venerdì 6 novembre 2020

Ancora a proposito di pandemia......purtroppo!

 

E’ durata poco, il tempo di un’estate “vissuta pericolosamente”, la speranza di non doverci più occupare, anche in questo modestissimo e periferico blog, della pandemia da Cvd19 nella triste veste di ripiombati in lockdown, zone rosse, e restrizioni varie. Come da proverbio cerchiamo almeno di “fare di necessità virtù” e quindi, all’insegna della virtù, cercheremo quantomeno di evitare di adagiarci sul deprimente scontro, l’antico gioco dello scaricabarile!, fra Stato e Regioni (maledetta riforma del Titolo V!!!!) o di intervenire, per ora?, nell’inconcludente derby fra sostenitori della ragione sanitaria e difensori di quella economica. Riprendiamo, a malincuore, la nostra riflessione sulla pandemia e sulle tantissime problematiche che comporta, tentando quindi di offrire contributi che aiutino a meglio capire in senso lato. Iniziamo con due articoli, ambedue tratti dalla rivista on-line “DoppioZero”, che si muovono con sguardi che vanno, apparentemente, in direzioni opposte: il primo racconta infatti, guardando verso l’interno, l’assurdità nell’epoca dei big-data di una gestione pandemica ben poco basata sull’analisi dei dati, il secondo invece offre spunti per una visione dall’alto che recuperi il valore sociale dell’esperienza che stiamo vivendo

Chi ha paura dei data scientist? Numeri e pandemia

Articolo di Roberta Rocca (non abbiamo reperito notizie sul suo profilo)

