Il seguente articolo, segnalato da Antonietta Fonnesu, presenta un importante punto della situazione del complesso studio dei meccanismi biologici del cvd19. Un aspetto decisivo per comprendere e neutralizzare il più possibile, i meccanismi attraverso i quali il virus si evolve ed aggredisce le altre forme di vita. Si evince che, lungi dall’aver risolto tutte le complesse questioni, alcuni significativi passi in avanti si stanno facendo.
Identikit di un assassino:
i complessi meccanismi biologici di SARS-CoV-2
Articolo di David Cyranovski – Rivista Le Scienze (Nature ed orig.))
Ricercatori di tutto il mondo stanno
lavorando per ricomporre, pezzo per pezzo, il puzzle del virus alla base della
pandemia di COVID-19: in che modo agisce, da dove è venuto e come potrebbe
evolvere in futuro. E sono ancora senza risposta pressanti domande sulla sua
origine
Nel
1912, alcuni veterinari tedeschi si interrogavano perplessi sul caso di un
gatto febbricitante dall’enorme ventre rigonfio. Oggi si pensa che quello sia
stato il primo esempio riportato nella letteratura scientifica della capacità dei
coronavirus di debilitare le proprie vittime. A quei tempi i veterinari non lo
sapevano, ma c’erano anche coronavirus che causavano bronchiti nei polli, e una
malattia intestinale che uccideva quasi tutti i porcellini sotto le due
settimane di età. Il collegamento fra questi agenti patogeni fu scoperto solo
negli anni sessanta, quando in Gran Bretagna e negli Stati Uniti alcuni
ricercatori isolarono due virus che provocano il raffreddore comune negli
esseri umani e che sono dotati di strutture di forma simile a una corona. Gli
scienziati notarono ben presto che i virus identificati negli animali malati
avevano la stessa struttura ispida, costellata di protuberanze proteiche
spinose, o spicole. L’aspetto al microscopio elettronico somiglia a quello di una
corona solare, e per questo i ricercatori coniarono, nel 1968, il nome
“coronavirus” per l’intero gruppo. Era una famiglia di assassini
particolarmente dinamici: il coronavirus dei cani era capace di far ammalare i
gatti, e quello dei gatti di devastare l’intestino dei maiali. I ricercatori
hanno creduto che negli esseri umani i coronavirus causassero solo sintomi
blandi, finché un focolaio epidemico di una grave sindrome respiratoria acuta
(SARS) non ha rivelato, nel 2003, la facilità con cui questi versatili virus
possono uccidere le persone. Adesso, mentre sale il tributo di morti imposto
dalla pandemia di COVID-19, i ricercatori si affannano a scoprire tutto il
possibile sulla biologia del più recente dei coronavirus, SARS-CoV-2. Il suo
profilo si sta già delineando. Gli scienziati stanno capendo che in questo
virus si è evoluta una serie di adattamenti che lo rendono assai più letale
degli altri coronavirus fin qui incontrati dall’umanità. A differenza dai suoi
parenti stretti, SARS-CoV-2 può attaccare facilmente le cellule umane in più
punti, e prende a bersaglio soprattutto i polmoni e la gola. Una volta entrato
nel corpo, il virus si avvale di un diversificato arsenale di molecole dannose.
