lunedì 30 novembre 2020

Le eredità di Trump - due articoli di Gian Giacomo Migone

 

Pubblichiamo due articoli che ci ha fatto pervenire Gian Giacomo Migone utili a meglio comprendere la difficile eredità che l’uscita di scena, tutt’altro che pacifica e ancora in grado di regalare altri eclatanti episodi, di Trump lascia all’America ed al mondo intero. Pur non essendo articoli recentissimi fissano alcuni elementi importanti per comprendere gli scenari di politica estera e le pesanti ricadute sulla democrazia e sul suo corretto svolgimento

 

Attenti ai successi di Trump in politica estera

Articolo pubblicato sul “Manifesto” del 16/10/2020

L'attentato in corso alla democrazia statunitense, promosso dalla presidenza di Trump sotto gli occhi del mondo, non deve oscurare i successi, purtroppo destinati ad essere duraturi, della sua politica estera. Ovviamente, quando scrivo "successi", mi colloco esclusivamente dal punto di vista della classe dirigente di quel paese, nella sua configurazione attuale, sia d'élite finanziaria che di "Deep State" (l'espressione con cui i liberals d'Oltreoceano definiscono le strutture più possenti dello Stato). Qualsiasi politica atta a contrastarla deve, tuttavia, conoscerne la pervasività e la forza. Il primo e principale successo della politica estera trumpiana -  che ha anche motivato e permeato la trasferta romana del suo segretario di stato, Pompeo - è quello di avere individuato nella Cina il principale nemico. Contrariamente a quanto è stato scritto, non si tratta soltanto di un espediente elettorale. Anche se definire la pandemia, di cui ora lo stesso Trump è vittima, "the Chinese plague", la peste cinese, rientra nell'armamentario tipico del personaggio, l'individuazione di un nemico su cui rinnovare un bipolarismo globale costituisce un'esigenza duratura del potere statunitense nella sua configurazione non solo attuale. Non è un caso che Joseph Biden, suo avversario politico e persino probabile successore, si sia guardato bene dal contestare questa sua scelta, a cui ha aderito in più occasioni in forma solo lessicalmente più blanda. I temi di cui si nutre sono tutti professati e praticati, con relative pressioni nei confronti dei propri alleati minori: guerra tecnologica e commerciale; diritti umani non intesi come valore coerente e universale, bensì utilizzati come arma di offesa; opposizione ovunque ad investimenti cinesi ritenuti strategici; militarizzazione del confronto in Asia. Per giustificare i costi economici ed umani tuttora imposti dal complesso militare-industriale - che il presidente ed ex comandante militare Eisenhower, nel 1960, definiva una minaccia alla democrazia - occorre un nemico, indispensabile per un paese la cui popolazione, per ragioni storiche e geografiche, altrimenti subisce la tentazione isolazionista. Ne consegue che, dopo la caduta del Muro e il crollo dell'Unione Sovietica, l'elemento costante della politica estera statunitense - appena attenuato dalle presidenza di Obama - è stata la ricerca di un nemico che surrogasse quello venuto meno e che, grazie alla politica estera di Trump, debitamente accompagnata da un incremento della spesa militare, è approdata all'antagonismo verso la Cina. Per una varietà di ragioni. la così detta guerra al terrore, stimolata dall'attacco alle Due Torri, e le conseguenti guerre all'Afghanistan, all'Iraq, alla Libia e in Siria si sono rivelate inadeguate allo scopo anche se, insieme con le iniziative restauratrici di Putin, sono state utili a giustificare l''esistenza della Nato, estendendone la competenza geografica ("Out of area or out of business"). Il secondo obiettivo raggiunto dalla politica estera di Trump è stato quello di ridefinire la politica mediorientale degli Stati Uniti, trasformando il rapporto sempre più stretto con Israele, sotto la guida di Benjamin Netaniahu e quello, fortemente motivato da interessi legati al petrolio e all'esportazione delle armi, con gli stati del Golfo, in una vera e proprio alleanza, con il così detto Patto di Abramo. Vera