sabato 28 maggio 2016

Le mie ragioni per votare NO - Fagiano Giancarlo


Queste sono le ragioni

che mi faranno votare NO al referendum

(anche se non è la riforma costituzionale in sé la vera questione)



……si battono per l’idea, non avendone…….(Ennio Flaiano)



Per curiosità e indole personale sto cercando, leggendo e ascoltando i pareri sia di chi è per il SI sia di chi è per il NO, di farmi una personale opinione, la più ragionata possibile. Ad oggi, ma non credo che mi succederà di cambiare idea, penso che al prossimo referendum di Ottobre voterò un convinto NO.

Se qualcuno mi chiedesse di dire in poche parole il perché risponderei, dovendomi limitare al quesito referendario secco, che il nostro SI o NO deve valutare la modifica costituzionale per quello che è, per come è venuta fuori, non per il gradimento, o viceversa, verso chi l’ha promossa, come strumentalmente da più parti si cerca di fare, e che quindi, in questo senso, voterò NO perché, sulla base di quanto ho capito, la considero una brutta riforma, con molte contraddizioni, a rischio di buon funzionamento ed effettiva applicabilità, in sostanza così mal scritta in tante parti da disattendere le sue stesse finalità.

So bene quanto sia difficile maturare una personale opinione su temi che vedono divisi gli stessi esperti, molti costituzionalisti sono apertamente schierati per il NO, ma molti lo sono per il SI, e gli uni e gli altri lo sono proprio sulla base di differenti valutazioni di merito sulle modifiche introdotte. Se non c’è unanime accordo sulla materia fra i “tecnici” costituzionalisti credo sia inutile, e pretenzioso, improvvisarci noi esperti in materia. Letto quanto possibile, ascoltato quanto disponibile, riflettuto il giusto, giunge il momento di affidarsi alle ragioni di “testa”, ma anche a quelle del “cuore”, scegliendo fra tutte le opinioni incontrate quelle che ci sembrano più convincenti. Ed è quello che ho sin qui fatto.

Devo dire però che questa divisione, anche netta, fra costituzionalisti ha in qualche modo inciso: la mancanza di un minimo comune giudizio di merito non depone a favore della bontà “tecnica” della riforma, vuol dire che essa comunque si presta a giudizi fortemente contrastanti, ed una norma costituzionale, se ben fatta, dovrebbe per definizione unire e non dividere.

Ma è bene che io fin da subito confessi di non essere già in partenza predisposto ad un giudizio favorevole, perché questa riforma costituzionale, ed il suo tormentato percorso elaborativo ed approvativo, sono solo un tassello, ovviamente molto importante, di un più generale processo riformatore che poggia su considerazioni, e si pone obiettivi, che apertamente non condivido.

Riprenderò questo decisivo aspetto ma per intanto, tornando alla richiesta di quel qualcuno di spiegare il mio NO, se potessi usare qualche parola in più, facendo il possibile perché non siano troppe (ma la questione è quanto mai complicata) e sperando che possano essere in qualche modo utili a lui, e perché no anche ad altri, preciserei, sulle singole questioni di merito, che:


