Queste sono le
ragioni
che mi faranno
votare NO al referendum
(anche se non è la riforma
costituzionale in sé la vera questione)
……si battono per l’idea, non
avendone…….(Ennio Flaiano)
Per curiosità e
indole personale sto cercando, leggendo e ascoltando i pareri sia di chi è per
il SI sia di chi è per il NO, di farmi una personale opinione, la più ragionata
possibile. Ad oggi, ma non credo che mi succederà di cambiare idea, penso che
al prossimo referendum di Ottobre voterò un convinto NO.
Se qualcuno mi
chiedesse di dire in poche parole il perché risponderei, dovendomi limitare al
quesito referendario secco, che il nostro SI o NO deve valutare la modifica
costituzionale per quello che è, per come è venuta fuori, non per il
gradimento, o viceversa, verso chi l’ha promossa, come strumentalmente da più
parti si cerca di fare, e che quindi, in questo senso, voterò NO perché, sulla
base di quanto ho capito, la
considero una brutta riforma, con molte contraddizioni, a rischio di buon
funzionamento ed effettiva applicabilità, in sostanza così mal scritta in tante
parti da disattendere le sue stesse finalità.
So bene quanto sia
difficile maturare una personale opinione su temi che vedono divisi gli stessi
esperti, molti costituzionalisti sono apertamente schierati per il NO, ma molti
lo sono per il SI, e gli uni e gli altri lo sono proprio sulla base di differenti
valutazioni di merito sulle modifiche introdotte. Se non c’è unanime accordo
sulla materia fra i “tecnici” costituzionalisti credo sia inutile, e
pretenzioso, improvvisarci noi esperti in materia. Letto quanto possibile,
ascoltato quanto disponibile, riflettuto il giusto, giunge il momento di
affidarsi alle ragioni di “testa”, ma anche a quelle del “cuore”, scegliendo
fra tutte le opinioni incontrate quelle che ci sembrano più convincenti. Ed è
quello che ho sin qui fatto.
Devo dire però che
questa divisione, anche netta, fra costituzionalisti ha in qualche modo inciso:
la mancanza di un minimo comune giudizio di merito non depone a favore della
bontà “tecnica” della riforma, vuol dire che essa comunque si presta a giudizi
fortemente contrastanti, ed una norma costituzionale, se ben fatta, dovrebbe
per definizione unire e non dividere.
Ma è bene che io fin
da subito confessi di non essere già in partenza predisposto ad un giudizio
favorevole, perché questa riforma costituzionale, ed il suo tormentato percorso
elaborativo ed approvativo, sono solo un tassello, ovviamente molto importante,
di un più generale processo riformatore che poggia su considerazioni, e si pone
obiettivi, che apertamente non condivido.
Riprenderò questo
decisivo aspetto ma per intanto, tornando alla richiesta di quel qualcuno di
spiegare il mio NO, se potessi usare qualche parola in più, facendo il
possibile perché non siano troppe (ma
la questione è quanto mai complicata) e sperando che possano essere in qualche
modo utili a lui, e perché no anche ad altri, preciserei, sulle singole
questioni di merito, che:
Ø
la
necessità di modificare la Parte Seconda - Titolo I della Costituzione “L’ordinamento
della Repubblica” poggia sulla volontà di “superare il bicameralismo paritario
(perfetto)”, reo di intralciare l’efficienza legislativa. La soluzione,
drasticamente risolutiva, poteva consistere nella semplice soppressione della
seconda Camera eliminando il Senato della Repubblica. (operazione
tutt’altro che sconvolgente, non solo perché sono molti gli Stati democratici
che hanno un sistema monocamerale, ma anche perché l’opzione del
monocameralismo fu già oggetto di ampia discussione nell’ambito della stessa Assemblea
Costituente che scrisse l’originale Costituzione. Sostenuta in particolare dal
fronte delle sinistre - il PCI è sempre stato apertamente a favore del
monocameralismo – venne al tempo giudicata non opportuna per l’Italia, e per
gli italiani, che uscivano da una lunga dittatura, dal trauma della seconda
guerra mondiale e dalle asprezze della Lotta di Liberazione). Fra l’altro, così facendo, si
sarebbero ancor più pienamente ottenuti gli obiettivi, molto strumentalmente sbandierati,
