Vivere l'incertezza
A partire dall'epidemia da COVID 19
una riflessione storica e psicologica
sul nostro rapporto con l’ignoto
A partire dall'epidemia da COVID 19
una riflessione storica e psicologica
sul nostro rapporto con l’ignoto
Articolo di Cesare
Alemanni (giornalista, scrittore e consulente alla comunicazione) Rivista on-line La Tascabile
Fin dai
primi casi di COVID-19 la comunità scientifica non ha fatto che insistere su un
punto: a causare la malattia è un virus di cui si sa ancora troppo poco. Quanto
dura di preciso il periodo di incubazione? Perché talvolta compromette quadri
clinici non preoccupanti? Rallenterà, almeno nel nostro emisfero, con l’arrivo
del caldo o continuerà a diffondersi con la virulenza attuale? Tra le maglie di
questi interrogativi si è subito infilata, come spesso fa nelle emergenze, la
statistica. A partire da dati parziali abbiamo ben presto cominciato a
dibatterci tra due narrazioni, all’apparenza concorrenti ma in realtà
complementari: una confortante e una catastrofica. Un rimbalzare tra estremi
che riflette la nostra iper-sensibilità all’incertezza. Disabituati alla
“fragilità”, in questi giorni abbiamo dovuto imparare da capo che la scienza
non è un flash che in un istante tutto rischiara. È semmai un fascio di luce
che avanzando crea tante zone d’ombra quante ne illumina: ci rende note alcune
cose anche, se non soprattutto, attestando l’ignoto di altre. A volte è il
mistero sublime e remotissimo di un buco nero, altre quello inquietante ed
eccessivamente prossimo di un virus di pochi nanometri.È nella natura ironica,
quasi socratica, del metodo scientifico, il fatto che per sapere deve prima
“sapere di non sapere”. Di norma la transizione avviene in una sfera ristretta
e specifica del “discorso” pubblico, tra le pagine di giornali accademici e
dietro i vetri dei laboratori di ricerca. Nel caso di un’epidemia,
l’attraversamento di questo “tunnel dell’ignoto”, per forza di cose si svolge
sotto gli occhi di tutti. Dai tempi di uscita da esso non dipendono solo
migliaia di vite umane. Dipende anche la tenuta psicologica di società che
hanno delegato la gestione del rischio a strutture complesse di cui spesso
dimenticano il funzionamento. Strutture complesse – scatole nere – da cui pretendiamo soluzioni rapide e certe a prescindere dai tempi
richiesti dal problema, proprio come ci attendiamo che schiacciando un pulsante
il nostro computer si accenda all’istante. Paradossalmente scienza e tecnologia
hanno contribuito a disperdere arcaiche superstizioni ma hanno finito con
l’alimentare, intorno a loro stesse, una sorta di “pensiero magico” e di
“malinteso soluzionista” che ne ha prodotte altre. Molte di esse sono peraltro
al cuore di questioni vitali del contemporaneo, tra cui la difficoltà ad accettare
i cambiamenti climatici. Lo stesso anti-scientismo degli ultimi anni si può in
fondo leggere come un rigetto del trapianto della ragione tecno-scientifica su
tessuti culturali ancora profondamente fideistici. O, se preferite, come una
sindrome da amante deluso. È il destino di tutti i sistemi black box: finché
gli output arrivano corretti e puntuali poco ci interessa del modo in cui lo
fanno. Quando il computer smette di accendersi rispolveriamo le formule
magiche. Più che con uno schermo totalmente nero, nelle prime fasi della crisi
abbiamo avuto a che fare con una di quelle strane rotelle del buffering. Un
secondo ci siamo disperati perché “ormai è da buttare” (“è l’apocalisse”),
quello dopo ci siamo detti che “magari tra poco riparte” (“è un’influenza”). È
una strategia di adattamento che inconsapevolmente abbiamo messo in atto per
liquidare, in un senso o nell’altro, l’incertezza. Ma come sa chiunque abbia
portato un computer a riparare, è una strategia che quasi mai ci dà un quadro
oggettivo della situazione. Rivela però un aspetto bizzarro della psiche umana:
inconsciamente siamo portati a preferire una cattiva notizia in tempi brevi
piuttosto che tollerare a lungo l’incertezza tra molteplici scenari, persino
quando alcuni sono largamente preferibili. Uno dei motivi è che l’incertezza
per un rischio potenziale o percepito aumenta i nostri livelli di stress più
della certezza di un pericolo reale. Se nei giorni passati abbiamo così
facilmente aderito a narrazioni apocalittiche e/o a interpretazioni minimizzanti,
è anche perché il nostro cervello aveva bisogno di stabilizzare la nostra
percezione dell’incertezza su una singola polarità. O quantomeno di rinchiudere
il campo delle variabili in una cornice meno ampia, così da farci sentire
maggiormente in controllo della situazione e da ridistribuire i picchi di
stress a essa associati. E dato che alti e prolungati livelli di stress
nuocciono alle nostre difese immunitarie, in un certo senso lo stava