Ø la necessità di modificare la Parte Seconda - Titolo I della Costituzione “L’ordinamento della Repubblica” poggia sulla volontà di “superare il bicameralismo paritario (perfetto)”, reo di intralciare l’efficienza legislativa. La soluzione, drasticamente risolutiva, poteva consistere nella semplice soppressione della seconda Camera eliminando il Senato della Repubblica. (operazione tutt’altro che sconvolgente, non solo perché sono molti gli Stati democratici che hanno un sistema monocamerale, ma anche perché l’opzione del monocameralismo fu già oggetto di ampia discussione nell’ambito della stessa Assemblea Costituente che scrisse l’originale Costituzione. Sostenuta in particolare dal fronte delle sinistre - il PCI è sempre stato apertamente a favore del monocameralismo – venne al tempo giudicata non opportuna per l’Italia, e per gli italiani, che uscivano da una lunga dittatura, dal trauma della seconda guerra mondiale e dalle asprezze della Lotta di Liberazione). Fra l’altro, così facendo, si sarebbero ancor più pienamente ottenuti gli obiettivi, molto strumentalmente sbandierati, di riduzione del numero dei parlamentari e dei “costi della politica” (riprenderò questa tematica). Si è invece preferito (perchè consapevoli della rilevanza dei rischi connessi alla nuova Legge Elettorale?) mantenere in vita il Senato ma intervenendo pesantemente sulle sue funzioni e sulla sua composizione/eleggibilità.  Ed è qui che partono le prime contraddizioni ed incongruenze. Il monocameralismo non è stato quindi pienamente adottato, ma si è scelta una strana forma di monocameralismo (ovvero di bicameralismo) imperfetto, (la modifica dell’Art. 55 prevede infatti che siano attribuite solo alla Camera dei Deputati la rappresentanza della Nazione, la funzione legislativa, la funzione di indirizzo politico e quella di controllo dell’operato del Governo)  corretto dalla presenza di un Senato (a cui, sempre Art. 55, sono attribuite la rappresentanza delle Istituzioni territoriali, la partecipazione al procedimento legislativo, la funzione di raccordo tra lo Stato e gli enti territoriali e la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni). Ma non è assolutamente chiaro di che cosa si occuperà veramente questo Senato (delle Regioni)! Non si capisce bene in cosa veramente consisterà questa ……partecipazione al procedimento legislativo…..! Il successivo Art. 70, che dovrebbe definire le leggi che possono rientrare nella competenza del nuovo Senato, è ormai diventato un mito giuridico: i costituzionalisti si stanno divertendo a contare i possibili iter legislativi (chi dice sette, chi nove, qualcuno è arrivato a undici!!!!!). Non solo: sempre nell’Art. 70 è scritto testualmente che…..ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei Deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo…. Facile immaginare che in una situazione di diversa maggioranza fra Camera dei Deputati e Senato (possibilissima stanti le diverse modalità di elezione) le logiche di ostruzionismo avrebbero di che sbizzarrirsi, con grave rischio di ulteriore lentezza legislativa (anche per la pesante ricaduta di un disposto dell’Art. 72 di cui dirò in seguito) e pertanto molto lontani dalla semplificazione e dall’efficienza desiderati. Personalmente non considero uno scandalo il superamento del bicameralismo paritario, anzi, anche se non credo sia l’unico responsabile del cattivo funzionamento parlamentare, ma condivido le forti, e diffuse, perplessità sulla nuova architettura istituzionale prevista dalla riforma. Non si fa una riforma, specie se costituzionale, con l’ossessione di realizzarla anche a costo della sua linearità e consistenza, se si ritiene imperativo l’obbligo di farla non meno imperativo deve essere quello di farla bene, il più possibile al riparo da incertezze e interrogativi. Nella sua stesura finale questa riforma della parte dedicata all’ordinamento dello Stato, mi pare un guazzabuglio giuridico frutto di troppi compromessi e aggiustamenti in corso d’opera, ben lontana, così com’è, dal realizzare le sue stesse finalità. La giudico quindi in sostanza peggiorativa. E’ un primo “perché” per il mio NO. (Forse avrebbe avuto più coerenza e consistenza una scelta più coraggiosamente mono-cameralistica affiancata da un rafforzamento significativo della Conferenza (permanente) Stato-Regioni, a maggior ragione visto il notevole ridimensionamento delle competenze regionali previste con la modifico del Titolo Quinto, di cui dirò)

Ø (parentesi semantica: la Costituzione è la Legge fondamentale dello Stato, il punto di riferimento più importante per tutti i cittadini, di ogni livello di istruzione. Deve, ripeto, deve essere scritta in modo chiaro, semplice, comprensibile a chiunque. Deve poter essere insegnata nelle scuole a partire dai primi gradi di istruzione. E’ quanto riuscì splendidamente a fare l’Assemblea Costituente. Confrontando il testo originario dell’Art. 70 con quello riscritto con questa riforma si misura la distanza, in questo aspetto fondamentale, del nuovo testo costituzionale da quello originario)

