giovedì 12 marzo 2020

Ancora a proposito di Corona Virus, ma iniziando ad alzare lo sguardo


Un piccolo contributo per riempire le lunghe giornate in casa che ancora ci aspettano. Difficile farlo dimenticandoci del piccolissimo ma agguerrito colpevole del nostro confino nelle mura domestiche. E quindi di Coronavirus s’ha da parlare, e noi vorremmo qui farlo usando due contributi fra di loro integrativi: uno che guarda all’aspetto “naturalistico” della vicenda e che ha il dichiarato obiettivo di ricordarci, informandoci su elementi scientifici, l’umana appartenenza all’insieme delle forme di vita di questa pianeta, il secondo è uno dei primi tentativi di riflettere sugli insegnamenti che dall’ “evento” coronavirus potremmo trarre, che si proietta quindi ad un “dopo”, quanto mai atteso e sospirato, proponendo tematiche che, proprio grazie al CVD19, dovremo porre al centro del dibattito.

(P.S. = sono articoli lunghetti e densi…….ma non ci manca il tempo!)

Dai pipistrelli all’uomo: alle origini del Coronavirus
Come è arrivato, il virus, all’uomo?
Dai «serbatoi» all’uomo, le tappe evolutive che hanno generato l’ombra che si allunga sulle nostre vite

Articolo di  Sandro Modeo 
apparso sul “Corriere della Sera” 
(segnalato da Enrica Gallo)

Concludendo la sua analisi sulla "matenatica del contagio"  Paolo Giordano citava il libro del saggista scientifico David QuammenSpillover (il titolo si riferisce ai «salti di specie» degli agenti patogeni dall’ animale all’uomo) come degno «di un articolo a sé». In effetti, quel testo può aiutare come pochi altri ad addomesticare il nostro attuale spaesamento, a capire da dove provenga davvero l'ombra che si è allungata nelle nostre giornate, a livello individuale e collettivo. Esito di sei anni di lavoro accanito, Spillover scorre in superficie come un reportage ipnotico, in cui Quammen ricostruisce origine e andamento di tutte le epidemie-pandemie degli ultimi decenni (dall’Ebola alla SARS) incontrando non solo medici e scienziati, ma anche testimoni e sopravvissuti, delle aree e dei «focolai» volta a volta decisivi, si tratti di foreste congolesi, fattorie australiane o mercati cantonesi di animali selvatici. Ma a un livello sottostante, Quammen ci invita quasi a ogni pagina a considerare il nostro rapporto con gli agenti patogeni in una prospettiva naturalistica (o meglio biologico-evoluzionistica) che può conferirgli un senso più profondo.
Decisiva, al riguardo, è la figura, opportunamente evocata da Quammen, del grande scienziato australiano Frank Macfarlane Burnet (1899-1985). Personalità complessa e irascibile (già a partire da un’infanzia asociale trascorsa a leggere H.G. Wells e a collezionare coleotteri), Burnet diverrà noto soprattutto per le sue scoperte sui meccanismi dell’immunità acquisita (Nobel della Medicina nel’60); ma prima, negli anni Trenta, si fa una certa fama come infettivologo trovando gli agenti patogeni della psittacosi e della «febbre Q» e individuando il fattore di innesco di tutte e due le zoonosi (termine che indica patologie infettive animali trasmissibili all’uomo) nelle cattive condizioni di allevamento, in un caso dei pappagalli, nell’altro di bovini e ovini. Intuizioni confermate dal periodico riaffiorare di quelle (e altre) zoonosi, come nel Brabante olandese del 2007, dove Quammen vede sovraffollamenti di capre in stalle dal pavimento ricoperto da un «polpettone» di «strame, feci e urina», ideale terreno di coltura per i microbi.
Come riflessione sulle sue scoperte, Burnet scrive nel 1940 un libro-spartiacque, Le malattie infettive, in cui — fissata l’importanza delle acquisizioni profilattiche della batteriologia moderna: fognature adeguate, cibo non contaminato, asepsi chirurgica — invita i medici a inquadrare le stesse patologie infettive e le zoonosi come «come un esempio di relazione tra individui di specie diverse, di importanza pari alla predazione, alla competizione e alla decomposizione»; e a vedere, di conseguenza, gli agenti patogeni come «parassiti» o «predatori», «piccole creature che mangiano grandi prede dall’interno». È una visione del tutto coerente con la sua innovativa descrizione del sistema immunitario, concepito come un sistema in grado di discriminare tra un self (i costituenti molecola propri) e un not-self (quelli «alieni» degli agenti patogeni). Con un’implicazione decisiva. Quel «conflitto» tenderebbe, in un ambiente più o meno costante, a un equilibrio, a trasformare la competizione tra specie in coabitazione (come in effetti avviene in molti casi); se non intervenisse, a vanificarlo — anche se non come fattore esclusivo — l’attività dell’uomo.
