sabato 2 gennaio 2016

La parola del mese - Gennaio 2016

LA PAROLA DEL MESE
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

Gennaio 2016

Evocata come la soluzione migliore, se non l’unica, per tutti i problemi, invocata nei termini di una rivoluzione ogni qual volta si devono affrontare questioni eternamente aperte (dalla politica all’emergenza ambientale, dai troppi fondamentalismi alla civile convivenza, dal rapporto uomo/donna a quello fra genti e nazioni, tanto per citarne alcuni), tutti la citano come la panacea per ogni male. Ma cosa intendiamo quando la chiamiamo in causa? A quale dei suoi significati facciamo riferimento? Cosa significa rivoluzionarla? E come si realizza questa salvifica rivoluzione? Stiamo parlando di….. 

Cultura

 (estratto dal Vocabolario Treccani)

  Cultura = . dal lat. cultura, der. di colĕre «coltivare», part. pass. Cultus


a. L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo

b. L’insieme delle conoscenze relative a una particolare disciplina, che riguarda la storia, la civiltà, la letteratura e l’arte dei popoli antichi, soprattutto greci e latini.

c. Nel linguaggio socio-politico, diffondere la cultura nel popolo, nelle masse, frasi che esprimono l’esigenza o il programma di una diffusione a livello popolare di un tipo di cultura medio, standardizzato e uniforme, destinato al consumo nel tempo libero ma concepito anche come mezzo di elevazione sociale. In particolar, cultura di massa, espressione (di origine statunitense) con cui si indica un tipo di cultura medio, diffuso dai moderni mezzi di comunicazione di massa – stampa, radio, televisione, cinema, ecc. – prodotto con scopi prevalentemente commerciali e di intrattenimento, standardizzato e uniforme, destinato al consumo nel tempo libero ma concepito anche come mezzo di innalzamento sociale di larghi strati popolari tradizionalmente esclusi dalla fruizione dei beni culturali.

d. Complesso di conoscenze, competenze o credenze (o anche soltanto particolari elementi e settori di esso), proprie di un’età, di una classe o categoria sociale, di un ambiente: cultura contadina, urbana, industriale; la cultura scritta orale; le due c.ulture quella umanistica e quella scientifica, soprattutto in quanto si voglia (o si volesse in passato) rilevare insensibilità e ignoranza negli scienziati per i problemi umani e negli intellettuali per i concetti e i problemi della scienza.

e. Complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche, delle manifestazioni spirituali e religiose, che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico

f. In etnologia, sociologia e antropologia culturale, l’insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale

g. In archeologia e storia dell’arte, tutti gli aspetti visibili di una cultura e di una civiltà, quali i manufatti urbani, gli utensili della vita quotidiana e gli oggetti artistici.

h. Con ulteriore ampliamento della semantica, e conseguentemente degli usi lessicali, del termine e della connessa fraseologia (ampliamento dovuto principalmente allo sviluppo degli studî di sociologia e al crescente interesse per i problemi sociali), il termine stesso è passato a indicare genericamente, nella letteratura, nella pubblicistica e nella comunicazione di questi ultimi anni, l’idealizzazione, e nello stesso tempo la scelta consapevole, l’adozione pratica di un sistema di vita, di un costume, di un comportamento, o, anche, l’attribuzione di un particolare valore a determinate concezioni o realtà, l’acquisizione di una sensibilità e coscienza collettiva di fronte a problemi umani e sociali che non possono essere ignorati o trascurati.