Ø Ferme restando le perplessità sulle effettive competenze si è quindi deciso che il nuovo Senato rappresenti le istituzioni territoriali (ipotesi che era già stata prefigurata in Assemblea Costituente, ma al tempo giustamente scartata per le evidenti eccessive differenze fra le diverse parti dell’Italia), in linea teorica non vi sarebbe nulla da eccepire, la misura della coerenza e validità della scelta fatta consiste però nelle effettive modalità previste per attuare questa rappresentanza. Ebbene: si è immaginato – Art. 57 - un Senato di cento membri (95 + 5), con una consistente riduzione dai 315 attuali, ma con una ripartizione quanto meno bizzarra: a formare i 95 (anche se su questi numeri grava ancora incertezza) concorrono 74 consiglieri regionali eletti dai Consigli regionali di appartenenza, in conformità alle scelte espresse dagli elettori in sede di elezione degli stessi Consigli (non si sa in cosa consisterà questa conformità, una specifica legge ordinaria lo chiarirà successivamente) e 21 saranno sindaci eletti dai Consigli regionali, nella misura di uno per ciascuno, fra tutti i sindaci dei comuni della Regione (non viene fissato alcun criterio per cui, ad esempio, per il Piemonte il sindaco indicabile potrebbe essere quello di Torino oppure quello di Moncenisio o Valgioie), i 5 senatori restanti sono quelli nominati dal Presidente della Repubblica tra i cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Questi ultimi cinque senatori (non più a vita)  rappresentano una autentica contraddizione, a rischio di essere giudicata incostituzionale rispetto alla natura di rappresentanza territoriale del Senato (non si capisce infatti la relazione fra chi ha illustrato la Patria e la nuova natura del Senato), ma certamente di difficile gestione “politica”: infatti sul totale di cento senatori i cinque nominati dal Presidente della Repubblica rappresentano un numero significativo in grado di incidere in misura decisiva sull’esito delle votazioni snaturando vieppiù la rappresentanza territoriale del Senato. Questione questa tutt’altro che marginale che testimonia una volta di più della “cattiva” scrittura della riforma costituzionale. La riduzione dagli attuali 315 senatori ai futuri 100 viene comunque vantata come il risultato concreto della ferma volontà di ridurre il numero dei parlamentari e quindi i costi della politica. Le cifre sono indiscutibili, ma non mancano i però. Molti evidenziano che a fronte di una Camera dei Deputati, ferma a 630 membri (forse incidere anche su questo numero era reso impossibile dalla nuova Legge Elettorale, e magari dalle resistenze “corporative” dei partiti tutti), sono stati ridotti quei parlamentari, ossia i Consiglieri Regionali/Senatori, che dovrebbero proprio rappresentare i territori aumentando così la distanza fra cittadini/elettori ed eletti (ogni Regione potrebbe avere da un minimo di due ad un massimo, conti alla mano, di cinque senatori). La riduzione dei costi della politica, che è questione ben più ampia dei costi parlamentari, era ottenibile, in misura analoga, ad esempio intervenendo sull’ammontare delle indennità di tutti i Parlamentari. Ad aumentare la “stranezza” del nuovo Senato concorrono poi altre incomprensibili caratteristiche: l’immunità concessa al Senatore, ma non al Consigliere, anche se è la stessa persona, (altro aspetto a rischio di incostituzionalità, chi decide dove comincia uno e finisce l’altro?), Senatori che, in quanto Consiglieri, decadono automaticamente se decade il Consiglio Regionale di appartenenza, tanto per citarne qualcuna. L’impressione di un testo costituzionale quanto meno raffazzonato è confermata dalla espressa (inevitabile conseguenza dei troppi punti oscuri) intenzione di definire molti passaggi tutt’altro che secondari, come quelli citati, con successive Leggi ordinarie; ora a me pare strano chiedere un voto confermativo ad un testo di riforma costituzionale quando sue parti significative saranno decise successivamente in modo autonomo dal Parlamento! La  confusione normativa ed il mandato confermativo al buio sono il secondo perché del mio NO.