Ed è proprio quel conflitto il «timone» del percorso evolutivo che conduce fino alla pandemia di questi mesi. Un percorso che vede sulla scena tre «attori»: oltre agli agenti patogeni (in questo caso i virus) e agli umani, gli «ospiti serbatoio» (in gergo reservoirs) che hanno esercitano lo spillover, magari con l’ulteriore mediazione di qualche «ospite di amplificazione» (animali intermedi). E dal momento che SARS-CoV-2 condivide quasi tutto il genoma sia con il suo predecessore SARS-CoV (l’85%), sia col coronavirus dell’ospite-serbatoio di allora, i chirotteri ovvero i pipistrelli (addirittura il 90%), il terzo attore è più di un semplice indiziato. Provare a seguire quel percorso significa cercare di capire le ragioni non prossime — ma remote ed effettive — dell’epidemia-pandemia in corso. E per farlo, il libro di Quammen è solo uno strumento tra altri.
1. I virus
L’origine dei virus va collocata con ogni probabilità nello scenario della stessa origine della vita, tra i 3.5 e i 3 miliardi di anni fa, quando si sviluppano nicchie ambientali favorevoli allo sviluppo delle prime entità biologiche. Dato che i virus sono «zombie chimici» (piccoli genomi racchiusi in una membrana proteica, che per riprodursi devono entrare nelle cellule e utilizzarne i meccanismi), tutte le teorie sulla loro genesi sono tese a spiegare quei tratti morfologici e biochimici. Nell’ordine, sono stati visti come cellule primitive degenerate (tramutate in parassiti dopo aver perso la capacità di vita autonoma); prodotti di «geni in fuga» cioè di «elementi genetici mobili» come i trasposoni (sequenze di Dna in grado di inserirsi nel genoma di molti organismi); o ancora — secondo la seducente teoria di Wolfram Zilling — organismi in coevoluzione con le stesse cellule, entro un comune «brodo primordiale» in cui acidi nucleici e proteine (isolati da involucri o membrane) sarebbero evoluti da un lato verso la viralità, dall’altro verso la cellularità. Anche se forse l’ipotesi più intrigante è che i virus risalgano a un ancestrale «mondo a Rna» in cui le protocellule non hanno ancora «diviso i compiti» tra Dna (depositario dell’informazione e della replicazione) e Rna (deputato alla trascrizione di quell’informazione e alla sua traduzione in proteine), ma operano con un «Rna tuttofare». E questo a tacere di ipotesi più estreme, come quelle che vedono i virus ancestrali all’origine sia dello stesso Dna che del nucleo cellulare
Oltre che onninvadenti (un milione di particelle virali in una goccia d’acqua, a fronte di 100.000 batteri) e infinitesimali (dai 20 ai 750 nanometri, in forme spesso bizzarre), i virus sono in ogni caso antichissimi, come dimostra, secondo adagio evoluzionistico («più gli organismi sono antichi, maggiore è la loro diversità») il numero di tipi classificati (5000), con stime realistiche che ipotizzano un numero di almeno 1000 volte superiore.
E in ogni caso, la distinzione perdurante tra virus a Rna e a Dna — traccia di quelle origini arcaiche — è una delle chiavi per decifrarne morfologia e «comportamento», con le virgolette a ricordare che non dobbiamo mai cedere alla tentazione di «umanizzare» dinamiche biologiche senza scopo e senz’altro senso se non quello della riproduzione-sopravvivenza. I virus a Dna (con doppio filamento, la famosa elica) hanno genomi più estesi, minor numero di mutazioni e riescono a «correggere le bozze» (gli errori di replicazione) grazie alla Dna polimerasi, risultando quindi più «stabili». Mostrano «perseveranza, invisibilità, dissimulazione», tendendo a nascondersi al sistema immunitario in una sorta di letargo o stand-by prolungato, per poi riaffiorare in forme più acute: un caso tipico è il varicella-zoster, che può scatenare un «fuoco di Sant’Antonio» anche a dieci o più anni dalla malattia esantematica. I virus a Rna (con un solo filamento, anche se non mancano eccezioni a doppio filamento, così come- a rovescio- virus a DNA monofilamento) hanno invece genomi ristretti, perché con una «polimerasi da due soldi» che non «corregge le bozze» un genoma troppo esteso produrrebbe un numero di errori insostenibile; in compenso, hanno una frequenza di mutazioni molto più elevata dei virus a Dna (fino a 1000 volte) e popolazioni più numerose. La loro «strategia» è di «esplodere» per «bruciare sul tempo» la risposta immunitaria dell’ospite, inducendo infezioni acute in uno schema on/off (la morte o la guarigione dell’ospite stesso, senza la possibilità di coabitazioni come nei virus a DNA). Qui, gli esempi più immediati sono la famiglia del morbillo, i retrovirus (HIV-1) e certi coronavirus, tra cui le molte varianti del raffreddore e virus «emergenti» come SARS-CoV, MERS-CoV (l’epidemia nella penisola arabica del 2012) e ora SARS-CoV-2. Il punto-chiave è che i virus a Rna — per le caratteristiche appena descritte — hanno tra le loro opzioni per una sopravvivenza a lungo termine proprio lo spillover, il «salto di specie». Tutto sta a trovare «ospiti serbatoio» (ed eventuali «ospiti di amplificazione») adeguati.
2. I pipistrelli
Per arrivare ai chirotteri (dal greco chéir, mano e pteròn, ala) dobbiamo far scorrere il nastro della vita oltre sequenze decisive — l’esplosione della fauna nel Cambriano o il mondo a colori dopo l’emersione delle angiosperme nel Giurassico-Cretaceo, stessi periodi dei dinosauri — fino alla fine del Paleocene, tra i 65 e i 56 milioni di anni fa. È in quel range temporale che i pipistrelli, probabilmente originari delle attuali aree eurasiatiche, si irraggiano e differenziano prima in Africa e poi negli altri continenti.