E i dati genetici fanno pensare che se ne sia stato nascosto in natura forse
anche per decenni. Ma ci sono molti aspetti cruciali ignoti di questo virus,
come il modo esatto in cui uccide le vittime, se evolverà in qualcosa di più –
o meno – letale e cosa può rivelare sulla prossima volta che si farà vivo un
membro della famiglia dei coronavirus. “Ce ne saranno altri; o sono già in giro
là fuori, o si stanno formando”, dice Andrew Rambaut, che studia l’evoluzione
dei virus all’Università di Edimburgo
Una
gran brutta famiglia
Fra
i virus che attaccano gli esseri umani, i coronavirus sono grandi. Con un
diametro di 125 nanometri, sono relativamente grossi pur essendo virus il cui
materiale genetico è costituito da RNA, il gruppo da cui viene la maggior parte
delle nuove malattie emergenti. Ma la vera particolarità dei coronavirus è il
genoma, che con 30.000 basi è il più grande fra tutti quelli dei virus a RNA:
tre volte quello dell’HIV o del virus dell’epatite C, e più del doppio di
quello dei virus influenzali. I coronavirus sono anche tra i pochi virus a RNA
dotati di un meccanismo di correzione degli errori di replicazione del genoma
che impedisce al virus di accumulare mutazioni che potrebbero indebolirlo. E
questo potrebbe essere il motivo per cui i comuni antivirali, come la
ribavirina, che riescono a contrastare virus come quello dell’epatite C, non
sono riusciti a domare SARS-CoV-2. Il farmaco indebolisce il virus inducendo
delle mutazioni, ma nei coronavirus il meccanismo correttore le può eliminare.
Le mutazioni possono anche offrire dei vantaggi ai virus. Quello dell’influenza muta oltre tre volte più spesso di quello dei coronavirus, e ciò gli permette di evolvere rapidamente ed eludere i vaccini. Ma i coronavirus hanno un trucco speciale che dà loro un dinamismo letale: si ricombinano di frequente, scambiando tratti del proprio RNA con altri coronavirus. Di solito si tratta solo di un insignificante scambio di parti tra virus uguali. Ma quando due coronavirus imparentati alla lontana finiscono in una stessa cellula, la ricombinazione può condurre a tremende versioni inedite capaci di infettare nuovi tipi cellulari e saltare ad altre specie, dice Rambaut. Spesso la ricombinazione avviene nei pipistrelli, portatori di 61 virus di cui è nota la capacità di infettare l’uomo; certe specie ne ospitano, da sole, ben 12. Nella maggior parte dei casi i virus non danneggiano i pipistrelli; vi sono diverse teorie sul motivo per cui il sistema immunitario di questi animali riesce a tener testa agli invasori. Un lavoro pubblicato nel febbraio scorso sostiene che le cellule di pipistrello infettate da questi virus emettono rapidamente un segnale che le rende in grado di ospitare il virus senza ucciderlo. Le stime sulla nascita dei primi coronavirus variano molto: tra i 10.000 e i 300 milioni di anni fa. Gli scienziati ne conoscono oggi decine di ceppi, sette dei quali infettano gli esseri umani. Fra i quattro che provocano il comune raffreddore, due (OC43 e HKU1) provengono da roditori, e gli altri due (229E e NL63) dai pipistrelli. I tre che causano malattie gravi – SARS-CoV-1 (a cui si deve la SARS), quello della sindrome respiratoria mediorientale MERS-CoV e SARS-CoV-2 – vengono tutti dai pipistrelli. Ma gli scienziati ritengono che di solito ci sia un intermediario: un animale infettato dai pipistrelli che poi trasmette il virus agli esseri umani. Per la SARS, si ritiene che a fare da intermediari siano stati gli zibetti, venduti vivi in alcuni mercati alimentari della Cina. L’origine di SARS-CoV-2 è ancora una questione aperta. Il virus ha il 96 per cento del materiale genetico in comune con un virus trovato in un pipistrello di una grotta dello Yunnan, in Cina: un buon motivo per pensare che venga dai pipistrelli, dicono i ricercatori. Ma c’è una differenza cruciale. Delle proteine delle spicole dei coronavirus fa parte un elemento detto dominio di legame ai recettori, che è essenziale perché riescano a entrare nelle cellule umane. Il dominio di legame di SARS-CoV-2 è particolarmente efficiente e presenta differenze importanti rispetto al virus dei pipistrelli dello Yunnan, che sembra non infettare gli esseri umani. A complicare la faccenda, si è scoperto che il pangolino può ospitare un coronavirus dotato di un dominio di legame ai recettori pressoché identico alla versione umana. Il resto del virus, però, ha con essa somiglianza genetica appena del 90 per cento, e quindi alcuni ricercatori sospettano che l’intermediario non sia stato il pangolino. La contemporanea presenza di mutazioni e ricombinazioni complica i tentativi di tracciare un albero genealogico. Alcuni studi diffusi in questi ultimi mesi, ma non ancora sottoposti a peer-review, suggeriscono che SARS-CoV-2 – o un suo antenato poco diverso – se ne sia stato nascosto in qualche animale per decenni.
