Un piccolo contributo per
riempire le lunghe giornate in casa che ancora ci aspettano. Difficile farlo
dimenticandoci del piccolissimo ma agguerrito colpevole del nostro confino
nelle mura domestiche. E quindi di Coronavirus s’ha da parlare, e noi vorremmo qui
farlo usando due contributi fra di loro integrativi: uno che guarda all’aspetto
“naturalistico” della vicenda e che ha il dichiarato obiettivo di ricordarci,
informandoci su elementi scientifici, l’umana appartenenza all’insieme delle
forme di vita di questa pianeta, il secondo è uno dei primi tentativi di riflettere
sugli insegnamenti che dall’ “evento” coronavirus potremmo trarre, che si
proietta quindi ad un “dopo”, quanto mai atteso e sospirato, proponendo
tematiche che, proprio grazie al CVD19, dovremo porre al centro del dibattito.
(P.S. = sono articoli
lunghetti e densi…….ma non ci manca il tempo!)
Dai pipistrelli all’uomo: alle origini del Coronavirus
Come
è arrivato, il virus, all’uomo?
Dai
«serbatoi» all’uomo, le tappe evolutive che hanno generato l’ombra che si
allunga sulle nostre vite
Concludendo la sua analisi
sulla "matenatica del contagio" Paolo
Giordano citava il libro del saggista scientifico David Quammen, Spillover (il titolo si
riferisce ai «salti di specie» degli agenti patogeni dall’ animale all’uomo)
come degno «di un articolo a sé». In effetti, quel testo può aiutare come pochi
altri ad addomesticare il nostro attuale spaesamento, a capire da dove provenga davvero l'ombra che si è
allungata nelle nostre giornate, a livello individuale e collettivo. Esito di sei anni di lavoro
accanito, Spillover scorre in superficie
come un reportage ipnotico, in cui Quammen ricostruisce origine e andamento di
tutte le epidemie-pandemie degli ultimi decenni (dall’Ebola alla SARS)
incontrando non solo medici e scienziati, ma anche testimoni e sopravvissuti,
delle aree e dei «focolai» volta a volta decisivi, si tratti di foreste
congolesi, fattorie australiane o mercati cantonesi di animali selvatici. Ma a
un livello sottostante, Quammen ci invita quasi a ogni pagina a
considerare il nostro rapporto con gli agenti
patogeni in una prospettiva naturalistica (o meglio
biologico-evoluzionistica) che può conferirgli un senso più profondo.
Decisiva, al riguardo, è la figura,
opportunamente evocata da Quammen, del grande scienziato australiano Frank Macfarlane Burnet (1899-1985).
Personalità complessa e irascibile (già a partire da un’infanzia asociale
trascorsa a leggere H.G. Wells e a collezionare coleotteri), Burnet diverrà
noto soprattutto per le sue scoperte sui meccanismi dell’immunità acquisita (Nobel
della Medicina nel’60); ma prima, negli anni Trenta, si fa una certa fama come
infettivologo trovando gli agenti patogeni della psittacosi e della «febbre Q» e individuando il
fattore di innesco di tutte e due le zoonosi (termine che indica
patologie infettive animali trasmissibili all’uomo) nelle cattive condizioni di
allevamento, in un caso dei pappagalli, nell’altro di bovini e ovini.
Intuizioni confermate dal periodico riaffiorare di quelle (e altre) zoonosi, come
nel Brabante olandese del 2007, dove Quammen vede sovraffollamenti di capre in
stalle dal pavimento ricoperto da un «polpettone» di «strame, feci e urina»,
ideale terreno di coltura per i microbi.
Come riflessione sulle sue scoperte, Burnet scrive nel 1940 un
libro-spartiacque, Le malattie infettive,
in cui — fissata l’importanza delle acquisizioni profilattiche della
batteriologia moderna: fognature adeguate, cibo non contaminato, asepsi
chirurgica — invita i medici a inquadrare le stesse patologie infettive e le
zoonosi come «come un esempio di relazione tra individui di specie diverse, di
importanza pari alla predazione, alla competizione e alla decomposizione»; e a
vedere, di conseguenza, gli agenti patogeni come «parassiti» o
«predatori», «piccole creature
che mangiano grandi prede dall’interno». È una visione del tutto
coerente con la sua innovativa descrizione del sistema
immunitario, concepito come un sistema in grado di discriminare tra
un self (i costituenti molecola propri) e un not-self (quelli «alieni» degli agenti patogeni).
Con un’implicazione decisiva. Quel
«conflitto» tenderebbe, in un ambiente più o meno costante, a un equilibrio, a
trasformare la competizione tra specie in coabitazione (come in effetti avviene
in molti casi); se non intervenisse, a vanificarlo — anche se non come fattore
esclusivo — l’attività dell’uomo.
Ed è proprio quel conflitto il
«timone» del percorso evolutivo che conduce fino alla pandemia di questi mesi.
Un percorso che vede sulla scena tre «attori»: oltre agli agenti patogeni (in questo
caso i virus) e agli umani,
gli «ospiti serbatoio» (in
gergo reservoirs) che hanno esercitano lo spillover, magari con l’ulteriore mediazione di qualche
«ospite di amplificazione» (animali intermedi). E dal momento che SARS-CoV-2 condivide quasi tutto il
genoma sia con il suo predecessore SARS-CoV (l’85%), sia col coronavirus
dell’ospite-serbatoio di allora, i chirotteri ovvero i pipistrelli (addirittura
il 90%), il terzo attore è più di un semplice indiziato. Provare a seguire quel
percorso significa cercare di capire le ragioni non prossime — ma remote ed
effettive — dell’epidemia-pandemia in corso. E per farlo, il libro di Quammen è
solo uno strumento tra altri.