La loro utilità per Sapiens è più o meno nota, dalla loro incidenza come insettivori (zanzare in primis, quindi come antidoti alla malaria) a quella di impollinazione di fiori e piante, dalla funzione fertilizzante del loro guano (sedimentato nelle grotte) alla possibile incidenza terapeutica nelle ischemie (secondo uno studio recente) di una proteina contenuta nella saliva di una sottofamiglia di vampiri. Capitolo a sé stante (su cui si tornerà) il loro impiego gastronomico: non solo in Cina, ma in molti Paesi (Seychelles, Indocina, Indonesia, Filippine e varie isole del Pacifico) i pipistrelli (specie i frugifori) costituiscono «carne prelibata». Eppure — fatta salva l’ammirazione per l’ecolocazione con sonar hi-tech — la loro fama sembra ornai dimensionata solo sulla minacciosità patogena; del resto, anche verso gli stessi microbi abbiamo un atteggiamento univoco, rimuovendo la loro utilità-potenzialità, dai «batteri spugne» che assorbono il mercurio e altri inquinanti alle terapie antitumorali con virus geneticamente modificati.
Dopo di che, colpisce nei chirotteri l’oggettiva familiarità coi virus, riconducibile a molti fattori: la rilevanza demografica e filogenetica (sono 1116 specie, addirittura un quarto dei mammiferi); la spiccata socialità che li porta, per il riposo o il letargo, a concentrazioni impressionanti (un milione di individui in un sito); la loro stessa «arcaicità» lungo la storia della vita, che li ha condotti a maturare con molti virus un legame di coabitazione coevolutiva («quando una linea evolutiva di chirotteri si divide in due, è probabile che lo stesso facciano i patogeni trasportati»); e il volo, che li porta a diffondere e contrarre virus per continui contatti «tridimensionali» (anche in altezza-profondità) su aree molto estese, percorse con spostamenti di decine di chilometri in una sola notte (quando predano) o centinaia in una stagione (quando migrano, con siti estivi e invernali separati anche da 1300 chilometri).  Una zoomata a parte merita il rapporto tra la dimensione popolazionale e la longevità (fino a 20-25 anni). È questo rapporto, infatti, che permette ai virus di persistere, perché — in comunità così grandi — ai «vecchi» chirotteri che acquisiscono l’immunità corrisponde un numero costante di neonati suscettibili: è la «dimensione critica di popolazione» che consente a un patogeno di diventare da epidemico endemico, come succede al morbillo in comunità di almeno 500.000 abitanti. Anche se questo schema non è esclusivo: quando i patogeni non trovano gruppi così consistenti, sopravvivono contagiando popolazioni relativamente isolate (la cosiddetta metapopolazione), secondo lo schema a «ghirlanda luminosa di Natale», metafora che traduce l’intermittenza del contagio stesso, con la cadenza on/off più lenta se le popolazioni sono più distanziate. Sono modalità che sollecitano in ogni caso domande sul «mistero immunitario» dei pipistrelli, legato a una permeabilità virale che gli studiosi non riescono a spiegare del tutto, riconducendola al freddo dei siti (con eventuale immunosoppressione), ad anticorpi di durata media inferiore a quella umana, alla loro stessa arcaicità evolutiva (che li ha staccati dall’albero dei mammiferi prima che il loro sistema immunitario raggiungesse l’efficacia di quello di roditori e primati) e alla «convenienza» della stessa coabitazione endemica. Fatto sta che proprio l’assetto immunitario li elegge tra i principali «ospiti serbatoio» dei virus: come dimostra anche l’interazione con l’uomo.
3. Gli umani
Staccandosi dalla linea evolutiva del gorilla 8 milioni di anni fa e da quella dello scimpanzè «solo» 5, Homo — il fitto «cespuglio» della nostra discendenza — è molto giovane, nel senso che entra su una scena in cui la competizione-coesistenza tra agenti patogeni procede da miliardi di anni, e tra quelli e le altre specie animali (o meglio i loro sistemi immunitari) da decine di milioni, proprio come nei chirotteri. A lungo (più o meno fino a tutto il Pleistocene), i nostri antenati preominidi convivono coi microbi e i loro vettori (pulci, vermi, protozoi, salmonella, staffilo e streptococchi) senza troppe conseguenze: anche se lentamente vari fattori (punture di insetti, morsi di animali, consumo di cibo contaminato) portano alle prime zoonosi e ai primi spillover, con contagio di tubercolosi aviaria, leptospirosi, schistosomiasi, tetano e altre patologie. Quella relativa preservazione è dovuta in primis all’assetto socioeconomico, articolato in comunità piccole, isolate e nomadiche (al massimo 150 individui, il famoso «numero di Dunbar» che spiega anche il «limite» delle amicizie su Facebook). Il break avviene circa 10.000 anni fa, quando in una fase di riscaldamento climatico si ritirano i ghiacciai, si alza il livello del mare e viene stravolto l’ecosistema, con un drastico avvicendamento di fauna: si estinguono i grandi pachidermi della prateria umida e fredda e subentrano cervi, cinghiali e orde di roditori. In quel contesto, l’uomo inizia la famosa «transizione neolitica», in cui l’introduzione dell’agricoltura, la domesticazione animale, le deforestazioni e le comunità urbane via via più popolate sanciscono il passaggio dal nomadismo dei cacciatori-raccoglitori alla stanzialità. Tutti tratti — insieme alle crescenti diseguaglianze sociali — tesi a formare nuove nicchie ecologiche per gli agenti patogeni. Infatti, le zoonosi si moltiplicheranno, con l’uomo che contrae patologie dai cani (scabbia, morbillo, tigna), dai bovini (vaiolo, tubercolosi, tenia), dagli ovini (distoma, febbre maltese, carbonchio), dai maiali (trichinosi), dagli uccelli acquatici (influenza) e dai roditori (peste).
