E’
durata poco, il tempo di un’estate “vissuta pericolosamente”, la speranza di
non doverci più occupare, anche in questo modestissimo e periferico blog, della
pandemia da Cvd19 nella triste veste di ripiombati in lockdown, zone rosse, e
restrizioni varie. Come da proverbio cerchiamo almeno di “fare di necessità
virtù” e quindi, all’insegna della virtù, cercheremo quantomeno di evitare di adagiarci
sul deprimente scontro, l’antico gioco dello scaricabarile!, fra Stato e
Regioni (maledetta riforma del Titolo V!!!!) o di intervenire, per ora?, nell’inconcludente
derby fra sostenitori della ragione sanitaria e difensori di quella economica.
Riprendiamo, a malincuore, la nostra riflessione sulla pandemia e sulle
tantissime problematiche che comporta, tentando quindi di offrire contributi
che aiutino a meglio capire in senso lato. Iniziamo con due articoli, ambedue
tratti dalla rivista on-line “DoppioZero”, che si muovono con sguardi che
vanno, apparentemente, in direzioni opposte: il primo racconta infatti,
guardando verso l’interno, l’assurdità nell’epoca dei big-data di una gestione
pandemica ben poco basata sull’analisi dei dati, il secondo invece offre spunti
per una visione dall’alto che recuperi il valore sociale dell’esperienza che
stiamo vivendo
Chi ha paura dei data scientist? Numeri e pandemia
Articolo di
Roberta Rocca (non abbiamo reperito notizie sul suo
profilo)
Dopo un’inattesa love story (o una, ancor più inaspettata, trust story) tra Paese e istituzioni, durata appena il tempo d’una prima ondata, il prevedibile “ritorno” autunnale del coronavirus ha resuscitato i profondi dubbi dell’opinione pubblica italiana sulla capacità delle proprie istituzioni e classi dirigenti di gestire situazioni di crisi che richiedono soluzioni sistemiche. Tanto ammirevole è stata la gestione dell’emergenza in primavera – non era semplice, primi in Europa, decidere in favore di soluzioni tanto radicali e potenzialmente impopolari – quanto chiari sono adesso i limiti del governo nel pensare soluzioni che vadano oltre l’orizzonte temporale immediato. La natura dell’epidemia è infatti tale che tentare di limitare, oltre che la catastrofe sanitaria, quella economica, richiede la capacità di pensare a lungo termine e in potenza: per previsioni e per ipotesi. Sono due, infatti, le caratteristiche fondamentali di questa (e non solo questa) pandemia. La prima è la condizione di costante e radicale incertezza in cui il virus ci pone, dovuta alla complessità delle dinamiche di diffusione e alle scarse conoscenze finora accumulate. Quando e come un incremento lineare diventa esponenziale, e perché a Milano ma non a Catania? La seconda caratteristica fondamentale è l’inevitabile “sfasamento” tra l’effettiva diffusione del virus e la nostra percezione del suo stato di diffusione. I tamponi sono in grado di rivelare la presenza del virus solo diversi giorni dopo l’effettivo contagio; l’istantanea fornita dal tampone rappresenta uno stato di cose relativo a giorni (o settimane) addietro e il virus, nel frattempo, si è diffuso chissà quanto. Anche il numero di decessi, che avvengono anche mesi dopo il contagio, dà un’idea della gravità della situazione che è in ritardo di settimane rispetto alla realtà. L’incertezza e lo “sfasamento” fanno sì che misure efficaci debbano navigare su un orizzonte diverso da quello della reazione ai dati sul contagio. Devono, piuttosto, provare a prevenire conseguenze ipotetiche, senza però, con restrizioni incondizionate, arrestare il Paese. Come si fa a muoversi in un orizzonte così incerto, ipotetico e complesso? Il buon senso aiuta, ma non basta. Il senso di responsabilità politica (che avrebbe dettato, per esempio, di disporre del MES e potenziare efficacemente il sistema sanitario) è necessario: ma non basta. Persino pareri autorevoli, che pur giovano al dibattito pubblico, in questo caso non bastano. Per navigare l’incertezza e la complessità, esperienza individuale e intuizioni soggettive hanno un orizzonte limitato. Servono, piuttosto, strumenti che siano in grado non di semplificare, ma di elaborare e interpretare tale complessità. La buona notizia è che questi strumenti esistono, e sono già alla base di una porzione immensa della nostra esperienza quotidiana. La nostra arma più efficace e più potente per contenere gli effetti della pandemia è, infatti, la disponibilità di dati e la capacità di usarli, attraverso modelli matematici, non solo per