1. I virus
L’origine dei virus va collocata con
ogni probabilità nello scenario della stessa origine della vita, tra i 3.5 e i
3 miliardi di anni fa, quando si sviluppano nicchie ambientali favorevoli allo
sviluppo delle prime entità biologiche. Dato che i virus
sono «zombie chimici» (piccoli genomi racchiusi in una membrana
proteica, che per riprodursi devono entrare nelle cellule e utilizzarne i
meccanismi), tutte le teorie sulla loro genesi sono tese a spiegare quei tratti
morfologici e biochimici. Nell’ordine, sono stati visti come cellule primitive
degenerate (tramutate in parassiti dopo aver perso la capacità di vita
autonoma); prodotti di «geni in fuga» cioè di «elementi genetici mobili» come i trasposoni (sequenze di Dna
in grado di inserirsi nel genoma di molti organismi); o ancora — secondo la
seducente teoria di Wolfram
Zilling — organismi in coevoluzione con le stesse cellule, entro un
comune «brodo primordiale» in cui acidi nucleici e proteine (isolati da
involucri o membrane) sarebbero evoluti da un lato verso la viralità,
dall’altro verso la cellularità. Anche se forse l’ipotesi più intrigante è che
i virus risalgano a un ancestrale «mondo a Rna» in cui le protocellule non
hanno ancora «diviso i compiti» tra Dna (depositario dell’informazione e della
replicazione) e Rna (deputato alla trascrizione di quell’informazione e alla
sua traduzione in proteine), ma operano con un «Rna tuttofare». E questo a
tacere di ipotesi più estreme, come quelle che vedono i virus ancestrali
all’origine sia dello stesso Dna che del nucleo cellulare
Oltre che onninvadenti (un milione di
particelle virali in una goccia d’acqua, a fronte di 100.000 batteri) e infinitesimali (dai 20 ai
750 nanometri, in forme spesso bizzarre), i virus sono in ogni caso
antichissimi, come dimostra, secondo adagio evoluzionistico («più gli organismi
sono antichi, maggiore è la loro diversità») il numero di tipi classificati
(5000), con stime realistiche che ipotizzano un numero di almeno 1000 volte
superiore.
E in ogni caso, la distinzione perdurante tra virus a Rna e a Dna — traccia di
quelle origini arcaiche — è una delle chiavi per decifrarne morfologia e
«comportamento», con le virgolette a ricordare che non dobbiamo mai cedere alla
tentazione di «umanizzare» dinamiche biologiche senza scopo e senz’altro senso
se non quello della riproduzione-sopravvivenza. I virus a Dna (con doppio
filamento, la famosa elica) hanno genomi più estesi, minor numero di mutazioni
e riescono a «correggere le bozze» (gli errori di replicazione) grazie alla Dna
polimerasi, risultando quindi più «stabili». Mostrano «perseveranza,
invisibilità, dissimulazione», tendendo a nascondersi al sistema immunitario in
una sorta di letargo o stand-by prolungato, per poi riaffiorare in forme più
acute: un caso tipico è il varicella-zoster,
che può scatenare un «fuoco di
Sant’Antonio» anche a dieci o più anni dalla malattia esantematica.
I virus a Rna (con un solo filamento, anche se non mancano eccezioni a doppio
filamento, così come- a rovescio- virus a DNA monofilamento) hanno invece
genomi ristretti, perché con una «polimerasi da due soldi» che non «corregge le
bozze» un genoma troppo esteso produrrebbe un numero di errori insostenibile;
in compenso, hanno una frequenza
di mutazioni molto più elevata dei virus a Dna (fino a 1000 volte) e
popolazioni più numerose. La loro «strategia» è di «esplodere» per
«bruciare sul tempo» la risposta immunitaria dell’ospite, inducendo infezioni
acute in uno schema on/off (la morte o la guarigione dell’ospite stesso, senza
la possibilità di coabitazioni come nei virus a DNA). Qui, gli esempi più
immediati sono la famiglia del morbillo,
i retrovirus (HIV-1) e
certi coronavirus, tra cui le molte
varianti del raffreddore e virus «emergenti» come SARS-CoV, MERS-CoV
(l’epidemia nella penisola arabica del 2012) e ora
SARS-CoV-2. Il punto-chiave è che i virus a Rna — per le caratteristiche
appena descritte — hanno tra le loro opzioni per una sopravvivenza a lungo
termine proprio lo spillover, il «salto di specie». Tutto sta a trovare «ospiti
serbatoio» (ed eventuali «ospiti di amplificazione») adeguati.
2. I pipistrelli
Per arrivare ai chirotteri (dal
greco chéir, mano e pteròn, ala)
dobbiamo far scorrere il nastro della vita oltre sequenze decisive —
l’esplosione della fauna nel Cambriano o il mondo a colori dopo l’emersione
delle angiosperme nel Giurassico-Cretaceo, stessi periodi dei dinosauri — fino
alla fine del Paleocene, tra i 65 e i 56 milioni di anni fa. È in quel range
temporale che i pipistrelli, probabilmente originari delle attuali aree
eurasiatiche, si irraggiano e differenziano prima in Africa e poi negli altri
continenti.
La loro utilità per Sapiens è più o
meno nota, dalla loro incidenza come insettivori (zanzare in primis, quindi come antidoti alla malaria) a quella
di impollinazione di fiori e piante, dalla funzione fertilizzante del loro
guano (sedimentato nelle grotte) alla possibile incidenza terapeutica nelle
ischemie (secondo uno studio recente) di una proteina contenuta nella saliva di
una sottofamiglia di vampiri. Capitolo a sé stante (su cui si tornerà) il loro
impiego gastronomico: non solo in Cina, ma in molti Paesi (Seychelles,
Indocina, Indonesia, Filippine e varie isole del Pacifico) i pipistrelli
(specie i frugifori) costituiscono «carne prelibata». Eppure — fatta salva
l’ammirazione per l’ecolocazione con sonar hi-tech — la loro fama sembra ornai
dimensionata solo sulla minacciosità patogena; del resto, anche verso gli
stessi microbi abbiamo un atteggiamento univoco, rimuovendo la loro
utilità-potenzialità, dai «batteri spugne» che assorbono il mercurio e altri
inquinanti alle terapie antitumorali con virus geneticamente modificati.