di riduzione del numero dei parlamentari e dei “costi della politica” (riprenderò questa
tematica). Si è invece preferito (perchè
consapevoli della rilevanza dei rischi connessi alla nuova Legge Elettorale?) mantenere in vita il Senato ma intervenendo
pesantemente sulle sue funzioni e sulla sua composizione/eleggibilità. Ed è qui che partono le prime contraddizioni
ed incongruenze. Il monocameralismo non è stato quindi pienamente adottato, ma
si è scelta una strana forma di monocameralismo (ovvero di bicameralismo)
imperfetto, (la modifica dell’Art. 55 prevede infatti che siano
attribuite solo alla Camera dei
Deputati la rappresentanza
della Nazione, la funzione legislativa, la funzione di indirizzo politico e
quella di controllo dell’operato del Governo) corretto dalla presenza di un Senato (a cui, sempre Art. 55, sono attribuite la rappresentanza delle Istituzioni
territoriali, la
partecipazione al procedimento legislativo, la funzione di raccordo tra
lo Stato e gli enti territoriali e la valutazione delle politiche pubbliche e
dell’attività delle pubbliche amministrazioni). Ma non è assolutamente chiaro di
che cosa si occuperà veramente questo Senato (delle Regioni)! Non si capisce
bene in cosa veramente consisterà questa ……partecipazione
al procedimento legislativo…..! Il successivo Art. 70, che dovrebbe
definire le leggi che possono rientrare nella competenza del nuovo Senato, è
ormai diventato un mito giuridico: i costituzionalisti si stanno divertendo a
contare i possibili iter legislativi (chi dice sette, chi nove, qualcuno è
arrivato a undici!!!!!). Non solo: sempre nell’Art. 70 è scritto testualmente
che…..ogni disegno di legge
approvato dalla Camera dei Deputati è immediatamente trasmesso al Senato della
Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi
componenti, può disporre di esaminarlo…. Facile immaginare che in una situazione di diversa maggioranza fra
Camera dei Deputati e Senato (possibilissima stanti le diverse modalità di elezione) le logiche
di ostruzionismo avrebbero di che sbizzarrirsi, con grave rischio di ulteriore
lentezza legislativa (anche per la pesante ricaduta di un disposto dell’Art. 72 di cui dirò in
seguito) e pertanto molto lontani dalla semplificazione e dall’efficienza
desiderati. Personalmente non considero uno scandalo il superamento del
bicameralismo paritario, anzi, anche se non credo sia l’unico responsabile del
cattivo funzionamento parlamentare, ma condivido le forti, e diffuse,
perplessità sulla nuova architettura istituzionale prevista dalla riforma. Non
si fa una riforma, specie se costituzionale, con l’ossessione di realizzarla
anche a costo della sua linearità e consistenza, se si ritiene imperativo
l’obbligo di farla non meno imperativo deve essere quello di farla bene, il più
possibile al riparo da incertezze e interrogativi. Nella sua stesura finale questa
riforma della parte dedicata all’ordinamento dello Stato, mi pare un
guazzabuglio giuridico frutto di troppi compromessi e aggiustamenti in corso
d’opera, ben lontana, così com’è, dal realizzare le sue stesse finalità. La
giudico quindi in sostanza peggiorativa. E’ un
primo “perché” per il mio NO. (Forse avrebbe avuto più coerenza e consistenza una
scelta più coraggiosamente mono-cameralistica affiancata da un rafforzamento
significativo della Conferenza (permanente) Stato-Regioni, a maggior ragione
visto il notevole ridimensionamento delle competenze regionali previste con la
modifico del Titolo Quinto, di cui dirò)
Ø (parentesi semantica: la Costituzione è la Legge
fondamentale dello Stato, il punto di riferimento più importante per tutti i
cittadini, di ogni livello di istruzione. Deve, ripeto, deve essere scritta in
modo chiaro, semplice, comprensibile a chiunque. Deve poter essere insegnata
nelle scuole a partire dai primi gradi di istruzione. E’ quanto riuscì
splendidamente a fare l’Assemblea Costituente. Confrontando il testo originario
dell’Art. 70 con quello riscritto con questa riforma si misura la distanza, in
questo aspetto fondamentale, del nuovo testo costituzionale da quello
originario)
Ø Ferme restando le perplessità sulle