e propria rottura non solo con la prospettiva di uno stato di Palestina, ma anche con il diritto internazionale, a partire dalle risoluzione 212 del Consiglio di sicurezza dell'ONU che, come noto, non riconosce la sovranità israeliana sui territori occupati. Necessario sbocco di una tale politica è anche la crescente tensione nei confronti dell'Iran, in maniera da consolidare i rapporti tra le componenti sunnite del mondo arabo e gli interessi israeliani in Siria e nel Libano. Malgrado la crescente opposizione ad una tale politica nelle comunità ebraiche americane, ulteriormente consolidata nello stesso partito democratico da Bernie Sanders, Joseph Biden non ha dato alcun segno di volersene discostare, confermando anzi la decisione trumpiana, di alto significato simbolico, di collocare la propria ambasciata a Gerusalemme. Il terzo risultato conseguito dagli Stati Uniti sotto la presidenza di Trump è stato quello di alimentare una crescente rivalità, tendenzialmente ostile, nei confronti dell'Unione Europea, intesa come rappresentante dell'Europa nel suo insieme, con la sempre più netta preferenza a collocare i rapporti con gli alleati europei nel contesto della Nato, in cui prevalgono rapporti di forza di ordine strutturale e militare, o a confinarli a livello bilaterale, ove lo squilibrio è ancora più marcato.  Anche in questo caso non si tratta di una svolta più o meno epocale, bensì del consolidamento chiarificatore, con qualche elemento di ulteriore radicalità, di politiche che hanno un lontano passato. Sin da quando è iniziato il graduale declino del potere relativo degli Stati Uniti nei confronti del resto del mondo, grosso modo risalente alla sconfitta subita nella guerra del Vietnam, il rapporto con gli alleati europei è divenuto meno egemonico - cioè gramscianamente condiviso dai soggetti subalterni - e maggiormente segnato dall'uso dominante del potere, soprattutto di presenza militare. Tale mutamento è accompagnato dal graduale abbandono del disegno di un'Europa partner tra eguali, concepito negli anni cinquanta, fino a nutrire un crescente disagio, se non ostilità, nei confronti di un'Europa più unita, più forte in quanto potenzialmente capace di estendere la propria concorrenzialità dalla sfera economica e commerciale a quella strategica e politica. Esso è stato lucidamente praticato, se non proprio teorizzato, da Henry Kissinger, e nemmeno abbandonato da Clinton e Obama. E' problematico attendersi qualche passo in altra direzione da parte di una presidenza Biden. Più importante sarà la volontà di noi stessi europei di procedere sulla strada dell'integrazione, sottratta alla prospettiva di diventare sempre più terreno di rivalità e di conquista di Washington, Pechino e, in qualche misura, Mosca. Meno netta risulta la continuità tra l'esplicita sfida dell'amministrazione in carica ad ogni forma di legalità ed organizzazione multilaterale, dalle Nazioni Unite all'Organizzazione Mondiale della Sanità, ed un atteggiamento di convivenza, non priva di strumentalità e strappi, che ha caratterizzato la storia di un paese che, da Wilson a Truman, ne è stato il protagonista originario. Joseph Biden avrebbe interesse a tenerne conto. Come occorre non confondere gli aspetti duraturi dei risultati conseguiti dall'Amministrazione Trump con le insofferenze soggettive del presidente. Nei confronti della Nato, esse si sono risolte in un espediente tattico per ottenere maggiori contributi economici o di uomini nelle missioni congiunte da parte degli alleati europei. Anche i conflitti d'interesse personali o il fascino esercitato da personalità e regimi autoritari che hanno segnato rapporti di Trump con Vladimir Putin, non hanno seriamente modificato la politica estera degli Stati Uniti. Restano alcuni risultati che con ogni probabilità segneranno un eventuale presidenza Biden, comunque da considerarsi un male minore rispetto ad una vittoria elettorale o, peggio ancora, giudiziaria di una politica che costituisce una sfida aperta all'eredità democratica degli Stati Uniti.

