Stiamo ormai ripetendo, in tanti e ovunque, che dopo la pandemia covid19 “nulla
sarà più come prima” e quindi che è da subito indispensabile riflettere su cosa
sta realmente accadendo per capire le direzioni verso le quali sarà opportuno
indirizzare il cambiamento per non affidarlo al caso o, peggio ancora, a
interessi e finalità non collettivi. Uno dei temi sicuramente al centro dell’attenzione
è il ruolo della scienza, la sua capacità di spiegare cosa sta succedendo, e
soprattutto di come uscirne fuori prevenendo l’insorgere di nuove tragedie come
questa che stiamo vivendo. Sono domande e aspettative legittime che non possono
però essere affidate alla sola scienza, occorre che il contributo che da questa
può e potrà venire sia da subito messo a fattor comune con tutte le discipline
che incidono sulla vita umana. Se questa è una delle prime consapevolezze che
emergono dalla reazione alla pandemia resta comunque centrale il contributo
scientifico. E’ quindi importante capire come la scienza, tutta a partire dai suoi
settori più immediatamente coinvolti, si sta attrezzando per rispondere alle
domande che in questa fase le sono volte. E’ un problema di conoscenze ma è
anche un problema di “metodo scientifico”. Pubblichiamo questo interessante
articolo che, restando nella specifico coronavirus, fornisce un primo quadro di
come il mondo della scienza si sta muovendo al riguardo
Come la pandemia sta cambiando
il mondo della ricerca scientifica
Articolo di Massimo Sandal (ricercatore in
biologia molecolare, specializzato in dinamica delle proteine. Collabora con
Le Scienze, Wired e altre testate) – rivista online La Tascabile
Il mondo dopo la
pandemia non sarà il mondo di prima. Cosa ci aspetta oltre questo orizzonte non
lo sappiamo; qualsiasi scenario, anche il più ottimista, prevede comunque una
civiltà che, dopo aver frenato di colpo, ripartendo impara un nuovo stile di
vita. Varrà anche per la ricerca scientifica. Retorica vuole che la scienza sia
l’arma per vincere questa battaglia: è vero, ma negli ultimi decenni la scienza
biomedica è stata un’arma spuntata. Tanto potente quanto lenta, frammentata e
litigiosa. L’impatto del nuovo coronavirus l’ha arruolata di colpo su un unico
fronte, e la sta costringendo a spogliarsi di molti dei comportamenti tossici e
delle lungaggini che la frenavano. Su Micromega, Andra Meneganzin ha
descritto in dettaglio come la pandemia stia stravolgendo i meccanismi di pubblicazione
dei risultati scientifici. Aprendoli come la saracinesca di una cantina buia:
………In
presenza di un’emergenza sanitaria, la comunicazione e la collaborazione tra i
ricercatori non può permettersi di seguire il “business as usual”, con gruppi
di ricerca che custodiscono per sé importanti dati di rilevanza pubblica in
attesa che vengano pubblicati ufficialmente su una rivista ad alto fattore
d’impatto, dopo i tempi flemmatici di una revisione tra pari, e nel timore che
una condivisione precoce acceleri il lavoro di gruppi concorrenti…………Nell’ultimo mezzo secolo o poco più la peer review o revisione dei
pari, nata tra 1600 e 1700 come scrematura editoriale più o meno formale, ha
acquisito lo status di rituale sacro della ricerca scientifica. Due o tre colleghi
che soppesano uno studio e decidono se val la pena pubblicarlo, a volte anche
basandosi su criteri non del tutto scientifici come l’impatto o la
novità, sono diventati una necessaria ceralacca d’affidabilità. Un sigillo,
appunto, fragile: i casi di studi che hanno passato la peer review e si
sono dimostrati errati o palesemente fraudolenti sono ormai migliaia, a partire
dal famigerato articolo di Andrew Wakefield su Lancet che suggerì