Con l’età arcaica e classica — con gli scambi commerciali e le guerre delle «prime globalizzazioni» — quei tratti si accentuano, portando alle prime vere «paure da contagio»: nell’Atene del 430 a.C, (con le masse stipate all’interno della città per volontà di Pericle nel contesto della «guerra del Peloponneso») esplode la prima epidemia di «peste» (in realtà tifo o febbre tifoide o emorragica): e a Roma basti ricordare l’epidemia descritta da Tacito (65 d.C., 30.000 morti) o la pandemia occidentale del 189, che costa alla «capitale» anche 2000 morti al giorno. Mentre il «lungo periodo» che segue — tra Medioevo e modernità — vede attuarsi una progressiva «unificazione microbica del mondo» per stazioni tragiche, le cui cifre parlano da sole, restituendoci anche la dimensione realistica di quello che stiamo vivendo: la Morte Nera del ‘300 (peste bubbonica, ancora dibattuto se batterica o virale) produce 25 milioni di morti in cinque anni, e più in generale il decesso «da un terzo alla metà» della popolazione eurasiatica e africana; gli shock immunitari prodotti dagli invasori sui nativi americani (isolati per 15.000 anni) li decimano del 90% in un secolo; e l’età preindustriale e industriale deve affrontare pandemie virali come il vaiolo (50 milioni di morti nell’Europa del ‘700, 400 nel mondo il secolo successivo) o il morbillo (200 milioni globali negli ultimi 150 anni).
Il «secolo breve» (il ‘900) si apre a sua volta con la Spagnola (da 25 a 40 milioni di morti dal 1918) e si chiude con l’AIDS (36 milioni dall’81 a oggi), che rivela nell’Hiv il principale tra i virus cosiddetti «emergenti», agenti patogeni nuovi o antichi-antichissimi, in grado di mutare la loro virulenza o contagiosità in nuove nicchie ecologiche, favorite dall’accentuarsi dei tratti moderni (urbanizzazione e rete di commerci-trasporti) ma anche da certe nuove procedure mediche (trasfusioni e trapianti d’organo). Nella fioritura degli «emergenti», i pipistrelli stanno esercitando un ruolo primario.
La convergenza: virus, pipistrelli, umani
Il legame tra arcaicità e novità nei virus emergenti con protagonisti i pipistrelli è ben riassunto nel caso di Hendra (dal nome della località australiana d’esordio), grave sindrome respiratoria (soprattutto equina) che esordisce nel ’94. In quel caso, infatti, antichissimo è il virus (che si differenzia in tempi remoti dai cugini morbillovirus per restare poi in latenza) e antichissimi gli insediamenti di chirotteri, attestati ben 55 milioni di anni fa nel Queensland, molto prima delle volpi volanti rosse o «pipistrelli della frutta» (a partire da 20 milioni di anni fa) poi identificate come «ospiti serbatoio». Relativamente recenti (ma pur sempre preistorici) sono invece gli insediamenti umani, con gli antenati aborigeni arrivati «solo» 40.000 anni fa dall’Asia sudorientale viaggiando «di isola in isola» su barchette di legno; e recentissimi (quindi nella fattispecie più esposti sul piano immunitario) sono i cavalli, principali bersagli del virus e «ospiti di amplificazione», introdotti in Australia nel gennaio 1788. Tra la fine dello scorso millennio e l’inizio del nuovo i chirotteri sono stati individuati come «ospiti serbatoio» in diversi generi di «emergenti»: paramixovirus come Hendra stesso o Nipah, encefalite che esordisce in Malesia nel’98, «ospiti di amplificazione» (contagiati dalle deiezioni dei pipistrelli nelle porcilaie) i maiali, un milione dei quali viene sterminato; filovirus come Ebola (solo ipotizzato) e come Marburg (certo), febbre emorragica che deve il nome alla città tedesca in cui irrompe nel 1967 colpendo gli impiegati di una fabbrica di vaccini, contagiati da scimmie verdi importate dall’Uganda («ospiti intermedi»); e coronavirus capaci di indurre a loro volta gravi sindromi respiratorie come MERS-CoV (che colpisce la penisola arabica nel 2012, «ospiti di amplificazione» i cammelli) e soprattutto SARS-CoV (2002-2004) e SARS CoV-2 (ora).
La ricostruzione dettagliata della progressione del contagio di SARS-CoV e la risalita a gambero al virus e ai suoi «ospiti» («serbatoio» e intermedi) è uno dei vertici drammatici del libro di Quammen: la si leggerebbe «come un thriller», non si venisse sopraffatti a ogni pagina prima dall’angoscia, poi da una pietas dolente, non senza una profonda emozione per come la scienza risolve ancora una volta — se non tutti — parecchi enigmi del caso.