Dopo di che, colpisce nei chirotteri l’oggettiva familiarità coi virus, riconducibile a molti fattori: la rilevanza demografica e filogenetica (sono 1116 specie, addirittura un quarto dei mammiferi); la spiccata socialità che li porta, per il riposo o il letargo, a concentrazioni impressionanti (un milione di individui in un sito); la loro stessa «arcaicità» lungo la storia della vita, che li ha condotti a maturare con molti virus un legame di coabitazione coevolutiva («quando una linea evolutiva di chirotteri si divide in due, è probabile che lo stesso facciano i patogeni trasportati»); e il volo, che li porta a diffondere e contrarre virus per continui contatti «tridimensionali» (anche in altezza-profondità) su aree molto estese, percorse con spostamenti di decine di chilometri in una sola notte (quando predano) o centinaia in una stagione (quando migrano, con siti estivi e invernali separati anche da 1300 chilometri). Una zoomata a parte merita il rapporto tra la dimensione popolazionale e la longevità (fino a 20-25 anni). È questo rapporto, infatti, che permette ai virus di persistere, perché — in comunità così grandi — ai «vecchi» chirotteri che acquisiscono l’immunità corrisponde un numero costante di neonati suscettibili: è la «dimensione critica di popolazione» che consente a un patogeno di diventare da epidemico endemico, come succede al morbillo in comunità di almeno 500.000 abitanti. Anche se questo schema non è esclusivo: quando i patogeni non trovano gruppi così consistenti, sopravvivono contagiando popolazioni relativamente isolate (la cosiddetta metapopolazione), secondo lo schema a «ghirlanda luminosa di Natale», metafora che traduce l’intermittenza del contagio stesso, con la cadenza on/off più lenta se le popolazioni sono più distanziate. Sono modalità che sollecitano in ogni caso domande sul «mistero immunitario» dei pipistrelli, legato a una permeabilità virale che gli studiosi non riescono a spiegare del tutto, riconducendola al freddo dei siti (con eventuale immunosoppressione), ad anticorpi di durata media inferiore a quella umana, alla loro stessa arcaicità evolutiva (che li ha staccati dall’albero dei mammiferi prima che il loro sistema immunitario raggiungesse l’efficacia di quello di roditori e primati) e alla «convenienza» della stessa coabitazione endemica. Fatto sta che proprio l’assetto immunitario li elegge tra i principali «ospiti serbatoio» dei virus: come dimostra anche l’interazione con l’uomo.
3. Gli umaniDopo di che, colpisce nei chirotteri l’oggettiva familiarità coi virus, riconducibile a molti fattori: la rilevanza demografica e filogenetica (sono 1116 specie, addirittura un quarto dei mammiferi); la spiccata socialità che li porta, per il riposo o il letargo, a concentrazioni impressionanti (un milione di individui in un sito); la loro stessa «arcaicità» lungo la storia della vita, che li ha condotti a maturare con molti virus un legame di coabitazione coevolutiva («quando una linea evolutiva di chirotteri si divide in due, è probabile che lo stesso facciano i patogeni trasportati»); e il volo, che li porta a diffondere e contrarre virus per continui contatti «tridimensionali» (anche in altezza-profondità) su aree molto estese, percorse con spostamenti di decine di chilometri in una sola notte (quando predano) o centinaia in una stagione (quando migrano, con siti estivi e invernali separati anche da 1300 chilometri). Una zoomata a parte merita il rapporto tra la dimensione popolazionale e la longevità (fino a 20-25 anni). È questo rapporto, infatti, che permette ai virus di persistere, perché — in comunità così grandi — ai «vecchi» chirotteri che acquisiscono l’immunità corrisponde un numero costante di neonati suscettibili: è la «dimensione critica di popolazione» che consente a un patogeno di diventare da epidemico endemico, come succede al morbillo in comunità di almeno 500.000 abitanti. Anche se questo schema non è esclusivo: quando i patogeni non trovano gruppi così consistenti, sopravvivono contagiando popolazioni relativamente isolate (la cosiddetta metapopolazione), secondo lo schema a «ghirlanda luminosa di Natale», metafora che traduce l’intermittenza del contagio stesso, con la cadenza on/off più lenta se le popolazioni sono più distanziate. Sono modalità che sollecitano in ogni caso domande sul «mistero immunitario» dei pipistrelli, legato a una permeabilità virale che gli studiosi non riescono a spiegare del tutto, riconducendola al freddo dei siti (con eventuale immunosoppressione), ad anticorpi di durata media inferiore a quella umana, alla loro stessa arcaicità evolutiva (che li ha staccati dall’albero dei mammiferi prima che il loro sistema immunitario raggiungesse l’efficacia di quello di roditori e primati) e alla «convenienza» della stessa coabitazione endemica. Fatto sta che proprio l’assetto immunitario li elegge tra i principali «ospiti serbatoio» dei virus: come dimostra anche l’interazione con l’uomo.
Staccandosi dalla linea evolutiva
del gorilla 8 milioni di anni fa e da quella dello scimpanzè «solo» 5, Homo — il fitto «cespuglio» della nostra
discendenza — è molto giovane, nel senso che entra su una scena in cui la
competizione-coesistenza tra agenti patogeni procede da miliardi di anni, e tra
quelli e le altre specie animali (o meglio i loro sistemi immunitari) da decine
di milioni, proprio come nei chirotteri. A lungo (più o meno fino a tutto il
Pleistocene), i nostri antenati
preominidi convivono coi microbi e i loro vettori (pulci, vermi,
protozoi, salmonella, staffilo e streptococchi) senza troppe conseguenze: anche
se lentamente vari fattori (punture di insetti, morsi di animali, consumo di
cibo contaminato) portano alle prime zoonosi e ai primi spillover, con contagio di tubercolosi aviaria,
leptospirosi, schistosomiasi, tetano e altre patologie. Quella relativa
preservazione è dovuta in primis all’assetto socioeconomico, articolato in
comunità piccole, isolate e nomadiche (al massimo 150 individui, il famoso
«numero di Dunbar» che spiega anche il «limite» delle amicizie su Facebook). Il
break avviene circa 10.000 anni fa, quando in una fase di riscaldamento
climatico si ritirano i ghiacciai, si alza il livello del mare e viene
stravolto l’ecosistema, con un drastico avvicendamento di fauna: si estinguono
i grandi pachidermi della prateria umida e fredda e subentrano cervi, cinghiali
e orde di roditori. In quel contesto, l’uomo inizia la famosa «transizione
neolitica», in cui l’introduzione dell’agricoltura, la domesticazione animale,
le deforestazioni e le comunità urbane via via più popolate sanciscono il
passaggio dal nomadismo dei cacciatori-raccoglitori alla stanzialità. Tutti
tratti — insieme alle crescenti diseguaglianze sociali — tesi a formare nuove
nicchie ecologiche per gli agenti patogeni. Infatti, le zoonosi si moltiplicheranno,
con l’uomo che contrae patologie dai
cani (scabbia, morbillo, tigna), dai bovini (vaiolo, tubercolosi, tenia), dagli
ovini (distoma, febbre maltese, carbonchio), dai maiali (trichinosi), dagli
uccelli acquatici (influenza) e dai roditori (peste).