effettive competenze si è quindi deciso che il nuovo Senato rappresenti le
istituzioni territoriali (ipotesi che era già
stata prefigurata in Assemblea Costituente, ma al tempo giustamente scartata
per le evidenti eccessive differenze fra le diverse parti dell’Italia), in linea teorica non vi sarebbe nulla
da eccepire, la misura della coerenza e validità della scelta fatta consiste però
nelle effettive modalità previste per attuare questa rappresentanza. Ebbene: si
è immaginato – Art. 57 - un Senato di cento membri (95 + 5), con una consistente
riduzione dai 315 attuali, ma con una ripartizione quanto meno bizzarra: a
formare i 95 (anche se su questi
numeri grava ancora incertezza)
concorrono 74 consiglieri regionali eletti dai Consigli regionali di
appartenenza, in conformità alle scelte espresse dagli elettori in sede
di elezione degli stessi Consigli (non si sa in cosa
consisterà questa conformità, una specifica legge ordinaria lo chiarirà
successivamente) e 21
saranno sindaci eletti dai Consigli regionali, nella misura di uno per
ciascuno, fra tutti i sindaci dei comuni della Regione (non viene fissato alcun criterio per cui, ad esempio,
per il Piemonte il sindaco indicabile potrebbe essere quello di Torino oppure
quello di Moncenisio o Valgioie),
i 5 senatori restanti sono quelli nominati dal Presidente della Repubblica tra
i cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel
campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Questi ultimi cinque
senatori (non
più a vita) rappresentano una autentica contraddizione, a
rischio di essere giudicata incostituzionale rispetto alla natura di
rappresentanza territoriale del Senato (non
si capisce infatti la relazione fra chi ha illustrato la Patria e la nuova
natura del Senato),
ma certamente di difficile gestione “politica”: infatti sul totale di cento
senatori i cinque nominati dal Presidente della Repubblica rappresentano un
numero significativo in grado di incidere in misura decisiva sull’esito delle
votazioni snaturando vieppiù la rappresentanza territoriale del Senato.
Questione questa tutt’altro che marginale che testimonia una volta di più della
“cattiva” scrittura della riforma costituzionale. La riduzione dagli attuali
315 senatori ai futuri 100 viene comunque vantata come il risultato concreto
della ferma volontà di ridurre il numero dei parlamentari e quindi i costi
della politica. Le cifre sono indiscutibili, ma non mancano i però. Molti
evidenziano che a fronte di una Camera dei Deputati, ferma a 630 membri (forse incidere anche su questo numero era reso
impossibile dalla nuova Legge Elettorale, e magari dalle resistenze
“corporative” dei partiti tutti),
sono stati ridotti quei parlamentari, ossia i Consiglieri Regionali/Senatori,
che dovrebbero proprio rappresentare i territori aumentando così la distanza
fra cittadini/elettori ed eletti (ogni Regione
potrebbe avere da un minimo di due ad un massimo, conti alla mano, di cinque
senatori). La riduzione dei costi della
politica, che è questione ben più ampia dei costi parlamentari, era ottenibile,
in misura analoga, ad esempio intervenendo sull’ammontare delle indennità di
tutti i Parlamentari. Ad aumentare la “stranezza” del nuovo Senato concorrono
poi altre incomprensibili caratteristiche: l’immunità concessa al Senatore, ma
non al Consigliere, anche se è la stessa persona, (altro
aspetto a rischio di incostituzionalità, chi decide dove comincia uno e finisce
l’altro?), Senatori
che, in quanto Consiglieri, decadono automaticamente se decade il Consiglio
Regionale di appartenenza, tanto per citarne qualcuna. L’impressione di un
testo costituzionale quanto meno raffazzonato è confermata dalla espressa (inevitabile conseguenza dei troppi punti oscuri) intenzione di definire molti
passaggi tutt’altro che secondari, come quelli citati, con successive Leggi ordinarie; ora a me pare
strano chiedere un voto confermativo ad un testo di riforma costituzionale quando sue parti significative
saranno decise successivamente in modo autonomo dal Parlamento! La confusione normativa ed il mandato
confermativo al buio sono il secondo perché del mio NO.