Dopo un’inattesa love story (o una, ancor più inaspettata, trust story) tra Paese e istituzioni, durata appena il tempo d’una prima ondata, il prevedibile “ritorno” autunnale del coronavirus ha resuscitato i profondi dubbi dell’opinione pubblica italiana sulla capacità delle proprie istituzioni e classi dirigenti di gestire situazioni di crisi che richiedono soluzioni sistemiche. Tanto ammirevole è stata la gestione dell’emergenza in primavera – non era semplice, primi in Europa, decidere in favore di soluzioni tanto radicali e potenzialmente impopolari – quanto chiari sono adesso i limiti del governo nel pensare soluzioni che vadano oltre l’orizzonte temporale immediato. La natura dell’epidemia è infatti tale che tentare di limitare, oltre che la catastrofe sanitaria, quella economica, richiede la capacità di pensare a lungo termine e in potenza: per previsioni e per ipotesi. Sono due, infatti, le caratteristiche fondamentali di questa (e non solo questa) pandemia. La prima è la condizione di costante e radicale incertezza in cui il virus ci pone, dovuta alla complessità delle dinamiche di diffusione e alle scarse conoscenze finora accumulate. Quando e come un incremento lineare diventa esponenziale, e perché a Milano ma non a Catania? La seconda caratteristica fondamentale è l’inevitabile “sfasamento” tra l’effettiva diffusione del virus e la nostra percezione del suo stato di diffusione. I tamponi sono in grado di rivelare la presenza del virus solo diversi giorni dopo l’effettivo contagio; l’istantanea fornita dal tampone rappresenta uno stato di cose relativo a giorni (o settimane) addietro e il virus, nel frattempo, si è diffuso chissà quanto. Anche il numero di decessi, che avvengono anche mesi dopo il contagio, dà un’idea della gravità della situazione che è in ritardo di settimane rispetto alla realtà. L’incertezza e lo “sfasamento” fanno sì che misure efficaci debbano navigare su un orizzonte diverso da quello della reazione ai dati sul contagio. Devono, piuttosto, provare a prevenire conseguenze ipotetiche, senza però, con restrizioni incondizionate, arrestare il Paese. Come si fa a muoversi in un orizzonte così incerto, ipotetico e complesso? Il buon senso aiuta, ma non basta. Il senso di responsabilità politica (che avrebbe dettato, per esempio, di disporre del MES e potenziare efficacemente il sistema sanitario) è necessario: ma non basta. Persino pareri autorevoli, che pur giovano al dibattito pubblico, in questo caso non bastano. Per navigare l’incertezza e la complessità, esperienza individuale e intuizioni soggettive hanno un orizzonte limitato. Servono, piuttosto, strumenti che siano in grado non di semplificare, ma di elaborare e interpretare tale complessità. La buona notizia è che questi strumenti esistono, e sono già alla base di una porzione immensa della nostra esperienza quotidiana. La nostra arma più efficace e più potente per contenere gli effetti della pandemia è, infatti, la disponibilità di dati e la capacità di usarli, attraverso modelli matematici, non solo per descrivere, ma anche per prevedere. Si tratta di una lezione che altri paesi europei (come Germania e Danimarca) hanno fatto propria, giustificando pubblicamente le proprie decisioni sulla base delle predizioni di modelli di riferimento. La cattiva notizia, però, è che tali strumenti continuano a godere di una certa diffidenza nel dibattito pubblico del nostro paese, forse retaggio di un paradigma culturale in cui la cultura umanistica è quella nobile per eccellenza. Numeri, grafici, modelli ci respingono: ci terrorizzano e ci appaiono, a un tempo, troppo aridi per rientrare nel dominio (pragmatico e umanistico) della politica. Ricordate la performance fantascientifica di Giulio Gallera sul fattore Rt, quando l’assessore al welfare lombardo dichiarò (testuali parole) che “l’indice Rt a 0,51 vuole dire che per infettare me bisogna trovare due persone nello stesso momento infette”? Più che un’eccezione, questo episodio è forse indicativo (sia pure in una forma iperbolica, quasi satirica) di una generale inadeguatezza della classe politica a fare i conti con strumenti di conoscenza quantitativi, e ad integrarli nei meccanismi di decisione politica. Ma questa diffidenza va oltre la dimensione politica. Salvo alcune eccezioni, in Italia un giornalismo fortemente centrato su dati e loro visualizzazioni grafiche fatica ancora a decollare. In più, pur nell’era dei Big Data dove tutto è dati, gli esperti in materia sembrano relegato allo status di tecnici, più che aver riconosciuto il possesso di conoscenze politicamente rilevanti. Banali considerazioni statistiche, che farebbero la differenza nella gestione della pandemia, sono rimaste largamente inascoltati. Molti, ad esempio, hanno sottolineato come l’unico modo per avere un quadro adeguato degli effettivi livelli del contagio e di mortalità sia somministrare tamponi a campione sulla popolazione. Testare soltanto chi ha sintomi o ragioni per ipotizzare di essere stato contagiato, restituisce un quadro falsato di quale percentuale della popolazione abbia contratto il virus. Questa invocazione è caduta nel vuoto. Di recente, uno splendido articolo su “The Atlantic” ha contribuito a divulgare altre conoscenze fondamentali sugli aspetti “statistici” del virus. Se nel dibattito pubblico si insiste sull’ormai noto fattore Rt – che cattura il numero di contagi innescato, in media, da ciascun individuo – bisognerebbe piuttosto prestare attenzione al cosiddetto fattore K, che descrive come il virus sembra diffondersi, più che in modo “ordinato” e costante, per “impulsi” ed eventi di “iperdiffusione” (ove un individuo contagia tanti contemporaneamente, attraverso grandi eventi, o per via di permanenze prolungate in luoghi chiusi). Queste considerazioni (del tutto assenti dal dibattito politico italiano) suggeriscono che la strategia ottimale sia quella di limitare gli eventi di iperdiffusione con interventi mirati (mantenere la chiusura delle discoteche, ad esempio; o limitare il più possibile l’uso mezzi pubblici come le metropolitane), piuttosto che optare in extremis per misure trasversali di impatto economico catastrofico. La pandemia ci mostra che un cambio di rotta è necessario. Ci sono state e ci sono tuttora realtà virtuose che garantiscono solidi fondamenti. Già a febbraio, quando era quasi impossibile reperire dati centralizzati e realistici sul numero di tamponi e casi nel resto d’Europa, l’Italia diffondeva pubblicamente ed elegantemente i propri dati su Github. Esempi di informazione e giornalismo ispirati a data mining accurato e visualizzazioni efficaci sono stati forniti su Twitter da Matteo Villa dell’ISPI, già attivo su questo fronte prima della pandemia. Piuttosto che investire unicamente nell’istituzione di macchinosissimi comitati tecnico-scientifici, la strategia vincente sarebbe, forse, quella di investire massicciamente nel finanziare task force e gruppi di ricerca orientati alla raccolta di dati e alla formulazione di modelli predittivi che guidino le istituzioni e l’opinione pubblica. Affidarsi a dati, modelli e tecnologie non sarebbe una sconfitta della politica, ma un potenziamento. La capacità pratica di decidere è prerogativa insostituibile di una buona politica. Ma può e dev’essere guidata da strumenti e conoscenze che permettano di visualizzare e comprendere gli scenari possibili. A beneficio tanto del bene collettivo, quanto della credibilità individuale di chi è tenuto a metterci la faccia.