Secondo un lavoro pubblicato online a marzo, la linea di discendenza dei coronavirus da cui proviene SARS-CoV-2 si sarebbe separata più di 140 anni fa da quella, strettamente imparentata, che si trova oggi nei pangolini. Poi, in un qualche momento degli ultimi 40-70 anni, i progenitori di SARS-CoV-2 si sono separati dalla versione dei pipistrelli, che in seguito ha perduto l’efficace dominio di legame ai recettori che era presente nei suoi antenati (ed è tuttora presente in SARS-CoV-2). Uno studio pubblicato il 21 aprile arriva a risultati assai simili con un metodo di datazione diverso. Questi risultati suggeriscono una lunga genealogia, con parecchi rami di coronavirus nei pipistrelli, e forse nei pangolini, dotati dello stesso letale dominio di legame ai recettori di SARS-CoV-2; alcuni di essi potrebbero essere in grado di causare pandemie, dice Rasmus Nielsen, biologo evoluzionista all’Università della California a Berkeley, e coautore del secondo studio. “C’è bisogno di una sorveglianza continua e un’accresciuta vigilanza sul possibile emergere di nuovi ceppi virali per trasferimento zoonotico”, dice.
Le mutazioni possono anche offrire dei vantaggi ai virus. Quello dell’influenza muta oltre tre volte più spesso di quello dei coronavirus, e ciò gli permette di evolvere rapidamente ed eludere i vaccini. Ma i coronavirus hanno un trucco speciale che dà loro un dinamismo letale: si ricombinano di frequente, scambiando tratti del proprio RNA con altri coronavirus. Di solito si tratta solo di un insignificante scambio di parti tra virus uguali. Ma quando due coronavirus imparentati alla lontana finiscono in una stessa cellula, la ricombinazione può condurre a tremende versioni inedite capaci di infettare nuovi tipi cellulari e saltare ad altre specie, dice Rambaut. Spesso la ricombinazione avviene nei pipistrelli, portatori di 61 virus di cui è nota la capacità di infettare l’uomo; certe specie ne ospitano, da sole, ben 12. Nella maggior parte dei casi i virus non danneggiano i pipistrelli; vi sono diverse teorie sul motivo per cui il sistema immunitario di questi animali riesce a tener testa agli invasori. Un lavoro pubblicato nel febbraio scorso sostiene che le cellule di pipistrello infettate da questi virus emettono rapidamente un segnale che le rende in grado di ospitare il virus senza ucciderlo. Le stime sulla nascita dei primi coronavirus variano molto: tra i 10.000 e i 300 milioni di anni fa. Gli scienziati ne conoscono oggi decine di ceppi, sette dei quali infettano gli esseri umani. Fra i quattro che provocano il comune raffreddore, due (OC43 e HKU1) provengono da roditori, e gli altri due (229E e NL63) dai pipistrelli. I tre che causano malattie gravi – SARS-CoV-1 (a cui si deve la SARS), quello della sindrome respiratoria mediorientale MERS-CoV e SARS-CoV-2 – vengono tutti dai pipistrelli. Ma gli scienziati ritengono che di solito ci sia un intermediario: un animale infettato dai pipistrelli che poi trasmette il virus agli esseri umani. Per la SARS, si ritiene che a fare da intermediari siano stati gli zibetti, venduti vivi in alcuni mercati alimentari della Cina. L’origine di SARS-CoV-2 è ancora una questione aperta. Il virus ha il 96 per cento del materiale genetico in comune con un virus trovato in un pipistrello di una grotta dello Yunnan, in Cina: un buon motivo per pensare che venga dai pipistrelli, dicono i ricercatori. Ma c’è una differenza cruciale. Delle proteine delle spicole dei coronavirus fa parte un elemento detto dominio di legame ai recettori, che è essenziale perché riescano a entrare nelle cellule umane. Il dominio di legame di SARS-CoV-2 è particolarmente efficiente e presenta differenze importanti rispetto al virus dei pipistrelli dello Yunnan, che sembra non infettare gli esseri umani. A complicare la faccenda, si è scoperto che il pangolino può ospitare un coronavirus dotato di un dominio di legame ai recettori pressoché identico alla versione umana. Il resto del virus, però, ha con essa somiglianza genetica appena del 90 per cento, e quindi alcuni ricercatori sospettano che l’intermediario non sia stato il pangolino. La contemporanea presenza di mutazioni e ricombinazioni complica i tentativi di tracciare un albero genealogico. Alcuni studi diffusi in questi ultimi mesi, ma non ancora sottoposti a peer-review, suggeriscono che SARS-CoV-2 – o un suo antenato poco diverso – se ne sia stato nascosto in qualche animale per decenni.
