lunedì 30 marzo 2020

Coronavirus e scienza - Articolo di Massimo Sandal


Stiamo ormai ripetendo, in tanti e ovunque, che dopo la pandemia covid19 “nulla sarà più come prima” e quindi che è da subito indispensabile riflettere su cosa sta realmente accadendo per capire le direzioni verso le quali sarà opportuno indirizzare il cambiamento per non affidarlo al caso o, peggio ancora, a interessi e finalità non collettivi. Uno dei temi sicuramente al centro dell’attenzione è il ruolo della scienza, la sua capacità di spiegare cosa sta succedendo, e soprattutto di come uscirne fuori prevenendo l’insorgere di nuove tragedie come questa che stiamo vivendo. Sono domande e aspettative legittime che non possono però essere affidate alla sola scienza, occorre che il contributo che da questa può e potrà venire sia da subito messo a fattor comune con tutte le discipline che incidono sulla vita umana. Se questa è una delle prime consapevolezze che emergono dalla reazione alla pandemia resta comunque centrale il contributo scientifico. E’ quindi importante capire come la scienza, tutta a partire dai suoi settori più immediatamente coinvolti, si sta attrezzando per rispondere alle domande che in questa fase le sono volte. E’ un problema di conoscenze ma è anche un problema di “metodo scientifico”. Pubblichiamo questo interessante articolo che, restando nella specifico coronavirus, fornisce un primo quadro di come il mondo della scienza si sta muovendo al riguardo



Come la pandemia sta cambiando
il mondo della ricerca scientifica

Articolo di Massimo Sandal (ricercatore in biologia molecolare, specializzato in dinamica delle proteine. Collabora con Le Scienze, Wired e altre testate) rivista online La Tascabile

Il mondo dopo la pandemia non sarà il mondo di prima. Cosa ci aspetta oltre questo orizzonte non lo sappiamo; qualsiasi scenario, anche il più ottimista, prevede comunque una civiltà che, dopo aver frenato di colpo, ripartendo impara un nuovo stile di vita. Varrà anche per la ricerca scientifica. Retorica vuole che la scienza sia l’arma per vincere questa battaglia: è vero, ma negli ultimi decenni la scienza biomedica è stata un’arma spuntata. Tanto potente quanto lenta, frammentata e litigiosa. L’impatto del nuovo coronavirus l’ha arruolata di colpo su un unico fronte, e la sta costringendo a spogliarsi di molti dei comportamenti tossici e delle lungaggini che la frenavano. Su Micromega, Andra Meneganzin ha descritto in dettaglio come la pandemia stia stravolgendo i meccanismi di pubblicazione dei risultati scientifici. Aprendoli come la saracinesca di una cantina buia:
………In presenza di un’emergenza sanitaria, la comunicazione e la collaborazione tra i ricercatori non può permettersi di seguire il “business as usual”, con gruppi di ricerca che custodiscono per sé importanti dati di rilevanza pubblica in attesa che vengano pubblicati ufficialmente su una rivista ad alto fattore d’impatto, dopo i tempi flemmatici di una revisione tra pari, e nel timore che una condivisione precoce acceleri il lavoro di gruppi concorrenti…………Nell’ultimo mezzo secolo o poco più la peer review o revisione dei pari, nata tra 1600 e 1700 come scrematura editoriale più o meno formale, ha acquisito lo status di rituale sacro della ricerca scientifica. Due o tre colleghi che soppesano uno studio e decidono se val la pena pubblicarlo, a volte anche basandosi su criteri non del tutto scientifici come l’impatto o la novità, sono diventati una necessaria ceralacca d’affidabilità. Un sigillo, appunto, fragile: i casi di studi che hanno passato la peer review e si sono dimostrati errati o palesemente fraudolenti sono ormai migliaia, a