Ø Tralascio altri aspetti contraddittori della riforma del Titolo I, non perché siano marginali, ad esempio non lo sono le norme relative alle leggi di iniziativa popolare ed i referendum, ma perché il giudizio non positivo su questa parte della riforma è, come appena detto, già ampiamente motivato

Ø Passando al Titolo II della Parte Seconda – Il Presidente della Repubblica - si entra nel vivo di una delle conseguenza della nuova Legge Elettorale ed in particolare dell’impressionante premio di maggioranza che viene attribuito al partito vittorioso alle elezioni politiche per la Camera dei Deputati (340 seggi su 630), quando messa in relazione con il nuovo testo della Costituzione. La maggioranza richiesta per eleggere il Presidente è – Art. 83 - fissata in:

− 2/3 dell’assemblea dal primo al terzo scrutinio;
− 3/5 dell’assemblea dal quarto al sesto scrutinio;
− 3/5 dei votanti dal settimo scrutinio

Sono livelli di quorum richiesto più alti di quelli attuali e ciò sembra testimoniare la consapevolezza della necessità di un adeguato contrappeso alla maggioranza nella Camera dei Deputati. Consapevolezza che però sembra improvvisamente svanire dal settimo scrutinio in poi!  Fare riferimento ai votanti è una novità assoluta, a parere di molti di oscuro significato specie se posta in relazione alla acquisita e condivisa (?) opportunità che il Presidente della Repubblica, ossia di tutti gli italiani, sia eletto con il concorso più ampio possibile. Lecito immaginare un collegamento, a questo punto non più virtuoso, proprio con la nuova Legge Elettorale: il peso straordinario attribuito al partito di maggioranza è tale da non incentivare più di tanto la ricerca di quella ampia convergenza, fino al punto di poter indurre (scene recentemente viste più volte) una parte dell’Assemblea a non partecipare al voto a fronte delle difficoltà ad individuare un nome condiviso. Ovviamente è augurio di tutti che, per ragioni ovvie, non si verifichi mai un passaggio simile.  Ma è davvero difficile, anche a non voler essere sospettosi, immaginare altre motivazioni a giustificazione di una novità che consegna, a tutti gli effetti, la possibilità per il partito di maggioranza (e meglio ancora al suo leader e Presidente del Consiglio dei Ministri) di scegliere “da soli” il Presidente della Repubblica. Forzatura sempre e comunque scandalosa quella di passare ai “votanti”? Magari non del tutto in via teorica se inserita in altri contesti, lo diventa inevitabilmente con una Camera dei Deputati così formata e con un Senato così ridimensionato. Un altro perchè, anche se il punto dolente sta ovviamente nella Legge Elettorale, per il mio NO

Ø Anticipo, per analogia di considerazioni, il giudizio sulla modifica del Titolo VI – Garanzie Costituzionali, ossia la nomina della Corte Costituzionale. Anche questa modifica presenta caratteristiche quanto meno bizzarre, quando non “pericolose”. Il ruolo della Corte Costituzionale è sicuramente decisivo per il corretto funzionamento della vita democratica del nostro paese, in quanto organo supremo, quindi con giudizi inappellabili, che decide in particolare sulla “costituzionalità” delle Leggi e dei rapporti fra gli organi dello Stato. La sua “autonomia”, ovvero il suo eventuale “controllo”, rappresentano pertanto uno snodo centrale. La nuova versione della Costituzione modifica – all’Art. 135 – solo un dato: quello relativo alle modalità della sua elezione: i quindici membri, numero confermato, sono nominati in numero di cinque dai supremi organi della Magistratura, aspetto invariato,  in numero di cinque dal Presidente della Repubblica, anch’esso invariato, (attenzione però! dal Presidente eletto nel nuovo modo appena evidenziato!) ed infine, novità, in numero di tre dalla Camera dei Deputati ed in numero di due dal Senato. Altre “bizzarrie”. La prima: tre in rappresentanza dei 630 Deputati e due dei 100 senatori, difficile sostenere che ci sia proporzione (salvo pensare ad un freudiano senso di colpa per lo strapotere decisionale del partito di maggioranza!). La seconda, a rischio di incostituzionalità, consta nel fatto che viene introdotta una componente, il nuovo Senato, che come si è visto rappresenta le istituzioni territoriali, entro un organo di garanzia costituzionale e quindi non territoriale. Le due diverse nature giuridiche non coincidono. Ovviamente la preoccupazione più grande, che resta quella relativa allo strapotere, direttamente ed indirettamente, consegnato al partito di maggioranza (nel caso della Corte Costituzionale potrebbe teoricamente far eleggere ben dieci membri su quindici!), non deriva, anche in questo caso, dalla riforma costituzionale, ma dalla nuova Legge Elettorale; certo è però che la prima, ben oltre le incongruenze di scrittura, pare prestarsi bene al gioco della seconda! Mi è proprio impossibile non trovare anche in questo passaggio un altro importante perché che rafforza il mio NO

