sabato 7 marzo 2020

Il "Saggio" del mese - Marzo 2020


Il “Saggio” del mese

 MARZO 2020


“I padroni del cibo” di Raj Patel (economista inglese, attualmente cittadino ed accademico americano, studioso della crisi alimentare mondiale, considerato uno dei massimi esperti del tema) è il secondo saggio scelto in evidente collegamento con la seconda parte del programma 2019/2020 di CircolarMente. Il libro di Patel è del 2007 (in Italia è poi uscito nel 2008) e quindi tutti i dati in esso citati, così come le situazioni analizzate e descritte, si riferiscono agli anni a cavallo del cambio di secolo, ma ciò nulla toglie alla sua persistente validità, legata alla capacità di fornire un dettagliato quadro di insieme della intera filiera del cibo, al punto che ancora oggi “I padroni del cibo” è considerato un testo base per la comprensione dei meccanismi del “mercato mondiale del cibo”. I processi messi in luce da Patel mantengono infatti intatte le loro caratteristiche che, semmai, hanno subito una accelerazione ed un rafforzamento anche in conseguenza della crisi globale del 2007/2008. Patel ci accompagna nell’analisi di questo mercato mondiale abbinando rigorose analisi documentali e statistiche con appassionate esemplificazioni affidate al racconto di vicende esemplari che bene rendono le ricadute spesso drammatiche che derivano dai nudi dati economici. In questa sintesi abbiamo relativamente privilegiato la parte analitica proprio per fornire informazioni utili a meglio affrontare le tematiche al centro delle nostre prossime conferenze.

1 – Introduzione

Ed è una vicenda presentata da Patel nell’introduzione a fornire il quadro di base dell’intera analisi sviluppata nel saggio. Lawrence Seguya  è un coltivatore di caffè ugandese che vive nella sua modesta piantagione con moglie e tredici figli (non diversamente da quanto succedeva anche qui da noi non molti decenni fa le famiglie contadine, che ancora oggi conducono la loro attività senza l’ausilio di mezzi meccanici, fanno molti figli per poter contare su molte “braccia”). A fine annata di coltivazione riesce a vendere le sue bacche di caffè a 14 centesimi (di dollaro) al chilo ad un mediatore locale che lo trasporta ad una macina alla quale lo rivende a 19 centesimi. Il costo della sfogliatura è mediamente di 5 centesimi dopo di che i sacchi di bacche sfogliate raggiungono un centro di raccolta di dimensioni già significative con un costo di trasporto di 2 centesimi. Il costo totale finora raggiunto è quindi di 26 centesimi. A questo si aggiunge quello di un terzo trasporto che, applicato a quantitativi già molto grandi, si limita ad aggiungere un centesimo al chilo. Questo terzo trasporto raggiunge le grandi torrefazioni europee (o americane) ed al suo costo nudo di trasporto si sommano le spese di valutazione, selezione, assicurazione, margine del trader che gestisce questi passaggi. Il costo al chilo compie così un primo balzo raggiungendo la cifra di 1 dollaro e 64 centesimi dai trenta centesimi iniziali. Nella torrefazione industriale (Nestlè, Starbuks e simili) i chicchi vengono lavorati per diventare miscela confezionata. Questo prodotto finale riesce dallo stabilimento per raggiungere gli scaffali dei supermercati a diposizione dei consumatori toccando infine, dopo gli ultimi passaggi, il prezzo per chilo di 26,40 dollari, ovvero duecento volte il valore raggiunto in Uganda. Appare quindi chiaro in quale fase si realizza l’impennata del costo. Questa vicenda consente, oltre alla conoscenza del percorso di formazione del prezzo di un prodotto alimentare, ed alla sua ripartizione fra i vari soggetti che hanno concorso a determinarlo, una considerazione aggiuntiva di grande importanza: ci sono moltissimi coltivatori di caffe e milioni di bevitori di caffè, esiste un numero ancora relativamente significativo di trasportatori e esportatori, ma un numero ristrettissimo di soggetti che intervengono nella sua determinazione finale. E’ un sistema, che riguarda praticamente la filiera di quasi tutti i prodotti alimentari, denominato “a collo di bottiglia” oppure “a clessidra”;  vale cioè a dire che ……..in certi stadi della catena che unisce i campi alle tavole il potere è concentrato in pochissime mani……… Questa conformazione della filiera del cibo va tenuta in gran considerazione perché incide, in modo significativo, sulle caratteristiche del mercato mondiale del cibo. Va sottolineato l’aggettivo “mondiale” perché nei paesi dell’occidente “ricco”, il “Nord globale”, la seconda rivoluzione agricola, quella denominata “rivoluzione verde”,  che ha enormemente diminuito la percentuale della forza lavoro addetta all’agricoltura (per effetto soprattutto della meccanizzazione spinta di quasi tutte le attività) ha ristretto non poco la base della clessidra, lasciano tuttavia inalterate le percentuali di incidenza sulla determinazione dei prezzi finali. Ma è soprattutto sulla ancora vastissima popolazione agricola dei paesi del sud del mondo, il “Sud globale”, che il collo di bottiglia fa sentire il suo effetto. Questa struttura tipica del mercato del cibo si manifesta in un mondo in cui circa 800 milioni di persone non hanno un livello di alimentazione sufficientemente adeguato, che spesso sconfina in una gravissima denutrizione, ai quali si contrappone un numero pressoché uguale di persone obese …….la popolazione sovrappeso e quella affamata sono strettamente collegate dalle catene di montaggio (a forma di clessidra) che portano il cibo dai campi alle tavole…… E se la denutrizione ha mantenuto il suo ovvio legame con condizioni di povertà, spesso totale, non è più vero che l’obesità sia caratteristica dell’agiatezza. I ricchi del mondo, in senso lato, da tempo si consentono stili di alimentazione salutisti, sono invece poveri, se non poverissimi, quasi tutti gli obesi del mondo. In mezzo a questi due estremi sta una parte, maggioritaria, della popolazione mondiale che è sufficientemente nutrita ma ancora relativamente informata sulla filiera del cibo, tant’è che non è quasi mai in grado di attuare libere e consapevoli scelte alimentari.  L’industria del cibo mondiale aggiunge, o modifica, costantemente prodotti sugli scaffali, dei quali ben poco sappiamo, così come, anche spulciando le microscopiche, succinte e indecifrabili etichette, non conosciamo chi e come effettivamente li produce, la loro composizione e validità alimentare, ma che, veicolati da pubblicità asfissianti ……..rendono impossibile immaginare la vita in loro assenza….. E’ questo il contesto, da loro creato, controllato e perpetrato, in cui si muovono i “padroni del cibo”

