DOCUMENTAZIONE IN MERITO AL PROSSIMO QUESITO REFERENDARIO
SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE
UNA
REVISIONE COSTITUZIONALE CON ALCUNE BUONE INTENZIONI E MOLTE CONTRADDIZIONI
Una valutazione “tecnica” espressa da Umberto Allegretti (Professore
emerito di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli Studi di
Firenze) ed Enzo Balboni (Professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico
nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) – membri del Comitato
Dossetti per la Costituzione (al quale aderiscono, fra gli altri Raniero La
Valle – che ne è il Presidente – e Valerio Onida – Presidente emerito della
Corte Costituzionale)
È complicato prendere
posizione nel dibattito scientifico ed accademico che sta crescendo intorno
alla Legge di revisione costituzionale, che convenzionalmente (ma non solo)
viene battezzata (Napolitano)-Renzi-Boschi. Si corre il rischio, infatti, di
aggiungere la propria voce ad un coro che canta, spesso, sopra le righe del
pentagramma, in cui a toni fin troppo ossequiosi si alternano accenti polemici
poco fondati, molto gridati e scarsamente lucidi. Una corretta valutazione
tecnico-giuridica dei temi in esame richiederebbe, a nostro avviso, un
approccio più sobrio e laico rispetto a quello che viene, in genere, adottato. Con questa considerazione non intendiamo
trascurare l’intelligente contributo di molti colleghi, né vogliamo sminuire la
valenza “politica” e culturale delle problematiche che si sono piantate davanti
a noi e che avranno il loro sbocco nel referendum “approvativo” di ottobre.
Vogliamo soltanto ricordare che il terreno che si addice alla nostra
professione intellettuale deve continuare ad essere quello dell’analisi
giuridica e costituzionale, limitandosi ad essa. Proprio alla luce di ciò, ci sentiamo di affermare che un giudizio sintetico SI- NO
sulla riforma in esame risulta incongruo, anzi, impossibile. Il testo approvato, infatti, presenta
schematicamente cinque caratteri tra loro totalmente differenti, perché vi si
possono rinvenire interventi di qualità diversa: pessima, cattiva, neutra,
buona ed ottima. Facciamone una rapida e schematica rassegna. Non prima, però, di aver accennato al
fatto che l’impossibilità, teorica e pratica, di suddividere il referendum
sulla legge di revisione in quesiti autonomi e differenziati complica ulteriormente
il giudizio, rendendolo giocoforza complessivo. Sulla scorta
dell’immediato precedente del 2006, è ragionevole immaginare, infatti, che nel
mese di ottobre ci troveremo davanti ad una domanda di questo tenore: «Approvate
il testo della legge costituzionale concernente "Modifiche alla Parte II
della Costituzione" approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n…?”».
1. PESSIME sono, anzitutto, le
intentiones legis, per il fatto che esse si mostrano, in prevalenza,
compiacenti ed adattive, sia verso l’esterno – la mitizzata Europa– sia verso
l’interno, cioè verso l’elettorato che verrebbe, populisticamente, lisciato per
il verso giusto del pelo con l’asserita diminuzione della spesa pubblica. A
tale proposito, se era giusto sbarazzarsi di un ente poco amato come la
Provincia e dell’ingombro di un organo ausiliario come il CNEL ormai svuotato
di senso, resta l’esigenza di non uccidere, per questa via, anche la mediazione
sociale e la sussistenza di vitali corpi intermedi. Se torniamo, per un
momento, alle problematiche dell’Assemblea Costituente, il partito
democristiano e Mortati avevano auspicato una seconda Camera differenziata, che
si facesse carico della rappresentanza di interessi e corpi sociali. Era un
progetto discutibile – e fu battuto, in sede di votazione– ma almeno aveva una
sua coerenza e compiutezza. Taluno afferma: “è l’Europa che ci chiede a gran
voce le riforme; sono le istituzioni ed i burocrati di Bruxelles che ci
interrogano, continuativamente, sulla loro adozione”. Ma, a tale proposito
sarebbe bene chiarire cosa si intende per “riforme”, ricordando che si allude
ad interventi di (sana) modernizzazione sul fronte del mondo del lavoro (sia
privato, pubblico o autonomo), sulla scuola, sull’efficienza delle pubbliche
amministra- zioni (legge e decreti Madia, pur imperfetti), sul miglioramento
del servizio-giustizia, sulla sforbiciata ai privilegi delle Fondazioni bancarie
e per una piena immersione nel mercato capitalistico delle c.d. Banche popolari
ecc. Su tali materie, beninteso, sono stati fatti passi in avanti, in alcuni
casi anche decisivi. Da questi interventi occorre distinguere, però,
l’amplissima revisione costituzionale in esame (oltre 40 articoli), che
l’Unione Europea come tale certamente non ci chiede. Qui soccorre, invece, il
mantra delle “riforme per le riforme”, le quali rilevano, spesso, più per il
loro effetto mediatico ed alone propagandistico che per il genio di scacciare
un riformismo sanamente inteso. Pessima è stata, inoltre, la congiunzione tra
lo spirito del tempo presente e quello governato dagli dei che vegliano
sull’esprit constituent. È del tutto mancato, insomma, quel tono e quel tocco di
“solennità” che Rousseau riteneva elemento qualificante e necessario dei
processi costituenti. Rileggiamo le Considerazioni sul governo della Polo- nia
(1782) del grande ginevrino: “È contro la natura del corpo politico di imporsi
delle leggi che non possa revocare, ma non è né contro la natura né contro la
ragione che non possa revocare quelle leggi se non con la stessa solemnité che
ha impiegato per stabilirle”. Qui verrebbe in taglio una riflessione sul se e
sul quanto l’attuale classe politica parlamentare (e governativa) sia
legittimata a proporre una riforma costituzionale così ampia e profonda.