Con l’età arcaica e classica — con
gli scambi commerciali e le guerre delle «prime globalizzazioni» — quei tratti
si accentuano, portando alle prime vere «paure da contagio»: nell’Atene del 430
a.C, (con le masse stipate all’interno della città per volontà di Pericle nel contesto della
«guerra del Peloponneso») esplode la prima epidemia di «peste» (in realtà tifo
o febbre tifoide o emorragica): e a Roma basti ricordare l’epidemia descritta
da Tacito (65 d.C., 30.000 morti) o la pandemia occidentale del 189, che costa
alla «capitale» anche 2000 morti al giorno. Mentre il «lungo periodo» che segue
— tra Medioevo e modernità — vede attuarsi una progressiva «unificazione
microbica del mondo» per stazioni tragiche, le cui cifre parlano da sole,
restituendoci anche la dimensione realistica di quello che stiamo
vivendo: la Morte Nera del ‘300 (peste
bubbonica, ancora dibattuto se batterica o virale) produce 25 milioni di morti in cinque anni,
e più in generale il decesso «da un terzo alla metà» della popolazione eurasiatica
e africana; gli shock immunitari prodotti dagli invasori sui nativi americani
(isolati per 15.000 anni) li decimano del 90% in un secolo; e l’età
preindustriale e industriale deve affrontare pandemie virali come il vaiolo (50 milioni di morti nell’Europa
del ‘700, 400 nel mondo il secolo successivo) o il morbillo (200 milioni globali negli
ultimi 150 anni).
Il «secolo breve» (il ‘900) si apre a sua volta con la Spagnola (da 25 a 40 milioni di morti dal
1918) e si chiude con l’AIDS (36
milioni dall’81 a oggi), che rivela nell’Hiv il principale tra i
virus cosiddetti «emergenti», agenti patogeni nuovi o antichi-antichissimi, in
grado di mutare la loro virulenza o contagiosità in nuove nicchie ecologiche,
favorite dall’accentuarsi dei tratti moderni (urbanizzazione e rete di
commerci-trasporti) ma anche da certe nuove procedure mediche (trasfusioni e
trapianti d’organo). Nella fioritura degli «emergenti», i pipistrelli stanno esercitando un
ruolo primario.
La convergenza: virus, pipistrelli,
umani
Il legame tra arcaicità e novità nei
virus emergenti con protagonisti i pipistrelli è ben riassunto nel caso
di Hendra (dal nome della
località australiana d’esordio), grave sindrome respiratoria (soprattutto
equina) che esordisce nel ’94. In quel caso, infatti, antichissimo è il virus
(che si differenzia in tempi remoti dai cugini morbillovirus per restare poi in
latenza) e antichissimi gli insediamenti di chirotteri, attestati ben 55
milioni di anni fa nel Queensland, molto prima delle volpi volanti rosse o «pipistrelli
della frutta» (a partire da 20 milioni di anni fa) poi identificate come
«ospiti serbatoio». Relativamente recenti (ma pur sempre preistorici) sono
invece gli insediamenti umani, con gli antenati aborigeni arrivati «solo»
40.000 anni fa dall’Asia sudorientale viaggiando «di isola in isola» su
barchette di legno; e recentissimi (quindi nella fattispecie più esposti sul
piano immunitario) sono i cavalli, principali bersagli del virus e «ospiti di
amplificazione», introdotti in Australia nel gennaio 1788. Tra la fine dello scorso millennio e
l’inizio del nuovo i chirotteri sono stati individuati come «ospiti serbatoio»
in diversi generi di «emergenti»: paramixovirus come Hendra stesso o Nipah,
encefalite che esordisce in Malesia nel’98, «ospiti di amplificazione»
(contagiati dalle deiezioni dei pipistrelli nelle porcilaie) i maiali, un
milione dei quali viene sterminato; filovirus come Ebola (solo ipotizzato) e come Marburg (certo), febbre
emorragica che deve il nome alla città tedesca in cui irrompe nel 1967 colpendo
gli impiegati di una fabbrica di vaccini, contagiati da scimmie verdi importate
dall’Uganda («ospiti intermedi»); e coronavirus capaci di indurre a loro volta
gravi sindromi respiratorie come MERS-CoV (che colpisce la penisola arabica nel
2012, «ospiti di amplificazione» i cammelli) e soprattutto SARS-CoV (2002-2004)
e SARS CoV-2 (ora).
La ricostruzione dettagliata della
progressione del contagio di SARS-CoV e
la risalita a gambero al virus e ai suoi «ospiti» («serbatoio» e intermedi) è
uno dei vertici drammatici del libro di Quammen: la si leggerebbe «come un
thriller», non si venisse sopraffatti a ogni pagina prima dall’angoscia, poi da
una pietas dolente, non senza una profonda emozione
per come la scienza risolve ancora una volta — se non tutti — parecchi enigmi
del caso.
La progressione procede per sequenze
inesorabili: l’innesco coi contagi in sordina nel Guangdong (capitale
Guangzou alias Canton; altra città di riferimento Shenzhen,
nuovo polo hi-tech sede anche della Huawei): l’irradiazione, nella stessa area,
con un primo superspreader («super-diffusore»), un commerciante di pesce che torna a Canton
dalla portuale Zhongshan; il passaggio (durante la terrificante intubazione di
quest’ultimo) a tanti medici e paramedici, uno dei quali- un nefrologo — va al
matrimonio di un nipote a Hong Kong, risedendo in un Hotel (il Metropole) che
diventa un moltiplicatore, esportando il virus da Singapore a Toronto (dove la
SARS mieterà 33 vittime); e l’approdo a Pechino,
attraverso un altro super-diffusore che arriva a contagiare da solo ben 70
suscettibili. Altrettanto serrate sono le sequenze della risalita retrograda a
livello biologico-genetico e epidemiologico: un primo sospetto su un’emergente
zoonosi influenzale «del peggior tipo», cioè simile a H5N1 (l’iper-aggressiva
«aviaria» del ’97,6 decessi su 18 casi); l’individuazione successiva, per
esclusione, di un coronavirus (che prende il nome dalla forma tondeggiante con
le frange appuntite); quella di un primo, ingannevole «ospite serbatoio» come
lo zibetto (civetta delle palme mascherata), che si rivelerà invece
tragicamente solo un «ospite intermedio» (tragicamente perché il governo cinese
— dopo la recidiva del 2004 — ordinerà la soppressione di 1000 esemplari, che
finiranno soffocati, bruciati vivi, folgorati, annegati); la risalita dopo
quell’ecatombe (in due studi paralleli, uno a Hong Kong, l’altro a New York)
all’effettivo reservoir, il minuscolo «pipistrello ferro di cavallo»,
bestiola dalla protuberanza nasale bruttina ma efficacissima nell’ecolocazione.