Secondo un lavoro pubblicato online a marzo, la linea di discendenza dei coronavirus da cui proviene SARS-CoV-2 si sarebbe separata più di 140 anni fa da quella, strettamente imparentata, che si trova oggi nei pangolini. Poi, in un qualche momento degli ultimi 40-70 anni, i progenitori di SARS-CoV-2 si sono separati dalla versione dei pipistrelli, che in seguito ha perduto l’efficace dominio di legame ai recettori che era presente nei suoi antenati (ed è tuttora presente in SARS-CoV-2). Uno studio pubblicato il 21 aprile arriva a risultati assai simili con un metodo di datazione diverso. Questi risultati suggeriscono una lunga genealogia, con parecchi rami di coronavirus nei pipistrelli, e forse nei pangolini, dotati dello stesso letale dominio di legame ai recettori di SARS-CoV-2; alcuni di essi potrebbero essere in grado di causare pandemie, dice Rasmus Nielsen, biologo evoluzionista all’Università della California a Berkeley, e coautore del secondo studio. “C’è bisogno di una sorveglianza continua e un’accresciuta vigilanza sul possibile emergere di nuovi ceppi virali per trasferimento zoonotico”, dice.
Due
porte aperte
I
coronavirus umani noti possono infettare numerosi tipi cellulari, ma tutti
causano soprattutto infezioni respiratorie. La differenza sta nel fatto che i
quattro che provocano il raffreddore comune attaccano facilmente il tratto
respiratorio superiore, mentre MERS-CoV e SARS-CoV trovano maggiori difficoltà
a stabilirsi in questa sede ma riescono meglio a infettare le cellule dei
polmoni. SARS-CoV-2 purtroppo riesce a fare entrambe le cose con grande
efficienza. Ciò gli offre due zone in cui stabilire una testa di ponte, dice
Shu-Yuan Xiao, patologo all’Università di Chicago, in Illinois. Un colpo di
tosse che lancia dieci particelle virali verso di voi può bastare a far partire
un’infezione nella vostra gola, ma i peluzzi delle cellule ciliate che ne
ricoprono la superficie probabilmente faranno il loro lavoro ed elimineranno
gli invasori. Se però il colpo di tosse è più vicino e di particelle virali ne
lancia 100, il virus potrebbe riuscire ad arrivare fino in fondo ai polmoni,
dice Xiao. Queste diverse capacità spiegano forse il motivo per cui i malati di
COVID-19 vivono esperienze così diverse. Il virus può partire dalla gola o dal
naso, dare tosse e disturbi del gusto e dell’odorato, e fermarsi lì. O invece
può trovare la strada per arrivare ai polmoni e debilitarli. Come ci arrivi, se
spostandosi di cellula in cellula o per qualche forma di trasporto, non si sa
ancora, dice Stanley Perlman, immunologo all’Università dello Iowa, che studia
i coronavirus. Clemens-Martin Wendtner, infettivologo alla München Klinik
Schwabing, in Germania, dice che a consentire al virus di infiltrarsi nei
polmoni potrebbe essere un problema del sistema immunitario. La maggior parte
delle persone produce anticorpi neutralizzanti prodotti espressamente dal
sistema immunitario per legarsi al virus e impedirne l’entrata nelle cellule.