descrivere, ma anche per prevedere. Si tratta di una lezione che altri paesi europei (come Germania e Danimarca) hanno fatto propria, giustificando pubblicamente le proprie decisioni sulla base delle predizioni di modelli di riferimento. La cattiva notizia, però, è che tali strumenti continuano a godere di una certa diffidenza nel dibattito pubblico del nostro paese, forse retaggio di un paradigma culturale in cui la cultura umanistica è quella nobile per eccellenza. Numeri, grafici, modelli ci respingono: ci terrorizzano e ci appaiono, a un tempo, troppo aridi per rientrare nel dominio (pragmatico e umanistico) della politica. Ricordate la performance fantascientifica di Giulio Gallera sul fattore Rt, quando l’assessore al welfare lombardo dichiarò (testuali parole) che “l’indice Rt a 0,51 vuole dire che per infettare me bisogna trovare due persone nello stesso momento infette”? Più che un’eccezione, questo episodio è forse indicativo (sia pure in una forma iperbolica, quasi satirica) di una generale inadeguatezza della classe politica a fare i conti con strumenti di conoscenza quantitativi, e ad integrarli nei meccanismi di decisione politica. Ma questa diffidenza va oltre la dimensione politica. Salvo alcune eccezioni, in Italia un giornalismo fortemente centrato su dati e loro visualizzazioni grafiche fatica ancora a decollare. In più, pur nell’era dei Big Data dove tutto è dati, gli esperti in materia sembrano relegato allo status di tecnici, più che aver riconosciuto il possesso di conoscenze politicamente rilevanti. Banali considerazioni statistiche, che farebbero la differenza nella gestione della pandemia, sono rimaste largamente inascoltati. Molti, ad esempio, hanno sottolineato come l’unico modo per avere un quadro adeguato degli effettivi livelli del contagio e di mortalità sia somministrare tamponi a campione sulla popolazione. Testare soltanto chi ha sintomi o ragioni per ipotizzare di essere stato contagiato, restituisce un quadro falsato di quale percentuale della popolazione abbia contratto il virus. Questa invocazione è caduta nel vuoto. Di recente, uno splendido articolo su “The Atlantic” ha contribuito a divulgare altre conoscenze fondamentali sugli aspetti “statistici” del virus. Se nel dibattito pubblico si insiste sull’ormai noto fattore Rt – che cattura il numero di contagi innescato, in media, da ciascun individuo – bisognerebbe piuttosto prestare attenzione al cosiddetto fattore K, che descrive come il virus sembra diffondersi, più che in modo “ordinato” e costante, per “impulsi” ed eventi di “iperdiffusione” (ove un individuo contagia tanti contemporaneamente, attraverso grandi eventi, o per via di permanenze prolungate in luoghi chiusi). Queste considerazioni (del tutto assenti dal dibattito politico italiano) suggeriscono che la strategia ottimale sia quella di limitare gli eventi di iperdiffusione con interventi mirati (mantenere la chiusura delle discoteche, ad esempio; o limitare il più possibile l’uso mezzi pubblici come le metropolitane), piuttosto che optare in extremis per misure trasversali di impatto economico catastrofico. La pandemia ci mostra che un cambio di rotta è necessario. Ci sono state e ci sono tuttora realtà virtuose che garantiscono solidi fondamenti. Già a febbraio, quando era quasi impossibile reperire dati centralizzati e realistici sul numero di tamponi e casi nel resto d’Europa, l’Italia diffondeva pubblicamente ed elegantemente i propri dati su Github. Esempi di informazione e giornalismo ispirati a data mining accurato e visualizzazioni efficaci sono stati forniti su Twitter da Matteo Villa dell’ISPI, già attivo su questo fronte prima della pandemia. Piuttosto che investire unicamente nell’istituzione di macchinosissimi comitati tecnico-scientifici, la strategia vincente sarebbe, forse, quella di investire massicciamente nel finanziare task force e gruppi di ricerca orientati alla raccolta di dati e alla formulazione di modelli predittivi che guidino le istituzioni e l’opinione pubblica. Affidarsi a dati, modelli e tecnologie non sarebbe una sconfitta della politica, ma un potenziamento. La capacità pratica di decidere è prerogativa insostituibile di una buona politica. Ma può e dev’essere guidata da strumenti e conoscenze che permettano di visualizzare e comprendere gli scenari possibili. A beneficio tanto del bene collettivo, quanto della credibilità individuale di chi è tenuto a metterci la faccia.