Nell’indagare sul possibile «innesco» dello spillover,
Quammen si dilunga in una digressione che diventa fatalmente sequenza centrale:
quella in cui perlustra (personalmente e nei racconti di conoscenti) gli
allevamenti e i mercati (wet markets) volti a
rifornire gli animali selvatici a un’immensa rete di ristoranti (più di 2000
solo a Canton) specializzati nella relativa cucina (yewei).
Una cucina, va rimarcato, non certo proletaria, ma destinata a una clientela
cool per cui quella fantasmagoria gastronomica estesa a «tutte le creature di
terra, di aria o di mare» (non solo pipistrelli e zibetti, ma anche ratti,
serpenti, tartarughe, tassi e furetti di ogni specie, e molto altro)
rappresenta un’esibizione di lusso e nello stesso tempo l’adesione a una
tradizione «beneagurante», inclusiva di presunti afrodisiaci come il pene di
tigre. I mercati, in particolare (come il Chatou di Canton o il Dongmen di
Shentzhen) si presentano come veri «manicomi zoologici», con gli animali
selvatici spesso macellati in loco, tenuti a contatto con cani e gatti
(pietanze più ordinarie) e stipati in gabbie a rete verticali in cui la
deiezione di chi sta sopra finisce su chi sta sotto. Non per niente, tra i
«casi indice» (i primi diffusori) della SARS figurano — oltre a cuochi e
personale da cucina di Canton — venditori e clienti di quei mercati, dove non è
raro imbattersi in partite di pipistrelli infetti e possibili «ospiti
intermedi» come gli zibetti.
5. SARS CoV-2 («il Coronavirus») in prospettiva
5. SARS CoV-2 («il Coronavirus») in prospettiva
Lo scenario di SARS-CoV si è ripresentato ora con SARS-CoV-2.
La ricostruzione di Quammen mostra infatti come alla similarità
genetico-molecolare si associ quella epidemiologica: stessa area di provenienza
(la Cina, stavolta centrale, città di Wuhan, provincia dell’Hubei); stessa
partenza in sordina, tra esordio subdolo del contagio e cautele sconfinanti in
censure (i primi casi forse a ottobre 2019); stessa
modalità di innesco, anche se il mercato del pesce di Wuhan — dov’erano
esposti animali vivi, tra cui fauna selvatica e pipistrelli — sembra ora un
passaggio secondario. Ci vorrà tempo, ovviamente, per arrivare allo stesso
grado di messa a fuoco di SARS-CoV. Non mancano, però, marcate differenze.
Caratterizzato da una maggiore
contagiosità, il nuovo virus sembrerebbe
inferiore per letalità: per SARS CoV era del 9.6% (8098 casi in 29
paesi, con 774 decessi); quello del virus attuale, al momento, del 3,4 (più di
93.000 casi con più di 3200 decessi: i dati sono aggiornati a mercoledì 4
marzo), anche se va tenuto conto di molte variabili, dai contagi non ancora
rilevati ai forti scarti tra Paesi e i relativi assetti socio-sanitari (vedi
Iran). E anche il famigerato R,
il «numero di riproduzione» ovvero la capacità di contagio di un individuo —
che non dev’essere maggiore (>) ma uguale (=) a 1 per indicare una possibile
implosione dell’epidemia — è in assestamento: sembrerebbe, in ogni caso, >2.
Qualche dato comparativo: le
influenze stagionali hanno in genere un R=2, la Spagnola aveva un R>3, il
morbillo un R>7. I prossimi giorni o meglio settimane faranno
chiarezza, specie misurando il tutto — l’efficacia del «contenimento» — secondo
pietre angolari epidemiologico-matematiche come il rapporto tra virulenza,
tasso di trasmissione e tempo di recupero dei pazienti guariti. Intanto, è
possibile trarre qualche orientamento, magari tornando alle riflessioni di
Macfarlane Burnet. In primo luogo, bisogna considerare quanto di deterministico
e quanto no ci sia in un’epidemia (il che varrebbe, per inciso, per molte altre
questioni, a partire dal global warming). La
sintesi sta proprio nel caso dei pipistrelli come reservoirs di tante potenziali zoonosi: è vero che
in certi casi l’innesco è imprevedibile (vedi quello delle deiezioni sulle
porcilaie nel Nipah); ma in
molti altri tutto dipende da noi, a partire da quelle alterazioni
ecologiche (urbanizzazioni, deforestazioni, e così via) che sottraggono ai
chirotteri i loro nutrimenti abituali (zecche e zanzare), attirandoli verso le
metropoli e facendo spostare i loro siti iperaffollati (tipo le grotte messicane di Carlsbad, dove stanno
stipati in 3000 per metro quadro e dove «persino la rabbia si
diffonde per via aerea») in scantinati urbani e fabbriche dismesse. Come
riassume efficacemente Jon
Epstein, ecologo dei patogeni animali, «non sono loro a cercarci, semmai
siamo noi a cercare loro», dove «loro» si può riferire ai patogeni come agli
ospiti («serbatoio» e intermedi). Il che vale, nello specifico, soprattutto per
la Cina, i cui ormai numerosi precedenti nell’«esportazione» epidemica (prima
delle due SARS, le due influenze hongkonghesi e l’aviaria) poggiano su
attenuanti oggettive (demografia, densità urbana, migrazioni massicce interne e
globali), ma anche sull’elusione di certi snodi, in primis quello dei wet markets. Dopo il primepisodio di SARS CoV
(2002-03), il governo vietava le vendite di civette delle palme e di 53 altre
specie selvatiche; ma pochi mesi dopo, in seguito alle proteste di allevatori e
commercianti (e usando come pezza d’appoggio un nuovo studio «in discolpa»
delle civette) faceva rientrare tutto, peggiorando poi le cose — alla recidiva
successiva — con l’ecatombe già rievocata. Ora sembra muoversi qualcosa
(vedi l’intervista al Corriere di Zhou Jinfeng, capo della
Ong cinese per la difesa della biodiversità); ma già Burnet (che pure lo
invocava) era molto scettico su un effettivo divieto commerciale sui pappagalli
australiani, «ospiti» della psittacosi. E poi, come spesso in questi casi, è
scacco matto, perché divieti simili rischiano di alimentare la vendita
illegale. In secondo luogo, sempre tornando a Burnet, la prospettiva
biologico-evoluzionistica delle «malattie infettive» può essere utile a
introdurre una visione meno antropocentrica e più
spersonalizzata della questione. Ricordarci come la
competizione-coabitazione tra organismi di miliardi o molti o pochi milioni di
anni sia costitutiva della materia vivente: se tendiamo a rimuoverlo, è perché
le acquisizioni profilattiche e bio-mediche (vaccini in primis) ne hanno attenuato di molto l’impatto
rispetto a un passato in cui i nostri avi morivano, oltretutto, riconducendo le
epidemie ad agenti metafisici o a piaghe mandate da un demone o da un Dio
punitivo. E ricordaci, quindi, che le perdite e i lutti — anche quando ci
riguardano da vicino — non invalidano di un atomo il valore oggettivo di quelle
acquisizioni, si tratti solo di una curva statistica che faccia intravedere il
ritrarsi di una pandemia; che la speranza resta tale anche quando ci esclude
individualmente.