2 – Un’autopsia rurale

Come anticipato Patel affida al racconto di vicende reali esemplari lo spunto per approfondire aspetti importanti della filiera mondiale del cibo. In questo Capitolo le vicende presentate sono quelle tragiche di contadini del Punjab indiano e di altre nazioni dell’estremo oriente, del Centro e Sud America, ma anche statunitensi, che, indotti al suicidio dal fallimento delle loro piccole aziende agricole, testimoniano le drammatiche ricadute che la globalizzazione sta ovunque provocando sul mondo agricolo. Si sta sostanzialmente riproducendo, con meccanismi in alcuni casi identici ed in altri nuovi, il dramma delle campagne inglesi, ed europee poi, che precedette la rivoluzione industriale a partire dalla seconda metà del Settecento con il fenomeno delle “enclosures”, ossia l’abolizione delle aree agricole gestite collettivamente “recintate” per divenire proprietà di nobili e latifondisti, con il duplice risultato di creare quella che tecnicamente è stata definita “accumulazione originaria” e di spingere consistenti masse di contadini a spostarsi nelle città industriali a formare l’esercito dei lavoratori salariati. (NOTA = la situazione italiana ha conosciuto, per un cumulo di ragioni, uno sviluppo diverso. Ancora nel secondo dopoguerra la percentuale di addetti all’agricoltura sul totale italiano era pari al  42% , dato Censimento 1951, per poi scendere al 3,8% nel 2013, dato Istat. Lo ”svuotamento delle campagne” è avvenuto, in gran prevalenza negli anni del boom economico, non solo per l’insostenibilità concorrenziale delle modalità di produzione ma anche per un esodo in parte definibile come “volontario” verso le città e gli impieghi nell’industria).  Con modalità simili a quelle di allora anche oggi  l’impossibilità di sopravvivere a fronte dei bassissimi prezzi imposti dalle logiche di profitto della “clessidra”, delle insufficienti dimensioni delle aziende, dell’imposizione forzata delle colture, dell’insostenibile peso dell’obbligato crescente indebitamento, dell’impossibilità di modernizzare attrezzature e tecniche, e non ultimo delle ricadute derivanti da Trattati internazionali di commercio, WTO in testa, ispirati dal “collo di bottiglia”, sta inducendo un numero impressionante di agricoltori di tutto il mondo ad abbandonare le loro indebitate ed economicamente insostenibili  proprietà, per raggiungere le impressionanti moltitudini che affollano le megalopoli sparse ovunque nel pianeta. Non pochi non reggono al dramma di vedere perduti per sempre i campi che hanno sostenuto per molte generazioni la vita dei loro antenati, ed il suicidio può così diventare al tempo stesso un gesto di drammatica denuncia ed il modo estremo di non perdere la residua dignità. E’ questo il diffuso esito dell’autopsia rurale descritta da Patel

3 – Sei diventato messicano

Esiste, ignorata dai media, una rete di collegamenti via Internet fra i piccoli produttori agricoli ovunque nel mondo alle prese con le stesse pesanti problematiche. La tragica vicenda di Lee Kyung Hae, un contadino coreano morto suicida, scelta da Patel come vicenda simbolo, è stata in questo modo conosciuta da molti contadini nel mondo. Anche in Messico il nome di Lee è diventato un tragico riferimento, in molte manifestazioni di protesta di campesinos uno slogan lo citava dicendo che ….“sei diventato messicano”….. ad evidenziare che i problemi che lo avevano spinto al suicidio erano gli stessi da loro vissuti. Ed il Messico può in effetti essere assunto come situazione esemplare dell’incidenza negativa dei trattati internazionali del libero commercio, in questo caso il citatissimo NAFTA.  La coltura principe del Messico è sempre stata il mais, è qui che nel corso del tempo sono state create le 40 varietà “addomesticate” più utilizzate. Il mais è l’ingrediente base della cucina messicana, ad iniziare dalle “tortillas”, e per i campesinos è …..alimento di prima necessità oltre che fonte di identità e comunità…… Al tempo stesso, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, il mais è diventato, assieme alla soia, una delle coltivazioni dominanti della agricoltura intensiva mondiale. Viene utilizzato non soltanto come alimento primario nell’allevamento, ma in forme varie compare in una quantità impressionante di cibi e di prodotti alimentari confezionati. Non a caso buona parte della produzione agricola statunitense si è da tempo, convertita, o per meglio dire è stata fatta convertire, alla coltivazione di mais con risultati tutt’altro che positivi per i “farmers” americani costretti a dipendere in misura eccessiva dalle sue quotazioni ovviamente decise dal sistema a clessidra. IL NAFTA, trattato per il libero commercio fra USA, Canada e Messico, entra in vigore nel 1994 sostituendo un precedente accordo fra USA e Canada e abbattendo il sistema di dazi precedentemente in vigore. Fra le motivazioni alla base della sua adozione ha contato molto la finalità di dare sbocchi alle eccedenze produttive agricole statunitensi. La scelta del Messico, l’anello debole della catena, di aderire si presentava fin dall’inizio ricca di gravi incognite, ma è stata comunque tenacemente perseguita da una classe dirigente messicana fortemente condizionata dalle idee neo-liberiste americane. Il risultato per l’agricoltura messicana si è rivelato disastroso, soprattutto per la produzione di mais incapace di reggere l’urto di quella americana più concorrenziale. Nel giro di pochi anni molte aziende agricole messicane, in prevalenza di piccole dimensioni, non sono state più in grado di resistere e sono state costrette ad essere vendute e assorbite da banche e da aziende più grandi. Questo è progressivamente avvenuto dopo una prima fase di resistenza basata su una modalità in qualche modo ormai “classica”, che vale cioè in generale per tutto il settore agricolo di tutto il mondo: al crollo dei prezzi si reagisce, per compensare i ridotti introiti, con un incremento di produzione che, inevitabilmente, non produce altro effetto che la creazione di un inutilizzabile surplus ed un conseguente ulteriore calo dei prezzi spuntabili. Questa inefficace e controproducente forma di reazione si accompagna quasi sempre ad un ricorso al credito bancario ottenuto a condizioni che ben presto si rivelano insostenibili. Il risultato, in Messico come in molte arre agricole USA compresi, è il fallimento, la miseria, la fuga verso la città (Città del Messico conta ormai venti milioni di abitanti) e le sue baraccopoli. Non stupisce quindi che dopo il NAFTA la struttura agricola messicana sia stata radicalmente trasformata: meno addetti, proprietà di dimensioni molto più grandi, filiera dominata dai due soggetti che presidiano la strozzatura della clessidra …… due grossisti, la Gimsa e la Nimsa, insieme controllano il 97% del mercato della farina di mais …… I campesinos ormai inurbati hanno ingrossato le fila della popolazione povera messicana delle baraccopoli e l’antica autosufficienza alimentare, in gran parte basata sul mais, è stata inevitabilmente sostituita dal ricorso al cibo industriale di scarsissima qualità follemente ricco di zuccheri ed additivi. Come già evidenziato in precedenza non stupisce quindi che in Messico diabete ed obesità, certo non collegabili all’agiatezza, siano schizzati alle stelle.