In che mondo vivremo
Articolo di Paolo
Perulli (docente di sociologia economica – Università Piemonte Orientale)
È possibile una teoria sociale della pandemia? Non una
teoria epidemiologica ma sociale: come la società si ammala, come la società
reagisce, come eventualmente guarisce. Se questa teoria è possibile, essa deve
incrociare dimensione macro e dimensione micro. A scala macrosociale la
pandemia colpisce tutto il popolo (pan demos) del mondo, e soprattutto
quello riunito nei grandi assembramenti umani delle città. È lì che il
contagio più che altrove circola grazie al contatto sociale. Quel “con” che ci
tiene insieme nelle comunità urbane si traduce in un “dis”-valore che ci
allontana, e richiede una “dis”-tanza fisica. Occorre allora esplorare la
dimensione micro, psicosociale. Quella più interna alla persona, la sua
nervenleben. Si tratterebbe di una teoria assai complessa perché l’incrocio tra
le due dimensioni macro e micro è essenziale, eppure difficilissimo. In passato
pochi l’hanno fatto, l’ultimo è stato Talcott Parsons a metà Novecento. Da
allora ci accontentiamo di teorie di medio raggio. Si capisce allora perché
finora gli scienziati sociali abbiano evitato di trattare quel che è stata la
pandemia, e soprattutto che cosa succederà dopo la pandemia. Per approccio
metodologico di chi non prevede ma solo analizza (ma anche le analisi
scarseggiano, nessuno ha montato un campione rappresentativo di popolazione o
un focus group sul post-pandemia). O per mancanza di argomenti. O perché è
ancora troppo presto, con la pandemia che è entrata in una nuova fase di
diffusione. Invece Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, entrambi sociologi
all’Università Cattolica di Milano, autori di recente di La scommessa
cattolica (Il Mulino 2019) questa trattazione l’hanno fatta in tempo
reale – correndo il rischio di intervenire in piena corsa – come un piccolo
esperimento entro una grande mutazione. Ne è uscito Nella fine è
l’inizio (Il Mulino 2020). È il primo mattone di una necessaria,
ma difficile teoria sociale della pandemia. È un libro importante, cui auguro
una circolazione e discussione allargate oltre la sfera degli specialisti. La
sua lettura ci aiuta a capire la fase, le sfide, le poste in gioco. I due
autori hanno seguito un approccio più micro che macro, più psicanalitico che
macroscopico, questo è un valore perché viene da un pensiero personalista,
attento alla società. Richiederà, questo primo mattone, di essere completato da
un secondo mattone, quello macrosociale. Ma andiamo con ordine. La pandemia è
definita dai due autori una catastrofe vitale (“ed è il pensiero della morte
che, infine, aiuta a vivere”, è la frase di Umberto Saba posta ad esergo del
Prologo) che può aprire nuove vie. Al rischio e all’emergenza può seguire la
resilienza: il resiliente è definito chi, dopo aver visto la morte da vicino,
diventa capace di ospitare più vita. Perché oggi è davvero questione di vita e
di morte. Una definizione personalistica quella dei due autori, mentre in
genere si considera resiliente un sistema sociale, una città, una società
intera che si attrezzano per resistere a uno shock che viene dall’esterno.