facendo anche per proteggerci dai virus. Ma davvero detestiamo l’incertezza al
punto da preferirgli inconsciamente la certezza di un danno? Uno degli
esperimenti più interessanti in merito è stato condotto da un team di neurologi
inglesi nel 2015 e pubblicato su Nature l’anno successivo. Il gruppo di ricercatori ha chiesto a
45 volontari di partecipare a una specie di videogioco in cui dovevano
“sollevare” rocce virtuali sotto le quali poteva, o meno, nascondersi un
serpente altrettanto virtuale. Ogni volta che, sotto una roccia, il giocatore
trovava un serpente gli veniva somministrata una scossa dolorosa – leggera ma
del tutto reale – alla mano. Per evitarla, i volontari hanno cominciato a
cercare di intuire la logica con cui i serpenti erano distribuiti sotto le
rocce. Tuttavia, dato che il sistema rimescolava di continuo le associazioni
“roccia – serpente”, gli era impossibile giungere a una certezza definitiva in
merito. Di fatto i volontari potevano soltanto migliorare un po’, ma non del
tutto, la loro abilità predittiva. Monitorando gli indicatori di stress dei
partecipanti, l’esperimento ha appurato come fossero in media molto più attivi
quando i giocatori erano incerti sull’esito della loro scelta piuttosto che
quando si erano ormai rassegnati al fatto di trovare un serpente (e quindi una
scossa) sotto la roccia. Non solo: i sintomi di stress aumentavano quanto più
la situazione si presentava come un potenziale 50/50, lo zenit dell’incertezza.
Al pari di molti altri automatismi talmente istintivi da sembrare irrazionali,
esistono sia spiegazioni chimico-fisiologiche sia ottime ragioni evolutive alla
base di questo nostro rapporto, così contro-intuitivo, con l’incertezza.
L’aumento dello stress in anticipazione di un potenziale pericolo mette infatti
il nostro sistema nervoso simpatico in uno stato di allerta che fa da
anticamera alla celebre “reazione di attacco o fuga”. Una reazione che per
millenni ha fatto la differenza tra essere morsi o meno da un vero serpente
quando sollevavamo una vera roccia in cerca di… qualunque cosa cercassero i
nostri avi migliaia di anni fa sotto le rocce. L’incertezza entra a questo
punto nuovamente in gioco nella misura in cui, per contenere gli effetti nocivi
di una costante condizione di stress, a un certo punto dell’evoluzione i nostri
antenati hanno cominciato a calcolare le probabilità che sotto una certa roccia
si nascondesse un serpente o che da un certo cespuglio spuntasse una tigre.
Come? Semplicemente osservando l’ambiente sulla base di precedenti esperienze. Se
queste ultime mi hanno per esempio insegnato una forte correlazione tra un
certo tipo di cespuglio e un’alta frequenza di tigri, non solo cercherò di
evitare quel tipo di cespuglio ma se proprio non posso fare a meno di passarci
vicino, per assurdo sarò comunque relativamente più fatalista e sereno dato che
so già cosa posso aspettarmi e come devo reagire. Ma cosa fare quando mi trovo
di fronte a un tipo di cespuglio che non ho mai visto prima, oppure a una
foresta in cui c’è un 50% di cespugli “da tigre” e un 50% di cespugli “sicuri”?
Il delicato equilibrio tra prevenzione del rischio e preparazione al pericolo
si inceppa producendo… appunto incertezza. Quando, dopo aver valutato una certa
situazione, il nostro cervello non ci sa dire di preciso cosa sia pericoloso e
cosa no… semplicemente tutto comincia a sembrargli potenzialmente pericoloso e
stressante. Il che fa emergere la necessità di produrre una “credenza
probabilistica” prevalente (sia essa ottimistica o pessimistica) che limiti
l’incertezza della situazione. Se vi pare una scalinata escheriana, beh lo è. La
Storia offre molti esempi in cui questo tipo di “credenze probabilistiche”
hanno preso il sopravvento sulla razionalità collettiva o sulla lucidità dei
decisori con esiti gravi o persino disastrosi. Negli anni Trenta, Hitler era un
“cespuglio” politico così imprevedibile che l’incertezza causata dalla sua
comparsa sulla scena mondiale, portò gran parte dei leader dell’epoca ad
aderire a una credenza troppo benevola sulle sue intenzioni. Una credenza da
cui non si schiodarono persino quando cominciò a essere smentita da un numero
crescente di fatti. Fu anche per questo motivo che gran parte
dell’intellighenzia politica inglese tentennò a lungo in una politica di
accomodamento nei confronti del Reich. Una miopia che contribuì a dare al
regime tempo e modo di rafforzarsi militarmente.Viceversa l’incertezza prodotta
da asimmetrie informative, reali o percepite, tra blocco atlantico e sovietico,
creò più volte terreno fertile per il diffondersi di paranoie – credenze
eccessivamente pessimistiche sganciate dalla realtà dei fatti – che fecero
surriscaldare la Guerra Fredda fin quasi al precipizio atomico. Ancor prima,
uno dei più grandi teorici militari di tutti i tempi, Carl von Clausewitz,