Sgombriamo il campo, da subito, dall’inciampo derivante da una presunta,
perduta, legittimazione dei parlamentari eletti con la legge “porcellum” dopo
la sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale, per il fatto che questo ci
appare argomento eccedente ad una lettura condivisibile delle conseguenze che
deriverebbero dalla sentenza citata. È vero, tuttavia, che l’approccio ad una
materia così delicata, ma al tempo stesso incandescente, avrebbe potuto e
dovuto essere più cauto e sorvegliato, sforzandosi di agire, non si pretende
für ewig, ma in modo tale da ridurre al minimo le spinte e le convenienze
congiunturali: che sono, invece, massicciamente presenti.
2. Tra le CATTIVE
novità, troviamo spesso il risvolto di cose buone, ma che sono state pensate
poco e fatte con trascuratezza. Prima fra tutte la composizione del “nuovo”
Senato della Repubblica, frutto di una serie di compromessi (nell’accezione
meno nobile del termine) che hanno dato vita ad un vero e proprio ircocervo, o,
se si preferisce, un ippogrifo o un merlogallo. Se è vero che dar nuova forma,
natura ed organizzazione alla Camera alta era un obiettivo ambizioso e
lungamente atteso, il risultato al quale si è approdati ci appare confuso ed
insufficiente, molto al di sotto delle aspettative. La trasformazione del Senato in luogo di
rappresentanza delle autonomie territoriali- e particolarmente di quelle
regionali- era da tempo tra i desideri e le speranze di molti tra noi, che
guardavano a questa riforma come al passaggio in cui l’assetto autonomistico
complessivo (ed al tempo stesso fondante) della nostra forma di Stato avrebbe
assunto un carattere compiuto. Non si può allora che esprimere delusione nel
rilevare come si sia deciso, alla fine di mercanteggiamenti sfiancanti e non
limpidi, di realizzare una “strana creatura”, nella quale la rappresentanza
regionale, quella comunale, quella presidenziale (dei senatori per sette anni)
e quella politica del cittadino-elettore per il tramite delle elezioni
regionali, saranno confusamente mescolate. Maggior chiarezza, almeno con
riferimento alla rappresentanza delle autonomie locali, ci sarebbe stata
stabilendo, ad es., che i sindaci venissero eletti dai Consigli delle Autonomie
locali (CAL) regionali e, forse, espungendo i componenti di nomina
presidenziale, il cui contesto naturale sarebbe stato -semmai- la Camera dei deputati. Su quest’ultimo punto, che sembra aprire – ma
troppo poco- ad una rappresentanza volutamente diversa o almeno ulteriore
rispetto alle altre, un’opzione alternativa avrebbe potuto prevedere che i
senatori di nomina presidenziale, aumentati di numero, fossero scelti in
rappresentanza di mondi vitali della cultura, dell’associazionismo, dell’impresa
e del lavoro (anche in ragione della già citata abrogazione del CNEL). Svolgere questo discorso, però, ci porterebbe
fuori dal nostro sentiero. La scarsa lungimiranza e la poca coerenza con cui è
stata immaginata la composizione del nuovo Senato – frutto di un confuso
compromesso interno allo stesso partito di maggioranza- affida un compito assai
arduo al legislatore ordinario. Sarà, infatti, alla fine, con legge dello
Stato, che, in un complicato e poco chiaro rapporto con le normati- ve regionali,
dovranno essere sciolti i nodi oggi rimasti intricati. È ovvio che se si fosse scelto il modello
Bundesrat questo grave difetto non ci sarebbe stato. Ma è risaputo che,