Occorrerà combinare le due dimensioni, ma questa prima è essenziale. Ma la
chiave personalistica torna anche nel secondo tema considerato nel libro.
Dall’iperconnessione senza limiti da cui veniamo, una modalità che è stata
voluta dal globalismo cosmopolitico che è alle nostre spalle, si è infine
prodotta come un doloroso contrappasso la necessità del lockdown e del
confinamento. Da esso può ora derivare una maggiore “interindipendenza”,
termine che viene da Raimon Panikkar a indicare insieme libertà e legame. Si
può così passare dall’inter-esse all’ulter-esse, definito un orizzonte comune
al di là delle urgenze materiali. Un terzo aspetto considerato è proprio quello
della libertà che stiamo perdendo a causa della pandemia, e su cui la società
si interroga: come rinunciare alla libertà, quanta nostra libertà (di
movimento, di espressione, di convivialità etc.) concedere al potere che
protegge e obbliga. Ma qui si tratta della libertà illusoria del neoliberismo
che gioca con i nostri desideri per imporre il suo modello di iperconsumismo
(cui Magatti aveva dedicato anni fa il suo lavoro maggiore e che ora scopriamo
profetico, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo
tecno-nichilista, Feltrinelli 2009). A quella libertà apparente ha fatto
ora seguito la società della sorveglianza ipertecnologica, analizzata
spietatamente da Shoshana Zuboff che ne é la principale studiosa contemporanea:
siamo entrati nell’età delle macchine intelligenti, che ampliano il “dislivello
prometeico” (il termine è di Günther Anders, L’uomo è antiquato, un
testo del 1956). Siamo entrati in un’epoca post-umana. Ma di nuovo,
suggeriscono i due autori, da questa impasse potrà derivare una maggiore
responsività, in cui il soggetto rispondente non è più auto-centrato ma
definito da ciò-a-cui-risponde (un’idea di Sergio Manghi). Cui segue la
quarta tappa del libro. Alla volontà di potenza delle élites globalizzate, cui
ha fatto da contraccolpo una reazione nazionalista e difensiva di massa, può
ora rispondere il nuovo orizzonte della cura: una parola di cui gli autori
esplorano la radice che viene da saggezza e sapienza, cioè conoscere con la
totalità di sé stessi, mente e corpo e non solo intelletto. Cura di sé quindi e
degli altri, spinta fino alla custodia e valorizzazione del mondo, ma
consapevoli che nella fase precedente sono venute meno le condizioni psichiche
e sistemiche che tenevano in qualche modo insieme il mondo. Affermazione
drammatica questa, che contrasta con la sottovalutazione da parte di molti.
Perfino il rimando all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (brevemente evocata a p.
