venerdì 6 maggio 2016

Referendum Costituzionale - Contributo n° 2


DOCUMENTAZIONE IN MERITO AL PROSSIMO QUESITO REFERENDARIO SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE


UNA REVISIONE COSTITUZIONALE CON ALCUNE BUONE INTENZIONI E MOLTE CONTRADDIZIONI


Una valutazione “tecnica”  espressa da Umberto Allegretti (Professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli Studi di Firenze) ed Enzo Balboni (Professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) – membri del Comitato Dossetti per la Costituzione (al quale aderiscono, fra gli altri Raniero La Valle – che ne è il Presidente – e Valerio Onida – Presidente emerito della Corte Costituzionale)


È complicato prendere posizione nel dibattito scientifico ed accademico che sta crescendo intorno alla Legge di revisione costituzionale, che convenzionalmente (ma non solo) viene battezzata (Napolitano)-Renzi-Boschi. Si corre il rischio, infatti, di aggiungere la propria voce ad un coro che canta, spesso, sopra le righe del pentagramma, in cui a toni fin troppo ossequiosi si alternano accenti polemici poco fondati, molto gridati e scarsamente lucidi. Una corretta valutazione tecnico-giuridica dei temi in esame richiederebbe, a nostro avviso, un approccio più sobrio e laico rispetto a quello che viene, in genere, adottato.  Con questa considerazione non intendiamo trascurare l’intelligente contributo di molti colleghi, né vogliamo sminuire la valenza “politica” e culturale delle problematiche che si sono piantate davanti a noi e che avranno il loro sbocco nel referendum “approvativo” di ottobre. Vogliamo soltanto ricordare che il terreno che si addice alla nostra professione intellettuale deve continuare ad essere quello dell’analisi giuridica e costituzionale, limitandosi ad essa. Proprio alla luce di ciò, ci sentiamo di affermare che un giudizio sintetico SI- NO sulla riforma in esame risulta incongruo, anzi, impossibile. Il testo approvato, infatti, presenta schematicamente cinque caratteri tra loro totalmente differenti, perché vi si possono rinvenire interventi di qualità diversa: pessima, cattiva, neutra, buona ed ottima. Facciamone una rapida e schematica rassegna. Non prima, però, di aver accennato al fatto che l’impossibilità, teorica e pratica, di suddividere il referendum sulla legge di revisione in quesiti autonomi e differenziati complica ulteriormente il giudizio, rendendolo giocoforza complessivo. Sulla scorta dell’immediato precedente del 2006, è ragionevole immaginare, infatti, che nel mese di ottobre ci troveremo davanti ad una domanda di questo tenore: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente "Modifiche alla Parte II della Costituzione" approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n…?”». 


