposte, soffermiamoci sul terzo requisito, la mobilitazione organizzata, che è necessaria per farle camminare.
Mobilitazione organizzata. Non è nostro compito immaginare il “soggetto politico” che possa raccogliere il fermento politico e sociale esistente e dargli struttura, organizzazione e capacità di mobilitazione. Ma intravediamo con Pierre Rosanvallon che il fermento sociale e politico di cui siamo parte con altre alleanze esistenti e in fieri è parte – può essere pensato come parte – di un popolo sociale in formazione: un popolo che, affiancandosi al popolo numerico (quello delle elezioni) e un popolo dei principi (quello della Costituzione), “esiste attraverso rivendicazioni legate ai conflitti, attraverso la formazione di comunità di prova, a partire da pezzi di storia vissuti in comune» oltre che attraverso «quell’opinione indistinta e confusa che esiste attraverso Internet». Si può così rinnovare la democrazia, mettendo «in discussione in maniera permanente ciò che è oggetto di decisioni pubbliche» e mirando a «un’interazione permanente tra potere e società», attorno a «una parola: giustizia».  Come possa realizzarsi questa “interazione permanente tra potere e società”, fra partiti che condividano il progetto di emancipazione e il “popolo sociale in formazione” è questione a cui non diamo risposta, ma che riproponiamo nell’indicare più avanti l’obiet tivo del rinnovamento dei gruppi dirigenti del paese. Ma una cosa è certa. La forza del nostro modo di lavorare, della costruzione di alleanze fra saperi diversi, della ricerca e della cittadinanza attiva, sta nella capacità di costruire, come scrive Chantal Mouffe, «un’equivalenza fra una molteplicità di domande eterogenee in modo che venga preservata la differenziazione interna all’insieme». Il riferimento è qui alle molteplici aspirazioni – legate alla classe, al genere, al contesto territoriale, alla generazione, ecc. – sulla cui difficoltà di rappresentazione congiunta si era arenato il progetto di emancipazione a fine anni ’70. “Ciò che conta è come queste diverse aspirazioni e domande-offerte di azione politica vengono articolate; come si alleano nel confronto e nel conflitto necessari per cambiare le cose. In questo modo la «frontiera politica» fra «noi» e loro» cessa di riguardare, come nel progetto autoritario, un’isolata e fittizia radice identitaria, e si trasforma in una strategia di cambiamento che avrà i suoi avversari in chi non vuole cambiare. È la strategia che diviene il discrimine, non pregiudiziali e ingiustificabili muri identitari.” (nostra sottolineatura). Questa è la sintesi che nel volume sopra citato per Il Mulino abbiamo dato dei processi sociali e politici in atto. La crisi Covid-19 ha messo alla prova questo tessuto e tutte le forme di azione politica che ne fanno parte, riproponendo, nei modi esasperati tipici di una crisi, i punti di forza e i rischi. Ha mostrato il ruolo essenziale delle organizzazioni di cittadinanza attiva e delle molteplici forme di auto-organizzazione: decisive nello stare accanto ai più vulnerabili, nel provvedere ai loro bisogni, ma anche nel tradurre queste esperienze e conoscenze in ipotesi di sistema per affrontare la crisi, a partire dall’esperienza a contatto diretto con situazioni e bisogni, e con l’attuazione concreta dei provvedimenti adottati. Ma al tempo stesso, con la crisi sono riemersi: sia il rischio di un ruolo meramente ancillare di quelle organizzazioni, che sostituisca la doverosa azione pubblica e divenga catena di distribuzione di decisioni già prese; sia una loro sostanziale esclusione dai luoghi di elaborazione delle strategie, con eccezioni solo in alcuni contesti locali in cui esistono spazi organizzati di confronto. Il tutto aggravato dall’impossibilità di dimostrare democraticamente nelle strade e nelle piazze. Ecco, dunque, che il tema della “mobilitazione organizzata” torna come centrale e irrisolto, sfidando tutti a un salto di qualità.