l’infame falsa correlazione tra autismo e vaccini. Mentre viceversa peer
review significa ritardi anche di mesi o anni nello scambio delle
informazioni tra ricercatori, ritardi che sono sempre stati inefficienti e che
ora non sono più tollerabili. Pochi ricercatori, prima, avrebbero ammesso
esplicitamente che la peer review, almeno nelle scienze biomediche,
fosse più un rituale sociale rispetto a una sana procedura di controllo
(nonostante alcuni articoli provassero puntualmente a denudare il
re). Di fronte alla COVID-19 queste reticenze sono sparite. Il grosso della ricerca
sulla COVID-19 passa attraverso i preprint o addiritura direttamente i
social network: articoli, sequenze genomiche, dati epidemiologici, ipotesi,
strutture molecolari, tutto viene scambiato in tempo reale in rete. Gli archivi
di preprint, ovvero quelli che raccolgono gli articoli in corso di
pubblicazione formale, allo scopo di rendere più accessibile la ricerca, sono
diventati strumenti di lavoro a tutti gli effetti. Qualora si cerchi comunque
il vaglio della revisione dei pari, questa ora viene completata in tempi
assolutamente risibili: dai mesi richiesti di norma si è passati alle 24-48
ore. Il risultato è un’esplosione di letteratura scientifica senza precedenti:
nel giro di pochi mesi sul covid si sono accumulati 673 articoli (mentre
scrivo, alla mezzanotte del 21 marzo) sugli archivi di preprint. Si dice che
questo abbia generato confusione, visto il ritmo assolutamente ingestibile con
cui informazioni nuove e contraddittorie rimbalzano di ora in ora. È vero, ma
in realtà è come se guardassimo un filmato accelerato di come funziona la
scienza. La crescita di una pianta è un fenomeno impercettibile e sereno
normalmente, ma appare frenetica e caotica se accelerata. La costruzione del
consenso scientifico è sempre confusa davanti all’ignoto, in circostanze
normali, e la peer review non allevia significativamente questi dolori
di crescita: semplicemente ora è tutto eviscerato davanti ai nostri occhi, in
un momento in cui non badiamo ad altro. L’apertura di questo processo è
forse il momento in cui per la prima volta il pubblico si rende conto, nel bene
e nel male, di quale sia il procedimento della scienza, al di là dei manuali di
filosofia. Vero è che invece gli scienziati dovranno imparare a comunicare al
pubblico in modo diverso, e dovranno farlo in collaborazione con chi si occupa
professionalmente di comunicazione della scienza. Ammettendo e comunicando in
modo equilibrato l’incertezza e il rischio, dando l’idea di essere un gruppo
collaborativo (seppur magari in disaccordo) e non una scolaresca litigiosa,
bilanciando l’apertura delle informazioni e la cautela, tutte cose che
purtroppo non abbiamo visto accadere al momento, in Italia. Che i ritmi
accelerino si vede anche nei tempi con cui vengono allocati i fondi per la
ricerca. Dalle procedure lente ed elefantiache di ieri, si passa ora a tempi
impressionanti per la rapidità, come mi racconta Paola Storici, ricercatrice al
sincrotrone Elettra di Trieste e ora impegnata sul fronte contro il nuovo
coronavirus:
……..È
impressionante. In Europa hanno aperto una call per progetti di ricerca su
coronavirus/COVID-19, la scadenza originale già brevissima era di tre
settimane. Alla fine hanno fatto la valutazione in due settimane, e in queste
due settimane hanno anche deciso di aumentare i fondi da 10 a 49 milioni di
euro. Procedure burocratiche che richiedevano mesi ora avvengono in 24, 48 ore.
Nel giro di una settimana abbiamo fatto un kick
off online, in cinque giorni si son firmati i documenti ufficiali……….