1. PESSIME sono, anzitutto, le intentiones legis, per il fatto che esse si mostrano, in prevalenza, compiacenti ed adattive, sia verso l’esterno – la mitizzata Europa– sia verso l’interno, cioè verso l’elettorato che verrebbe, populisticamente, lisciato per il verso giusto del pelo con l’asserita diminuzione della spesa pubblica. A tale proposito, se era giusto sbarazzarsi di un ente poco amato come la Provincia e dell’ingombro di un organo ausiliario come il CNEL ormai svuotato di senso, resta l’esigenza di non uccidere, per questa via, anche la mediazione sociale e la sussistenza di vitali corpi intermedi. Se torniamo, per un momento, alle problematiche dell’Assemblea Costituente, il partito democristiano e Mortati avevano auspicato una seconda Camera differenziata, che si facesse carico della rappresentanza di interessi e corpi sociali. Era un progetto discutibile – e fu battuto, in sede di votazione– ma almeno aveva una sua coerenza e compiutezza. Taluno afferma: “è l’Europa che ci chiede a gran voce le riforme; sono le istituzioni ed i burocrati di Bruxelles che ci interrogano, continuativamente, sulla loro adozione”. Ma, a tale proposito sarebbe bene chiarire cosa si intende per “riforme”, ricordando che si allude ad interventi di (sana) modernizzazione sul fronte del mondo del lavoro (sia privato, pubblico o autonomo), sulla scuola, sull’efficienza delle pubbliche amministra- zioni (legge e decreti Madia, pur imperfetti), sul miglioramento del servizio-giustizia, sulla sforbiciata ai privilegi delle Fondazioni bancarie e per una piena immersione nel mercato capitalistico delle c.d. Banche popolari ecc. Su tali materie, beninteso, sono stati fatti passi in avanti, in alcuni casi anche decisivi. Da questi interventi occorre distinguere, però, l’amplissima revisione costituzionale in esame (oltre 40 articoli), che l’Unione Europea come tale certamente non ci chiede. Qui soccorre, invece, il mantra delle “riforme per le riforme”, le quali rilevano, spesso, più per il loro effetto mediatico ed alone propagandistico che per il genio di scacciare un riformismo sanamente inteso. Pessima è stata, inoltre, la congiunzione tra lo spirito del tempo presente e quello governato dagli dei che vegliano sull’esprit constituent. È del tutto mancato, insomma, quel tono e quel tocco di “solennità” che Rousseau riteneva elemento qualificante e necessario dei processi costituenti. Rileggiamo le Considerazioni sul governo della Polo- nia (1782) del grande ginevrino: “È contro la natura del corpo politico di imporsi delle leggi che non possa revocare, ma non è né contro la natura né contro la ragione che non possa revocare quelle leggi se non con la stessa solemnité che ha impiegato per stabilirle”. Qui verrebbe in taglio una riflessione sul se e sul quanto l’attuale classe politica parlamentare (e governativa) sia legittimata a proporre una riforma costituzionale così ampia e profonda. Sgombriamo il campo, da subito, dall’inciampo derivante da una presunta, perduta, legittimazione dei parlamentari eletti con la legge “porcellum” dopo la sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale, per il fatto che questo ci appare argomento eccedente ad una lettura condivisibile delle conseguenze che deriverebbero dalla sentenza citata. È vero, tuttavia, che l’approccio ad una materia così delicata, ma al tempo stesso incandescente, avrebbe potuto e dovuto essere più cauto e sorvegliato, sforzandosi di agire, non si pretende für ewig, ma in modo tale da ridurre al minimo le spinte e le convenienze congiunturali: che sono, invece, massicciamente presenti. 