Ø Tralascio altri aspetti
contraddittori della riforma del Titolo I, non perché siano marginali, ad
esempio non lo sono le norme relative alle leggi di iniziativa popolare ed i
referendum, ma perché il giudizio non positivo su questa parte della riforma è,
come appena detto, già ampiamente motivato
Ø Passando al Titolo II della Parte
Seconda – Il Presidente della Repubblica - si entra nel vivo di una delle
conseguenza della nuova Legge Elettorale ed in particolare dell’impressionante
premio di maggioranza che viene attribuito al partito vittorioso alle elezioni
politiche per la Camera dei Deputati (340 seggi su 630), quando messa in
relazione con il nuovo testo della Costituzione. La maggioranza richiesta per
eleggere il Presidente è – Art. 83 - fissata in:
− 2/3 dell’assemblea dal primo al terzo
scrutinio;
− 3/5 dell’assemblea dal quarto al sesto scrutinio;
− 3/5 dei votanti dal settimo scrutinio
− 3/5 dell’assemblea dal quarto al sesto scrutinio;
− 3/5 dei votanti dal settimo scrutinio
Sono
livelli di quorum richiesto più alti di quelli attuali e ciò sembra
testimoniare la consapevolezza della necessità di un adeguato contrappeso alla
maggioranza nella Camera dei Deputati. Consapevolezza che però sembra
improvvisamente svanire dal settimo scrutinio in poi! Fare riferimento ai votanti è una novità assoluta, a parere di molti di oscuro
significato specie se posta in relazione alla acquisita e condivisa (?)
opportunità che il Presidente della Repubblica, ossia di tutti gli italiani,
sia eletto con il concorso più ampio possibile. Lecito immaginare un
collegamento, a questo punto non più virtuoso, proprio con la nuova Legge
Elettorale: il peso straordinario attribuito al partito di maggioranza è tale da
non incentivare più di tanto la ricerca di quella ampia convergenza, fino al
punto di poter indurre (scene
recentemente viste più volte) una parte dell’Assemblea a non partecipare al voto a
fronte delle difficoltà ad individuare un nome condiviso. Ovviamente è augurio
di tutti che, per ragioni ovvie, non si verifichi mai un passaggio simile. Ma è davvero difficile, anche a non voler
essere sospettosi, immaginare altre motivazioni a giustificazione di una novità
che consegna, a tutti gli effetti, la possibilità per il partito di maggioranza
(e
meglio ancora al suo leader e Presidente del Consiglio dei Ministri) di scegliere “da soli” il Presidente della
Repubblica. Forzatura sempre e comunque scandalosa quella di passare ai
“votanti”? Magari non del tutto in via teorica se inserita in altri contesti,
lo diventa inevitabilmente con una Camera dei Deputati così formata e con un
Senato così ridimensionato. Un altro
perchè, anche se il punto dolente sta ovviamente nella Legge Elettorale, per il
mio NO
Ø Anticipo, per analogia di
considerazioni, il giudizio sulla modifica del Titolo VI – Garanzie
Costituzionali, ossia la nomina della Corte Costituzionale. Anche questa
modifica presenta caratteristiche quanto meno bizzarre, quando non
“pericolose”. Il ruolo della Corte Costituzionale è sicuramente decisivo per il
corretto funzionamento della vita democratica del nostro paese, in quanto
organo supremo, quindi con giudizi inappellabili, che decide in particolare
sulla “costituzionalità” delle Leggi e dei rapporti fra gli organi dello Stato.
La sua “autonomia”, ovvero il suo eventuale “controllo”, rappresentano pertanto
uno snodo centrale. La nuova versione della Costituzione modifica – all’Art.
135 – solo un dato: quello relativo alle modalità della sua elezione: i
quindici membri,
numero confermato, sono nominati in numero di cinque
dai supremi organi della Magistratura, aspetto
invariato, in numero di cinque dal Presidente della
Repubblica, anch’esso invariato, (attenzione
però! dal Presidente eletto nel nuovo modo appena evidenziato!) ed infine, novità,
in numero di tre dalla Camera dei Deputati ed in numero di due dal Senato.