descriveva la “guerra come il regno dell’incertezza”, e l’incertezza tipica
degli istanti prima di una battaglia, come “la nebbia della guerra”. Per
dissiparla consigliava di utilizzare “giudizio”, “discernimento” e
“sensibilità” per “distinguere la verità” dalla percezione. Nella “nebbia della
guerra” di Clausewitz riecheggiava la eco, certamente involontaria,
dell’immagine della “nube della conoscenza” sviluppata in seno alla mistica
medievale. Un’idea vertiginosa secondo cui esistono aspetti di Dio radicalmente
inconoscibili dall’intelletto. Caratteristiche ineffabili del divino destinate
a rimanere avvolte da una “nube” che si può parzialmente dissolvere soltanto
attraverso una ascetica contemplazione del suo stesso mistero. Ovvero entrando
in un’altra “nube” ancora: la “nube dell’oblio”. Immagine a sua volta
imparentata con mistiche e filosofie di altri tempi e provenienze, dal
buddhismo allo stoicismo, che nella profonda accettazione dell’incertezza,
indicano il viatico alla liberazione spirituale. Al di là di questo excursus
tra politica e religione, è sufficiente notare quante diverse definizioni del
termine incertezza sono state prodotte nell’ambito di altrettante scienze, più
o meno dure, per capire il rilievo epistemologico del termine. Seppure usiamo
la stessa parola per “dirla”, esiste una definizione di incertezza in campo
economico che è diversa da quella in ambito fisico, che a sua volta è diversa
da quella dei chimici che è a sua volta diversa da quelle di matematici,
psicologi, giuristi o scommettitori. Una natura proteiforme del concetto che
rivela come esso sia (e dia) la misura dell’irriducibile complessità del reale
e degli strumenti che usiamo per descriverlo e organizzarlo. Per la nostra
sensibilità di abitanti di Paesi da tempo disavvezzi a rischi esistenziali
collettivi, COVID-19 è una “nebbia” con cui non eravamo più abituati a
convivere. E con cui oltretutto non sappiamo quanto a lungo dovremo convivere.
Non avendo idea di cosa celi l’orizzonte, stiamo cercando di tenere a bada
l’incertezza facendo ciò che da millenni facciamo di fronte a essa: dei
calcoli. Da cui, come già accennato, il sopravvento che, in questi giorni, ha
preso un frettoloso uso della statistica nelle nostre cronache. Il fatto è che
esistono formule imprecise in assoluto ma comunque utili nella prassi, come
quella dell’ormai famoso R0, e altre che, data la loro vaghezza, hanno dimostrato il potere di farci
aderire a credenze minimizzanti, non solo inaccurate ma gravemente dannose per
tutti. Soprattutto perché, per natura, un’epidemia ha già dalla sua un grosso
vantaggio: quello di risvegliare in noi attitudini apotropaiche, legate ai
traumi che epidemie del passato hanno iscritto non solo nel nostro immaginario
ma forse addirittura nei nostri geni. Attitudini che, come abbiamo sperimentato già in queste
settimane, hanno il potenziale di rovesciare rapidamente e irragionevolmente
ogni eccesso (di indifferenza o di allarme) nel proprio opposto. Da cui
discende il secondo rischio. Ovvero che qualcosa della straordinarietà
dell’emergenza che stiamo vivendo e delle misure eccezionali che stiamo
adottando per contenerla, filtri, a posteriori, nell’ordinario; nel dopo, che
prima o poi fortunatamente arriverà. Che finisca con il creare un precedente
per restrizioni permanenti di una delle prerogative già ora più problematiche
dei nostri Stati: la supervisione alla circolazione degli individui dentro,
fuori e attraverso i loro confini. Come detto, la nostra reazione di pancia
all’incertezza è regolata da meccanismi ancestrali e – quantomeno a livello
fisiologico – persino parzialmente salubri. Ma è anche una trappola in cui, nei
mesi a venire, dovremo evitare di cadere. Anche perché di sicuro vivremo ancora
parecchi momenti di “incertezza” e dubbio collettivi, persino più profondi e
radicali di quelli attraversati finora. Dal modo in cui li affronteremo
dipenderà molto, se non tutto, del modo in cui, come singoli e come specie,
usciremo da questa crisi. Dovremo, in altre parole, riuscire a coltivare un
delicato e paradossale equilibrio tra l’agire più responsabile e razionale
possibile, volto a minimizzare il rischio di essere contagiati e di contagiare,
e l’accettazione del fatto che non tutto può essere controllato, risolto e
razionalizzato. Dovremo tornare a familiarizzare con l’idea che non siamo i
“padroni” del pianeta, come ci eravamo convinti di essere, ma solo uno dei suoi
ospiti. Se ci riusciremo, nella probabile perdita di molto, avremo
comunque guadagnato moltissimo in termini di comprensione della complessità,
delle leggi inafferrabili che la governano e delle strutture a cui ne abbiamo
delegato la gestione. Ci tornerà utile.
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