E se è
così ora, perché non può esserlo, magari non in modo così esasperato, anche
dopo la COVID-19? La pandemia sta svelando quanto tempo abbiamo perso e quanto
possiamo evitare di perderne in futuro. Se la scienza accade davanti al
pubblico, pubblicando man mano che viene fatta o addirittura saltando le
pubblicazioni e rilasciando direttamente i dati grezzi, il pubblico, magari
anche scienziato a sua volta ma di altra specializzazione, è in grado di
partecipare. Un esempio è il fenomeno degli epidemiologi più o meno
improvvisati che sembra saturare la discussione in questi giorni: vogliamo
tutti sapere quando sarà il picco, quando inizieremo a vedere la luce, che cosa
fare per uscire dall’incubo, e chiunque abbia un minimo di confidenza coi
numeri cerca disperatamente quindi di divinarli. Cercando di capire qualcosa
dall’andamento di dati che, oggi sappiamo, sono in gran parte poco
significativi. Ma questo fenomeno a sua
volta porta la scienza a rispondere. In Italia ad esempio alcuni epidemiologi
stanno cercando di reagire, aggregandosi spontaneamente per portare previsioni
epidemiologiche affidabili e serie a contrasto della nube di astrologi
dell’esponenziale. Un fenomeno forse unico di counter-citizen science. È
il caso per esempio di StatGroup-19, quintetto formato da quattro ordinari e un
associato di statistica: Fabio Divino (Università del Molise), Giovanna Jona
Lasinio (Sapienza – Università di Roma), il Gianfranco Lovison (Università di
Palermo), Antonello Maruotti (LUMSA – Roma), e Alessio Farcomeni (Tor Vergata –
Università di Roma). Quest’ultimo mi racconta così le origini del progetto:
………..Abbiamo
notato sui social network diversi ricercatori che, sia pur eccellenti nel loro
campo, sono esperti in tutt’altri argomenti, e che hanno fornito al pubblico
previsioni fatte male, andamenti completamente inattendibili. Purtroppo con
ampia visibilità sui media. A livello governativo fortunatamente ci si è
avvalsi di eccellenti esperti, come ad esempio il Consiglio Superiore di Sanità
(uno dei principali organi che hanno suggerito le misure attualmente in atto).
Purtroppo anche il decisore ogni tanto si è rivolto a ricercatori non esperti
in materia, ad esempio un report del ministero dell’Economia, su cui è stato basato
in parte un recente decreto, prevedeva il picco epidemico per il 18 Marzo in
Italia. Il report utilizzava una tecnica non molto credibile, e inevitabilmente
i fatti lo hanno smentito. Il nostro progetto originario era quello di
mostrare l’andamento previsto a breve termine dei positivi giornalieri. Abbiamo
tentato di costruire una tecnica di previsione affidabile per i casi positivi.
L’abbiamo validata e pubblicata su Facebook e ha fatto un po’ di scalpore,
perché per molti giorni di seguito è stata molto accurata, e spesso abbiamo
avuto un errore inferiore all’1%. Abbiamo fondato una pagina Facebook (StatGroup-19) e un blog, dove mostriamo anche semplici descrittive e facciamo
post più divulgativi per spiegare quali sono i parametri epidemiologici di vero
interesse (ad esempio, il parametro R0), come interpretarli, cosa
aspettarsi. Ci interessa essere utili al decisore e al grande
pubblico, sia in termini di modellistica previsiva che di interpretazione
corretta del fenomeno. Speriamo che le nostre previsioni, se sono buone (e solo
se sono buone), verranno usate dal decisore. Stiamo anche preparando delle note
tecniche per pubblicazione, ma ci preme soprattutto essere utili al di fuori
dell’accademia in questo momento.
Il che
non sarebbe possibile se intanto i dati non fossero aperti, accessibili a
tutti:
……….Bisogna
fare un plauso alla Protezione Civile che fa una bella politica di open data, rilasciando ogni giorno numerosi dati al pubblico, in forma
direttamente machine readable, utilizzabile dai software. Questo ha
stimolato molti ricercatori a lavorare sul problema. Come ricercatori, sentiamo
tutti il bisogno di comprendere. Penso sia una cosa positiva, e che possa portare
alla circolazione di buone idee, che magari possono essere messe in forma di
articoli scientifici e sottoposti in seguito a peer review…………..
Una
collaborazione partita in modo completamente informale, e che si sviluppa fuori
dalle formalità accademiche, come racconta ancora Farcomeni:
………Le
cinque persone che fanno parte di StatGroup-19 non hanno mai collaborato tutte
insieme, e io non avevo mai collaborato con nessuno degli altri. Ci conoscevamo
e ci stimiamo, tutto qui. Fabio Divino ha aperto una chat di gruppo e siamo
partiti da là. Stiamo lavorando con un passo, con dei tempi, completamente
diversi da quelli della ricerca classica. Nelle classiche collaborazioni con
medici, biologi, economisti, ricevo dei dati e posso permettermi di ragionare
per settimane, di tentare varie strade, di cercare soluzioni eleganti, di fare
molte prove. Qui no. Dobbiamo semplificare alcune cose, lavorare in modo più
grezzo a volte, ma ogni giorno miglioriamo il nostro approccio e presentiamo,
cercando di essere chiari, previsioni per i giorni successivi…….