Alcune persone però, dice Wendtner, sembrano incapaci di produrli. E questa
potrebbe essere la ragione per cui qualcuno guarisce dopo una settimana di
sintomi leggeri e altri sono colpiti da una malattia polmonare a insorgenza
tardiva. Ma il virus può anche saltare le cellule della gola e arrivare
direttamente ai polmoni. In quel caso i pazienti possono sviluppare la
polmonite senza gli usuali sintomi lievi come tosse e febbre leggera che
altrimenti si presenterebbero per primi, aggiunge Wendtner. Il fatto di
disporre di due punti di accesso significa che il virus può coniugare la
facilità di trasmissione dei coronavirus del raffreddore comune con la letalità
di MERS-CoV e SARS-CoV. “E’ la sfortunata e pericolosa combinazione di questo
ceppo di coronavirus”, conclude. La capacità del virus di infettare il tratto
respiratorio superiore e riprodurvisi è stata un po’ una sorpresa, dato che un
suo parente stretto come SARS-CoV ne è privo. Il mese scorso, Wendter ha pubblicato dei risultati sperimentali in cui il suo gruppo
è riuscito a coltivare il virus prelevato dalla gola di nove malati di
COVID-19, mostrando che in quella sede il virus si riproduce attivamente ed è
infettivo. Ciò spiega una cruciale differenza tra i due virus strettamente
imparentati. SARS-CoV-2 può rilasciare particelle virali dalla gola nella
saliva prima ancora che comincino a presentarsi i sintomi, e queste particelle
possono passare facilmente da una persona all’altra. SARS-CoV era assai meno
abile in questo salto e si trasmetteva solo quando i sintomi erano molto
evidenti, il che ne ha facilitato il contenimento. Queste differenze hanno dato
origine a una certa confusione sulla letalità di SARS-CoV-2. Alcuni esperti e
vari resoconti giornalistici lo descrivono come meno letale di SARS-CoV perché
uccide circa l’uno per cento delle persone che infetta, mentre SARS-CoV ne
uccide una percentuale circa 10 volte maggiore. Ma questo, dice Perlman, è un
modo errato di vedere la cosa. SARS-CoV-2 è assai più efficiente nell’infettare
la gente, ma in molti casi l’infezione non arriva fino ai polmoni. “Una volta
arrivato ai polmoni, probabilmente è altrettanto letale”, dice. Quello che fa
quando arriva ai polmoni per alcuni versi è ciò che fanno tutti i virus
respiratori, anche se c’è ancora molto da chiarire. Come SARS-CoV e i virus
influenzali, infetta e distrugge gli alveoli, i minuscoli sacculi polmonari da
cui l’ossigeno passa nel torrente circolatorio. Quando la barriera cellulare
che divide gli alveoli dai vasi sanguigni cede, i vasi perdono liquidi che
bloccano il passaggio dell’ossigeno nel sangue. Altre cellule, fra cui i
globuli bianchi, intasano ulteriormente le vie aeree. Una forte risposta
immunitaria può spazzare via il tutto in alcuni pazienti, ma un’eccessiva
reazione del sistema immunitario può anche aggravare il danno ai tessuti. Se
l’infiammazione e il danno tissutale sono troppo gravi, i polmoni non riescono
più a recuperare e la persona muore o resta con i polmoni lesionati, dice Xiao.