4 – Solo un grido per il pane

L’influenza negativa del NAFTA, e delle sue modalità di applicazione, sulla condizione di vita dei campesinos messicani, è solo un esempio fra i tanti citabili di come trattati ed imposizioni, più o meno velate, legate al “collo di bottiglia” abbiano inciso su produzioni agricole e stili alimentari. Siamo di fronte ad una vicenda storica che parte con l’affermarsi della rivoluzione commerciale del 1500-1600. Lungo le rotte navali che hanno contraddistinto la globalizzazione dei commerci mondiali, sin dai primi decenni del XVI° secolo, sono progressivamente circolate quantità impressionanti di prodotti che hanno radicalmente mutato la produzione agricola e l’alimentazione europee. Una vicenda esemplare è quella dell’affermazione, tutt’altro che spontanea, del tè nella Gran Bretagna della rivoluzione industriale. La crescente massa operaia, inurbata a seguito delle “enclosures”, doveva necessariamente essere minimamente alimentata per reggere condizioni di lavoro pesantissime. Il tè, e lo zucchero, ambedue scoperti ed importati dalle colonie, si sono ben presto rivelati una eccellente soluzione che, spinta sul mercato con prezzi accessibili, è presto divenuta la bevanda nazionale inglese scalzando in gran misura birra e gin, molto meno adatti allo scopo. A differenza di questi ultimi il tè è una bevanda calda, calorica, eccitante grazie alla caffeina contenuta, adatta ai climi freddi inglesi ed a “tenere su”, la cui diffusione, per l’appunto tutt’altro che spontanea ma decisamente incoraggiata e sostenuta, si spiega con queste evidenti finalità. …….con questo iperconsumo di tè come fonte di carburante calorico gli sfruttati operai di Londra non facevano altro che imitare gli schiavi dei Caraibi che masticavano canna da zucchero, da loro coltivata, per arrivare alla fine della giornata lavorativa……. Il doppio vantaggio dello strumentale uso alimentare in patria si è infatti accompagnato alla più sanguinosa innovazione moderna dell’agricoltura industriale: la piantagione. In sostanza la necessità forzata di garantire un livello minimo di sopravvivenza alimentare ai lavoratori ha implicato schiavismo e braccianti mal pagati nel Sud del mondo. Zuccherò e tè arrivavano infatti in madre patria a condizioni commerciali vantaggiosissime, tali da consentire prezzi bassi di vendita, proprio grazie all’adozione, spesso imposta in modo forzato, alle colonie dell’est asiatico e americane, di trattati commerciali, antesignani della loro attuale fitta rete, capestro per i produttori locali (non a caso la rivolta per l’indipendenza americana ha avuto origine in quel di Boston  provocata dall’insanabile contenzioso commerciale con la Gran Bretagna ed i suoi dazi. Restando al centro dell’impero inglese altrettanto significativa, per comprendere il ruolo degli accordi commerciali e delle leggi sul cibo, è la vicenda delle “Corn Law”: una norma che imponeva al grano importato dalle colonie una tassa altissima i cui proventi finivano nelle tasche dell’aristocrazia inglese. La loro abolizione nel 1848 segnò la vittoria definitiva della nuova classe dei borghesi capitalisti sull’Ancient Règime). Occorre però arrivare al secondo dopoguerra, con il definitivo avvento dell’egemonia americana nel quadro bipolare del potere mondiale, per capire come tutti i trattati internazionali che hanno normato commerci e produzioni agricole siano stati ispirati al tempo stesso da finalità di controllo ”imperialista” e dagli interessi di profitto dei grandi operatori del settore. In questo duplice senso è nato il “piano Marshall” di aiuti americani all’Europa stremata dalla Seconda Guerra …..gli aiuti alimentari diventarono, fino alla fine degli anni cinquanta, un elemento chiave della politica estera statunitense arrivando a valere più della metà di tutti gli aiuti economici, ancora nel 1960 più di un terzo del commercio mondiale di frumento era costituito dagli aiuti americani…… Questo quadro che, sempre per ragioni di ordine politico di controllo mondiale, si è progressivamente esteso a buona parte dell’Africa e dell’Asia, anche grazie alla autonomia alimentare ormai raggiunta dall’Europa, è stato quello nel quale si sono consolidate le reti commerciali ed il ruolo dei soggetti che le gestivano operativamente, che hanno conformato la rete mondiale dei traffici di cibo. L’ordine alimentare post bellico muore definitivamente nel 1973 in coincidenza con la nota “crisi del petrolio” e con lo “choc petrolifero” seguito alla decisione dei paesi arabi di quadruplicare il prezzo del greggio. Il sistema degli aiuti alimentari diventato insostenibile per i costi altissimi dei trasporti si trasforma, per continuare a mantenere il controllo politico sulla maggior parte possibile del Sud globale, nell’imposizione delle tecniche, occidentali, di coltivazione estensiva finanziata dalla concessione ad hoc di crediti finanziari. Se da una parte quindi gli aiuti alimentari sono sostituiti dall’incentivare l’autonomia alimentare locale dall’altra però si stabilizza in questo modo una struttura finanziaria e commerciale, sempre più basata sul ruolo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, ambedue sotto stretto controllo americano, che condiziona fortemente le produzioni agricole di buona parte del mondo ed i collegati commerci in entrata ed in uscita ……Nell’arco di appena un decennio il sistema alimentare mondiale viene rivoluzionato……. Nasce, con questa commistione finanziaria, un ordine alimentare che governa i rifornimenti globali di cibo  che vede affiancarsi, con un peso crescente,  al ruolo politico degli USA quello del settore privato, produttori chimici e industria alimentare in primis. Un nuovo ordine che richiedeva di andare oltre la sola gestione delle generali tariffe doganali affidata al vecchio GATT (General Agreement Tariffs Trade) del 1947. Dopo anni di difficili trattative nasce nel 1995 il WTO (World Trade Organization) che, dopo dispute molto accese, inserisce anche l’agricoltura nel novero dei settori regolamentati. E’ un vittoria piena degli USA e dell’Europa che ottengono di poter continuare a sovvenzionare i propri settori agricoli, in ispecie quelli dell’agro-businnes, mentre questa facoltà viene di fatto negata ai paesi del Sud globale. Il WTO inoltre sancisce la formalizzazione della “globalizzazione”. Valgono le parole dell’allora Direttore Gnerale del WTO, l’italiano Renato Ruggiero …..non stiamo più scrivendo le regole dell’interazione tra economie nazionali separate, stiamo scrivendo la Costituzione di una singola economia globale……