partire dal famigerato articolo di Andrew Wakefield su Lancet che suggerì l’infame falsa correlazione tra autismo e vaccini. Mentre viceversa peer review significa ritardi anche di mesi o anni nello scambio delle informazioni tra ricercatori, ritardi che sono sempre stati inefficienti e che ora non sono più tollerabili. Pochi ricercatori, prima, avrebbero ammesso esplicitamente che la peer review, almeno nelle scienze biomediche, fosse più un rituale sociale rispetto a una sana procedura di controllo (nonostante alcuni articoli provassero puntualmente a denudare il re). Di fronte alla COVID-19 queste reticenze sono sparite. Il grosso della ricerca sulla COVID-19 passa attraverso i preprint o addiritura direttamente i social network: articoli, sequenze genomiche, dati epidemiologici, ipotesi, strutture molecolari, tutto viene scambiato in tempo reale in rete. Gli archivi di preprint, ovvero quelli che raccolgono gli articoli in corso di pubblicazione formale, allo scopo di rendere più accessibile la ricerca, sono diventati strumenti di lavoro a tutti gli effetti. Qualora si cerchi comunque il vaglio della revisione dei pari, questa ora viene completata in tempi assolutamente risibili: dai mesi richiesti di norma si è passati alle 24-48 ore. Il risultato è un’esplosione di letteratura scientifica senza precedenti: nel giro di pochi mesi sul covid si sono accumulati 673 articoli (mentre scrivo, alla mezzanotte del 21 marzo) sugli archivi di preprint. Si dice che questo abbia generato confusione, visto il ritmo assolutamente ingestibile con cui informazioni nuove e contraddittorie rimbalzano di ora in ora. È vero, ma in realtà è come se guardassimo un filmato accelerato di come funziona la scienza. La crescita di una pianta è un fenomeno impercettibile e sereno normalmente, ma appare frenetica e caotica se accelerata. La costruzione del consenso scientifico è sempre confusa davanti all’ignoto, in circostanze normali, e la peer review non allevia significativamente questi dolori di crescita: semplicemente ora è tutto eviscerato davanti ai nostri occhi, in un momento in cui non badiamo ad altro. L’apertura di questo processo è forse il momento in cui per la prima volta il pubblico si rende conto, nel bene e nel male, di quale sia il procedimento della scienza, al di là dei manuali di filosofia. Vero è che invece gli scienziati dovranno imparare a comunicare al pubblico in modo diverso, e dovranno farlo in collaborazione con chi si occupa professionalmente di comunicazione della scienza. Ammettendo e comunicando in modo equilibrato l’incertezza e il rischio, dando l’idea di essere un gruppo collaborativo (seppur magari in disaccordo) e non una scolaresca litigiosa, bilanciando l’apertura delle informazioni e la cautela, tutte cose che purtroppo non abbiamo visto accadere al momento, in Italia. Che i ritmi accelerino si vede anche nei tempi con cui vengono allocati i fondi per la ricerca. Dalle procedure lente ed elefantiache di ieri, si passa ora a tempi impressionanti per la rapidità, come mi racconta Paola Storici, ricercatrice al sincrotrone Elettra di Trieste e ora impegnata sul fronte contro il nuovo coronavirus:
……..È impressionante. In Europa hanno aperto una call per progetti di ricerca su coronavirus/COVID-19, la scadenza originale già brevissima era di tre settimane. Alla fine hanno fatto la valutazione in due settimane, e in queste due settimane hanno anche deciso di aumentare i fondi da 10 a 49 milioni di euro. Procedure burocratiche che richiedevano mesi ora avvengono in 24, 48 ore. Nel giro di una settimana abbiamo fatto un kick off online, in cinque giorni si son firmati i documenti ufficiali……….