“Dal punto di vista della patologia, non si vede granché di particolarmente
insolito.” E, come per SARS-CoV, MERS-CoV e i coronavirus animali, il danno non
si limita ai polmoni. L’infezione da SARS-CoV-2 può scatenare una reazione
immunitaria eccessiva detta “tempesta di citochine”, che può a sua volta a
condurre a insufficienze d’organo multiple e alla morte. Il virus può infettare
anche l’intestino, il cuore, il sangue, lo sperma (come MERS-CoV), gli occhi e
forse il cervello. I danni a reni, fegato e milza osservati nei malati di
COVID-19 fanno pensare che il virus possa essere trasportato dal sangue e
infettare vari organi e tessuti, dice Guan Wei-jie, pneumologo all’Istituto di
malattie polmonari dell’Università medica del Guangzhou, in Cina, istituzione
ampiamente lodata per il suo contributo alla lotta contro il COVID-19. Il virus
potrebbe essere in grado di infettare vari organi e tessuti, dovunque arrivi il
sangue, dice Guan. Ma anche se il materiale genetico del virus si ritrova in
vari tessuti, non è ancora chiaro se a danneggiarli sia il virus o una tempesta
di citochine, afferma Wendtner. “Nel nostro centro sono in corso le autopsie.
Presto avremo altri dati”, aggiunge. Sia che infetti la gola o i polmoni,
SARS-CoV-2 fa breccia nella membrana protettiva delle cellule ospiti mediante
le proteine delle sue spicole. In primo luogo, il dominio di legame ai
recettori si lega a un recettore detto ACE2, che si trova sulla superficie
della cellula ospite. ACE2 è espresso in tutto il corpo sul rivestimento
interno dei vasi sanguigni, che percorrono tutti gli organi; ma è
particolarmente presente sulle cellule che rivestono gli alveoli polmonari e
l’intestino tenue. L’esatto meccanismo non è noto, ma i dati suggeriscono che,
una volta legatosi il virus, la cellula ospite tagli la proteina della spicola
in uno specifico “sito di taglio”, esponendo così dei peptidi di fusione: brevi
catene di amminoacidi che contribuiscono ad aprire la membrana della cellula
ospite in modo che la membrana del virus possa fondersi con essa. Una volta che
il materiale genetico dell’invasore penetra nella cellula, il virus si
impadronisce dei meccanismi molecolari dell’ospite per produrre nuove
particelle virali. Questa progenie, poi, fuoriesce dalla cellula per andare a
infettare altre cellule.
Spicole
potenziate
Il
virus SARS-CoV-2 è particolarmente ben attrezzato per aprirsi la strada fin
dentro la cellula. Come SARS-CoV, SARS-CoV-2 si lega al recettore ACE2, ma il
suo dominio di legame ai recettori vi si adatta particolarmente bene: si lega
ad ACE2 con una probabilità 10-20 volte più alta rispetto a SARS-CoV. Wendtner
afferma anzi che SARS-CoV-2 è così efficace nell’infettare il tratto
respiratorio superiore da far pensare che potrebbe esserci anche un secondo
recettore usato dal virus per lanciare il suo attacco. Ancor più preoccupante è
il fatto che durante l’attacco, per tagliare la proteina virale della spicola
SARS-CoV-2 sembra avvalersi di un enzima dell’ospite detto furina. Questo è
preoccupante, dicono i ricercatori, perché questo enzima abbonda nel tratto
respiratorio ma è presente un po’in tutto il corpo. È lo stesso enzima che
usano per entrare nelle cellule altri terribili virus, fra cui l’HIV e i virus
dell’influenza, della dengue e di Ebola. Le molecole usate da SARS-CoV per il
taglio, di contro, sono assai meno comuni e non altrettanto efficaci. Gli
scienziati pensano che il coinvolgimento della furina possa spiegare perché
SARS-CoV-2 riesca a passare così bene di cellula in cellula, da persona a
persona e forse da un’animale all’altro. Robert Garry, virologo alla Tulane
University di New Orleans, stima che ciò dia a SARS-CoV-2 una probabilità da
100 a 1000 volte maggiore di arrivare in profondità nei polmoni rispetto a
SARS-CoV. “Quando ho visto che SARS-CoV-2 ha questo sito di taglio, ho passato
una gran brutta nottata”, dice. Il mistero è da dove siano venute le istruzioni
genetiche per questo particolare sito di taglio. È probabile che il virus le
abbia ottenute per ricombinazione, ma questo particolare arrangiamento non è
mai stato trovato in altri coronavirus, in nessuna specie animale. Individuare
la sua origine potrebbe essere l’ultimo pezzo mancante per determinare quale
animale ha fatto da ponte per consentire al virus di arrivare agli esseri
umani.