I LIBRIOltre al libro di David Quammen, Spillover (Adelphi, traduzione di Luigi Civalleri, disponibile anche in edizione economica), per questo articolo sono stati utilizzati:
Gilberto Corbellini, Storia e teorie della salute e della
malattia, Carocci, 2014;
Giovanni Maga, Occhio ai virus e Batteri spazzini e virus che curano, tutti e due da Zanichelli, 2012 e 2016;
Giovanni Rezza, Epidemie, Carocci,
nuova edizione febbraio 2020, con un capitolo specifico su SARS-CoV-2Giovanni Maga, Occhio ai virus e Batteri spazzini e virus che curano, tutti e due da Zanichelli, 2012 e 2016;
Le
virtù del virus
Rivista on line DOPPIOZERO
(segnalato
da Villa Ambra)
Difficile
non farsi prendere dal demone dell’analogia quando ci si misura con l’enormità
dell’evento pandemia. Nelle riflessioni che accompagnano il suo diffondersi a
macchia d’olio, il Covid 19 è diventato una sorta di metafora generalizzata,
quasi il precipitato simbolico della condizione umana nella post-modernità. Era
già successo, quarant’anni fa, con l’Hiv e si ripete puntualmente oggi. La
pandemia si presenta come una sorta di experimentum crucis, grazie al quale
sono verificate ipotesi che dalla politica vanno agli effetti della
globalizzazione, alla trasformazione della comunicazione nel tempo della rete
fino a raggiungere le vette della più rarefatta considerazione metafisica. Per
l’isolamento, la diffidenza e il sospetto a cui induce, il virus è infatti ora
“populista” o “sovranista”. Per le pratiche emergenziali a cui costringe sembra
universalizzare quello “stato di eccezione” che il Novecento teologico-politico
ha lasciato in eredità al presente, confermando inoltre la tesi di Foucault sul
carattere biopolitico del potere sovrano nella modernità (un potere che avrebbe
il suo correlato nella produzione, gestione e amministrazione della “vita”).
Per il suo essenziale anonimato sembra poi condividere l’immaterialità che si
denuncia nel vituperato dominio del capitale finanziario. Per la sua capacità
di contagio si coniuga perfettamente con la natura preriflessiva e “virale”
della comunicazione in rete. Last but non least il virus è il segno dell’eterna
condizione umana. Casomai ci fossimo colpevolmente scordati della nostra
mortalità, finitezza, contingenza, mancanza, ontologica deficienza ecc. ecc.,
ecco che il virus ce le rammenta, coartandoci alla meditazione e rimediando
così alla nostra distrazione di consumatori compulsivi. Queste considerazioni
non sono affatto illegittime. Sono, anzi, tutte pienamente fondate. In questo
consiste però anche il loro difetto. Se funzionano è perché riducono l’ignoto
al noto. Esse fanno del virus l’evidenza intuitiva che, per dirla con la lingua
della fenomenologia, viene a “riempire” una attesa d’ordine teorico. Per
l’intelligenza critica che si esercita sul fenomeno virus, Covid 19 è per lo
più il nome da film di fantascienza con cui si certifica un sapere pregresso. Ma
se il virus ha la caratteristica dell’evento (e sarebbe veramente molto
difficile negargli questo tratto) dell’evento deve avere anche la “virtù”. Gli
eventi sono tali non perché “accadono” o, almeno, non solo per quello. Gli
eventi non sono i “fatti”. A differenza dei semplici fatti, gli eventi hanno
una “virtù”, una forza, una proprietà, una vis, cioè fanno qualcosa. Per questo
l’evento è sempre traumatico al punto che si può dire che se non c’è trauma non
c’è evento, se non c’è trauma non è successo letteralmente nulla. Ora, cosa
fanno gli eventi? Gli eventi producono trasformazioni che prima del loro aver
luogo non erano nemmeno possibili. Cominciano infatti a esserlo solo “dopo” che
l’evento ha avuto luogo. L’evento, insomma, è tale perché genera del possibile
“reale”. Si tenga presente che “possibile” non vuole qui dire altro che
praticabile. Possibilità significa poter fare qualcosa. La possibilità non è
niente di astratto, non è la libera immaginazione di altri mondi migliori di
questo. Se si rimane su un piano pragmatico, senza indulgere alla metafisica,
possibilità è solo “potenza” e potenza non è nient’altro che azione, attività
determinata. La “virtù” dell’evento consiste allora nel rendere possibile
modalità operative che, “prima”, erano semplicemente impossibili, addirittura
impensabili. Ne consegue che l’evento può essere pensato solo a partire dal
futuro che genera (e non dal passato), perché trasforma, perché crea del reale
e con esso del possibile. Il senso comune è dunque nel giusto quando pensa
l’evento come “occasione” per “fare di necessità virtù”. Noi siamo troppo
vicini all’evento Covid 19 per poter scorgere il futuro che reca in grembo e la
nostra umanissima paura ci rende dei testimoni inaffidabili, ma alcuni segni
del cambiamento di paradigma che esso comporta ci sono e mostrano un senso
inatteso. Il più eclatante è probabilmente l’improvviso tracollo dell’ideologia
del “muro”. Il virus è arrivato nel momento in cui il pianeta sembrava
convergere nella condivisa persuasione che la sola risposta alle “minacce della
globalizzazione” consistesse nella ridefinizione di confini armati e di
identità forti. Il populismo, che detesta i libri, crede però, dogmaticamente,
nel primato della “cultura” nel senso antropologico del termine. Il suo senso
della comunità è infatti storico, romantico e tradizionale. La sua comunità è
locale per definizione, il suo nemico giurato è l’astrazione frigida del
cosmopolitismo. Ancora più estranea alla sua sensibilità è poi la natura:
nient’altro che una risorsa da sfruttare per il benessere della comunità (vedi
Bolsonaro e la deforestazione dell’Amazzonia, Trump e la sua indifferenza alla
questione del riscaldamento globale, l’odio salviniano per Greta…). Il
populista non ha dubbi sulla tesi della “eccezione umana”. Ne fa, anzi, un
articolo di fede. Aggiungerei che se bacia il crocifisso è perché vi vede
confermata teologicamente proprio quella eccezione. Ebbene, il virus, nel giro
di pochissimi giorni, ad una velocità veramente pazzesca, ha costretto tutti,
volenti o nolenti, a farsi carico, financo nei comportamenti più quotidiani
(lavatevi le mani…), del destino della comunità mondiale e, ben oltre ad essa,
della comunità dell’uomo con la natura. Per sradicare il pregiudizio
culturalista e antropocentrico non c’è stato bisogno del lento e quasi sempre inefficace
lavoro dell’educazione: è bastato qualche colpo di tosse perché improvvisamente
diventasse inaggirabile la responsabilità che ogni individuo ha nei confronti
del creato per il solo fatto di essere (ancora…) al mondo e se vuole continuare
a restare al mondo...