Ø Proseguo il mio personale giudizio sui contenuti specifici della riforma costituzionale, con una valutazione “politica” delle modifiche apportate al Titolo V – Le Regioni, le Provincie, (eliminate) i Comuni. Non sono modifiche che incidono sul giudizio negativo, hanno una loro logica che in gran parte condivido (questione delle Provincie a parte). E’ però necessario fare un passo indietro, ad una analoga modifica al Titolo V, che consente alcune riflessioni a mio avviso importanti. Nel 2001 l’allora governo di centro-sinistra varò una significativa riforma del Titolo V, confermata da tutti noi (non da me, votai contro) in un successivo referendum, che, in ottica fortemente federalista, conferiva alle Regioni notevoli competenze in materie fino a quel momento attribuite allo Stato centrale. Non è il caso qui di entrare nel merito (cito solo una “perla”: la rincorsa a dimostrarsi il più possibile federalisti fece sì che venne prevista per ogni Regione la possibilità di avere autonomi ambasciatori presso gli Stati esteri!!!) ma ritengo importante ricordare che la modalità di approvazione di quella riforma (indiscutibilmente messa in atto anche per  scopi elettorali ossia  per togliere legna al fuoco del federalismo leghista), passata a colpi di fiducia e con il voto della sola maggioranza, primo caso nella storia della Repubblica italiana (non diversamente quindi da quanto successo anche per questa riforma) è inesorabilmente diventata la giustificazione per analoghe gestioni di tutti i successivi percorsi di modifica costituzionale (quello di Berlusconi in primis). Va notato per inciso che soli quindici anni dopo la stessa maggioranza politica che promosse nel 2001 quell’assurdo federalismo esasperato è stata costretta, visto il disordine che ne è conseguito, (al tempo previsto e denunciato dal fronte del NO, già allora però accusato di essere contro il cambiamento, il progresso, etc.), a fare marcia indietro riportando nella sfera statale praticamente tutte le competenze concesse allora. Dovrebbe essere un significativo monito a procedere con la giusta cautela, e con la più ampia condivisione, quando si mette mano alla Costituzione

Ø Ritorno, come anticipato ed a chiusura della mia personale valutazione nel merito delle modifiche costituzionali – quelle che spiegano il mio NO per la parte di valutazione nel merito specifico della riforma -  al Titolo II della Parte Seconda, ed in particolare alla modifica introdotta all’Art. 72, una modifica all’apparenza asettica ed esclusivamente procedurale, ma che invece, a mio avviso, è una ulteriore conferma, tutt’altro che secondaria, dell’avvenuto sbilanciamento a favore dell’Esecutivo (Governo) di una parte significativa del potere finora in capo al Legislativo (Parlamento). Ho preferito lasciare questo passaggio per ultimo perché offre lo spunto per precisare le mie opinioni sugli aspetti generali, di fondo, dell’intero percorso riformatore avviato in questa Legislatura. Non vi sono infatti appunti di carattere “tecnico”, la norma introdotta è chiara, comprensibile a tutti, coerente. Essa precisa che il Governo può chiedere alla Camera dei Deputati di deliberare, entro 5 giorni dalla richiesta, che un proprio disegno di legge sia iscritto con priorità all’ordine del giorno, e che tale disegno di legge sia sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei Deputati entro il termine di 70 giorni. Possono essere gestiti con questa procedura prioritaria tutti i provvedimenti legislativi – escluse le leggi ad approvazione paritaria di camera e Senato, le leggi in materia elettorale, le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, le leggi di concessione dell’amnistia e dell’indulto e la legge che reca il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri per l’equilibrio di bilancio – che il Governo stesso ritiene “essenziali” per la realizzazione del proprio programma. Una norma che “premia” l’attivismo governativo esentandolo dalle normali tempistiche legislative. Sembra un “normale” incentivo all’efficienza, al decisionismo, un ulteriore “bonus” a chi ha già goduto di un significativo “premio di maggioranza”. Ed in effetti questo è. Ma è anche, a mio modesto avviso, qualcosa di più: è il completamento normativo dell’accentramento di potere nelle mani dell’Esecutivo. Ripeto: non vi sono in questo caso errori, passaggi controversi e a rischio di inapplicabilità, non si tratta di una “bizzarria”. Si tratta della possibilità per il Governo di forzare, in base ad autonome valutazioni, il calendario parlamentare (di quel Parlamento nel quale può contare su una maggioranza inattaccabile) imponendo corsie preferenziali alle proprie leggi e alterando, in linea teorica, senza soluzione di continuità il normale lavoro della Camera. Significa, in sostanza, il rischio concreto di svuotare in modo significativo il reale potere legislativo del Parlamento.