Sette cose da fare subito
A indirizzare e dare concretezza a tutte le proposte è la bussola delle disuguaglianze e delle diversità, ossia delle disuguaglianze nell’espressione delle nostre diverse persone: disuguaglianze economiche (di reddito, ricchezza e lavoro), nell’accesso e nella qualità dei servizi fondamentali, e di riconoscimento (del nostro valore come persone). Sono le disuguaglianze che hanno esasperato e differenziato gli effetti della crisi, e che la crisi ora accresce. Per affrontarle, per realizzare il cambio di rotta che abbiamo in animo, bisogna prima di tutto fare scelte giuste nel breve termine e nel periodo che viene subito dopo, il medio termine, ossia l’incerto e graduale (e forse con soste e passi indietro) periodo di ripresa della vita ordinaria e delle attività, quando si inizieranno a manifestare le tendenze che abbiamo prefigurato. E’ necessario dare alle persone e alle imprese i mezzi finanziari a loro misura, per riprogrammare il futuro, assicurare informazioni robuste, tempestive e aperte, garantire che il permanere della necessaria “distanza fisica” avvenga con il minimo di “distanza sociale”, assicurare a tale scopo che i necessari indirizzi unitari nazionali (relativi alla ripresa di attività, alla scuola, alla mobilità) possano essere attuati territorio per territorio (a livello comunale, sub-comunale o di alleanze comunali) a misura dei contesti, attraverso un confronto informato che coinvolga lavoro, cittadinanza e imprese. Questi tre principi si traducono nelle seguenti sette linee di azione:
1.   Una protezione sociale per tutte le persone a misura delle persone, realizzata usando gli strumenti esistenti: lo insegna l’esperienza internazionale, lo suggerisce il buon senso. E dunque (come da proposta ForumDD-ASviS): a) sviluppo della tutela agli autonomi, utilmente introdotta dal governo nel decreto “Cura Italia”, legando l’importo del trasferimento all’attività perduta e al reddito famigliare, b) reddito di emergenza a 6-7 milioni di lavoratori (di cui metà regolari a tempo determinato o a chiamata – al meglio tutelati solo fino a scadenza di contratto - il resto irregolari) che il decreto lasciava scoperti, usando il Reddito di Cittadinanza come infrastruttura a cui apportare modifiche che garantiscano inclusione e tempestività. Questo secondo provvedimento raggiunge anche i lavoratori migranti, per i quali il ForumDD ha comunque chiesto una generalizzata concessione del permesso di soggiorno, utilizzando la previsione normativa esistente: sarebbe un passo verso la costruzione di una cittadinanza inclusiva per chi migra in Italia. L’estensione del provvedimento ai milioni di lavoratori “in nero” – in larga misura impossibilitati a svolgere ogni lavoro - non è solo un atto dovuto di giustizia che darebbe loro la tranquillità per vivere il presente e riprogrammare la vita non cadendo preda dell’usura e della criminalità, ma è anche l’occasione per lo Stato di stabilire con loro un contatto che, con l’aiuto delle organizzazioni di cittadinanza attiva, possa avviare la costruzione di percorsi di regolarizzazione e di graduale accesso ai nuovi lavori che potrebbero emergere dalla crisi, costruendo un rapporto di reciproca fiducia.
2.   Miglioramento e garanzie delle informazioni su contagi e tracciamento. È urgente l’avvio di un monitoraggio campionario dei contagi che raccolga non solo dati anagrafici ma anche di reddito e istruzione e che consenta di configurare e poi di verificare scenari alternativi sul prosieguo della pandemia. Quanto all’eventuale introduzione di sistemi di tracciabilità, essi dovranno essere rispettosi di precisi requisiti, a tutela dei diritti personali e tali da elevare la fiducia nel sistema: volontarietà, memorizzazione dei dati decentralizzata e comunque con eventuale trasmissione solo di chiavi anonime, e soprattutto chiara e convincente indicazione dell’uso che verrà fatto dei dati raccolti e di come ne verrà valutata l’efficacia, escludendo ogni utilizzo non programmato. In coerenza con il “diritto a un intervento umano”, sancito dal Regolamento europeo (art.22), la responsabilità ultima nell’indirizzare e rassicurare le persone dovrà restare affidata al personale sanitario.
3.    Un programma di ripresa delle attività a misura dei territori e dei contesti. Una volta stabiliti indirizzi generali, la ripresa delle attività dovrebbe essere attuata territorio per territorio attraverso una governance condivisa fra imprese, lavoro e governi locali, accompagnata da forti investimenti nella sicurezza e dal rafforzamento dei sistemi ispettivi INAIL, con il reclutamento di nuovo personale. Il confronto territoriale è la strada per non scaricare sui singoli imprenditori la responsabilità della riapertura e per assicurare che essa abbia luogo con l’adozione di misure di sicurezza di utilità permanente e da sostenere con risorse pubbliche. La stessa metodologia, integrata dalla partecipazione delle organizzazioni di cittadinanza, dovrebbe accompagnare i piani per adattare alla ripresa il disegno della mobilità, privata e pubblica.
4.   Un programma di ripresa dell’attività scolastica a misura della diversità dei territori e dei contesti.  Il tema della ripresa dell’attività scolastica non è un’appendice del tema della ripresa delle attività produttive, né per la fascia 0-6 – troppo spesso trattata nelle discussioni come un parcheggio per bimbe e bimbi di chi lavora – né per le fasce più elevate. L’obiettivo primario è viceversa che le già elevate disuguaglianze, nell’accesso e nella qualità, non si amplino ancora: per i divari di efficacia dell’insegnamento a distanza (quando possibile), per l’induzione all’abbandono della scuola che questo periodo di distacco può generare come effetto nei più vulnerabili. In relazione alle condizioni territoriali assai diverse del contagio e dell’effettiva disponibilità di spazi alternativi alle aule (fra quartieri, fra città e fra aree urbane e rurali), sono auspicabili indirizzi generali nazionali che possano essere attuati territorio per territorio attraverso un confronto e una responsabilità collettiva che, oltre alla scuola e al Comune, coinvolga le altre istituzioni pubbliche e private del territorio e la società civile.