Altre “bizzarrie”. La prima: tre in rappresentanza dei 630 Deputati e due dei
100 senatori, difficile sostenere che ci sia proporzione (salvo pensare ad un freudiano senso di colpa per lo
strapotere decisionale del partito di maggioranza!). La seconda, a rischio di
incostituzionalità, consta nel fatto che viene introdotta una componente, il nuovo
Senato, che come si è visto rappresenta le istituzioni territoriali, entro un
organo di garanzia costituzionale e quindi non territoriale. Le due diverse
nature giuridiche non coincidono. Ovviamente la preoccupazione più grande, che
resta quella relativa allo strapotere, direttamente ed indirettamente,
consegnato al partito di maggioranza (nel caso della Corte Costituzionale potrebbe
teoricamente far eleggere ben dieci membri su quindici!), non deriva, anche in questo caso,
dalla riforma costituzionale, ma dalla nuova Legge Elettorale; certo è però che
la prima, ben oltre le incongruenze di scrittura, pare prestarsi bene al gioco
della seconda! Mi è proprio impossibile non trovare anche in questo passaggio
un altro importante perché che rafforza il mio NO
Ø Proseguo il mio personale giudizio
sui contenuti specifici della riforma costituzionale, con una valutazione
“politica” delle modifiche apportate al Titolo V – Le Regioni, le Provincie, (eliminate) i Comuni. Non sono modifiche che incidono sul giudizio
negativo, hanno una loro logica che in gran parte condivido (questione
delle Provincie a parte). E’ però necessario fare un passo indietro, ad una
analoga modifica al Titolo V, che consente alcune riflessioni a mio avviso
importanti. Nel 2001 l’allora governo di centro-sinistra varò una significativa
riforma del Titolo V, confermata da tutti noi (non
da me, votai contro)
in un successivo referendum, che, in ottica fortemente federalista, conferiva
alle Regioni notevoli competenze in materie fino a quel momento attribuite allo
Stato centrale. Non è il caso qui di entrare nel merito (cito solo una
“perla”: la rincorsa a dimostrarsi il più possibile federalisti fece sì che
venne prevista per ogni Regione la possibilità di avere autonomi ambasciatori
presso gli Stati esteri!!!)
ma ritengo importante ricordare che la modalità di approvazione di quella
riforma
(indiscutibilmente messa in atto anche
per scopi elettorali ossia per togliere legna al fuoco del federalismo
leghista), passata a
colpi di fiducia e con il voto della sola maggioranza, primo caso nella storia
della Repubblica italiana (non diversamente
quindi da quanto successo anche per questa riforma) è inesorabilmente diventata la
giustificazione per analoghe gestioni di tutti i successivi percorsi di
modifica costituzionale
(quello di Berlusconi in primis). Va notato per inciso che soli quindici
anni dopo la stessa maggioranza politica che promosse nel 2001 quell’assurdo
federalismo esasperato è stata costretta, visto il disordine che ne è
conseguito, (al tempo previsto e
denunciato dal fronte del NO, già allora però accusato di essere contro il
cambiamento, il progresso, etc.),
a fare marcia indietro riportando nella sfera statale praticamente tutte le
competenze concesse allora. Dovrebbe essere un significativo monito a procedere
con la giusta cautela, e con la più ampia condivisione, quando si mette mano
alla Costituzione
Ø Ritorno, come anticipato ed a
chiusura della mia personale valutazione nel merito delle modifiche costituzionali
–
quelle che spiegano il mio NO per la parte di valutazione nel merito specifico
della riforma - al Titolo II della Parte Seconda, ed in
particolare alla modifica introdotta all’Art. 72, una modifica all’apparenza asettica
ed esclusivamente procedurale, ma che invece, a mio avviso, è una ulteriore
conferma, tutt’altro che secondaria, dell’avvenuto sbilanciamento a favore
dell’Esecutivo (Governo) di una parte significativa del potere finora in capo
al Legislativo (Parlamento). Ho preferito lasciare questo passaggio per
ultimo perché offre lo spunto per precisare le mie opinioni sugli aspetti
generali, di fondo, dell’intero percorso riformatore avviato in questa
Legislatura. Non vi sono infatti appunti di carattere “tecnico”, la norma
introdotta è chiara, comprensibile a tutti, coerente. Essa precisa che il
Governo può chiedere alla Camera dei Deputati di deliberare, entro 5 giorni
dalla richiesta, che un proprio disegno di legge sia iscritto con priorità
all’ordine del giorno, e che tale disegno di legge sia sottoposto alla
pronuncia in via definitiva della Camera dei Deputati entro il termine di 70
giorni. Possono essere gestiti con questa procedura prioritaria tutti i
provvedimenti legislativi – escluse le leggi ad approvazione paritaria di camera e
Senato, le leggi in materia elettorale, le leggi di autorizzazione alla
ratifica dei trattati internazionali, le leggi di concessione dell’amnistia e
dell’indulto e la legge che reca il contenuto della legge di bilancio, le norme
fondamentali e i criteri per l’equilibrio di bilancio – che il Governo stesso ritiene
“essenziali” per la realizzazione del proprio programma. Una norma che
“premia” l’attivismo governativo esentandolo dalle normali tempistiche
legislative. Sembra un “normale” incentivo all’efficienza, al decisionismo, un
ulteriore “bonus” a chi ha già goduto di un significativo “premio di
maggioranza”. Ed in effetti questo è. Ma è anche, a mio modesto avviso,
qualcosa di più: è il completamento normativo dell’accentramento di potere
nelle mani dell’Esecutivo. Ripeto: non vi sono in questo caso errori, passaggi
controversi e a rischio di inapplicabilità, non si tratta di una “bizzarria”.