Come
andrà a finire?
Alcuni
ricercatori sperano che il virus si indebolirà nel tempo attraverso una serie
di mutazioni, grazie alle quali si adatterà a persistere negli esseri umani.
L’idea è che diventerebbe meno letale e avrebbe più possibilità di diffondersi.
Ma finora i ricercatori non hanno trovato alcun segno di un simile
indebolimento, probabilmente a causa degli efficaci meccanismi di riparazione
genetica del virus. “Il genoma del virus del COVID-19 è assai stabile, e io non
vedo cambiamenti di patogenicità dovuti a mutazione del virus”, dice Guo Deyin,
impegnato nella ricerca sui coronavirus all’Università Sun-Yat-sen del
Guangzhou. Anche Rambaut dubita che il virus si attenuerà nel tempo, risparmiando
i suoi ospiti. “Non è così che funziona”, dice. Fino a che riesce bene a
infettare nuove cellule, riprodursi e trasmettersi ad altre cellule ancora, se
danneggia l’ospite non importa, dice. Altri pensano però che vi sia una
possibilità che il risultato finale sia migliore. L’infezione potrebbe
lasciarsi alle spalle degli anticorpi che offriranno una protezione almeno
parziale, dice Klaus Stöhr, che ha diretto la divisione dell’Organizzazione
mondiale della sanità dedicata all’epidemiologia e alla ricerca sulla SARS.
Stöhr dice che l’immunità non sarà perfetta: le persone reinfettate
svilupperanno comunque qualche lieve sintomo, come succede adesso per il
raffreddore comune, e vi saranno rari casi di malattia grave. Ma la presenza di
un meccanismo di correzione significa che l virus non muterà rapidamente, e le
persone infettate manterranno una valida protezione, aggiunge. “Lo scenario di
gran lunga più probabile è che il virus continuerà a diffondersi e infetterà la
maggior parte della popolazione mondiale in un periodo relativamente breve”,
dice Stöhr, cioè al massimo entro un paio d’anni. “Poi, il virus continuerà a
essere diffuso nella popolazione umana, probabilmente per sempre.” Come i
quattro coronavirus umani generalmente poco dannosi, a quel punto SARS-CoV-2
circolerebbe costantemente provocando soprattutto blande infezioni del tratto
respiratorio superiore, dice Stöhr. Per questo motivo, aggiunge, non ci sarà
bisogno di vaccini. Alcuni precedenti studi appoggiano quest’idea. Uno di essi ha mostrato che quando si
inoculava in alcune persone il coronavirus del raffreddore comune 229E, i
relativi livelli anticorpali toccavano un picco dopo due settimane e dopo un
anno erano solo lievemente elevati. Questo non preveniva l’infezione l’anno
dopo, ma in queste infezioni successive i sintomi erano lievi o assenti, e il
virus veniva trasmesso per periodi più brevi.