E se è così ora, perché non può esserlo, magari non in modo così esasperato, anche dopo la COVID-19? La pandemia sta svelando quanto tempo abbiamo perso e quanto possiamo evitare di perderne in futuro. Se la scienza accade davanti al pubblico, pubblicando man mano che viene fatta o addirittura saltando le pubblicazioni e rilasciando direttamente i dati grezzi, il pubblico, magari anche scienziato a sua volta ma di altra specializzazione, è in grado di partecipare. Un esempio è il fenomeno degli epidemiologi più o meno improvvisati che sembra saturare la discussione in questi giorni: vogliamo tutti sapere quando sarà il picco, quando inizieremo a vedere la luce, che cosa fare per uscire dall’incubo, e chiunque abbia un minimo di confidenza coi numeri cerca disperatamente quindi di divinarli. Cercando di capire qualcosa dall’andamento di dati che, oggi sappiamo, sono in gran parte poco significativi.  Ma questo fenomeno a sua volta porta la scienza a rispondere. In Italia ad esempio alcuni epidemiologi stanno cercando di reagire, aggregandosi spontaneamente per portare previsioni epidemiologiche affidabili e serie a contrasto della nube di astrologi dell’esponenziale. Un fenomeno forse unico di counter-citizen science. È il caso per esempio di StatGroup-19, quintetto formato da quattro ordinari e un associato di statistica: Fabio Divino (Università del Molise), Giovanna Jona Lasinio (Sapienza – Università di Roma), il Gianfranco Lovison (Università di Palermo), Antonello Maruotti (LUMSA – Roma), e Alessio Farcomeni (Tor Vergata – Università di Roma). Quest’ultimo mi racconta così le origini del progetto:
………..Abbiamo notato sui social network diversi ricercatori che, sia pur eccellenti nel loro campo, sono esperti in tutt’altri argomenti, e che hanno fornito al pubblico previsioni fatte male, andamenti completamente inattendibili. Purtroppo con ampia visibilità sui media. A livello governativo fortunatamente ci si è avvalsi di eccellenti esperti, come ad esempio il Consiglio Superiore di Sanità (uno dei principali organi che hanno suggerito le misure attualmente in atto). Purtroppo anche il decisore ogni tanto si è rivolto a ricercatori non esperti in materia, ad esempio un report del ministero dell’Economia, su cui è stato basato in parte un recente decreto, prevedeva il picco epidemico per il 18 Marzo in Italia. Il report utilizzava una tecnica non molto credibile, e inevitabilmente i fatti lo hanno smentito.  Il nostro progetto originario era quello di mostrare l’andamento previsto a breve termine dei positivi giornalieri. Abbiamo tentato di costruire una tecnica di previsione affidabile per i casi positivi. L’abbiamo validata e pubblicata su Facebook e ha fatto un po’ di scalpore, perché per molti giorni di seguito è stata molto accurata, e spesso abbiamo avuto un errore inferiore all’1%. Abbiamo fondato una pagina Facebook  (StatGroup-19) e un blog, dove mostriamo anche semplici descrittive e facciamo post più divulgativi per spiegare quali sono i parametri epidemiologici di vero interesse (ad esempio, il parametro R0), come interpretarli, cosa aspettarsi.  Ci interessa essere utili al decisore e al grande pubblico, sia in termini di modellistica previsiva che di interpretazione corretta del fenomeno. Speriamo che le nostre previsioni, se sono buone (e solo se sono buone), verranno usate dal decisore. Stiamo anche preparando delle note tecniche per pubblicazione, ma ci preme soprattutto essere utili al di fuori dell’accademia in questo momento.
Il che non sarebbe possibile se intanto i dati non fossero aperti, accessibili a tutti:
……….Bisogna fare un plauso alla Protezione Civile che fa una bella politica di open data, rilasciando ogni giorno numerosi dati al pubblico, in forma direttamente machine readable, utilizzabile dai software. Questo ha stimolato molti ricercatori a lavorare sul problema. Come ricercatori, sentiamo tutti il bisogno di comprendere. Penso sia una cosa positiva, e che possa portare alla circolazione di buone idee, che magari possono essere messe in forma di articoli scientifici e sottoposti in seguito a peer review…………..
Una collaborazione partita in modo completamente informale, e che si sviluppa fuori dalle formalità accademiche, come racconta ancora Farcomeni:
………Le cinque persone che fanno parte di StatGroup-19 non hanno mai collaborato tutte insieme, e io non avevo mai collaborato con nessuno degli altri. Ci conoscevamo e ci stimiamo, tutto qui. Fabio Divino ha aperto una chat di gruppo e siamo partiti da là. Stiamo lavorando con un passo, con dei tempi, completamente diversi da quelli della ricerca classica. Nelle classiche collaborazioni con medici, biologi, economisti, ricevo dei dati e posso permettermi di ragionare per settimane, di tentare varie strade, di cercare soluzioni eleganti, di fare molte prove. Qui no. Dobbiamo semplificare alcune cose, lavorare in modo più grezzo a volte, ma ogni giorno miglioriamo il nostro approccio e presentiamo, cercando di essere chiari, previsioni per i giorni successivi…….