136) sembra paradossalmente misurare la distanza tra quell’urgenza drammatica
di cura e la retorica dei 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile globale, sul
cui effettivo raggiungimento crescono i dubbi anche alla luce della stessa
emergenza pandemica. Infine, l’ultima tappa del percorso. L’insicurezza produce
angoscia, quella che Ernesto De Martino nel suo La fine del mondo ha
definito l’Erlebnis (il vissuto) del divenire che perde la sua fluidità, la sua
operabilità secondo valori. A questa condizione di angoscia si può rispondere
con una pro-tensione, termine ripreso da Husserl a indicare il protendersi del
nostro corpo, fare della vita un’avventura e del divenire un avvenire. Una
tensione che diviene, nelle conclusioni ispirate a Goethe (“Fa che il principio
con la fine si trasfonda in un unico tutto”) nella bella immagine finale del
ponte. Questa figura, che è così importante nel pensiero mistico di Simone Weil
(lo spazio che sta in mezzo e mette in relazione), è qui quella che Georg
Simmel ha visto come simbolo dell’espandersi della nostra volontà sopra lo
spazio, verso l’unificazione dei punti separati su cui il ponte stesso poggia. La
tastiera come si vede è molto ricca, gli autori convocati sono molti e
importanti, tra essi i filosofi francesi Simondon e Stiegler sulla tecnica e
l’individuazione (e il possibile “reincantamento” che le nuove tecnologie
permettono), i tedeschi Arendt e Anders sulla vita activa e sull’uomo
antiquato, e poi i sociologi maggiori di fine secolo scorso come Giddens,
Bauman e Beck su intimità, liquidità e rischio; e molti altri. Una vera
galleria del miglior pensiero sociologico e filosofico sull’uomo nell’età della
tecnica. Forse ci aspettiamo ora, da Giaccardi e Magatti, un ulteriore
sforzo teorico: una altrettanto ricca analisi degli attori e dei processi,
delle strutture e dei sistemi entro cui il soggetto “conoscente” da essi
identificato si muove. La società a causa della catastrofe pandemica sarà più
divisa in contrapposizioni: tra chi ha perso molto (i lavoratori manuali soprattutto)
e chi ha guadagnato molto (le imprese del digitale soprattutto), tra anziani da
proteggere sanitariamente e giovani da promuovere economicamente, etc. Non
abbiamo una precisa radiografia dei fenomeni contrapposti a cui i diversi
soggetti sociali sono confrontati. Gli autori peraltro sono anche esperti di
sociologia dell’economia e dei media, cioè dei meccanismi funzionali e dei
dispositivi empirico-pratici di tipo comunicativo e relazionale attraverso cui
la società si costruisce e si costituisce. Sono questi che forse andrebbero ora
smontati e rimontati nella prospettiva indicata dal libro. Come tutto
questo possa avvenire, su quali basi, sulla scorta di quali riserve di fiducia
e di condivisione resta un tema aperto all’ulteriore ricerca. Come si risponde
alla “società della sfiducia”, un tema reso attualissimo dalla società
pandemica ma che viene da autori di inizio Novecento come Max Scheler; quali
forme di governo sociale potranno dominare e persino “domare” l’intrinseca
anarchia delle società di mercato globalizzato che la pandemia ha reso più
evidenti; sono queste alcune tra le grandi domande che restano aperte. Se la
società è un tutto secondo la lezione di Durkheim, allora un “fatto sociale
totale” come la pandemia non può che essere analizzato tutto intero, soggetto e
oggetti, attore e sistemi, azione e re-azioni. Un punto chiave a questo
proposito è quello dei sistemi politici che si confrontano in questo scorcio di
inizio XXI secolo. Tema non espressamente presente nel libro, ma sollevato
brevemente a pag. 107, in cui gli autori vedono in corso nella pandemia la
sfida rinnovata tra mercato/democrazia e pianificazione/totalitarismo. Sapranno
le società dell’Occidente fare ricorso alle tecnologie digitali senza finire
nella società della sorveglianza? E le democrazie avranno la forza di scommettere
ancora sulla persona? Non lo sappiamo. In questo momento le società di mercato
non ce la fanno ad affrontare l’emergenza pandemica, mentre in Cina il
tracciamento individuale con codice sanitario verde-giallo-rosso e i limiti che
negano la libertà delle persone stanno portando l’immenso Paese fuori dalla
pandemia. Un bel paradosso. Ma anche la democrazia in realtà vaccina, come
mostra Sloterdijk citando il Nietzsche della Gaia Scienza.
Anch’essa cioè è un regime disciplinare, e anche noi, Occidentali, non siamo
più mattoni per una società come suona la profezia nietzschiana. Non sarà che i
due regimi avversari, democratico e totalitario, soffrono entrambi – in forme
certo diverse – dello stesso male che i due autori mostrano,
la mancanza di un sistema centrato sul soggetto “capace” di fare la società, di
fare la storia?
Nessun commento:
Posta un commento