Ma non faccio rientrare questa considerazione nel novero di quelle che spiegano il mio NO alla riforma per le specifiche ragioni di merito (che ho cercato fin qui di illustrare) perché si presta in modo lampante ad allargare questa mia riflessione sugli aspetti generali, di fondo, quelli che stanno alla base, come già anticipato, dell’intero percorso riformatore messo in atto negli ultimi due anni, ma che ha evidenti radici ben più lontane nel tempo.

A maggior ragione, stante l’ampiezza dei temi, cercherò di dire con la massima sintesi possibile, a costo di un eccessivo schematismo, e concentrandomi su una specifica problematica, quella delle logiche che spingono verso il rafforzamento dell’esecutivo, che sintetizza una vasta gamma di aspetti e questioni (impossibile affrontarle tutte in questa sede). Questa problematica attraversa in modo trasversale, e spesso sotterraneo, l’intero campo politico e l’intera opinione pubblica, e sintetizza due opposte visioni del paese, della sua storia più o meno recente, del suo possibile futuro. Non sono quindi interessato più di tanto alle prese di posizione dei singoli partiti, buona parte di essi non affrontano neppure queste problematiche e si limitano a continue campagne propagandistiche del tutto strumentali (quando non pericolosamente populiste).

Restiamo in tema:

o  il fronte del SI tende, legittimamente dal suo punto di vista, a presentare la scelta che dovremo fare, dando anch’esso per scontato che il voto referendario sarà un giudizio sull’insieme della riforma costituzionale e della Legge Elettorale, alternativamente, quando in vena di ragionamenti “alti” come l’espressione di una preferenza fra “governanza” (termine entrato di recente nel vocabolario politico come brutta traduzione di governance, sostituendo  “governabilità”, da sempre usato in modo improprio, che sembra per fortuna essere passato di moda) e “rappresentanza”, quando in veste di propaganda pura e semplice come la battaglia fra chi guarda al futuro e chi è fermo al passato, fra chi vuole “fare” e gli immobilisti corporativi, fra chi riduce parlamentari e costi e gli inciucisti, e via discorrendo.

o  non merita particolare attenzione la seconda versione, anche se temo che sarà lo slogan privilegiato di buona parte della campagna per il SI. Con effetti rilevanti: basti pensare che mette insieme l’opinione di “chi conta e sa” (penso, tanto per citarne uno. a Giovanni Bazoli, da una vita top manager bancario e finanziario, ed uomo di fine cultura, che ha dichiarato di votare Si perché “è una brutta riforma, ma è una riforma”) e di chi “non conta e non sa” (il classico uomo della strada che voterebbe tutto quello che sembra togliere qualcosa ai politici). Invito alla lettura dell’interessante saggio di Nadia Urbinati “La vera seconda Repubblica” che ripercorre con estrema lucidità la costruzione della “mitologia” della necessità continua di riforme, costituzionali ed elettorali, incessante ritornello che ha una lontana origine nella famosa “legge truffa” voluta dalla DC nel lontano 1953 (era una proposta di Legge Elettorale che attribuiva al partito di maggioranza relativa alle elezioni un premio di maggioranza, peraltro molto più contenuto rispetto a quello attuale, fortemente contrastata dal PCI). Aggiungo per dovere di precisione che un altro slogan ripetuto all’infinito cita che questa legislatura finalmente attuerà un riforma costituzionale mettendo fine all’immobilismo di chi l’ha preceduta. Ebbene dal 1947 al 1989, data non incidentale, vennero attuate cinque revisioni costituzionali, dal 1989 ad oggi ne sono state portate a termine quindici, questa esclusa! Si noti che la Costituzione americana nei suoi duecento e più anni di vita ha conosciuto trenta emendamenti. Altro inciso: quello di cui stiamo parlando non è una “riforma” perché muovendosi nell’ambito di quanto previsto dall’Art. 138 della Costituzione la corretta definizione è “revisione”; ma, va da sé, usare il termine “riforma” è tutt’altro biglietto da visita