5 – Il cliente è il nostro nemico: breve introduzione al businnes alimentare

La stretta sinergia fra interessi politici e interessi privati di controllo dei mercati del cibo è da sempre fortemente pilotata dall’enorme influenza delle più grandi aziende del settore. Per capire come si sia giunti alla situazione attuale che vede ……il 40% del commercio alimentare mondiale in mano a venti grandi aziende che, ad esempio, controllano tutto il commercio globale del caffè, o delle sei che gestiscono il 70% del commercio di frumento ed una sola che gestisce il 98% del tè confezionato ……… è utile ripercorrere vicende come quella del mercato delle banane. La United Fruit Company, fondata nel 1899, si è progressivamente consolidata come azienda monopolista del commercio di banane dai paesi caraibici e del Centro America, realizzando uno strettissimo rapporto, legale ed illegale, con buona parte dei governi dei paesi produttori ed appoggiandosi, ogni qual volta occorreva una aggiunta di “pressioni”, a quello americano. Queste pratiche che si sono consolidate nel corso di tutto il Novecento hanno guadagnato alla UFC, nel frattempo divenuta Chiquita Brands, il nomignolo di “el pulpo”, la piovra, ed ai governi di quei paesi, complici dell’affermarsi di un potere commerciale durissimo, quello di “Repubblica delle banane”. Omen nomen in ambedue i casi. La vicenda della Chiquita Brands testimonia in modo esaustivo come il quadro mondiale del commercio alimentare non sia soltanto rigidamente controllato da accordi interstatali a senso unico ma, là dove questa rete di accordi si dimostri ancora insufficiente, da una fortissima pressione esercitata, legalmente ed illegalmente, dalle aziende del “collo di bottiglia” sui governi locali. Pressioni che si accompagnano molto spesso a commistioni a dir poco equivoche, ma al tempo stesso illuminanti. Esiste ad esempio una ricchissima casistica di politici, e di funzionari degli stessi organismi di controllo, che abbandonano il precedente ruolo per essere assunti con funzioni importanti nelle aziende del settore, a comporre, con una varietà di pratiche che vanno dai finanziamenti illeciti a veri e propri ricatti, un mercato dei favori politici al “cuore della clessidra”. Si spiegano con questa situazione consolidata molte delle scelte di omologazione di prodotti alimentari innovativi. Patel cita con ricchezza di dettagli la vicenda dell’adozione diffusa dello sciroppo di mais come dolcificante industriale in luogo dello zucchero a clamoroso vantaggio della Archer Daniel Midland americana. Questo distorsione dei meccanismi classici di mercato si accompagna a politiche aziendali che da tempo hanno abbandonato la “normale” concorrenza per sostituirla con politiche di cartello, di frenetica acquisizione e concentrazione di marchi, o di vera e propria fusione aziendale ad altissimo livello. Un trend in costante crescita che ha determinato un quadro impressionante di concentrazione: ………le prime dieci compagnie controllano metà delle sementi, il 55% dei farmaci veterinari, l’84% dei pesticidi, il 24% dei cibi preconfezionati e sempre il 24% della vendita al dettaglio, per scendere alle cinque aziende che controllano il 41% del mercato mondiale della birra……..  (Agli esempi già notevoli citati da Patel con riferimento ai primi anni 2000 vale la pena di aggiungere i clamorosi recentissimi accordi di fusione fra Monsanto e Bayer, fra Dupont e Dow Chemical, fra Syngenta e ChemChina che hanno concentrato in tre sole multinazionali il 63% della produzione ed il commercio mondiale di sementi). Appare così chiara la scelta di Patel di intitolare questo capitolo …..il cliente è il nostro nemico……