5 commenti:

  1. L’uomo è l’animale incompleto che ha fatto della cultura il suo punto di forza nel processo evolutivo.
    Come ci aveva detto a suo tempo Remotti durante un seminario centrato sul suo libro ” Cultura: dalla complessità all’impoverimento” qualsiasi cultura è sommamente incompleta perché attua sempre una riduzione inevitabile della complessità; lo stesso funzionamento del cervello lo richiede e vengono sviluppate alcune potenzialità a scapito di altre. Un cervello ben funzionante, che non precipiti nel caos, deve mettere in atto una selezione. La cultura che si dice e si autocelebra come completa, come un definitivo punto di arrivo, dice il falso, occulta la propria inevitabile mancanza e quindi la propria apertura verso il mondo. Povertà e idea di perfezione, violenza e idea di purezza sono facce della stessa medaglia che gli uomini hanno purtroppo conosciuto con l’ inevitabile esperienza del dolore nel corso della loro storia ad ogni latitudine.
    Un popolo che pensa di possedere sulla base di una rivelazione divina o sulla base di un percorso storico necessitante e processuale la completezza è un popolo che si autoesclude dal compito di “fare umanità”.
    Ho completato ieri la lettura di Adonis “Violenza e Islam” e sono rimasta profondamente colpita dalla negatività e dalla radicalità del giudizio da lui espresso sull’Islam e in particolare sul mondo arabo come se tutto ciò che si può imputare di positivo alla civiltà islamica fosse solo il prodotto di un’avversione all’ideale fondativo o di una ibridazione esterna. Adonis vede solo esclusivamente dispiegarsi nel corso dei secoli un ideale religioso ispirato alla sottomissione totale alla verità rivelata messa al servizio del godimento modulato ora sulla ricerca del potere mediante la guerra e il saccheggio ora sul sesso e la sottomissione della donna. L’Islam moderato non esiste e la sua costruzione è tutta da intraprendere.
    Leggendo Adonis con Remotti il giudizio sull’Islam, per come si mostra ai nostri occhi di occidentali, rappresenta un tentativo di riduzione della complessità mediante la riproposizione di una verità data sin dalle origini e quindi in ultima analisi un impoverimento che espone al pericolo della conflittualità perenne all’interno e all’esterno, ma, ripensando alla lezione di Remotti, ai miei occhi, sembra altrettanto impossibile che all’interno di una cultura durata secoli non esistano elementi positivi da cui ripartire.
    Massima

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  2. “La bellezza e la cultura non salveranno affatto il mondo”. Così Umberto Eco ha risposto alla frase del presidente del Consiglio Matteo Renzi prima della lectio magistralis tenuta durante la tavola rotonda con i ministri della Cultura ad Expo. “Anche Goebbels era un uomo coltissimo, ma questo non gli ha impedito di gasare sei milioni di ebrei. La comprensione della bellezza altrui questa sì invece che può essere importante. Ma non dimentichiamoci anche che ci sono stati grandi criminali che collezionavano quadri”. Sul dramma dei migranti Eco ha sottolineato l’importanza dei media che non possono tralasciare questi argomenti: “Ci siamo già dimenticati dei migranti di Ventimiglia”. Eco ha infine commentato l’enciclica di papa Francesco: “C’è ancora molto da fare per realizzare questa casa comune”