Fare scienza nell’epoca della pandemia significa mantenere il distanziamento sociale, il che cambia drammaticamente le prassi di una disciplina tanto sociale come è la scienza. In quest’ambito, un’altra rivoluzione epocale che potrebbe protrarsi anche ad allarme finito è la fine dei congressi scientifici. Per esempio una delle più grandi conferenze scientifiche del mondo, il congresso di fisica dell’American Physics Society che doveva aver luogo dal 2 al 6 marzo a Denver, è stato annullato di colpo  a sole 48 ore dall’inizio. 
Mentre la comunità scientifica sta correndo ai ripari cercando di organizzare meeting online, è interessante notare come anche questo fosse qualcosa che era già nell'aria, che il coronavirus ha precipitato. I congressi sono dei bei momenti di socializzazione e di networking per i ricercatori, ma richiedono uno sforzo economico e logistico non indifferente sia per gli organizzatori sia per i partecipanti, sono eventi a cui è difficile partecipare ad esempio per i disabili o i non neurotipici, e a causa dei trasporti hanno un’impronta ecologica rilevante. Se i ricercatori dovessero rendersi conto che è possibile farne in gran parte a meno potremmo vedere, anche dopo la pandemia, una scienza che fa rete in modo diverso, sfruttando al massimo le tecnologie da remoto. Il che potrebbe anche portare a una diversa fruizione e rapporto col pubblico: un congresso scientifico da remoto, se reso disponibile in streaming, diventa accessibile anche fuori dai circuiti dell’accademia e permetterebbe ad esempio di confrontarsi col pubblico generale, magari prevedendo perfino eventi e sessioni apposite. Questa crisi ci sta finalmente insegnando che le fiabe muscolari della competizione come unica via per la prosperità funzionano solo in un mondo già prospero a priori, in cui la competizione sia libera non di ottimizzare, bensì di sprecare risorse. Perché in realtà è solo la collaborazione che permette di allocare efficientemente mezzi e persone. Per questo contro la COVID-19 stanno nascendo progetti come Crowdfight COVID-19 oppure il COVID-19 Pandemic Shareable Scientist Response Database, in cui le esigenze dei ricercatori che lavorano specificamente sulla COVID-19 sono messe in contatto con le abilità e la disponibilità di volontari – di varie discipline e gradi di esperienza – che possono fare da volontari per aiutare i ricercatori attualmente impegnati in prima linea sulla malattia. Più in generale anche l’atteggiamento della ricerca sta mutando. Da una continua, ossessiva competizione tra laboratori, che spesso sgomitano su uno stesso problema tenendo nascoste le proprie carte nel terrore di vedersi sconfiggere dall’avversario, si sta passando alla collaborazione e al libero scambio di dati, come testimonia nuovamente Paola Storici:
…………Ci è stato dato un mandato assoluto di collaborare. Chiunque di noi abbia un punto di contatto potenziale o un modo di collaborare con un altro partner è obbligato a farlo. Tutto è pubblico e tutto va convogliato verso lo stesso obiettivo. Se competizione c’è, è nel mostrare di fare del proprio meglio, ma è una competizione sana, positiva. Forse questa cosa farà bene a tutti, nel mondo accademico. La pandemia ci obbliga a collaborare: non potranno più esserci sgambetti tra colleghi, perché chi fa lo sgambetto alla fine resterà indietro. Il vero valore alla fine verrà fuori da chi avrà saputo mettere a sistema tutte le eccellenze giuste, cioè tutti i risultati utili per arrivare prima al risultato, perché l’obiettivo è uno solo: la cura…………..