5.   Credito agevolato e trasferimenti per evitare il collasso della capacità produttiva e orientare la ripresa. I provvedimenti volti a garantire liquidità alle imprese devono contenere misure che consentano anche alle PMI l’assunzione di prestiti aggiuntivi, per salvaguardare il loro potenziale produttivo e i livelli di occupazione e di reddito. Per tale ragione, non può certo trattarsi della sostituzione dei prestiti esistenti, così come tali interventi non devono risolversi in operazioni quali il riacquisto delle azioni, il pagamento di dividendi o stock option manageriali: il paese deve essere certo di aiutare l’imprenditorialità produttiva, non il parassitismo. Il massiccio e necessario sostegno pubblico alle imprese dovrebbe essere accompagnato da un patto tra impresa e società, facendo in modo che la ripresa dell’attività sia indirizzata a obiettivi di sviluppo sostenibile, con ricadute ambientali e sociali positive (da un’organizzazione del lavoro che rispetti la dignità del lavoro all’impegno per ridurre gli impatti ambientali negativi). Un rinnovamento manageriale, necessario nella parte più debole del sistema delle PMI, potrebbe accompagnare e favorire la ripresa
6.   Un sostegno finanziario alle organizzazioni di cittadinanza attiva, sulla base della qualità dell’azione passata (metodo dei “premi”, previsto dalla politica di coesione europea) per permettere che esse adattino alle nuove condizioni i loro interventi a favore dei più vulnerabili, dei poveri, dei migranti, delle donne messe in particolare difficoltà dalle misure adottate, e che sviluppino il lavoro di ricerca, monitoraggio e proposta e advocacy per la riduzione delle disuguaglianze e la giustizia ambientale. In coerenza con il ruolo di “sussidiarietà” previsto dalla Costituzione (art.118), le organizzazioni di cittadinanza attiva possono svolgere ora e in prospettiva non solo un’azione sussidiaria importante di supporto e adattamento dei servizi pubblici territoriali, ma anche un ruolo importante di intercettazione di condizioni di bisogno e di ricostruzione di un rapporto con una parte significativa del lavoro informale e irregolare, specie se esso sarà raggiunto dalla misura del reddito di emergenza (cfr. punto 1). E devono essere messe in condizioni di contribuire, con le loro conoscenze, alla migliore definizione delle misure di intervento.
7.   Contrasto e redistribuzione degli effetti della caduta di capacità produttiva. Per quanto efficaci siano i provvedimenti di fornitura di liquidità, è inevitabile che nelle prossime settimane e mesi a una quota significativa del sistema delle imprese, specie quelle colte dalla crisi in condizione di alta vulnerabilità, vengano a mancare i mezzi e le prospettive economiche per proseguire l’attività. Di fronte a questa prospettiva, non esiste una soluzione unica da adottare, ma è possibile promuovere a livello nazionale e attuare a livello territoriale uno o più dei seguenti strumenti:
a       Una riduzione dell’orario di lavoro che consenta il riassorbimento di una parte del lavoro delle imprese che hanno chiuso nelle imprese che restano in attività, attraverso un ricorso diffuso ai “contratti di solidarietà” o in altre forme. Si tratta di una soluzione particolarmente adatta nei numerosi distretti industriali del paese, relativamente omogenei nelle attività svolte e nelle competenze necessarie.
b       Il ricorso, quando ve ne siano le condizioni, ai Workers Buyout, per cui i lavoratori dell’azienda in difficoltà acquisiscono la proprietà dell’impresa, attraverso la formazione di una cooperativa, anche grazie all’impiego dei trasferimenti pubblici che avrebbero ricevuto in caso di fallimento e di un intervento finanziario pubblico.
c  Ruolo della Cassa Depositi e Prestiti come “banca di sviluppo”, sia utilizzando il ruolo di partner nel capitale sociale per promuovere il rinnovamento del management delle imprese e la soddisfazione di requisiti in termini ambientali e sociali, sia finanziando la transizione energetica dei distretti produttivi anche attraverso l’emissione di titoli appositi.
Queste misure andrebbero integrate nel caso in cui ritorni nella diffusione del virus costringessero dall’autunno e per molti mesi a rinnovare i provvedimenti di divieto. In questo caso, si dovrà immaginare un dispositivo di solidarietà che, senza ulteriore accumulo di debito pubblico, redistribuisca temporaneamente i redditi da chi ne ha in eccesso a chi ne ha in difetto rispetto a quanto necessario per sostenere le spese essenziali di vita (per alimentazione, elettricità, acqua, gas, affitto/mutuo).

N.B. = Il documento prosegue ulteriormente con una ampia sezione dedicata a “Cinque obiettivi strategici per un mondo diverso” che qui non riproduciamo per non appesantire ulteriormente la lettura. Il Documento nella sua interezza è comunque visionabile cliccando sul seguente link:
Documento Forum Disuguaglianze

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