6 – Una vita migliore grazie alla chimica

Accordi commerciali internazionali, ruolo degli organismi mondiali di gestione e controllo, intrecci tra politica, governi ed interessi privati, sono quindi le forme consolidate di gestione delle procedure e dei soggetti preposti ad attuarle e controllarle. Questo quadro, già del suo fortemente vincolante, poggia poi su una trasformazione radicale dei sistemi di coltivazione e produzione agricola basati sul ruolo decisivo della meccanizzazione e della “chimica” universalmente imposti, come evidenziato in precedenza, alla fine della fase degli “aiuti alimentari”. E’ nel periodo che va dagli anni 40, inizialmente nei paesi del Nord globale, agli anni 70, con il coinvolgimento del Sud globale, che la cosiddetta “Rivoluzione Verde” si impone come forma standard dell’agricoltura …..la Rivoluzione Verde era la soluzione a tutti i problemi visto che offriva un pacchetto completo di sementi, fertilizzanti ed organizzazione dello spazio che avrebbe dato da mangiare ai poveri senza separare i ricchi dalle loro terre…… Ovunque la conformazione  dei terreni agricoli lo consentiva mezzi meccanici sempre più potenti e sofisticati, pesticidi chimici per fronteggiare parassiti e malattie, sementi selezionate, fertilizzanti chimici per irrobustire i terreni sono diventati i pilastri, tutti sotto stretto controllo dei padroni del cibo, sui quali poggia la produzione agricola nel mondo. Ciò che tuttavia è emerso, trascorsi ormai diversi decenni dall’avvento della Rivoluzione Verde, è che la indiscutibile maggiore resa produttiva si è accompagnata a rilevanti problematiche collaterali. Alle conseguenze sulle forme di proprietà e gestione dei terreni, di cui si è già detto, si sono in particolare aggiunte: impoverimento dei suoli e del fondamentale strato dell’humus, aumento dei depositi salini e quindi vaste aree ormai inutilizzabili, affermazione di monoculture con conseguente impoverimento della biodiversità, gravi conseguenze sulla “salute” dei produttori e dei consumatori, esaurimento di falde acquifere. Il crescente peso di questi aspetti, tutt’altro che “secondari”, ha creato le condizioni per un ripensamento via via più diffuso e sostenuto, anche se a lungo alle voci critiche si è ribattuto con una sorta di teorema all’apparenza inattaccabile: la fame nel mondo. Le esigenze alimentari di una popolazione mondiale in costante ed impressionante crescita richiedevano, e secondo molti ancora richiedono, una analoga crescita dei “volumi” di produzione agricola ottenibile solamente con le maggiori rese della Rivoluzioni Verde. Obiezione che, secondo Patel, si è rivelata infondata, ed anzi, a suo avviso, è proprio attorno a questo tema che si snodano due aspetti, fra loro collegati e centrali nell’attuale dibattito mondiale sul cibo: il primo evidenzia che non siamo di fronte a particolari problemi di  insufficiente produzione agricola, esiste semmai una distorta distribuzione del cibo, con una parte del mondo, il Nord globale, che ne ha troppo al punto di sprecarne una quota vergognosa, ed un’altra, il Sud globale, che non ne ha a sufficienza. Questa insufficienza, seconda problematica, non è però quasi mai legata a limiti di produzione ma è dovuta alla mancanza di risorse per accedervi. Patel analizza nel dettaglio alcune situazioni indiane - l’India assieme all’Africa è da sempre considerata esempio dei gravi problemi di “fame” - che evidenziano questo stato di cose ….. il fatto paradossale è che nel Bengala mentre la gente moriva di fame c’era abbastanza cibo da sfamare tutti. L’economista Amartya Sen ha condotto ricerche che dimostrano che le carestie moderne non significano tanto l’assenza di cibo quanto l’impossibilità di acquistarlo ….. Torna quindi centrale il problema delle diseguaglianza sociali e delle logiche che governano la filiera del cibo, accanto a quello, strettamente collegato ed altrettanto centrale, delle forme ottimali di “produzione agricola”. All’insostenibilità sempre più evidente della “agricoltura intensiva” si cercato, a cavallo del millennio, di porre rimedio ricorrendo ancora una volta alla “chimica”, perlomeno quella saldamente in mano ai padroni del cibo dando l’avvio  …… ad una seconda “Rivoluzione verde” basata non su fertilizzanti e pesticidi ma su semi potenziati grazie alle biotecnologie, è l’era degli OGM…… Gli organismi geneticamente modificati sono da alcuni decenni al centro di un acceso dibattito per entrare nel merito del quale occorrerebbero adeguate riflessioni specifiche e specialistiche. Patel non entra più di tanto nel merito, ma dichiarandosi non contrario alla tecnologia in sé, pone, sempre ripercorrendo alcune vicende a suo avviso esemplari, l’accento sulle questioni legate al ……..controllo ed al potere…….  Nessuna prevenzione aprioristica quindi sulla opportunità di “copiare” in laboratorio doti genetiche già presenti in natura potenziandole ovvero inserendole poi in altri organismi, ma per formulare un giudizio occorre prestare la giusta considerazione a quanto si è verificato concretamente sul campo.  Patel cita l’esempio del cotone indiano BT e del riso “golden rice”. Il primo, che contiene un pesticida naturale sintetizzato grazie ad un batterio presente nel terreno, è stato copiato, dalla Monsanto, in laboratorio ed inserito in semi commercializzati su vasta scala in Cina ed India. L’iniziale successo si è però rivelato effimero, questi semi modificati non hanno dato sul tempo lungo le rese auspicate e si sono persino rivelati più deboli rispetto ad alcune malattie. Il golden rice è stato creato in laboratorio per potenziarlo di vitamina A la cui carenza colpisce in forma grave alcune popolazioni asiatiche, specie nella prima infanzia. Intenzione lodevole quindi che ha puntato sull’arricchimento del riso perché alimento base di queste popolazioni. Peccato però che la dose giornaliera ottimale di vitamina A, contenuta ad esempio in una sola carota, si ottenga solo con l’assunzione di quantità molto grandi di riso e che queste popolazioni, decisamente ancora ai margini del benessere, non si possano permettere supplementi di riso, tantomeno se più caro perché ogm, e neppure carote, alimento che non conoscono e la cui coltivazione non si adatta alle zone in cui vivono. Ambedue questi esempi evidenziano proprio problematiche di controllo e di potere. Di controllo innanzitutto. L’acquisizione della validità e della sicurezza piena di eventuali modifiche genetiche richiede tempi lunghi ed osservazioni attente e costanti. In sostanza una sapienza analoga a quella che sino alla fine del Novecento ha ispirato la cultura contadina in tutto il mondo ……. Contadini, e soprattutto contadine, sono sempre stati i custodi della biodiversità ereditata, mantenuta, migliorata nel corso di millenni sperimentando, scambiando ed incrociando e valutando i risultati su tempi di più generazioni ……. Le logiche del profitto dei padroni del cibo possono prevedere analoghe valutazioni per capire la reale efficacia delle modifiche fatte in laboratorio?  Sono stati già acquisiti, ad esempio, sufficienti riscontri sul campo per escludere diffusioni contaminanti nell’ambiente circostante coltivazioni OGM? Sono domande alle quali occorre rispondere ascoltando non soltanto le comprensibili rassicurazioni del “collo della clessidra” alle quali si contrappongono diffuse resistenze trasversali, spesso proprio dai contadini coinvolti. Questa prima questione rimanda direttamente alla seconda, alla collegata problematica del “potere”, che ha due aspetti.  l primo è quello della titolarità della proprietà di una “dote” naturale. Va premesso che le sementi modificate effettivamente assicurano, ferma restando la necessità di valutazioni sul lungo periodo, rese molto buone a fronte però di condizioni ideali per il loro utilizzo ……il problema è che in natura le condizioni non sono quasi mai ideali……. e a fronte anche del loro alto costo in grado di generare margini di consistente profitto. Margini che le aziende del settore, Monsanto in testa, si sono affrettate a salvaguardare da utilizzi “clandestini” richiedendo la concessione di “brevetti” sulle sementi ogm. Questa procedura ha innescato trasversali reazioni molto forti tutte basate sulla considerazione che la modifica genetica apportata è già compensata dalla differenza di prezzo rispetto ad un normale seme, e che quindi quest’ultimo, frutto della selezione naturale piuttosto che di quella attuata nel tempo dalla diffusa esperienza contadina, non può rientrare nella “titolarità di proprietà” di un privato. Patel cita il caso esemplare dell’albero di neem che la ricerca di laboratorio aveva confermato possedere straordinarie capacità di pesticida naturale …….peccato che questo i contadini che lo coltivavano lo sapevano da secoli e che quindi brevettarlo sarebbe stato come brevettare la cacca di mucca …. eppure ci sono voluti quindici anni perché la domanda di brevetto fosse respinta …… L’intenzione dei padroni del cibo di impadronirsi “ufficialmente” della biodiversità per setacciarla, analizzarla, addomesticarla e rivenderla è lampante, a dimostrazione quindi che anche attorno agli OGM la battaglia è anche e soprattutto una lotta “di potere”. Il secondo aspetto legato al potere è quello di quali indirizzi deve seguire la ricerca sulle modificazioni genetiche. Scontato che i laboratori privati seguano le logiche dei loro proprietari è invece aperto il fronte degli istituti di ricerca pubblici, spesso in posizioni di assoluta eccellenza ed in buona misura legati a università statali. Sono fortissime le pressioni, non sempre corrette, che i padroni del cibo esercitano su questi istituti affinché si orientino ad un maggior coordinamento con le finalità private invece di svolgere i doverosi controlli sui risultati da queste ottenuti. In questo contesto globale di lotta su controllo e potere è già riscontrabile un primo significativo risultato: l’incertezza sulla efficacia e sostenibilità degli OGM, coniugata con la consapevolezza dei danni derivanti dai sistemi di agricoltura intensiva, ha rilanciato ovunque una importante attenzione verso i metodi di coltivazione “antichi” rivisti però alla luce delle importanti maggiori conoscenze odierne. Si stanno così sviluppando in molte culture agricole locali sistemi sempre più sofisticati di lotta ai parassiti e di arricchimento dell’humus. Questi sistemi hanno inoltre la grande ambizione di muoversi in netta contrapposizione ai padroni del cibo guardando di più all’interesse collettivo che a quello privato