La progressione procede per sequenze inesorabili: l’innesco coi contagi in sordina nel Guangdong (capitale Guangzou alias Canton; altra città di riferimento Shenzhen, nuovo polo hi-tech sede anche della Huawei): l’irradiazione, nella stessa area, con un primo superspreader («super-diffusore»), un commerciante di pesce che torna a Canton dalla portuale Zhongshan; il passaggio (durante la terrificante intubazione di quest’ultimo) a tanti medici e paramedici, uno dei quali- un nefrologo — va al matrimonio di un nipote a Hong Kong, risedendo in un Hotel (il Metropole) che diventa un moltiplicatore, esportando il virus da Singapore a Toronto (dove la SARS mieterà 33 vittime); e l’approdo a Pechino, attraverso un altro super-diffusore che arriva a contagiare da solo ben 70 suscettibili. Altrettanto serrate sono le sequenze della risalita retrograda a livello biologico-genetico e epidemiologico: un primo sospetto su un’emergente zoonosi influenzale «del peggior tipo», cioè simile a H5N1 (l’iper-aggressiva «aviaria» del ’97,6 decessi su 18 casi); l’individuazione successiva, per esclusione, di un coronavirus (che prende il nome dalla forma tondeggiante con le frange appuntite); quella di un primo, ingannevole «ospite serbatoio» come lo zibetto (civetta delle palme mascherata), che si rivelerà invece tragicamente solo un «ospite intermedio» (tragicamente perché il governo cinese — dopo la recidiva del 2004 — ordinerà la soppressione di 1000 esemplari, che finiranno soffocati, bruciati vivi, folgorati, annegati); la risalita dopo quell’ecatombe (in due studi paralleli, uno a Hong Kong, l’altro a New York) all’effettivo reservoir, il minuscolo «pipistrello ferro di cavallo», bestiola dalla protuberanza nasale bruttina ma efficacissima nell’ecolocazione. Nell’indagare sul possibile «innesco» dello spillover, Quammen si dilunga in una digressione che diventa fatalmente sequenza centrale: quella in cui perlustra (personalmente e nei racconti di conoscenti) gli allevamenti e i mercati (wet markets) volti a rifornire gli animali selvatici a un’immensa rete di ristoranti (più di 2000 solo a Canton) specializzati nella relativa cucina (yewei). Una cucina, va rimarcato, non certo proletaria, ma destinata a una clientela cool per cui quella fantasmagoria gastronomica estesa a «tutte le creature di terra, di aria o di mare» (non solo pipistrelli e zibetti, ma anche ratti, serpenti, tartarughe, tassi e furetti di ogni specie, e molto altro) rappresenta un’esibizione di lusso e nello stesso tempo l’adesione a una tradizione «beneagurante», inclusiva di presunti afrodisiaci come il pene di tigre. I mercati, in particolare (come il Chatou di Canton o il Dongmen di Shentzhen) si presentano come veri «manicomi zoologici», con gli animali selvatici spesso macellati in loco, tenuti a contatto con cani e gatti (pietanze più ordinarie) e stipati in gabbie a rete verticali in cui la deiezione di chi sta sopra finisce su chi sta sotto. Non per niente, tra i «casi indice» (i primi diffusori) della SARS figurano — oltre a cuochi e personale da cucina di Canton — venditori e clienti di quei mercati, dove non è raro imbattersi in partite di pipistrelli infetti e possibili «ospiti intermedi» come gli zibetti.
5. SARS CoV-2 («il Coronavirus») in prospettiva
Lo scenario di SARS-CoV si è ripresentato ora con SARS-CoV-2. La ricostruzione di Quammen mostra infatti come alla similarità genetico-molecolare si associ quella epidemiologica: stessa area di provenienza (la Cina, stavolta centrale, città di Wuhan, provincia dell’Hubei); stessa partenza in sordina, tra esordio subdolo del contagio e cautele sconfinanti in censure (i primi casi forse a ottobre 2019); stessa modalità di innesco, anche se il mercato del pesce di Wuhan — dov’erano esposti animali vivi, tra cui fauna selvatica e pipistrelli — sembra ora un passaggio secondario. Ci vorrà tempo, ovviamente, per arrivare allo stesso grado di messa a fuoco di SARS-CoV. Non mancano, però, marcate differenze. Caratterizzato da una maggiore contagiosità, il nuovo virus sembrerebbe inferiore per letalità: per SARS CoV era del 9.6% (8098 casi in 29 paesi, con 774 decessi); quello del virus attuale, al