governando attualmente il centrosinistra 18 Regioni su 21, risultava difficile
far entrare direttamente nel nuovo Senato i Presidenti di Giunte regionali che,
presentandosi con la stessa maglietta, avrebbero costituito un “pacchetto di mischia”
troppo robusto. E ci mostra, una volta di più, come sia quasi impossibile fare
buone riforme avendo a disposizione materiali politici che sono,
inevitabilmente, lì per essere utilizzati…quando sarebbe buona cosa agire
“sotto il velo dell’ignoranza”, come ebbe la fortuna di fare l’Assemblea
Costituente. È da segnalare, inoltre, la maniera con la quale si vuole
procedere allo smantellamento del bicameralismo perfetto e paritario che, al di
là delle positive intenzioni di partenza - che vanno ribadite - risulta, allo
stato degli atti, un’occasione pressoché perduta. Di conseguenza, non vanno
bene i tanti (otto? nove?) procedimenti legislativi differenziati, originanti
dalla compartecipazione delle due Camere alla formazione di un rosario di leggi
varie e dall’armamentario di co-decisioni parziali che ne conseguono, per
diverse materie. Tra le occasioni perdute va annoverata quella riguardante una
nuova categoria di fonti parlamentari, le leggi organiche, già presenti nelle
costituzioni francese e spagnola e che si poteva sperare venisse adesso
inclusa, arricchendo la tipologia delle nostre fonti del diritto. Passando alla
sostanza della relazione tra Stato ed autonomie, risulta a nostro avviso grave
- avuto riguardo alla scelta univoca per il pluralismo autonomistico inserito
tra i principi fondamentali all’art. 5 e in presenza dell’ art. 114 - l’odierno
ri-accentramento a favore dello Stato che pervade per intero il nuovo Titolo V.
È a tutti noto che la riforma approvata nel 2001 non ha dato gran prova di sé,
ed è allo stesso modo evidente che alcune competenze (si pensi all’energia,
alle grandi reti infrastrutturali o al settore delle comunicazioni; al
necessario coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ecc)
dovevano essere, ragionevolmente, riportate in capo allo Stato. Non si può procedere, però, per questo motivo
e quasi per assioma ad una complessiva mortificazione delle autonomie. A tale
riguardo le pessime prove date, purtroppo, in tempi recenti dalle classi
politiche regionali e locali, finiscono per essere eccedenti rispetto, ad. es,
alla riesumazione di un vecchio arnese statalista e passe-partout qual è
l’interesse nazionale. Poteva bastare al riguardo la tutela dell’unità giuridico-economica
della Repubblica e, in ogni caso, sarebbe stato più opportuno sfruttare al
meglio il procedimento bicamerale, affidando a entrambe le Camere la competenza
in materia di livelli essenziali dei diritti concernenti le prestazioni
pubbliche (lettera m dell’art. 117, II comma). Ugualmente difettosa è la “non
soluzione” della disparità di trattamento tra le Regioni, risultando troppo
sbilanciata a favore di quelle speciali (motivata pragmaticamente dalla
necessità di accaparrarsi i voti decisivi dei senatori provenienti dai
territori c.d. speciali, in particolare quelli del Trentino Alto Adige), che
almeno conservano l’odierno status quo. Oltre a ciò l’apertura sull’art. 116,
III comma è ancora troppo timida, mentre poteva diventare la porta d’ingresso
per distribuire e incoraggiare competenze specializzate e diversificate
sull’intero territorio nazionale.