2. Tra le CATTIVE novità, troviamo spesso il risvolto di cose buone, ma che sono state pensate poco e fatte con trascuratezza. Prima fra tutte la composizione del “nuovo” Senato della Repubblica, frutto di una serie di compromessi (nell’accezione meno nobile del termine) che hanno dato vita ad un vero e proprio ircocervo, o, se si preferisce, un ippogrifo o un merlogallo. Se è vero che dar nuova forma, natura ed organizzazione alla Camera alta era un obiettivo ambizioso e lungamente atteso, il risultato al quale si è approdati ci appare confuso ed insufficiente, molto al di sotto delle aspettative.  La trasformazione del Senato in luogo di rappresentanza delle autonomie territoriali- e particolarmente di quelle regionali- era da tempo tra i desideri e le speranze di molti tra noi, che guardavano a questa riforma come al passaggio in cui l’assetto autonomistico complessivo (ed al tempo stesso fondante) della nostra forma di Stato avrebbe assunto un carattere compiuto. Non si può allora che esprimere delusione nel rilevare come si sia deciso, alla fine di mercanteggiamenti sfiancanti e non limpidi, di realizzare una “strana creatura”, nella quale la rappresentanza regionale, quella comunale, quella presidenziale (dei senatori per sette anni) e quella politica del cittadino-elettore per il tramite delle elezioni regionali, saranno confusamente mescolate. Maggior chiarezza, almeno con riferimento alla rappresentanza delle autonomie locali, ci sarebbe stata stabilendo, ad es., che i sindaci venissero eletti dai Consigli delle Autonomie locali (CAL) regionali e, forse, espungendo i componenti di nomina presidenziale, il cui contesto naturale sarebbe stato -semmai-  la Camera dei deputati.  Su quest’ultimo punto, che sembra aprire – ma troppo poco- ad una rappresentanza volutamente diversa o almeno ulteriore rispetto alle altre, un’opzione alternativa avrebbe potuto prevedere che i senatori di nomina presidenziale, aumentati di numero, fossero scelti in rappresentanza di mondi vitali della cultura, dell’associazionismo, dell’impresa e del lavoro (anche in ragione della già citata abrogazione del CNEL).  Svolgere questo discorso, però, ci porterebbe fuori dal nostro sentiero. La scarsa lungimiranza e la poca coerenza con cui è stata immaginata la composizione del nuovo Senato – frutto di un confuso compromesso interno allo stesso partito di maggioranza- affida un compito assai arduo al legislatore ordinario. Sarà, infatti, alla fine, con legge dello Stato, che, in un complicato e poco chiaro rapporto con le normati- ve regionali, dovranno essere sciolti i nodi oggi rimasti intricati.  È ovvio che se si fosse scelto il modello Bundesrat questo grave difetto non ci sarebbe stato. Ma è risaputo che, governando attualmente il centrosinistra 18 Regioni su 21, risultava difficile far entrare direttamente nel nuovo Senato i Presidenti di Giunte regionali che, presentandosi con la stessa maglietta, avrebbero costituito un “pacchetto di mischia” troppo robusto. E ci mostra, una volta di più, come sia quasi impossibile fare buone riforme avendo a disposizione materiali politici che sono, inevitabilmente, lì per essere utilizzati…quando sarebbe buona cosa agire “sotto il velo dell’ignoranza”, come ebbe la fortuna di fare l’Assemblea Costituente. È da segnalare, inoltre, la maniera con la quale si vuole procedere allo smantellamento del bicameralismo perfetto e paritario che, al di là delle positive intenzioni di partenza - che vanno ribadite - risulta, allo stato degli atti, un’occasione pressoché perduta. Di conseguenza, non vanno bene i tanti (otto? nove?) procedimenti legislativi differenziati, originanti dalla compartecipazione delle due Camere alla formazione di un rosario di leggi varie e dall’armamentario di co-decisioni parziali che ne conseguono, per diverse materie. Tra le occasioni perdute va annoverata quella riguardante una nuova categoria di fonti parlamentari, le leggi organiche, già presenti nelle costituzioni francese e spagnola e che si poteva sperare venisse adesso inclusa, arricchendo la tipologia delle nostre fonti del diritto. Passando alla sostanza della relazione tra Stato ed autonomie, risulta a nostro avviso grave - avuto riguardo alla scelta univoca per il pluralismo autonomistico inserito tra i principi fondamentali all’art. 5 e in presenza dell’ art. 114 - l’odierno ri-accentramento a favore dello Stato che pervade per intero il nuovo Titolo V. È a tutti noto che la riforma approvata nel 2001 non ha dato gran prova di sé, ed è allo stesso modo evidente che alcune competenze (si pensi all’energia, alle grandi reti infrastrutturali o al settore delle comunicazioni; al necessario coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ecc) dovevano essere, ragionevolmente, riportate in capo allo Stato.  Non si può procedere, però, per questo motivo e quasi per assioma ad una complessiva mortificazione delle autonomie. A tale riguardo le pessime prove date, purtroppo, in tempi recenti dalle classi politiche regionali e locali, finiscono per essere eccedenti rispetto, ad. es, alla riesumazione di un vecchio arnese statalista e passe-partout qual è l’interesse nazionale. Poteva bastare al riguardo la tutela dell’unità giuridico-economica della Repubblica e, in ogni caso, sarebbe stato più opportuno sfruttare al meglio il procedimento bicamerale, affidando a entrambe le Camere la competenza in materia di livelli essenziali dei diritti concernenti le prestazioni pubbliche (lettera m dell’art. 117, II comma). Ugualmente difettosa è la “non soluzione” della disparità di trattamento tra le Regioni, risultando troppo sbilanciata a favore di quelle speciali (motivata pragmaticamente dalla necessità di accaparrarsi i voti decisivi dei senatori provenienti dai territori c.d. speciali, in particolare quelli del Trentino Alto Adige), che almeno conservano l’odierno status quo. Oltre a ciò l’apertura sull’art. 116, III comma è ancora troppo timida, mentre poteva diventare la porta d’ingresso per distribuire e incoraggiare competenze specializzate e diversificate sull’intero territorio nazionale. 