momento, del 3,4 (più di 93.000 casi con più di 3200 decessi: i dati sono aggiornati a mercoledì 4 marzo), anche se va tenuto conto di molte variabili, dai contagi non ancora rilevati ai forti scarti tra Paesi e i relativi assetti socio-sanitari (vedi Iran). E anche il famigerato R, il «numero di riproduzione» ovvero la capacità di contagio di un individuo — che non dev’essere maggiore (>) ma uguale (=) a 1 per indicare una possibile implosione dell’epidemia — è in assestamento: sembrerebbe, in ogni caso, >2. Qualche dato comparativo: le influenze stagionali hanno in genere un R=2, la Spagnola aveva un R>3, il morbillo un R>7. I prossimi giorni o meglio settimane faranno chiarezza, specie misurando il tutto — l’efficacia del «contenimento» — secondo pietre angolari epidemiologico-matematiche come il rapporto tra virulenza, tasso di trasmissione e tempo di recupero dei pazienti guariti. Intanto, è possibile trarre qualche orientamento, magari tornando alle riflessioni di Macfarlane Burnet. In primo luogo, bisogna considerare quanto di deterministico e quanto no ci sia in un’epidemia (il che varrebbe, per inciso, per molte altre questioni, a partire dal global warming). La sintesi sta proprio nel caso dei pipistrelli come reservoirs di tante potenziali zoonosi: è vero che in certi casi l’innesco è imprevedibile (vedi quello delle deiezioni sulle porcilaie nel Nipah); ma in molti altri tutto dipende da noi, a partire da quelle alterazioni ecologiche (urbanizzazioni, deforestazioni, e così via) che sottraggono ai chirotteri i loro nutrimenti abituali (zecche e zanzare), attirandoli verso le metropoli e facendo spostare i loro siti iperaffollati (tipo le grotte messicane di Carlsbad, dove stanno stipati in 3000 per metro quadro e dove «persino la rabbia si diffonde per via aerea») in scantinati urbani e fabbriche dismesse. Come riassume efficacemente Jon Epstein, ecologo dei patogeni animali, «non sono loro a cercarci, semmai siamo noi a cercare loro», dove «loro» si può riferire ai patogeni come agli ospiti («serbatoio» e intermedi). Il che vale, nello specifico, soprattutto per la Cina, i cui ormai numerosi precedenti nell’«esportazione» epidemica (prima delle due SARS, le due influenze hongkonghesi e l’aviaria) poggiano su attenuanti oggettive (demografia, densità urbana, migrazioni massicce interne e globali), ma anche sull’elusione di certi snodi, in primis quello dei wet markets. Dopo il primepisodio di SARS CoV (2002-03), il governo vietava le vendite di civette delle palme e di 53 altre specie selvatiche; ma pochi mesi dopo, in seguito alle proteste di allevatori e commercianti (e usando come pezza d’appoggio un nuovo studio «in discolpa» delle civette) faceva rientrare tutto, peggiorando poi le cose — alla recidiva successiva — con l’ecatombe già rievocata. Ora sembra muoversi qualcosa (vedi l’intervista al Corriere di Zhou Jinfeng, capo della Ong cinese per la difesa della biodiversità); ma già Burnet (che pure lo invocava) era molto scettico su un effettivo divieto commerciale sui pappagalli australiani, «ospiti» della psittacosi. E poi, come spesso in questi casi, è scacco matto, perché divieti simili rischiano di alimentare la vendita illegale. In secondo luogo, sempre tornando a Burnet, la prospettiva biologico-evoluzionistica delle «malattie infettive» può essere utile a introdurre una visione meno antropocentrica e più spersonalizzata della questione. Ricordarci come la competizione-coabitazione tra organismi di miliardi o molti o pochi milioni di anni sia costitutiva della materia vivente: se tendiamo a rimuoverlo, è perché le acquisizioni profilattiche e bio-mediche (vaccini in primis) ne hanno attenuato di molto l’impatto rispetto a un passato in cui i nostri avi morivano, oltretutto, riconducendo le epidemie ad agenti metafisici o a piaghe mandate da un demone o da un Dio punitivo. E ricordaci, quindi, che le perdite e i lutti — anche quando ci riguardano da vicino — non invalidano di un atomo il valore oggettivo di quelle acquisizioni, si tratti solo di una curva statistica che faccia intravedere il ritrarsi di una pandemia; che la speranza resta tale anche quando ci esclude individualmente.