Si tratta della possibilità per il Governo di forzare, in base ad autonome
valutazioni, il calendario parlamentare (di
quel Parlamento nel quale può contare su una maggioranza inattaccabile) imponendo corsie preferenziali alle
proprie leggi e alterando, in linea teorica, senza soluzione di continuità il
normale lavoro della Camera. Significa, in sostanza, il rischio concreto di svuotare
in modo significativo il reale potere legislativo del Parlamento.
Ma non faccio
rientrare questa considerazione nel novero di quelle che spiegano il mio NO
alla riforma per le specifiche ragioni di merito (che ho cercato fin qui
di illustrare)
perché si presta in modo lampante ad allargare questa mia riflessione sugli
aspetti generali, di fondo, quelli che stanno alla base, come già anticipato,
dell’intero percorso riformatore messo in atto negli ultimi due anni, ma che ha
evidenti radici ben più lontane nel tempo.
A maggior ragione,
stante l’ampiezza dei temi, cercherò di dire con la massima sintesi possibile,
a costo di un eccessivo schematismo, e concentrandomi su una specifica
problematica, quella delle logiche che spingono verso il rafforzamento
dell’esecutivo, che sintetizza una
vasta gamma di aspetti e questioni (impossibile affrontarle tutte in
questa sede). Questa
problematica attraversa in modo trasversale, e spesso sotterraneo, l’intero
campo politico e l’intera opinione pubblica, e sintetizza due opposte visioni
del paese, della sua storia più o meno recente, del suo possibile futuro. Non
sono quindi interessato più di tanto alle prese di posizione dei singoli
partiti, buona parte di essi non affrontano neppure queste problematiche e si
limitano a continue campagne propagandistiche del tutto strumentali (quando
non pericolosamente populiste).
Restiamo in tema:
o il fronte del SI tende,
legittimamente dal suo punto di vista, a presentare la scelta che dovremo fare,
dando anch’esso per scontato che il voto referendario sarà un giudizio
sull’insieme della riforma costituzionale e della Legge Elettorale,
alternativamente, quando in vena di ragionamenti “alti” come l’espressione di
una preferenza fra “governanza” (termine entrato di
recente nel vocabolario politico come brutta traduzione di governance, sostituendo
“governabilità”, da sempre usato in modo
improprio, che sembra per fortuna essere passato di moda) e “rappresentanza”, quando in veste
di propaganda pura e semplice come la battaglia fra chi guarda al futuro e chi
è fermo al passato, fra chi vuole “fare” e gli immobilisti corporativi, fra chi
riduce parlamentari e costi e gli inciucisti, e via discorrendo.
o non merita particolare attenzione la
seconda versione, anche se temo che sarà lo slogan privilegiato di buona parte
della campagna per il SI. Con effetti rilevanti: basti pensare che mette
insieme l’opinione di “chi conta e sa” (penso,
tanto per citarne uno. a Giovanni Bazoli, da una vita top manager bancario e
finanziario, ed uomo di fine cultura, che ha dichiarato di votare Si perché “è
una brutta riforma, ma è una riforma”) e di chi “non conta e non sa” (il classico uomo della strada che voterebbe tutto
quello che sembra togliere qualcosa ai politici). Invito alla lettura
dell’interessante saggio di Nadia Urbinati “La vera seconda Repubblica” che
ripercorre con estrema lucidità la costruzione della “mitologia” della necessità
continua di riforme, costituzionali ed elettorali, incessante ritornello che ha
una lontana origine nella famosa “legge truffa” voluta dalla DC nel lontano
1953 (era una proposta di Legge Elettorale che
attribuiva al partito di maggioranza relativa alle elezioni un premio di
maggioranza, peraltro molto più contenuto rispetto a quello attuale, fortemente
contrastata dal PCI).