3. Veniamo in questo modo agli interventi per così dire NEUTRI: quelli in cui tratti positivi ed elementi criticabili si compensano. Rientrano in questa classificazione le novità introdotte con riferimento alle procedure di elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici della Corte costituzionale. Quanto al primo caso, si ritiene opportuna l’intenzione di evitare che una legge elettorale maggioritaria (il nuovo Italicum) ed un rapporto squilibrato tra deputati e senatori, possano incidere negativamente sul carattere terzo ed imparziale del Capo dello Stato. Si segnala, però, il rischio che un quorum alto (i 3/5) possa condurre ad eleggere, dopo una lunga stasi ed estenuanti trattative, figure con caratura politica “minore”.  Quanto al supremo collegio, invece, si può ricordare che sia le ragioni dell’unità, sia quelle della differenziazione devono trovare spazio all’interno della Corte, ma senza introdurre, però, indebite (e minoritarie) figure quali sarebbero i due giudici che, per fatale connessione, sarebbero battezzati “regionali”. Costoro, per la modalità della loro elezione potrebbero vedersi applicare alla nascita un fastidioso bollino partigiano. Ovviamente diverso, perché conforme ad un vero sistema federale, resta il caso del Tribunale costituzionale di Karlsruhe, composto per metà da giudici eletti dal Bundesrat. Neutre sono anche le operazioni di manutenzione che si è inteso apportare ad un  testo oggettivamente datato in alcune parti, essendo in vigore da quasi settant’anni. Come la parola manutenzione suggerisce, si tratta di attività necessarie per ridare movimento, fluidità o regolarità alle istituzioni. Ci riferiamo, in particolare, all’introduzione del principio di trasparenza della P.A., con cui si recepisce una consolidata giurisprudenza ed all’invenzione dello statuto delle Opposizioni, che riprende la tradizione del parlamentarismo anglosassone. Si tratta di interventi importanti e da salutare positivamente, ma che sarebbero stati perseguibili anche percorrendo altre strade, più piane. Poteva, a nostro avviso, essere sufficiente intervenire attraverso leggi ordinarie ben fatte e, ancor più, con una rivisitazione dal profondo, ma coraggiosa, dei regolamenti parlamentari, là dove si annidano grumi corporativi ed interessi conservatori che avrebbero, essi sì, bisogno della ramazza e della candeggina. La questione relativa allo statuto delle Opposizioni, peraltro, meriterebbe un serio approfondimento. Essa, infatti, si inserisce nel più generale tema delle garanzie politiche ed evoca l’esigenza di contrappesi che riequilibrino le razionalizzazioni apportate alla nostra forma di governo parlamentare. Sarà bene, pertanto, vigilare, così come sarà opportuno agire tempestivamente in attuazione dell’art. 49 della Costituzione per dare rilevanza ed esigibilità giuridica al precetto secondo cui i partiti devono agire con metodo democratico.


Ci sono poi, nella riforma proposta, anche delle realizzazioni indubbiamente BUONE. Per brevità ci limitiamo a citare le seguenti: a) il tentativo di mettere fine all’inutile e costoso, sotto tutti i profili a cominciare da quello dei tempi, bicameralismo perfetto e paritario. Questa esigenza è risalente ed avvertita come urgente da una parte ormai maggioritaria non solo dei costituzionalisti, ma anche dell’opinione pubblica colta. Volendo dare una sola, ma significativa testimonianza, si ricordi che di essa aveva cominciato a parlare, e non in modo generico, Giuseppe Dossetti, già nel celebre discorso rivolto ai Giuristi cattolici nel 1951, quando li aveva, per l’ultima volta, incitati ad affrontate decisamente e coraggiosamente la problematica delle funzioni e dell’ordinamento dello Stato moderno. Queste le sue parole: «Non bicameralismo integrale…che è, evidentemente legato alla previsione, sempre, di una contrapposizione di poteri e di un raro, difficile e infrequente operare dello Stato…». Tale giudizio negativo fu rinnovato e perfezionato nel biennio 1994-96, quando anche Dossetti si volse a criticare l’attuale bicameralismo paritario, patrocinandone il superamento. Con ci risulta avvalorato, a nostro avviso, quel giudizio contraddittorio, già annunciato nell’incipit, che deve darsi sul punto in esame: l’esigenza c’era e c’è, ma si poteva provvedere diversamente  b) altra cosa buona: tempi certi per la calendarizzazione ed eventuale approvazione dei disegni di legge del Governo. Ma, anche a tale proposito, è stata immaginata una procedura inutilmente rococo e c’è, soprattutto, quella foglia di fico del termine “essenziale” in grado, potenzialmente, di coprire qualunque iniziativa del Governo sotto un’aura di aulica sacertà, perché cosa abbia o non abbia natura wesentlich fa parte dei misteri delfici ed italici. Più laicamente e sobriamente, si poteva dire: “prioritario” per lo svolgimento del programma di governo. Dopodiché, sul potere del Governo e del Presidente del Consiglio dei ministri di dettare, quando necessario, l’ordine del giorno dell’attività del Parlamento nessuno ha niente da obiettare; c) i nuovi strumenti di democrazia diretta ed il positivo tentativo di rivitalizzare il potere di iniziativa legislativa popolare, anche con una modulazione dei quorum referendari che dovrebbe rafforzare la capacità di controllo e le possibilità di partecipazione del corpo elettorale. Si segnala che sarebbe stato opportuno agire, anche su questo punto, con maggior determinazione; d) la competenza della Corte a giudicare sulla legittimità costituzionale delle leggi elettorali ancor prima che queste siano messe alla prova dei fatti. Ci si augura che, in questo modo, risulti impossibile replicare la triste vicenda di leggi elettorali incostituzionali alla nascita; e) apprezzabile è anche, l’aver assegnato al nuovo Senato il compito di esercitare le funzioni di raccordo tra lo Stato e gli enti costitutivi della Repubblica da un lato e l’UE dall’altro, nonché quello di valutare le politiche e l’attività delle pubbliche amministrazioni, anche andando a verificare l’impatto che l’azione dell’UE ha sui territori. Si può  anzi chiosare, a tal proposito, che, se ben fatto questo potrebbe essere un compito di straordinaria importanza per il nuovo Senato;  f) encomiabile, poi, il passaggio che prefigura il parere del Senato su alcune nomine di competenza del Governo e la verifica sull’attuazione delle leggi dello Stato. Sull’ultimo punto, tuttavia, la genericità – peraltro consueta e scontata - della lettera della riforma rinvia ad un atto di fede, come “sostanza delle cose sperate ed argomento delle non parventi”. 