Il coronavirus OC43 offre un modello di quello che potrebbe essere il successivo percorso di questa pandemia. Anche questo virus provoca negli esseri umani il raffreddore comune, ma le ricerche genetiche compiute all’università di Lovanio, in Belgio, suggeriscono che ai suoi tempi OC43 potrebbe essere stato un vero killer. Lo studio indica che il virus è passato all’uomo dalle vacche, che lo avevano preso dai topi; e gli scienziati suggeriscono che sia stato responsabile di una pandemia che provocò più di un milione di vittime in tutto il mondo nel 1899-90, in precedenza attribuita al virus influenzale. Oggi OC43 continua a circolare ampiamente e può darsi che sia proprio la continua esposizione al virus a mantenere immune verso di esso la grande maggioranza della popolazione, Ma anche se questo processo ha reso OC43 meno letale, non è ancora chiaro se davvero accadrà qualcosa di simile con SARS-CoV-2. Uno studio sulle scimmie ha rivelato la permanenza degli anticorpi contro SARS-CoV-2, ma i ricercatori hanno parlato solo dei primi 28 giorni dopo l’infezione, quindi resta poco chiaro quanto duri l’immunità. Le concentrazioni degli anticorpi contro SARS-CoV inoltre, calano significativamente nel giro di due-tre anni. Se questi livelli più bassi possano bastare a prevenire l’infezione o a ridurne la gravità non è stato verificato. Gatti, mucche, cani e polli non sembrano diventare immuni ai coronavirus, a volte letali, che li infettano, e quindi i veterinari negli anni si sono dati molto da fare per realizzare dei vaccini. Malgrado tutte le incertezze su se e quanto le persone rimangano immuni a SARS-CoV-2, alcuni paesi stanno promuovendo l’idea di dotare i sopravvissuti di un “passaporto immunitario” che consenta loro di uscire di casa senza timore di essere infettati o infettare gli altri. Molti scienziati per ora si riservano il giudizio sull’ipotesi che i coronavirus più “mansueti” siano stati un tempo virulenti quanto SARS-CoV-2. A tutti piacerebbe pensare che “gli altri coronavirus erano tremendi e poi si sono moderati”, dice Perlman. “È un modo ottimistico di guardare a quello che sta succedendo, ma di prove non ce ne sono.”
Il coronavirus OC43 offre un modello di quello che potrebbe essere il successivo percorso di questa pandemia. Anche questo virus provoca negli esseri umani il raffreddore comune, ma le ricerche genetiche compiute all’università di Lovanio, in Belgio, suggeriscono che ai suoi tempi OC43 potrebbe essere stato un vero killer. Lo studio indica che il virus è passato all’uomo dalle vacche, che lo avevano preso dai topi; e gli scienziati suggeriscono che sia stato responsabile di una pandemia che provocò più di un milione di vittime in tutto il mondo nel 1899-90, in precedenza attribuita al virus influenzale. Oggi OC43 continua a circolare ampiamente e può darsi che sia proprio la continua esposizione al virus a mantenere immune verso di esso la grande maggioranza della popolazione, Ma anche se questo processo ha reso OC43 meno letale, non è ancora chiaro se davvero accadrà qualcosa di simile con SARS-CoV-2. Uno studio sulle scimmie ha rivelato la permanenza degli anticorpi contro SARS-CoV-2, ma i ricercatori hanno parlato solo dei primi 28 giorni dopo l’infezione, quindi resta poco chiaro quanto duri l’immunità. Le concentrazioni degli anticorpi contro SARS-CoV inoltre, calano significativamente nel giro di due-tre anni. Se questi livelli più bassi possano bastare a prevenire l’infezione o a ridurne la gravità non è stato verificato. Gatti, mucche, cani e polli non sembrano diventare immuni ai coronavirus, a volte letali, che li infettano, e quindi i veterinari negli anni si sono dati molto da fare per realizzare dei vaccini. Malgrado tutte le incertezze su se e quanto le persone rimangano immuni a SARS-CoV-2, alcuni paesi stanno promuovendo l’idea di dotare i sopravvissuti di un “passaporto immunitario” che consenta loro di uscire di casa senza timore di essere infettati o infettare gli altri. Molti scienziati per ora si riservano il giudizio sull’ipotesi che i coronavirus più “mansueti” siano stati un tempo virulenti quanto SARS-CoV-2. A tutti piacerebbe pensare che “gli altri coronavirus erano tremendi e poi si sono moderati”, dice Perlman. “È un modo ottimistico di guardare a quello che sta succedendo, ma di prove non ce ne sono.”
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