Con la forza oggettiva del trauma, il virus mostra che il tutto è sempre implicato nella parte, che “tutto è in qualche modo in tutto” e che non ci sono nell’impero della natura regioni autonome che facciano eccezione. Non ci sono nella natura “imperi negli imperi” come li chiamava Spinoza per irridere la pretesa superiorità dello “spirito” sulla “materia”. Il monismo del virus è selvaggio e la sua immanenza crudele. Se la “cultura” desolidarizza, se erige steccati e costruisce generi, se definisce gradazioni nella partecipazione al titolo di essere umano e istituisce orrendi confini tra “noi” e i “barbari”, il virus “accomuna” e costringe a pensare a soluzioni “comuni”. Nessuno nel tempo del virus può più pensare di salvarsi da solo né può pensare di farlo senza coinvolgere in questo processo la natura. Si dirà che la pandemia genera zone rosse, clausure domestiche, militarizzazioni del territorio. E questo è indubbio. Ma qui il muro assume un senso completamento diverso dal muro che il ricco costruisce per tenere lontano il povero. È un muro costruito per l’altro, chiunque esso sia. Nel tempo del virus il “prossimo” è infatti ridotto radicalmente alla dimensione del “chiunque”. Il muro, in tutte le sue forme compreso il metro di distanza al bar, viene allora costruito per supplire la stretta di mano impossibile con quel “chiunque”. È una via di comunicazione e non il segno di una esclusione. Prova ne è che la retorica fascista non ha potuto sbandierare quei muri come conferma della bontà della sua proposta segregazionista. Di fronte alla strapotenza del virus ha dovuto riporre, almeno momentaneamente, la sua più efficace arma. Siamo troppo vicini all’evento anche per valutarne gli effetti sul piano politico. C’è tuttavia un fatto che va registrato. Il virus sembra restituire alla politica il suo perduto primato. Il pensiero classico metaforizzava questo primato del politico nell’immagine del pilota della nave che deve destreggiarsi in un mare ostile. Essendo spiriti realisti, i classici sapevano che non c‘erano porti sicuri ove approdare per porre fine al viaggio. La navigazione, dicevano, è necessaria, vivere non è necessario. L’“elemento” in cui bagna il politico è una natura dove la fortuna, il caso, l’alea giocano un ruolo ineliminabile. La “virtù” politica consisteva allora nel misurarsi con la strapotenza di questo elemento, governandolo con astuzia (metis) e resilienza. Il politico è tale proprio perché depone l’illusione “umana, troppo umana” di poter disporre della potenza degli elementi naturali, che invece ha rappresentato il sogno metafisico dell’umanità “moderna”, quell’umanità che ha pensato il rapporto con la natura nei termini di una guerra dello spirito contro la materia bruta. Primato del politico significa governo della natura non dominio. E bisogna aggiungere, per chiarire la natura tutta “politica” di questo governo, quella formula così cara a Platone: kata dynamin, per quanto è possibile a un mortale. Ebbene, non c’è dubbio che è proprio l’ipotesi del dominio a venire ridicolizzata da un colpo di tosse a Wuhan ed è all’intelligenza pragmatica del pilota che si fa appello per governare, per quanto è possibile, la spontaneità di un processo che si fa in barba alle nostre intenzioni. Covid 19 ha anche questa virtù: richiama la politica alla sua specifica responsabilità, le riconsegna quel primato che aveva illusoriamente lasciato ad altre istanze sovrane, alle quali si era subordinata, dichiarando la propria impotenza e accontentandosi di svolgere un ruolo esclusivamente tecnico. Dopo Wuhan, invece, l’agenda non può che essere fissata da una politica che deve “barcamenarsi” (la virtù politica era detta “cibernetica” dai greci, vale a dire nautica) nel mare in tempesta di un contagio progressivo e apparentemente inarrestabile. Tant’è che ciò che fino a poche settimane sembrava solo una irrealistica pretesa, è divenuto una sorta di parola d’ordine. La politica, si dice, deve avere la priorità sull’economia. È questa che si deve piegare alle esigenze del Principe che ha cuore il destino del suo equipaggio. Il virus, infine, dispone alla meditazione. Non credo però che l’oggetto di questa meditazione sia la contingenza dell’esistenza e la precarietà delle cose umane. Non abbiamo certo bisogno del Covid 19 per riflettere sulla nostra fragilità. Questa angoscia non ci ha mai veramente abbandonato (checché ne dicano i giornalisti che dagli studi televisivi pontificano sul fatto che, grazie al virus, un’umanità istupidita dai media, cioè da loro, avrebbe finalmente “riscoperto” la sua ontologica insicurezza). Il virus declina piuttosto l’esistenza, la nostra come quella di tutti gli altri, nel modo del “destino”. Improvvisamente ci siamo sentiti trascinati da qualcosa di strapotente, che si fa nel silenzio degli organi, ignorando la nostra volontà. La libertà è così compromessa? Si deve avere una ben mediocre idea della libertà per pensare che essa confligga con la fatalità dell’accadere. Tra le virtù del virus bisogna annoverare la sua capacità di generare una idea più sobria di libertà: la libertà che si realizza nel fare qualcosa di ciò che il destino fa di noi. Essere liberi è fare ciò che, nella situazione, si deve fare. Non è una astrazione da filosofi, questa. La vediamo incarnata nell’operosità, nella serietà, nella dedizione con cui migliaia di persone lavorano quotidianamente per rallentare il contagio.