 

Pur sconfitto ormai Trump ha incrinato le nostre democrazie

Articolo pubblicato sul “Fatto Quotidiano” del 20/11/2020

Per comprendere cosa è in atto negli Stati Uniti (e, di riflesso, da noi), a due settimane dalle elezioni presidenziali, concentriamoci sull'essenziale, occultato dai grandi media, per manipolazione o per semplice ignavia. Nelle principali democrazie occidentali e altrove, poche centinaia di persone posseggono una quota che varia dal 40 al 50% della ricchezza; i poverissimi restano tali con ulteriori danni derivanti dalla pandemia; tutti gli altri, la grande maggioranza dei cittadini elettori, continuano a perdere potere economico ed anche politico, in proporzione ai propri introiti ed averi. Quell'1%, che non è nemmeno tale, deve garantirsi uno status quo che non sia turbato dalla politica attraverso istituzioni, altrimenti dette democrazia, che continuano ad esistere, se non proprio a funzionare, e che potrebbero costituire strumento di emancipazione di maggioranze avverse. Perchè ciò non avvenga, esse devono restare divise ed essere occupate da partiti e persone che, in vario modo, non abbiano volontà o velleità di maggiore eguaglianza popolare, raggiungibile attraverso misure fiscali progressive, ricerca di modelli di sviluppo ecocompatibili, rafforzamento dello stato sociale, riduzione delle spese militari. Tanto per fare alcuni esempi che possono essere tratti dalle encicliche di Papa Francesco, oltre che dal pensiero di economisti quali Thomas Piketty, Joseph Stiglitz, Mariana Mazzucato e persino da politici quali Bernie Sanders e Jeremy Corbyn (purtroppo, almeno per ora, mancano nomi italiani di riferimento). Tale obiettivo, chiamiamolo conservatore, viene perseguito in due modi. Il modello prevalente negli ultimi decenni è stato quello di governi neoliberisti, diversamente sfumati, di centro-destra o di centro-sinistra, con il comune rispetto per l'economia nella sua attuale configurazione, addomesticabili con la forza del denaro, attraverso finanziamenti illeciti o anche legali, meglio se ingenti per coloro che ne usufruiscono - si calcola che la campagna elettorale che si è appena conclusa negli Stati Uniti sia costata oltre $14 miliardi -, irrisori per coloro che tengono i cordoni della borsa. La proprietà dei principali media può fare il resto, elargendo o negando carote in forma di visibilità ai contendenti, mentre apposite lobbies somministrano pressioni settoriali. La candidatura di Joe Biden appartiene a questo primo modello, anche se deve fare i conti con una sinistra agguerrita all'interno del suo partito che ha avuto il merito di convincere il proprio elettorato prevalentemente giovanile a partecipare al voto, in nome del male minore. Effettivamente tale, perchè la ricandidatura di Trump ha costituito e costituisce una minaccia alle istituzioni e alle garanzie democratiche, in una gara all'ultimo voto, a scapito di sondaggi d'opinione che, ancora una volta, si sono rivelati previsioni che non sono riuscite ad autoadempiersi. Non è un caso che la borsa non soltanto statunitense abbia subito festeggiato la vittoria di Sleepy Joe che, come ciliegia sulla torta, dovrà fare i conti con i contropoteri di una Corte Suprema iperconservatrice e, salvo sorprese nelle due elezioni suppletive in Georgia, con un Senato a maggioranza repubblicana, a scanso di concessioni eccessive nei confronti di una sinistra che non si merita di definirsi socialdemocratica. Nello stesso tempo, Donald Trump ha adempiuto e tuttora adempie al suo ruolo di secondo modello politico a disposizione dei poteri vigenti. Come i suoi omologhi europei (Le Pen e Meloni, tanto per citare due nomi), egli ha svolto il compito essenziale di dividere la maggioranza dei cittadini che avrebbero interesse a modificare, se non a sovvertire, quei poteri. Lo ha fatto fomentando ogni possibile guerra tra poveri e meno abbienti, facendo tesoro della ferocia di coloro che, come nella Germania di Weimar, si vedono privati di una condizione piccolo borghese faticosamente acquisita e che, prigionieri della loro (in)cultura, non si accorgono che il loro Gauleiter globale nulla ha fatto per salvaguardare i loro interessi materiali, invece garantiti ai loro (ex)padroni con un ulteriore taglio alle aliquote più alte di tassazione. Non vorrei avere buttato troppa acqua sui fuochi, non tutti fatui, suscitati dalla vittoria elettorale di Joe Biden e di Kamala Harris. Il nostro presidente del consiglio, debitamente redarguito da "La Repubblica" (cfr. Stefano Folli, 4.11), ha fatto precedere le sue felicitazioni al presidente eletto con quelle rivolte "al popolo americano e alle sue istituzioni per l'eccezionale affluenza, di democratica vitalità.". La vera buona notizia consiste, infatti, nella capacità dimostrata di società ed istituzioni statunitensi di sostituire un presidente oggettivamente sovversivo, contenendo tensioni senza precedenti, attraverso uno scontro elettorale autenticamente democratico. Malgrado le manchevolezze del meccanismo elettorale vigente, le accuse di brogli continuano a rivelarsi inconsistenti. Si profila la possibilità di salvare vite umane da una pandemia in crescita globale. La volontà di tornare nell'Organizzazione Mondiale della Sanità, nell'alveo del sistema multilaterale è un segnale importante da parte del presidente eletto. Tuttavia, anche se sconfitti, i Trump e i Le Pen servono a costringere forze alternative progressiste ad accettare il vecchio modello liberista; a votare i candidati che lo servono, come mali minori. Con la capacità residua, nel medio periodo, di continuare a costituire un pericolo per la democrazia, contribuendo alla diffusione di un modello autoritario che in anni recenti ha conquistato grandi paesi quali l'India e il Brasile, mentre si profila l'egemonia mondiale della Cina, ove oligarchia finanziaria e politica coincidono, senza le discrepanze che tuttora offrono spazi di innovazione democratica in tutto l'Occidente e rendono essenziale l'impegno per un'Europa più integrata.In questo contesto non sfugge il senso profondo della dichiarazione di un Pompeo, in rappresentanza di oltre 70 milioni di elettori che non hanno dato alcun segno di deporre le armi. Gli ha risposto Bernie Sanders su Twitter: "No, segretario Pompeo. Non ci sarà una transizione verso un secondo mandato Trump. La gara si è conclusa. Joe Biden sarà il nostro prossimo presidente. Come può predicare rispetto della democrazia e della volontà popolare ad altri governi se lei stesso non ha la decenza di farlo?".

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