Aggiungo per dovere di precisione che un altro slogan ripetuto all’infinito cita
che questa legislatura finalmente attuerà un riforma costituzionale mettendo
fine all’immobilismo di chi l’ha preceduta. Ebbene dal 1947 al 1989, data non
incidentale, vennero attuate cinque revisioni costituzionali, dal 1989 ad oggi
ne sono state portate a termine quindici, questa esclusa! Si noti che la
Costituzione americana nei suoi duecento e più anni di vita ha conosciuto
trenta emendamenti. Altro inciso: quello di cui stiamo parlando non è una
“riforma” perché muovendosi nell’ambito di quanto previsto dall’Art. 138 della
Costituzione la corretta definizione è “revisione”; ma, va da sé, usare il termine
“riforma” è tutt’altro biglietto da visita
o è bene invece concentrarci sulla
contrapposizione fra governanza e rappresentanza. A mio modesto parere siamo di
fronte ad una narrazione di comodo che si limita a considerare il passaggio
finale di una diversità di opinioni molto più complessa ed articolata. Non mi
pare inoltre né corretto né sostenibile ridurre il dibattito in corso ad una
divisione di campo tracciata con l’accetta: da una parte i sostenitori del
rafforzamento dell’azione di governo costi quel che costi, dall’altra gli strenui
e nostalgici difensori di ogni possibile spazio democratico anche a costo di frenare
l’indispensabile concreta azione di governo. Non credo che una ottimizzazione
dei meccanismi decisionali debba necessariamente comportare una soppressione o
limitazione dei diritti democratici, così come non credo che il richiamo alla
costante attenzione a non soffocare la democrazia sia di per sé un impedimento
a soluzioni che guardino all’efficienza ed ai necessari spazi di manovra
dell’Esecutivo.
o occorre a mio avviso, come
anticipato, andare oltre per far emergere i presupposti “a monte”. E a me pare,
così facendo, che si riveli una diversa interpretazione di quello che parrebbe
essere il comune punto di partenza. Le due opposte visioni sembrano infatti
partire dalla comune constatazione della profonda crisi che da decenni,
accentuatasi nell’ultimo, sta interessando il nostro paese. Ma la comunanza si
esaurisce nella sola constatazione
o da una parte infatti prevale una
lettura della crisi come il prodotto di un “blocco” decisionale, imputabile sia
alla sterile occupazione delle istituzioni da parte dei “vecchi” partiti sia
alla inadeguatezza delle norme e degli ordinamenti che reggono il funzionamento
della democrazia italiana. Il paese ha potenzialità, energie, risorse, adeguate
a reggere la sfida della globalizzazione, a gestire gli sconvolgimenti epocali
che stiamo vivendo, a valorizzare il ruolo che l’Italia può svolgere nel
processo di unificazione dell’Europa. Ma queste potenzialità devono potersi
esprimere al loro meglio, per farlo richiedono tempi e meccanismi decisionali
adeguati. Diventa prioritario far saltare quel blocco, forzare la
trasformazione del sistema dei partiti, creare le condizioni normative e di
ordinamento, anche costituzionale, che consentano ad un governo, espresso da
una maggioranza certa e forte, di svolgere una adeguata azione di rinnovo del
paese. Questa lettura della crisi ha trovato negli ultimi anni una vigorosa
sponda nella nuova direzione del PD e del suo nuovo leader e ha quindi avuto
una notevole accelerazione
o è necessario, per chiarezza di
analisi, precisare che, al di là del condividerla o meno, quanto ho molto schematicamente riassunto
rappresenta una “narrazione” della realtà italiana, e dei percorsi strategici
da seguire, articolata e organica, da valutare con la giusta attenzione e
considerazione. Ripeto quindi subito quanto ho già anticipato sulla
“inconsistenza” di una parte significativa dell’opposizione a questa
prospettiva politica. Mi riferisco, per
restare nel campo degli schieramenti partitici, all’intero arco del
centro-destra, ed al “mistero” dei Cinquestelle (che
condividono, accentuandolo, il ruolo di “blocco” della casta, ma restano incapaci, ad oggi, di offrire credibili
percorsi alternativi, forse perché troppo acciecati dal furore iconoclastico
anti-partiti) L’insieme
di queste componenti, per restare alla prossima scadenza referendaria, è
orientato per il NO (senza nessuna
certezza di portare anche solo il proprio elettorato su questa posizione) ma visto unicamente come occasione
strumentale per l’apertura di una crisi del Governo, peraltro non poco