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  3. Nell’intervento di Massima sulla parola del mese colgo con particolare sintonia l’idea forte della sterilità a cui si condanna una cultura che misconosca la propria inevitabile parzialità rispetto al Tutto, vuoi perché si ritenga depositaria della parola divina, vuoi perché si senta generata da un percorso storico non contingente ma necessitato dall’estrinsecazione di una sorta di Spirito Assoluto della Ragione. Non solo la cultura islamica dunque, dominata dall’istanza religiosa, ma anche la nostra laica e moderna cultura occidentale (se ho colto bene il senso del discorso di Massima) può correre questo rischio – e certo lo ha corso più volte nel suo percorso storico.
    Me ne dà singolare conferma quanto sto leggendo in un testo di Sloterdijk (“Il mondo dentro il capitale”) sul tema del “Palazzo di cristallo”. Un’espressione, questa, con cui Dostoevskij, dopo la visita al Palazzo dell’Esposizione Universale con cui l’impero inglese celebrava, a metà dell’800, il suo trionfo, definiva questo gigantesco apparato promozionale (che per Sloterdijk è un esempio paradigmatico degli interni mondani creati dal capitale), cogliendo in esso la natura potenzialmente perversa di una Modernità che si rappresentava come felicemente pacificata, in un clima di “fine della storia”. Una casa di vita, certo, dotata di tutti i più moderni comfort, ma artificialmente climatizzata e chiusa in una sorta di recinto mentale in cui ogni contraddizione sembrava destinata a sparire, per dare luogo ad una universale consenso basato sull’espansione omologante dei consumi.
    Certo, sappiamo bene come questa visione di Dostoevskij sia segnata dal profondo pessimismo dell’autore della Leggenda del Santo Inquisitore, e da uno spirito profondamente antimodernista: nondimeno, è ragionevole pensare che da una cultura che intende se stessa come l’acme evolutivo della civiltà non possa che derivare, come è stato detto, una “cristallizzazione” delle coscienze, del tutto simile a quanto avviene, o può avvenire, in una cultura dove ogni interpretazione storicizzante del testo fondativo viene rifiutata, perseguitando coloro che tentano di aprire finestre sbarrate per far entrare nuovo respiro.
    Siamo noi occidentali fuori da questo rischio? Non sarei troppo sicura di una risposta positiva: in fondo, l’idea della “fine della storia” si è ripresentata in tempi abbastanza vicini, dando vita agli spiriti animali di un’utopia neoliberista che per lungo tempo ha visto se stessa come un’utopia realizzata…
    Per questo rifuggo dalle interpretazioni manichee della contrapposizione fra culture evolute e culture retrograde (come mi pare faccia il testo di Adonis sul rapporto fra islam e violenza, che peraltro non ho letto direttamente ma solo attraverso le relazioni comparse su Agorà: mi riservo dunque di tornare sul discorso più avanti), anche se riconosco e intendo tenere cara – senza recintarla però! - la parte luminosa, che c’è, della cultura a cui appartengo.

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  4. Ho apprezzato i commenti di Massima ed Enrica, su alcuni loro passaggi tornerò, ma vorrei cercare di meglio comprendere il significato della, così spesso invocata, “rivoluzione culturale”. Massima ha giustamente intuito che la scelta di “cultura” come parola del mese è derivata dai precedenti post su quella islamica ed araba. Ora nel suo breve saggio Adonis, e non è certo il solo, ritiene che solo un’autentica “rivoluzione culturale” può cancellarne la parte violenta. Ma cosa si deve intendere per “rivoluzione culturale”? In che modo può concretizzarsi? Quali forze e soggetti la possono mettere in atto? Facendo pienamente anche mia la considerazione di Remotti, (ben sintetizzata da Massima e condivisa da Enrica) sulla impossibilità della cultura, di qualsiasi cultura, di “comprendere il tutto” e di essere quindi “in fieri” destinata alla incompletezza, devo però rilevare una differenza fra la cultura scientifica, costituzionalmente votata alla disponibilità, a fronte di nuove evidenze, a rimettere in gioco le proprie certezze, e la “cultura umanistica”, ontologicamente più rigida anche se poggiante su concezioni, spesso tradotte in “valori assoluti”, che non valicano il confine dell’opinione, della credenza. (Banalizzo qui le riflessioni epistemiologiche di Karl Popper che, per quanto, in coerenza a sé stesse, opinabili, mi sembrano difficilmente attaccabili). Non solo più rigida, ma inesorabilmente portata, forse proprio per sfuggire la propria imperfezione, a costituirsi in “potere”, in costruzione ideologica totalizzante. Adonis, a mio avviso, non compie l’errore di contrapporre culture avanzate e retrograde, ma quello di attribuire al solo Islam una sorta di esclusiva nell’essersi costituito come giustificazione alla conquista del potere. Questo intreccio, che la storia ha dimostrato essere quasi sempre perverso specie sul lungo periodo, può essere, a ben pensarci, applicato a tutte le culture, umanistiche, che hanno preteso di spiegare il “tutto”, e ad ogni potere che si è costituito come tale sempre sulla base di una specifica cultura. Non si ha potere che non si “giustifichi” grazie ad una cultura autoproclamatasi indiscutibile. Se questo vale ne scaturisce, nei termini schematici dello spazio di un commento ad un blog, che “rivoluzione culturale” significa in primo luogo lotta al potere che una cultura ha contribuito a creare. Una lotta su due fronti fra di loro intrecciati: alle forme ed ai centri di quel potere e, al contempo, al sistema di opinioni, di valori, della cultura che lo sostiene. E se il potere, per definizione, divide chi lo esercita da chi lo accetta, occorre che quest’ultimo inizi a percepirlo come stato di cose che opprime, che schiaccia. L’avvio di questa comprensione, anche questo la storia ce lo insegna, è spesso opera dei germi di una cultura alternativa, portata avanti da “avanguardie” che sanno cogliere l’insofferenza e sanno fra germogliare altri valori, altre “opinioni”. Non esiste quindi “rivoluzione culturale” per importazione, essa è un processo che può avviarsi solo se all’interno del potere prodotto da quella cultura si manifestano inquietudini e insofferenze. Certo una cultura, un potere, possono essere cancellati dall’esterno, ma questo ha nomi diversi da rivoluzione culturale.