Fare scienza nell’epoca della pandemia
significa mantenere il distanziamento sociale, il che cambia drammaticamente le
prassi di una disciplina tanto sociale come è la scienza. In quest’ambito,
un’altra rivoluzione epocale che potrebbe protrarsi anche ad allarme finito è
la fine dei congressi scientifici. Per esempio una delle più grandi conferenze scientifiche
del mondo, il congresso di fisica dell’American Physics Society che doveva aver
luogo dal 2 al 6 marzo a Denver, è stato annullato di colpo a sole 48 ore dall’inizio.
Mentre
la comunità scientifica sta correndo ai ripari cercando di organizzare meeting
online, è interessante notare come anche questo fosse qualcosa che era già nell'aria, che
il coronavirus ha precipitato. I congressi sono dei bei momenti di
socializzazione e di networking per i ricercatori, ma richiedono uno
sforzo economico e logistico non indifferente sia per gli organizzatori sia per
i partecipanti, sono eventi a cui è difficile partecipare ad esempio per i
disabili o i non neurotipici, e a causa dei trasporti hanno un’impronta
ecologica rilevante. Se i ricercatori dovessero rendersi conto che è possibile
farne in gran parte a meno potremmo vedere, anche dopo la pandemia, una scienza
che fa rete in modo diverso, sfruttando al massimo le tecnologie da remoto. Il
che potrebbe anche portare a una diversa fruizione e rapporto col pubblico: un
congresso scientifico da remoto, se reso disponibile in streaming,
diventa accessibile anche fuori dai circuiti dell’accademia e permetterebbe ad
esempio di confrontarsi col pubblico generale, magari prevedendo perfino eventi
e sessioni apposite. Questa crisi ci sta finalmente insegnando che le
fiabe muscolari della competizione come unica via per la prosperità funzionano
solo in un mondo già prospero a priori, in cui la competizione sia libera non
di ottimizzare, bensì di sprecare risorse. Perché in realtà è solo la
collaborazione che permette di allocare efficientemente mezzi e persone. Per
questo contro la COVID-19 stanno nascendo progetti come Crowdfight COVID-19 oppure il COVID-19 Pandemic Shareable Scientist Response Database, in cui le esigenze dei ricercatori che lavorano
specificamente sulla COVID-19 sono messe in contatto con le abilità e la
disponibilità di volontari – di varie discipline e gradi di esperienza – che
possono fare da volontari per aiutare i ricercatori attualmente impegnati in
prima linea sulla malattia. Più in generale anche l’atteggiamento della ricerca
sta mutando. Da una continua, ossessiva competizione tra laboratori, che spesso
sgomitano su uno stesso problema tenendo nascoste le proprie carte nel terrore
di vedersi sconfiggere dall’avversario, si sta passando alla collaborazione e
al libero scambio di dati, come testimonia nuovamente Paola Storici:
…………Ci
è stato dato un mandato assoluto di collaborare. Chiunque di noi abbia un punto
di contatto potenziale o un modo di collaborare con un altro partner è
obbligato a farlo. Tutto è pubblico e tutto va convogliato verso lo stesso
obiettivo. Se competizione c’è, è nel mostrare di fare del proprio meglio, ma è
una competizione sana, positiva. Forse questa cosa farà bene a tutti, nel mondo
accademico. La pandemia ci obbliga a collaborare: non potranno più esserci
sgambetti tra colleghi, perché chi fa lo sgambetto alla fine resterà indietro.
Il vero valore alla fine verrà fuori da chi avrà saputo mettere a sistema tutte
le eccellenze giuste, cioè tutti i risultati utili per arrivare prima al
risultato, perché l’obiettivo è uno solo: la cura…………..
Allo
stesso modo, la frantumazione delle carriere accademiche in anni e anni di
contratti a breve termine e corse all’inseguimento del prossimo assegno di
ricerca sta mostrando la corda. Uno sforzo continuativo e collaborativo
richiede che le competenze possano avere tempo di restare su un unico progetto.