7 – Glicina Rex

Un altro alimento, in aggiunta al mais, aiuta a comprendere gli intrecci attorno alla filiera del cibo. Si tratta della soia che, analogamente al mais, è ormai la coltivazione dominante della moderna agricoltura industriale.  Le piante di soia, basse e di un colore poco accattivante, sono invece piante meravigliose, con uno straordinario potere di conversione dell’azoto nel terreno fertilizzandolo così in modo importante. I suoi fagioli sono ricchi di proteine e la loro assunzione, in quantità moderate, è quindi altamente proteica. Sulle nostre tavole però la soia che …….. per funzionare deve passare attraverso un lungo ciclo di lavorazione …….  arriva solo in minima parte sotto forma naturale per quanto lavorata. L’80% della soia coltivata e lavorata nel mondo viene destinata ad usi zootecnici, quasi tutto il restante 20%, trasformato con un’aggiunta di lavorazione, diventa “lecitina di soia” e finisce come additivo, che permette a grassi ed acqua di mescolarsi,  in moltissimi prodotti alimentari. La scoperta e la fortuna della soia sono relativamente recenti, la sua grande espansione è avvenuta nel corso del secolo scorso. Soprattutto negli Stati Uniti che fino agli anni sessanta sono stati il maggior produttore mondiale, salvo poi vedere che … nel giro di un decennio, a partire dalla metà degli anni sessanta, con una progressione incredibile il primato di produzione della soia è passato al Brasile, al tempo uno dei paesi più poveri al mondo…… Purtroppo la povertà brasiliana non è diminuita con la stessa progressione della crescita di produzione della soia. Anzi, il sistema di controllo e gestione della sua coltivazione ha accentuato, in vaste aree, i problemi dei contadini, e non solo. L’introduzione della soia non è peraltro avvenuta attraverso processi di mercato spontanei ma è stata fortemente voluta e agevolata dai vari governi brasiliani, compresa la dittatura militare che per due decenni dal 1964 al 1985 ha retto il paese, perché vista come uno dei simboli concreti della modernizzazione del paese basata sul motto che compare sulla bandiera brasiliana “Ordine e progresso”. Questa modernizzazione agricola forzata si è inevitabilmente sviluppata attraverso un processo di espropriazione e concentrazione dei terreni, e con la collegata riduzione di contadini autonomi a braccianti agricoli se non, in non pochi casi, ad autentici moderni “schiavi”. Un’autentica tragedia, del tutto ignota alla opinione pubblica mondiale, che ha persino indotto il primo governo Lula ad avviare una intensa campagna antischiavismo.  Nei primi anni duemila, in piena era votata al futuro, ……tutti noi non solo non sappiamo quanta soia si trova nei cibi che mangiamo ma ancor meno non sappiamo nulla dello schiavismo nelle piantagioni brasiliane che la coltivano…… L’avvento della soia si è così dimostrata l’ennesima occasione di concentrazione in poche mani del suo intero ciclo di coltivazione e lavorazione. Alle onnipresenti multinazionali mondiali, in questo caso la solita ADM, la Cargill e la Bunge, si è affiancata negli anni ottanta una significativa presenza di imprese cinesi, che hanno in Brasile messo a punto le strategie di accaparramento di terre e produzioni poi applicate in grande stile in Africa. Ma soprattutto si è affermata una imprenditoria locale strettamente legata alla politica a coniugare potere economico e potere politico. Il caso più eclatante è quello di Blairo Maggi, noto non a caso come “El rey da soja”, il più grande piantatore singolo di soia del mondo e ripetutamente Governatore del Mato Grosso. Questa regione brasiliana, un altopiano con condizioni di terreno molto favorevoli in quanto libero da copertura forestale, è stato interamente trasformato in infiniti campi di soia, i quali sono ormai giunti a ridosso della foresta amazzonica, inevitabile area per le ulteriori estensioni. La voracità del mercato mondiale della soia, le sue caratteristiche strutturali ed i suoi protagonisti, sono quindi, accanto all’allevamento di bestiame, le prime cause dell’aggressione all’Amazzonia e agli indios che da sempre la abitano.