A questo punto ci si potrà chiedere se e cosa ci sia di OTTIMO nel testo di riforma, secondo quanto affermato nell’incipit del nostro argomentare. Sono ottime le revisioni che non ci sono. È un paradosso, ma non troppo, visti i tempi nei quali ci è dato vivere e quelli che abbiamo appena oltrepassato. Pensiamo a qualche grave scivolata intervenuta ai tempi della Commissione D’Alema in tema di semi-presidenzialismo, ma specialmente sul terreno di una diminuzione dell’autonomia della magistratura. Soprattutto riflettiamo, ad alta voce, su quello che Leopoldo Elia aveva giustamente denunciato come il tentativo di “premierato assoluto” insito nel progetto Berlusconi-Bossi. Su quest’ultimo punto vale la pena ricordare che la riforma bocciata nel referendum del 2006 prevedeva un discutibile meccanismo di sfiducia costruttiva, che, accompagnato ad una sostanziale ed inadeguata introduzione del principio “simul stabunt aut simul cadent” avrebbe reso il Primo ministro di fatto inamovibile, con buona pace della democrazia parlamentare ed anche del tanto elogiato “modello Westminster”.  Almeno questi gravi timori, adesso, non sono fondati e chi denuncia una “torsione autoritaria” e parla di “minaccia alla democrazia” è fuori strada. Ugualmente, l’odierna pur scompaginata riforma del Titolo V non mette a repentaglio la coesione territoriale e soprattutto sociale del Paese, che era invece uno dei pericoli incombenti sul progetto Forza Italia-AN-Lega del 2005. Brillano per la loro assenza, inoltre e per fortuna, interventi a gamba tesa sull’indipendenza e autonomia della magistratura, a cominciare dal ruolo del pubblico ministero; non si entra nel recinto della Corte costituzionale, se non per l’assegnazione al Senato di due nomine su cinque (ma rispetto a complessive quindici).  Neppure si modifica, infine, il procedimento di revisione dell’art. 138, come invece aveva tentato di fare, sia pure una tantum, il d.d.l. Letta: anche questa conservazione della garanzia esistente è cosa buona. 


Che fare, dunque? Qui siamo al punto. Tutto lascia pensare che verremo “gettati”, infatti, di fronte ad un referendum approvativo che, per i modi con i quali è stato finora proposto e per le parole esigenti e insieme pesanti, che sono state usate – “o con me o contro di me” – acquista il sapore acre di un plebiscito. Per dir meglio, di una strana ordalia affidata al popolo attraverso le urne. Ma qui si arrestano i nostri doveri e competenze di cultori del diritto costituzionale, delle sue regole, e tecniche e viene avanti, uti singulus, il cittadino elettore, il quale quando verrà il tempo, dopo aver custodito nel suo cuore i pensieri sopra esposti, serenamente deciderà se e come votare. Ma quello, ovviamente, sarà un giudizio individuale, tutto di ordine politico.

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