Richiede che vi sia il tempo di portare fino in fondo progetti di ampio
respiro. Se non vogliamo per forza portare tutti i giovani ricercatori a posti
permanenti, dobbiamo almeno consentire il travaso indolore di competenze e
persone invece di farle annegare l’una contro l’altra. Sempre Paola Storici: …………….Bisogna
avere più stabilità nella ricerca perchè oggi ci sono molte persone che, a
un’età diciamo così ragguardevole, non sono sicure del loro futuro. A
quarant’anni, stanche del precariato continuo, molti si mettono a fare altro,
dopo aver coltivato anni di competenze fantastiche che a quel punto vanno
perdute. In accademia abbiamo un sacco di piccoli progetti di ricerca iniziati
e poi lasciati per strada perché la persona che li seguiva va via, non sai più
come continuarli e questa è una dispersione di risorse enorme. Al momento fanno
contratti di un anno. Come fai a mettere in piedi un progetto con un contratto
di un anno? Non parlo solo di Italia, vedo le stesse cose dappertutto. La
ricerca deve permettersi di fare cose a lungo raggio. Io non sono per una
logica di posto fisso a tutti i costi: puoi benissimo creare un sistema
dinamico per cui dopo cinque anni se non hai prodotto niente, beh, arrivederci.
Però può succedere che non avevi prodotto niente di ciò che interessava
specificamente a me, ma invece di sprecare quel lavoro vai da qualcun altro a
cui interessa di più, porti le tue competenze e risultati altrove. Certo perché
questo accada in futuro, fondamentalmente, serviranno più finanziamenti………
Più
specificamente, servirà anche attivare un pensiero a lungo termine sulla
pandemia e sui rischi esistenziali futuri. Sapevamo che la famiglia dei
coronavirus era una bomba pronta a esplodere. SARS e MERS ci avevano già dato
un’idea, anche se fummo in grado di controllarli. E invece abbiamo buttato
tempo, come ricorda Alessio Farcomeni:
…………..Nel
2002-2003 c’è stata l’epidemia di SARS, che è un altro coronavirus molto simile
a quello attuale. In quel frangente ci furono numerosi investimenti per trovare
un vaccino per la SARS. Una volta contenuta l’epidemia gli sforzi, anche in
termini di finanziamento della ricerca, sono cessati. È stato detto: il vaccino
per la SARS non serve più. Se avessimo trovato un vaccino per la SARS, trovare
il vaccino per la COVID-19 sarebbe oggi stato molto più semplice, perché
avremmo avuto già molta della tecnologia e delle conoscenze necessarie. La SARS
è stata una occasione persa…………
È
evidente che bisognerà evitare di ripetere questo errore. La risposta immediata
alla pandemia richiede ora un enorme sforzo di ricerca applicata, ma le
soluzioni a lungo termine stanno nella ricerca di base, senza la quale non c’è
nessun fondamento su cui lavorare per le applicazioni. Prevenire il prossimo spillover richiederà di comprendere finalmente a fondo e in dettaglio le interazioni
tra umanità ed ecosistemi, valutare in profondità il nostro impatto sulla
biodiversità. Una disciplina che finora era considerata da molti un antipatico
lusso, l’ecologia, ora è questione di vita o di morte. Controllare sul nascere,
o addirittura prevenire, le prossime pandemie richiederà di conoscere in
dettaglio non solo le specie ospiti dei virus come pipistrelli e pangolini, ma
anche l’enorme diversità biologica ed ecologica dei virus stessi. Già da
qualche tempo stanno cercando di partire, a questo proposito, progetti di
mappatura dettagliata, come il Global Virome Project, che vuole catalogare e raccogliere informazioni sull’enorme numero di
ceppi virali nell’ambiente capaci di passare all’uomo – secondo le loro stime,
da 631.000 a 827.000 virus. In generale, dopo la pandemia si spera che saremo
più consapevoli di come la nostra sopravvivenza sia intrinsecamente connessa a
tutta la rete biologica del pianeta. Non esiste alcun social distancing
tra noi e il resto dei viventi, non esiste alcuna parte della biosfera che non
abbiamo alterato: e a ogni azione corrisponde una reazione. Questa realtà, di
cui ecologi e virologi erano già consapevoli, e che stavamo iniziando a
comprendere tutti attraverso la crisi climatica, ora ha cambiato le nostre
vite. Alla scienza dopo la pandemia dobbiamo quindi chiedere di darci un quadro
per capire, anche, qual è il nostro posto nel mondo, nel nostro mondo.
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