8 – Controllare i supermercati

Questo capitolo è quello che maggiormente risente dei quindici anni trascorsi dalla sua stesura, allorquando non erano immaginabili le profonde modifiche intervenute nel settore della distribuzione, alimentare e non. Inoltre molti dei meccanismi descritti, in particolare quelli relativi alla “scientificità” dell’organizzazione degli spazi di vendita dei supermercati finalizzata da una parte ad incentivare gli acquisti dall’altra a contenere al massimo i costi di gestione e a fotografare con precisione assoluta gusti e preferenze degli acquirenti, sono ormai ben conosciuti e dibattuti. D’altronde il “supermercato”, come ben illustrato da Patel, è una idea industriale e scientifica di vendita che ha ormai un centinaio di anni alle spalle ed ha sviluppato agli estremi limiti le sue indiscutibili potenzialità. Allo stesso modo sono risapute le grandi dimensioni raggiunte dai colossi della vendita al dettaglio, in continua crescita anche grazie a costanti processi di concentrazione e fusioni, ai nostri giorni determinate anche dalla necessità di fronteggiare l’incalzante concorrenza delle vendite on-line. L’esempio citato da Patel non poteva che essere la catena americana “Wal-Mart” ancora oggi un autentico gigante economico mondiale con volumi di vendita e di profitto rimasti inalterati da quando Patel ne sottolineava l’essere …… responsabile del 2% del PIL americano, di possedere il secondo computer più potente del mondo dopo quello del Pentagono, e di avere come clienti l’80% degli americani ……. I grandi marchi della distribuzione occupano una posizione rilevante nel “collo di bottiglia” e sono in grado di condizionare, con i volumi di vendita vantabili, l’intera filiera del cibo incidendo sulla stessa tipologia di prodotti vendibili.

9 – Scelto dai “Bunny”

La lunga filiera del cibo, seguita da Patel nei suoi concatenati passaggi, si completa in un ultimo stadio, anche questo, non diversamente da tutti quelli che lo precedono, strettamente presidiato dai padroni del cibo: parliamo delle scelte dei consumatori, dei gusti alimentari. L’ovvia, ma non per questo meno dirompente, constatazione dello stretto legame fra globalizzazione economica e omogeneizzazione delle scelte alimentari non deve sottovalutare la “scientificità” delle forme di indirizzo che l’industria del cibo nel corso di tutti i decenni, a decorrere dal secondo dopoguerra, ha via via perfezionato. L’antropologo Claude Levi-Strauss notava che ……..il cibo deve essere buono per la mente ancor prima che per il palato….. e l’industria del cibo, non a caso quindi, ha lavorato molto sulle menti dei consumatori per convincere anche il loro palato. L’inesorabile macchina da guerra della pubblicità e degli stili di vita che, in forme evidenti piuttosto che subdole parla alle nostre menti, imponendo alcuni stili di vita ha globalizzato anche i palati. Già nei primi anni duemila il Guinness dei primati registrava che  …… le arcate dorate di McDonald’s sono più conosciute della croce dei cristiani ….. La dittatura della pubblicità ha completato un lungo percorso di condizionamento dei gusti e delle scelte alimentari passato attraverso tappe a volte di per sé stesse sollecitate da altre esigenze. Un esempio fra i tanti: “l’invenzione” del cibo in scatolette promossa da esigenze militari e poi diventata la forma di confezionamento per eccellenza per moltissimi alimenti. I gusti alimentari moderni sono in effetti stati lentamente forgiati anche dalla guerra e dalle esigenze di sicurezza nazionale, e da quelle dei tempi di lavoro. I Bunny richiamati nel titolo del capitolo sono un antesignano degli hot dog, “inventato” in Sud Africa per garantire un pasto molto veloce e molto calorico per i caddy, i portamazze, indiani dei campi da golf. Ma un ruolo centrale lo hanno avuto due prodotti tecnologici …….il frigorifero e la televisione…… Senza il primo non sarebbe stata concepibile la quasi totalità dei prodotti alimentari moderni, e senza la seconda i messaggi promozionali non sarebbero mai entrati in forma così invasiva nelle case di tutto il mondo. Al punto di condizionare le stesse dimensioni di spazio e tempo del consumo alimentare. Anche qui scegliamo uno fra i diversi esempi presentati da Patel. Già nel 2005 l’Azienda Elettrica inglese, nell’ambito di un piano per l’ottimizzazione della produzione di corrente, aveva scoperto gli incredibili picchi di consumo durante le pause pubblicitarie televisive delle ore serali, dovuti a milioni di utenti che le sfruttavano per cucinare cibi pronti da riscaldare. A dimostrazione che la filiera del cibo, così complessa ma così controllata in ogni sua fase, non può non imporre le sue logiche anche nella decisiva fase finale del consumo di cibo. Se il cibo che scegliamo è quindi influenzato non solo dalle risorse di cui disponiamo e dalle culture alimentari da cui proveniamo ma anche, e sempre di più, dal contesto sociale e culturale nel quale si è costretti e vivere ……..allora potremmo vedere le nostre diete sbagliate come sintomo di una carenza sistemica di controllo sui nostri spazi e sulla nostra vita…… Lo confermano le stesse dinamiche attorno alle, inevitabili, conseguenze sanitarie dovute alla scarsa qualità salutistica del cibo industriale. Ed in particolare attorno alla prima problematica che ne deriva: l’obesità. Una patologia che, come già evidenziato in precedenza, colpisce non a caso le fasce più povere. In tutte le campagne contro l’obesità prevale sempre l’accento sulle errate scelte individuali, che puntano su cibi che inesorabilmente la producono, e quasi mai sul contesto sociale ed economico che rende quelle scelte pressoché obbligate. …..siamo incoraggiati a leggere l’obesità come un fallimento individuale……. Mentre è evidente che siamo di fronte ad un problema di giustizia sociale e di controllo culturale. Restando ancora sul piano delle scelte del consumatore Patel dedica un ampio spazio all’esperienza di Slow Food nata in Italia e da lì cresciuta in molti altri paesi. Riconosciuti i meriti della riscoperta dei cibi naturali, delle tradizioni locali, dell’attenzione al mondo contadino, anche Patel rileva un punto debole nella possibilità economica di acquistare prodotti più buoni, più sani, più etici ma, purtroppo, anche più cari. Una alternativa vera ai gusti imposti dai padroni del cibo non può non passare anche attraverso una diversa giustizia sociale.