Con la forza oggettiva del trauma, il virus mostra che il tutto è sempre implicato nella parte, che “tutto è in qualche modo in tutto” e che non ci sono nell’impero della natura regioni autonome che facciano eccezione. Non ci sono nella natura “imperi negli imperi” come li chiamava Spinoza per irridere la pretesa superiorità dello “spirito” sulla “materia”. Il monismo del virus è selvaggio e la sua immanenza crudele. Se la “cultura” desolidarizza, se erige steccati e costruisce generi, se definisce gradazioni nella partecipazione al titolo di essere umano e istituisce orrendi confini tra “noi” e i “barbari”, il virus “accomuna” e costringe a pensare a soluzioni “comuni”. Nessuno nel tempo del virus può più pensare di salvarsi da solo né può pensare di farlo senza coinvolgere in questo processo la natura. Si dirà che la pandemia genera zone rosse, clausure domestiche, militarizzazioni del territorio. E questo è indubbio. Ma qui il muro assume un senso completamento diverso dal muro che il ricco costruisce per tenere lontano il povero. È un muro costruito per l’altro, chiunque esso sia. Nel tempo del virus il “prossimo” è infatti ridotto radicalmente alla dimensione del “chiunque”. Il muro, in tutte le sue forme compreso il metro di distanza al bar, viene allora costruito per supplire la stretta di mano impossibile con quel “chiunque”. È una via di comunicazione e non il segno di una esclusione. Prova ne è che la retorica fascista non ha potuto sbandierare quei muri come conferma della bontà della sua proposta segregazionista. Di fronte alla strapotenza del virus ha dovuto riporre, almeno momentaneamente, la sua più efficace arma. Siamo troppo vicini all’evento anche per valutarne gli effetti sul piano politico. C’è tuttavia un fatto che va registrato. Il virus sembra restituire alla politica il suo perduto primato. Il pensiero classico metaforizzava questo primato del politico nell’immagine del pilota della nave che deve destreggiarsi in un mare ostile. Essendo spiriti realisti, i classici sapevano che non c‘erano porti sicuri ove approdare per porre fine al viaggio. La navigazione, dicevano, è necessaria, vivere non è necessario. L’“elemento” in cui bagna il politico è una natura dove la fortuna, il caso, l’alea giocano un ruolo ineliminabile. La “virtù” politica consisteva allora nel misurarsi con la strapotenza di questo elemento, governandolo con astuzia (metis) e resilienza. Il politico è tale proprio perché depone l’illusione “umana, troppo umana” di poter disporre della potenza degli elementi naturali, che invece ha rappresentato il sogno metafisico dell’umanità “moderna”, quell’umanità che ha pensato il rapporto con la natura nei termini di una guerra dello spirito contro la materia bruta. Primato del politico significa governo della natura non dominio. E bisogna aggiungere, per chiarire la natura tutta “politica” di questo governo, quella formula così cara a Platone: kata dynamin, per quanto è possibile a un mortale. Ebbene, non c’è dubbio che è proprio l’ipotesi del dominio a venire ridicolizzata da un colpo di tosse a Wuhan ed è all’intelligenza pragmatica del pilota che si fa appello per governare, per quanto è possibile, la spontaneità di un processo che si fa in barba alle nostre intenzioni. Covid 19 ha anche questa virtù: richiama la politica alla sua specifica responsabilità, le riconsegna quel primato che aveva illusoriamente lasciato ad altre istanze sovrane, alle quali si era subordinata, dichiarando la propria impotenza e accontentandosi di svolgere un ruolo esclusivamente tecnico. Dopo Wuhan, invece, l’agenda non può che essere fissata da una politica che deve “barcamenarsi” (la virtù politica era detta “cibernetica” dai greci, vale a dire nautica) nel mare in tempesta di un contagio progressivo e apparentemente inarrestabile. Tant’è che ciò che fino a poche settimane sembrava solo una irrealistica pretesa, è divenuto una sorta di parola d’ordine. La politica, si dice, deve avere la priorità sull’economia. È questa che si deve piegare alle esigenze del Principe che ha cuore il destino del suo equipaggio. Il virus, infine, dispone alla meditazione. Non credo però che l’oggetto di questa meditazione sia la contingenza dell’esistenza e la precarietà delle cose umane. Non abbiamo certo bisogno del Covid 19 per riflettere sulla nostra fragilità. Questa angoscia non ci ha mai veramente abbandonato (checché ne dicano i giornalisti che dagli studi televisivi pontificano sul fatto che, grazie al virus, un’umanità istupidita dai media, cioè da loro, avrebbe finalmente “riscoperto” la sua ontologica insicurezza). Il virus declina piuttosto l’esistenza, la nostra come quella di tutti gli altri, nel modo del “destino”. Improvvisamente ci siamo sentiti trascinati da qualcosa di strapotente, che si fa nel silenzio degli organi, ignorando la nostra volontà. La libertà è così compromessa? Si deve avere una ben mediocre idea della libertà per pensare che essa confligga con la fatalità dell’accadere. Tra le virtù del virus bisogna annoverare la sua capacità di generare una idea più sobria di libertà: la libertà che si realizza nel fare qualcosa di ciò che il destino fa di noi. Essere liberi è fare ciò che, nella situazione, si deve fare. Non è una astrazione da filosofi, questa. La vediamo incarnata nell’operosità, nella serietà, nella dedizione con cui migliaia di persone lavorano quotidianamente per rallentare il contagio.
Nessun commento:
Posta un commento