Allo stesso modo, la frantumazione delle carriere accademiche in anni e anni di contratti a breve termine e corse all’inseguimento del prossimo assegno di ricerca sta mostrando la corda. Uno sforzo continuativo e collaborativo richiede che le competenze possano avere tempo di restare su un unico progetto. Richiede che vi sia il tempo di portare fino in fondo progetti di ampio respiro. Se non vogliamo per forza portare tutti i giovani ricercatori a posti permanenti, dobbiamo almeno consentire il travaso indolore di competenze e persone invece di farle annegare l’una contro l’altra. Sempre Paola Storici: …………….Bisogna avere più stabilità nella ricerca perchè oggi ci sono molte persone che, a un’età diciamo così ragguardevole, non sono sicure del loro futuro. A quarant’anni, stanche del precariato continuo, molti si mettono a fare altro, dopo aver coltivato anni di competenze fantastiche che a quel punto vanno perdute. In accademia abbiamo un sacco di piccoli progetti di ricerca iniziati e poi lasciati per strada perché la persona che li seguiva va via, non sai più come continuarli e questa è una dispersione di risorse enorme. Al momento fanno contratti di un anno. Come fai a mettere in piedi un progetto con un contratto di un anno? Non parlo solo di Italia, vedo le stesse cose dappertutto. La ricerca deve permettersi di fare cose a lungo raggio. Io non sono per una logica di posto fisso a tutti i costi: puoi benissimo creare un sistema dinamico per cui dopo cinque anni se non hai prodotto niente, beh, arrivederci. Però può succedere che non avevi prodotto niente di ciò che interessava specificamente a me, ma invece di sprecare quel lavoro vai da qualcun altro a cui interessa di più, porti le tue competenze e risultati altrove. Certo perché questo accada in futuro, fondamentalmente, serviranno più finanziamenti………
Più specificamente, servirà anche attivare un pensiero a lungo termine sulla pandemia e sui rischi esistenziali futuri. Sapevamo che la famiglia dei coronavirus era una bomba pronta a esplodere. SARS e MERS ci avevano già dato un’idea, anche se fummo in grado di controllarli. E invece abbiamo buttato tempo, come ricorda Alessio Farcomeni:
…………..Nel 2002-2003 c’è stata l’epidemia di SARS, che è un altro coronavirus molto simile a quello attuale. In quel frangente ci furono numerosi investimenti per trovare un vaccino per la SARS. Una volta contenuta l’epidemia gli sforzi, anche in termini di finanziamento della ricerca, sono cessati. È stato detto: il vaccino per la SARS non serve più. Se avessimo trovato un vaccino per la SARS, trovare il vaccino per la COVID-19 sarebbe oggi stato molto più semplice, perché avremmo avuto già molta della tecnologia e delle conoscenze necessarie. La SARS è stata una occasione persa…………
È evidente che bisognerà evitare di ripetere questo errore. La risposta immediata alla pandemia richiede ora un enorme sforzo di ricerca applicata, ma le soluzioni a lungo termine stanno nella ricerca di base, senza la quale non c’è nessun fondamento su cui lavorare per le applicazioni. Prevenire il prossimo spillover richiederà di comprendere finalmente a fondo e in dettaglio le interazioni tra umanità ed ecosistemi, valutare in profondità il nostro impatto sulla biodiversità. Una disciplina che finora era considerata da molti un antipatico lusso, l’ecologia, ora è questione di vita o di morte. Controllare sul nascere, o addirittura prevenire, le prossime pandemie richiederà di conoscere in dettaglio non solo le specie ospiti dei virus come pipistrelli e pangolini, ma anche l’enorme diversità biologica ed ecologica dei virus stessi. Già da qualche tempo stanno cercando di partire, a questo proposito, progetti di mappatura dettagliata, come il Global Virome Project, che vuole catalogare e raccogliere informazioni sull’enorme numero di ceppi virali nell’ambiente capaci di passare all’uomo – secondo le loro stime, da 631.000 a 827.000 virus. In generale, dopo la pandemia si spera che saremo più consapevoli di come la nostra sopravvivenza sia intrinsecamente connessa a tutta la rete biologica del pianeta. Non esiste alcun social distancing tra noi e il resto dei viventi, non esiste alcuna parte della biosfera che non abbiamo alterato: e a ogni azione corrisponde una reazione. Questa realtà, di cui ecologi e virologi erano già consapevoli, e che stavamo iniziando a comprendere tutti attraverso la crisi climatica, ora ha cambiato le nostre vite. Alla scienza dopo la pandemia dobbiamo quindi chiedere di darci un quadro per capire, anche, qual è il nostro posto nel mondo, nel nostro mondo. 

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