3. Veniamo in questo
modo agli interventi per così dire NEUTRI: quelli in cui tratti positivi ed
elementi criticabili si compensano. Rientrano in questa classificazione le
novità introdotte con riferimento alle procedure di elezione del Presidente
della Repubblica e dei giudici della Corte costituzionale. Quanto al primo
caso, si ritiene opportuna l’intenzione di evitare che una legge elettorale
maggioritaria (il nuovo Italicum) ed un rapporto squilibrato tra deputati e
senatori, possano incidere negativamente sul carattere terzo ed imparziale del
Capo dello Stato. Si segnala, però, il rischio che un quorum alto (i 3/5) possa
condurre ad eleggere, dopo una lunga stasi ed estenuanti trattative, figure con
caratura politica “minore”. Quanto al
supremo collegio, invece, si può ricordare che sia le ragioni dell’unità, sia
quelle della differenziazione devono trovare spazio all’interno della Corte, ma
senza introdurre, però, indebite (e minoritarie) figure quali sarebbero i due
giudici che, per fatale connessione, sarebbero battezzati “regionali”. Costoro,
per la modalità della loro elezione potrebbero vedersi applicare alla nascita
un fastidioso bollino partigiano. Ovviamente diverso, perché conforme ad un
vero sistema federale, resta il caso del Tribunale costituzionale di Karlsruhe,
composto per metà da giudici eletti dal Bundesrat. Neutre sono anche le
operazioni di manutenzione che si è inteso apportare ad un testo oggettivamente datato in alcune parti,
essendo in vigore da quasi settant’anni. Come la parola manutenzione
suggerisce, si tratta di attività necessarie per ridare movimento, fluidità o
regolarità alle istituzioni. Ci riferiamo, in particolare, all’introduzione del
principio di trasparenza della P.A., con cui si recepisce una consolidata
giurisprudenza ed all’invenzione dello statuto delle Opposizioni, che riprende
la tradizione del parlamentarismo anglosassone. Si tratta di interventi
importanti e da salutare positivamente, ma che sarebbero stati perseguibili
anche percorrendo altre strade, più piane. Poteva, a nostro avviso, essere
sufficiente intervenire attraverso leggi ordinarie ben fatte e, ancor più, con
una rivisitazione dal profondo, ma coraggiosa, dei regolamenti parlamentari, là
dove si annidano grumi corporativi ed interessi conservatori che avrebbero,
essi sì, bisogno della ramazza e della candeggina. La questione relativa allo
statuto delle Opposizioni, peraltro, meriterebbe un serio approfondimento.
Essa, infatti, si inserisce nel più generale tema delle garanzie politiche ed
evoca l’esigenza di contrappesi che riequilibrino le razionalizzazioni
apportate alla nostra forma di governo parlamentare. Sarà bene, pertanto,
vigilare, così come sarà opportuno agire tempestivamente in attuazione
dell’art. 49 della Costituzione per dare rilevanza ed esigibilità giuridica al
precetto secondo cui i partiti devono agire con metodo democratico.
Ci sono poi, nella
riforma proposta, anche delle realizzazioni indubbiamente BUONE. Per brevità ci limitiamo
a citare le seguenti: a) il tentativo di mettere fine all’inutile e costoso,
sotto tutti i profili a cominciare da quello dei tempi, bicameralismo perfetto
e paritario. Questa esigenza è risalente ed avvertita come urgente da una parte
ormai maggioritaria non solo dei costituzionalisti, ma anche dell’opinione
pubblica colta. Volendo dare una sola, ma significativa testimonianza, si
ricordi che di essa aveva cominciato a parlare, e non in modo generico, Giuseppe
Dossetti, già nel celebre discorso rivolto ai Giuristi cattolici nel 1951,
quando li aveva, per l’ultima volta, incitati ad affrontate decisamente e
coraggiosamente la problematica delle funzioni e dell’ordinamento dello Stato
moderno. Queste le sue parole: «Non bicameralismo integrale…che è,
evidentemente legato alla previsione, sempre, di una contrapposizione di poteri
e di un raro, difficile e infrequente operare dello Stato…». Tale giudizio
negativo fu rinnovato e perfezionato nel biennio 1994-96, quando anche Dossetti
si volse a criticare l’attuale bicameralismo paritario, patrocinandone il
superamento. Con ci risulta avvalorato, a nostro avviso, quel giudizio
contraddittorio, già annunciato nell’incipit, che deve darsi sul punto in
esame: l’esigenza c’era e c’è, ma si poteva provvedere diversamente b) altra cosa buona: tempi certi per la
calendarizzazione ed eventuale approvazione dei disegni di legge del Governo.