10 – Conclusioni

L’unica conclusione coerente con il quadro della filiera del cibo che Patel presenta è la necessità di un cambiamento radicale ed urgente. Non bastassero le considerazioni sin qui svolte è ormai evidente che ……. Il modo in cui mangiamo scatena anche la sistematica crudeltà contro gli animali, esige livelli non sostenibili di energia e sfruttamento delle acque, contribuisce al riscaldamento globale, fornisce terreno fertile per le malattie …… L’architettura del sistema agro-alimentare, quella che consente ai padroni del cibo posizioni di totale potere e controllo, è però al tempo stesso molto fragile, di una fragilità che rischia di avere ricadute pesantissime per tutti. La prima ragione di fragilità consiste nella dipendenza totale dalla logistica e dai trasporti indispensabili per garantire l’assurda circolazione mondiale di alimenti e materiali per la coltivazione e pone l’intero sistema alla totale dipendenza dai carburanti fossili. Una crisi, del tutto sempre possibile, del sistema dei trasporti rischia di svuotare i punti vendita fino ai limiti della sopportabilità dei consumatori. Una seconda ragione è la crescente indisponibilità di acqua. Le quantità richieste dalle coltivazioni industriali sono spaventosamente alte, per non parlare di quelle necessarie all’allevamento. L’oro blu è sempre più merce rara in molte parti del mondo, la corsa al suo controllo ed accaparramento è sempre più conflittuale ed in grado di incidere pesantemente sulla continuità produttiva. La terza fondamentale ragione di fragilità è la perdita progressiva di fertilità dei suoli. L’humus è una componente naturale molto complessa e delicata, lo stress che da decenni sta subendo da parte delle coltivazioni intensive ne sta alterando gli equilibri. Parlare di sterilità dei campi non è una visione fantascientifica irreale. Un quarto significativo fattore negativo deriva dalla crescente problematica di gestione dei residui degli allevamenti concentrati. Si parla di residui solidi, liquidi e gassosi che stanno avvelenando terre, acque ed atmosfera. Tutto questo rafforza l’urgenza di un cambiamento radicale, Che passa attraverso diversi fronti, quello sociale, quello politico, quello degli accordi internazionali, quello sindacale. Ai quali si aggiunge, con un peso decisivo, quello di una modifica altrettanto radicale dei nostri stili di vita alimentari. Patel recupera dalle esperienze di lotta di un movimento messicano di contadini e consumatori, la “via campesina” un concetto a suo avviso illuminante……sovranità alimentare…… ossia il recupero del potere di decidere cosa coltivare, come coltivare, cosa scegliere e cosa mangiare sottraendolo ai padroni del cibo del collo di bottiglia. La sovranità alimentare è una conquista che passa attraverso tutti i fronti di cui si è detto, ma che richiede, proprio per vincere su questi fronti, una rivoluzione culturale che interessa tutta l’umanità. Sovranità alimentare vuol infatti dire anche ……..trasformare i nostri gusti……. controllando le pulsioni indotte da pubblicità ed incentivi al consumo, …… mangiare locale e stagionale ……. togliendo così risorse all’industria globalizzata del cibo, …….. mangiare agroecologico …….. riducendo così l’impatto di pesticidi, fertilizzanti, sementi ogm non adeguatamente controllate, …… sostenere imprese agricole locali ……. logica e coerente conseguenza del mangiare locale, …. recuperare la comunicazione diretta tra produttori e consumatori…….. saltando così il collo di bottiglia, la forma a clessidra dell’attuale sistema. La frase finale del saggio di Patel riassume la filosofia di fondo della sovranità alimentare e l’obbligo di battere i padroni del cibo che si muovono, come si visto nell’intero saggio, con logiche opposte ……… sovranità alimentare è un insieme di idee, di politiche, di modalità di mangiare attente alla storia, all’ecologia, alla cultura, al rispetto dei diritti umani ……..

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