I LIBRI
Oltre al libro di David Quammen, Spillover (Adelphi, traduzione di Luigi Civalleri, disponibile anche in edizione economica), per questo articolo sono stati utilizzati:
Gilberto Corbellini, Storia e teorie della salute e della malattia, Carocci, 2014;
Giovanni Maga, Occhio ai virus e Batteri spazzini e virus che curano, tutti e due da Zanichelli, 2012 e 2016;
Giovanni Rezza, Epidemie, Carocci, nuova edizione febbraio 2020, con un capitolo specifico su SARS-CoV-2

Le virtù del virus
Articolo di Rocco Ronchi (filosofo e docente accademico)
 Rivista on line DOPPIOZERO
(segnalato da Villa Ambra)

Difficile non farsi prendere dal demone dell’analogia quando ci si misura con l’enormità dell’evento pandemia. Nelle riflessioni che accompagnano il suo diffondersi a macchia d’olio, il Covid 19 è diventato una sorta di metafora generalizzata, quasi il precipitato simbolico della condizione umana nella post-modernità. Era già successo, quarant’anni fa, con l’Hiv e si ripete puntualmente oggi. La pandemia si presenta come una sorta di experimentum crucis, grazie al quale sono verificate ipotesi che dalla politica vanno agli effetti della globalizzazione, alla trasformazione della comunicazione nel tempo della rete fino a raggiungere le vette della più rarefatta considerazione metafisica. Per l’isolamento, la diffidenza e il sospetto a cui induce, il virus è infatti ora “populista” o “sovranista”. Per le pratiche emergenziali a cui costringe sembra universalizzare quello “stato di eccezione” che il Novecento teologico-politico ha lasciato in eredità al presente, confermando inoltre la tesi di Foucault sul carattere biopolitico del potere sovrano nella modernità (un potere che avrebbe il suo correlato nella produzione, gestione e amministrazione della “vita”). Per il suo essenziale anonimato sembra poi condividere l’immaterialità che si denuncia nel vituperato dominio del capitale finanziario. Per la sua capacità di contagio si coniuga perfettamente con la natura preriflessiva e “virale” della comunicazione in rete. Last but non least il virus è il segno dell’eterna condizione umana. Casomai ci fossimo colpevolmente scordati della nostra mortalità, finitezza, contingenza, mancanza, ontologica deficienza ecc. ecc., ecco che il virus ce le rammenta, coartandoci alla meditazione e rimediando così alla nostra distrazione di consumatori compulsivi. Queste considerazioni non sono affatto illegittime. Sono, anzi, tutte pienamente fondate. In questo consiste però anche il loro difetto. Se funzionano è perché riducono l’ignoto al noto. Esse fanno del virus l’evidenza intuitiva che, per dirla con la lingua della fenomenologia, viene a “riempire” una attesa d’ordine teorico. Per l’intelligenza critica che si esercita sul fenomeno virus, Covid 19 è per lo più il nome da film di fantascienza con cui si certifica un sapere pregresso. Ma se il virus ha la caratteristica dell’evento (e sarebbe veramente molto difficile negargli questo tratto) dell’evento deve avere anche la “virtù”. Gli eventi sono tali non perché “accadono” o, almeno, non solo per quello. Gli eventi non sono i “fatti”. A differenza dei semplici fatti, gli eventi hanno una “virtù”, una forza, una proprietà, una vis, cioè fanno qualcosa. Per questo l’evento è sempre traumatico al punto che si può dire che se non c’è trauma non c’è evento, se non c’è trauma non è successo letteralmente nulla. Ora, cosa fanno gli eventi? Gli eventi producono trasformazioni che prima del loro aver luogo non erano nemmeno possibili. Cominciano infatti a esserlo solo “dopo” che l’evento ha avuto luogo. L’evento, insomma, è tale perché genera del possibile “reale”. Si tenga presente che “possibile” non vuole qui dire altro che praticabile. Possibilità significa poter fare qualcosa. La possibilità non è niente di astratto, non è la libera immaginazione di altri mondi migliori di questo. Se si rimane su un piano pragmatico, senza indulgere alla metafisica, possibilità è solo “potenza” e potenza non è nient’altro che azione, attività determinata. La “virtù” dell’evento consiste allora nel rendere possibile modalità operative che, “prima”, erano semplicemente impossibili, addirittura impensabili. Ne consegue che l’evento può essere pensato solo a partire dal futuro che genera (e non dal passato), perché trasforma, perché crea del reale e con esso del possibile. Il senso comune è dunque nel giusto quando pensa l’evento come “occasione” per “fare di necessità virtù”. Noi siamo troppo vicini all’evento Covid 19 per poter scorgere il futuro che reca in grembo e la nostra umanissima paura ci rende dei testimoni inaffidabili, ma alcuni segni del cambiamento di paradigma che esso comporta ci sono e mostrano un senso inatteso. Il più eclatante è probabilmente l’improvviso tracollo dell’ideologia del “muro”. Il virus è arrivato nel momento in cui il pianeta sembrava convergere nella condivisa persuasione che la sola risposta alle “minacce della globalizzazione” consistesse nella ridefinizione di confini armati e di identità forti. Il populismo, che detesta i libri, crede però, dogmaticamente, nel primato della “cultura” nel senso antropologico del termine. Il suo senso della comunità è infatti storico, romantico e tradizionale. La sua comunità è locale per definizione, il suo nemico giurato è l’astrazione frigida del cosmopolitismo. Ancora più estranea alla sua sensibilità è poi la natura: nient’altro che una risorsa da sfruttare per il benessere della comunità (vedi Bolsonaro e la deforestazione dell’Amazzonia, Trump e la sua indifferenza alla questione del riscaldamento globale, l’odio salviniano per Greta…). Il populista non ha dubbi sulla tesi della “eccezione umana”. Ne fa, anzi, un articolo di fede. Aggiungerei che se bacia il crocifisso è perché vi vede confermata teologicamente proprio quella eccezione. Ebbene, il virus, nel giro di pochissimi giorni, ad una velocità veramente pazzesca, ha costretto tutti, volenti o nolenti, a farsi carico, financo nei comportamenti più quotidiani (lavatevi le mani…), del destino della comunità mondiale e, ben oltre ad essa, della comunità dell’uomo con la natura. Per sradicare il pregiudizio culturalista e antropocentrico non c’è stato bisogno del lento e quasi sempre inefficace lavoro dell’educazione: è bastato qualche colpo di tosse perché improvvisamente diventasse inaggirabile la responsabilità che ogni individuo ha nei confronti del creato per il solo fatto di essere (ancora…) al mondo e se vuole continuare a restare al mondo...