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  5. Andando oltre la Treccani, ritengo importante contestualizzare la parole CULTURA Faccio riferimento al nostro attuale contesto politico, non a quello del Blog dove attualmente è stata evocata. Quindi mi riferisco soprattutto all'evidenza che alcune problematiche sociali scaturiscono da bassi livelli culturali. Nessuno lo mette in dubbio, conosciamo le problematiche della scolarizzazione di massa, dell'analfabetismo di ritorno, della "cultura" televisiva e, soprattutto, quelle relative all'apprendimento in età scolare e quelle ben diverse relative all' età adulta. Ma non dimentichiamo che il contesto in cui viviamo richiede conoscenze in continua evoluzione a velocità costante. Faccio un esempio: lo scandalo delle banche ha messo in luce la necessità che tutti noi dobbiamo essere competenti in materia finanziaria, materia che è in perenne evoluzione e che, per ovvi motivi, quando si esplicita avviene con linguaggi criptici. La gente si appella così alla fiducia in un rapporto contrattuale. Abbiamo visto che cosa è successo. Ma questa colpa non si può imputare al fattore ignoranza. Di conseguenza è chiaro che il discorso sulla cultura è complesso, anche perché non dobbiamo dimenticare che la conoscenza implica in contemporanea processi cognitivi, emotivi e sociali (dipendenza o meno dal giudizio altrui). Remotti, citato da Massima, evoca inoltre una particolare problematica psicologica: la teoria della dissonanza cognitiva di Festinguer. Infatti è stato interessante osservare le risposte che abbiamo dato alla stimolazione "culturale" di Giancarlo. Due parole sulla "rivoluzione culturale che, logicamente parlando, se significa lotta al potere che una cultura ha contribuito a creare, è "naturale" che questa cultura eviterà in tutti i modi il suo suicidio, pertanto eviterà in ogni modo una sua dissonanza. "…. (la) visione del mondo che, negando, ogni tipo di trascendenza, non può che rimanere appiattita sull'immanenza e quindi eludere il primato dell'etica. Anche il diritto ne soffre, perché questa prospettiva non può che porre la sorgente del diritto in null'altro che nell'autorità che emana la legge, nella positività della legge, nella legge in quanto posta (posita) dal potere, riducendo il diritto a legge e la legge a convenzione." (Vito Mancuso"DIO E IL SUO DESTINO pag. 376) Una stimolazione culturale su cui potremmo meditare. CONCLUDENDO: di che cosa stiamo parlando? Della lotta al potere o dell'attuale complessità che ha il nostro villaggio globale ad accedere a informazioni reali e non manipolate e in così veloce evoluzione? Inoltre vorrei ricordare il paradosso spazio-temporale in cui viviamo, pertanto preoccupiamoci soprattutto di come convivere nel rispetto delle DIVERSITA'.

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