Ma, anche a tale proposito, è stata immaginata una procedura inutilmente rococo
e c’è, soprattutto, quella foglia di fico del termine “essenziale” in grado,
potenzialmente, di coprire qualunque iniziativa del Governo sotto un’aura di
aulica sacertà, perché cosa abbia o non abbia natura wesentlich fa parte dei
misteri delfici ed italici. Più laicamente e sobriamente, si poteva dire:
“prioritario” per lo svolgimento del programma di governo. Dopodiché, sul
potere del Governo e del Presidente del Consiglio dei ministri di dettare,
quando necessario, l’ordine del giorno dell’attività del Parlamento nessuno ha
niente da obiettare; c) i nuovi strumenti di democrazia diretta ed il positivo
tentativo di rivitalizzare il potere di iniziativa legislativa popolare, anche
con una modulazione dei quorum referendari che dovrebbe rafforzare la capacità
di controllo e le possibilità di partecipazione del corpo elettorale. Si
segnala che sarebbe stato opportuno agire, anche su questo punto, con maggior
determinazione; d) la competenza della Corte a giudicare sulla legittimità
costituzionale delle leggi elettorali ancor prima che queste siano messe alla
prova dei fatti. Ci si augura che, in questo modo, risulti impossibile
replicare la triste vicenda di leggi elettorali incostituzionali alla nascita;
e) apprezzabile è anche, l’aver assegnato al nuovo Senato il compito di
esercitare le funzioni di raccordo tra lo Stato e gli enti costitutivi della
Repubblica da un lato e l’UE dall’altro, nonché quello di valutare le politiche
e l’attività delle pubbliche amministrazioni, anche andando a verificare
l’impatto che l’azione dell’UE ha sui territori. Si può anzi chiosare, a tal proposito, che, se ben
fatto questo potrebbe essere un compito di straordinaria importanza per il
nuovo Senato; f) encomiabile, poi, il
passaggio che prefigura il parere del Senato su alcune nomine di competenza del
Governo e la verifica sull’attuazione delle leggi dello Stato. Sull’ultimo
punto, tuttavia, la genericità – peraltro consueta e scontata - della lettera
della riforma rinvia ad un atto di fede, come “sostanza delle cose sperate ed
argomento delle non parventi”.
A questo punto ci si
potrà chiedere se e cosa ci sia di OTTIMO nel testo di riforma, secondo quanto affermato
nell’incipit del nostro argomentare. Sono ottime le revisioni che non ci sono.
È un paradosso, ma non troppo, visti i tempi nei quali ci è dato vivere e
quelli che abbiamo appena oltrepassato. Pensiamo a qualche grave scivolata
intervenuta ai tempi della Commissione D’Alema in tema di
semi-presidenzialismo, ma specialmente sul terreno di una diminuzione
dell’autonomia della magistratura. Soprattutto riflettiamo, ad alta voce, su
quello che Leopoldo Elia aveva giustamente denunciato come il tentativo di
“premierato assoluto” insito nel progetto Berlusconi-Bossi. Su quest’ultimo
punto vale la pena ricordare che la riforma bocciata nel referendum del 2006
prevedeva un discutibile meccanismo di sfiducia costruttiva, che, accompagnato
ad una sostanziale ed inadeguata introduzione del principio “simul stabunt aut
simul cadent” avrebbe reso il Primo ministro di fatto inamovibile, con buona
pace della democrazia parlamentare ed anche del tanto elogiato “modello Westminster”. Almeno questi gravi timori, adesso, non sono
fondati e chi denuncia una “torsione autoritaria” e parla di “minaccia alla
democrazia” è fuori strada. Ugualmente, l’odierna pur scompaginata riforma del
Titolo V non mette a repentaglio la coesione territoriale e soprattutto sociale
del Paese, che era invece uno dei pericoli incombenti sul progetto Forza
Italia-AN-Lega del 2005. Brillano per la loro assenza, inoltre e per fortuna,
interventi a gamba tesa sull’indipendenza e autonomia della magistratura, a
cominciare dal ruolo del pubblico ministero; non si entra nel recinto della
Corte costituzionale, se non per l’assegnazione al Senato di due nomine su
cinque (ma rispetto a complessive quindici).
Neppure si modifica, infine, il procedimento di revisione dell’art. 138,
come invece aveva tentato di fare, sia pure una tantum, il d.d.l. Letta: anche
questa conservazione della garanzia esistente è cosa buona.
Che fare, dunque? Qui
siamo al punto. Tutto lascia pensare che verremo “gettati”, infatti, di fronte
ad un referendum approvativo che, per i modi con i quali è stato finora
proposto e per le parole esigenti e insieme pesanti, che sono state usate – “o
con me o contro di me” – acquista il sapore acre di un plebiscito. Per dir
meglio, di una strana ordalia affidata al popolo attraverso le urne. Ma qui si
arrestano i nostri doveri e competenze di cultori del diritto costituzionale,
delle sue regole, e tecniche e viene avanti, uti singulus, il cittadino
elettore, il quale quando verrà il tempo, dopo aver custodito nel suo cuore i
pensieri sopra esposti, serenamente deciderà se e come votare. Ma quello,
ovviamente, sarà un giudizio individuale, tutto di ordine politico.
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