o  è bene invece concentrarci sulla contrapposizione fra governanza e rappresentanza. A mio modesto parere siamo di fronte ad una narrazione di comodo che si limita a considerare il passaggio finale di una diversità di opinioni molto più complessa ed articolata. Non mi pare inoltre né corretto né sostenibile ridurre il dibattito in corso ad una divisione di campo tracciata con l’accetta: da una parte i sostenitori del rafforzamento dell’azione di governo costi quel che costi, dall’altra gli strenui e nostalgici difensori di ogni possibile spazio democratico anche a costo di frenare l’indispensabile concreta azione di governo. Non credo che una ottimizzazione dei meccanismi decisionali debba necessariamente comportare una soppressione o limitazione dei diritti democratici, così come non credo che il richiamo alla costante attenzione a non soffocare la democrazia sia di per sé un impedimento a soluzioni che guardino all’efficienza ed ai necessari spazi di manovra dell’Esecutivo.

o  occorre a mio avviso, come anticipato, andare oltre per far emergere i presupposti “a monte”. E a me pare, così facendo, che si riveli una diversa interpretazione di quello che parrebbe essere il comune punto di partenza. Le due opposte visioni sembrano infatti partire dalla comune constatazione della profonda crisi che da decenni, accentuatasi nell’ultimo, sta interessando il nostro paese. Ma la comunanza si esaurisce nella sola constatazione

o  da una parte infatti prevale una lettura della crisi come il prodotto di un “blocco” decisionale, imputabile sia alla sterile occupazione delle istituzioni da parte dei “vecchi” partiti sia alla inadeguatezza delle norme e degli ordinamenti che reggono il funzionamento della democrazia italiana. Il paese ha potenzialità, energie, risorse, adeguate a reggere la sfida della globalizzazione, a gestire gli sconvolgimenti epocali che stiamo vivendo, a valorizzare il ruolo che l’Italia può svolgere nel processo di unificazione dell’Europa. Ma queste potenzialità devono potersi esprimere al loro meglio, per farlo richiedono tempi e meccanismi decisionali adeguati. Diventa prioritario far saltare quel blocco, forzare la trasformazione del sistema dei partiti, creare le condizioni normative e di ordinamento, anche costituzionale, che consentano ad un governo, espresso da una maggioranza certa e forte, di svolgere una adeguata azione di rinnovo del paese. Questa lettura della crisi ha trovato negli ultimi anni una vigorosa sponda nella nuova direzione del PD e del suo nuovo leader e ha quindi avuto una notevole accelerazione

o  è necessario, per chiarezza di analisi, precisare che, al di là del condividerla o meno,  quanto ho molto schematicamente riassunto rappresenta una “narrazione” della realtà italiana, e dei percorsi strategici da seguire, articolata e organica, da valutare con la giusta attenzione e considerazione. Ripeto quindi subito quanto ho già anticipato sulla “inconsistenza” di una parte significativa dell’opposizione a questa prospettiva politica.  Mi riferisco, per restare nel campo degli schieramenti partitici, all’intero arco del centro-destra, ed al “mistero” dei Cinquestelle (che condividono, accentuandolo, il ruolo di “blocco” della casta, ma restano  incapaci, ad oggi, di offrire credibili percorsi alternativi, forse perché troppo acciecati dal furore iconoclastico anti-partiti) L’insieme di queste componenti, per restare alla prossima scadenza referendaria, è orientato per il NO (senza nessuna certezza di portare anche solo il proprio elettorato su questa posizione) ma visto unicamente come occasione strumentale per l’apertura di una crisi del Governo, peraltro non poco “aiutati” in questo senso. E’ una precisazione importante, a mio avviso, per sgombrare il campo da possibili equivoci: la seconda modalità di lettura della crisi è, a tutt’oggi, priva di una chiara ed organica rappresentanza politica, credo che viva con “fastidio” (checchè ne dica la ministra Boschi) la compresenza strumentale di molti pronunciamenti per il NO, dai quali è lontanissima come analisi e strategie, e poggia quasi esclusivamente su una sensibilità diffusa, specie nell’elettorato di centro-sinistra,  e sulle prese di posizione di singoli intellettuali, e di un insieme variegato di associazioni di base