“aiutati” in questo senso. E’ una precisazione importante, a mio avviso, per
sgombrare il campo da possibili equivoci: la seconda modalità di lettura della
crisi è, a tutt’oggi, priva di una chiara ed organica rappresentanza politica, credo
che viva con “fastidio” (checchè ne dica la
ministra Boschi) la compresenza
strumentale di molti pronunciamenti per il NO, dai quali è lontanissima come
analisi e strategie, e poggia quasi esclusivamente su una sensibilità diffusa,
specie nell’elettorato di centro-sinistra, e sulle prese di posizione di singoli intellettuali,
e di un insieme variegato di associazioni di base
o La visione alternativa della crisi,
quella che usando la dicotomia da cui sono partito apparterebbe a chi privilegia
la “rappresentanza”, la considera molto più profonda e grave. Il nostro paese
ha attraversato una fase di crescita economica e sociale, quella del boom e del
“trentennio d’oro”, sicuramente irripetibile. Sta inesorabilmente rientrando
entro i parametri che le sono, stanti molte sue caratteristiche strutturali,
storicamente più propri (oltretutto nel
contesto di una Europa non di meno alle prese con un lento declino). Occorre, evitando inutili attivismi
ottimistici, essere consapevoli di questa situazione e operare con strategie
che di conseguenza cerchino di ricreare le migliori condizioni per una vera
ripresa. Condizione indispensabile è quella di ricostituire un rapporto
paese-politica (partiti ed istituzioni) simile a quello che, frutto della
carica ideale del dopoguerra, ha contribuito in misura decisiva a realizzare la
straordinaria crescita nei decenni immediatamente successivi. Quel rapporto di
reciproca fiducia e sinergia si è progressivamente interrotto sicuramente per
la degenerazione oligarchica e corporativa dei partiti, ma anche per il riaffiorare
di italici storici vizi (disinteresse per la
cosa pubblica, difesa furbesca dell’interesse “particulare” con evasione
fiscale ed economia sommersa, intere parti del paese sotto controllo criminale,
corruzione e clientelismo, tanto per citarne alcuni). E’ una illusoria prospettiva quella
di pensare che l’inversione di rotta sia ottenibile con il solo rafforzamento
dell’Esecutivo, specie se a costo di una forzatura sugli spazi democratici. Che
vanno invece ampliati e rigenerati per consentire non solo una sorta di nuova
Resistenza (intesa come forte tensione civile la
più diffusa possibile)
ma anche, con essa, il ricrearsi di una classe politica che ne sia espressione
(la sola rottamazione di quella vecchia non è
garanzia della qualità di quella presunta nuova, come la cronaca quotidiana
dimostra). Occorre
sicuramente uno sforzo di efficientamento dell’azione di Governo, ma evitando,
nel considerarla risolutiva di tutti i problemi, di ottenerla allentando
ulteriormente il legame paese-politica; occorre anche un riaggiustamento,
giudizioso e mirato, di parti importanti della Costituzione ma non a scapito
della sua impronta democratica
o Si aggiungono alcune preoccupazioni
specifiche riferibili, come da più parti viene sottolineato, (e così la penso anch’io), più alla nuova Legge Elettorale che
alla riforma costituzionale. Lo slogan che così gli italiani sapranno subito
chi ha vinto e chi li governerà in modo stabile per cinque anni suona ormai
come un disco rotto. Lo si può sapere da subito benissimo ma senza consegnare
ad un partito ed al suo leader un potere così ampio e così incontrollabile. (l’ipotesi che quel partito e quel leader possa essere
un partito populista, e molte condizioni agevolano questa prospettiva, ed il
Salvini del momento dovrebbe farci riflettere).
o Ovviamente personalmente propendo per
la seconda lettura della crisi, della situazione del paese, e delle prospettive
per “tentare” di uscirne fuori. Chiudo il racconto delle motivazioni del mio NO
concordando con la preoccupazione diffusa sui toni inutilmente esasperati (ben cinque mesi prima!) della campagna referendaria (peraltro in linea con il brutto percorso parlamentare
della sua approvazione, non passerà alla storia come un pagina positiva quelle
aule vuote al momento del voto finale).
Mi auguro che, con toni più calmi e ragionati, ci sia la possibilità di
discuterne serenamente facendola davvero diventare, al di là del suo esito, una
occasione per quell’inversione di tendenza del rapporto politica – paese.
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