Con la forza oggettiva del trauma, il virus mostra che il tutto è sempre implicato nella parte, che “tutto è in qualche modo in tutto” e che non ci sono nell’impero della natura regioni autonome che facciano eccezione. Non ci sono nella natura “imperi negli imperi” come li chiamava Spinoza per irridere la pretesa superiorità dello “spirito” sulla “materia”. Il monismo del virus è selvaggio e la sua immanenza crudele. Se la “cultura” desolidarizza, se erige steccati e costruisce generi, se definisce gradazioni nella partecipazione al titolo di essere umano e istituisce orrendi confini tra “noi” e i “barbari”, il virus “accomuna” e costringe a pensare a soluzioni “comuni”. Nessuno nel tempo del virus può più pensare di salvarsi da solo né può pensare di farlo senza coinvolgere in questo processo la natura. Si dirà che la pandemia genera zone rosse, clausure domestiche, militarizzazioni del territorio. E questo è indubbio. Ma qui il muro assume un senso completamento diverso dal muro che il ricco costruisce per tenere lontano il povero. È un muro costruito per l’altro, chiunque esso sia. Nel tempo del virus il “prossimo” è infatti ridotto radicalmente alla dimensione del “chiunque”. Il muro, in tutte le sue forme compreso il metro di distanza al bar, viene allora costruito per supplire la stretta di mano impossibile con quel “chiunque”. È una via di comunicazione e non il segno di una esclusione. Prova ne è che la retorica fascista non ha potuto sbandierare quei muri come conferma della bontà della sua proposta segregazionista. Di fronte alla strapotenza del virus ha dovuto riporre, almeno momentaneamente, la sua più efficace arma. Siamo troppo vicini all’evento anche per valutarne gli effetti sul piano politico. C’è tuttavia un fatto che va registrato. Il virus sembra restituire alla politica il suo perduto primato. Il pensiero classico metaforizzava questo primato del politico nell’immagine del pilota della nave che deve destreggiarsi in un mare ostile. Essendo spiriti realisti, i classici sapevano che non c‘erano porti sicuri ove approdare per porre fine al viaggio. La navigazione, dicevano, è necessaria, vivere non è necessario. L’“elemento” in cui bagna il politico è una natura dove la fortuna, il caso, l’alea giocano un ruolo ineliminabile. La “virtù” politica consisteva allora nel misurarsi con la strapotenza di questo elemento, governandolo con astuzia (metis) e resilienza. Il politico è tale proprio perché depone l’illusione “umana, troppo umana” di poter disporre della potenza degli elementi naturali, che invece ha rappresentato il sogno metafisico dell’umanità “moderna”, quell’umanità che ha pensato il rapporto con la natura nei termini di una guerra dello spirito contro la materia bruta. Primato del politico significa governo della natura non dominio. E bisogna aggiungere, per chiarire la natura tutta “politica” di questo governo, quella formula così cara a Platone: kata dynamin, per quanto è possibile a un mortale. Ebbene, non c’è dubbio che è proprio l’ipotesi del dominio a venire ridicolizzata da un colpo di tosse a Wuhan ed è all’intelligenza pragmatica del pilota che si fa appello per governare, per quanto è possibile, la spontaneità di un processo che si fa in barba alle nostre intenzioni. Covid 19 ha anche questa virtù: richiama la politica alla sua specifica responsabilità, le riconsegna quel primato che aveva illusoriamente lasciato ad altre istanze sovrane, alle quali si era subordinata, dichiarando la propria impotenza e accontentandosi di svolgere un ruolo esclusivamente tecnico. Dopo Wuhan, invece, l’agenda non può che essere fissata da una politica che deve “barcamenarsi” (la virtù politica era detta “cibernetica” dai greci, vale a dire nautica) nel mare in tempesta di un contagio progressivo e apparentemente inarrestabile. Tant’è che ciò che fino a poche settimane sembrava solo una irrealistica pretesa, è divenuto una sorta di parola d’ordine. La politica, si dice, deve avere la priorità sull’economia. È questa che si deve piegare alle esigenze del Principe che ha cuore il destino del suo equipaggio. Il virus, infine, dispone alla meditazione. Non credo però che l’oggetto di questa meditazione sia la contingenza dell’esistenza e la precarietà delle cose umane. Non abbiamo certo bisogno del Covid 19 per riflettere sulla nostra fragilità. Questa angoscia non ci ha mai veramente abbandonato (checché ne dicano i giornalisti che dagli studi televisivi pontificano sul fatto che, grazie al virus, un’umanità istupidita dai media, cioè da loro, avrebbe finalmente “riscoperto” la sua ontologica insicurezza). Il virus declina piuttosto l’esistenza, la nostra come quella di tutti gli altri, nel modo del “destino”. Improvvisamente ci siamo sentiti trascinati da qualcosa di strapotente, che si fa nel silenzio degli organi, ignorando la nostra volontà. La libertà è così compromessa? Si deve avere una ben mediocre idea della libertà per pensare che essa confligga con la fatalità dell’accadere. Tra le virtù del virus bisogna annoverare la sua capacità di generare una idea più sobria di libertà: la libertà che si realizza nel fare qualcosa di ciò che il destino fa di noi. Essere liberi è fare ciò che, nella situazione, si deve fare. Non è una astrazione da filosofi, questa. La vediamo incarnata nell’operosità, nella serietà, nella dedizione con cui migliaia di persone lavorano quotidianamente per rallentare il contagio.

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