o  La visione alternativa della crisi, quella che usando la dicotomia da cui sono partito apparterebbe a chi privilegia la “rappresentanza”, la considera molto più profonda e grave. Il nostro paese ha attraversato una fase di crescita economica e sociale, quella del boom e del “trentennio d’oro”, sicuramente irripetibile. Sta inesorabilmente rientrando entro i parametri che le sono, stanti molte sue caratteristiche strutturali, storicamente più propri (oltretutto nel contesto di una Europa non di meno alle prese con un lento declino). Occorre, evitando inutili attivismi ottimistici, essere consapevoli di questa situazione e operare con strategie che di conseguenza cerchino di ricreare le migliori condizioni per una vera ripresa. Condizione indispensabile è quella di ricostituire un rapporto paese-politica (partiti ed istituzioni) simile a quello che, frutto della carica ideale del dopoguerra, ha contribuito in misura decisiva a realizzare la straordinaria crescita nei decenni immediatamente successivi. Quel rapporto di reciproca fiducia e sinergia si è progressivamente interrotto sicuramente per la degenerazione oligarchica e corporativa dei partiti, ma anche per il riaffiorare di italici storici vizi (disinteresse per la cosa pubblica, difesa furbesca dell’interesse “particulare” con evasione fiscale ed economia sommersa, intere parti del paese sotto controllo criminale, corruzione e clientelismo, tanto per citarne alcuni). E’ una illusoria prospettiva quella di pensare che l’inversione di rotta sia ottenibile con il solo rafforzamento dell’Esecutivo, specie se a costo di una forzatura sugli spazi democratici. Che vanno invece ampliati e rigenerati per consentire non solo una sorta di nuova Resistenza (intesa come forte tensione civile la più diffusa possibile) ma anche, con essa, il ricrearsi di una classe politica che ne sia espressione (la sola rottamazione di quella vecchia non è garanzia della qualità di quella presunta nuova, come la cronaca quotidiana dimostra). Occorre sicuramente uno sforzo di efficientamento dell’azione di Governo, ma evitando, nel considerarla risolutiva di tutti i problemi, di ottenerla allentando ulteriormente il legame paese-politica; occorre anche un riaggiustamento, giudizioso e mirato, di parti importanti della Costituzione ma non a scapito della sua impronta democratica

o  Si aggiungono alcune preoccupazioni specifiche riferibili, come da più parti viene sottolineato, (e così la penso anch’io), più alla nuova Legge Elettorale che alla riforma costituzionale. Lo slogan che così gli italiani sapranno subito chi ha vinto e chi li governerà in modo stabile per cinque anni suona ormai come un disco rotto. Lo si può sapere da subito benissimo ma senza consegnare ad un partito ed al suo leader un potere così ampio e così incontrollabile. (l’ipotesi che quel partito e quel leader possa essere un partito populista, e molte condizioni agevolano questa prospettiva, ed il Salvini del momento dovrebbe farci riflettere).

o  Ovviamente personalmente propendo per la seconda lettura della crisi, della situazione del paese, e delle prospettive per “tentare” di uscirne fuori. Chiudo il racconto delle motivazioni del mio NO concordando con la preoccupazione diffusa sui toni inutilmente esasperati (ben cinque mesi prima!) della campagna referendaria (peraltro in linea con il brutto percorso parlamentare della sua approvazione, non passerà alla storia come un pagina positiva quelle aule vuote al momento del voto finale). Mi auguro che, con toni più calmi e ragionati, ci sia la possibilità di discuterne serenamente facendola davvero diventare, al di là del suo esito, una occasione per quell’inversione di tendenza del rapporto politica – paese.

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