In che mondo vivremo

Articolo di Paolo Perulli (docente di sociologia economica – Università Piemonte Orientale)

È possibile una teoria sociale della pandemia? Non una teoria epidemiologica ma sociale: come la società si ammala, come la società reagisce, come eventualmente guarisce. Se questa teoria è possibile, essa deve incrociare dimensione macro e dimensione micro. A scala macrosociale la pandemia colpisce tutto il popolo (pan demos) del mondo, e soprattutto quello riunito nei grandi assembramenti umani delle città.  È lì che il contagio più che altrove circola grazie al contatto sociale. Quel “con” che ci tiene insieme nelle comunità urbane si traduce in un “dis”-valore che ci allontana, e richiede una “dis”-tanza fisica. Occorre allora esplorare la dimensione micro, psicosociale. Quella più interna alla persona, la sua nervenleben. Si tratterebbe di una teoria assai complessa perché l’incrocio tra le due dimensioni macro e micro è essenziale, eppure difficilissimo. In passato pochi l’hanno fatto, l’ultimo è stato Talcott Parsons a metà Novecento. Da allora ci accontentiamo di teorie di medio raggio. Si capisce allora perché finora gli scienziati sociali abbiano evitato di trattare quel che è stata la pandemia, e soprattutto che cosa succederà dopo la pandemia. Per approccio metodologico di chi non prevede ma solo analizza (ma anche le analisi scarseggiano, nessuno ha montato un campione rappresentativo di popolazione o un focus group sul post-pandemia). O per mancanza di argomenti. O perché è ancora troppo presto, con la pandemia che è entrata in una nuova fase di diffusione. Invece Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, entrambi sociologi all’Università Cattolica di Milano, autori di recente di La scommessa cattolica (Il Mulino 2019) questa trattazione l’hanno fatta in tempo reale – correndo il rischio di intervenire in piena corsa – come un piccolo esperimento entro una grande mutazione. Ne è uscito Nella fine è l’inizio (Il Mulino 2020).  È il primo mattone di una necessaria, ma difficile teoria sociale della pandemia. È un libro importante, cui auguro una circolazione e discussione allargate oltre la sfera degli specialisti. La sua lettura ci aiuta a capire la fase, le sfide, le poste in gioco. I due autori hanno seguito un approccio più micro che macro, più psicanalitico che macroscopico, questo è un valore perché viene da un pensiero personalista, attento alla società. Richiederà, questo primo mattone, di essere completato da un secondo mattone, quello macrosociale. Ma andiamo con ordine. La pandemia è definita dai due autori una catastrofe vitale (“ed è il pensiero della morte che, infine, aiuta a vivere”, è la frase di Umberto Saba posta ad esergo del Prologo) che può aprire nuove vie. Al rischio e all’emergenza può seguire la resilienza: il resiliente è definito chi, dopo aver visto la morte da vicino, diventa capace di ospitare più vita. Perché oggi è davvero questione di vita e di morte. Una definizione personalistica quella dei due autori, mentre in genere si considera resiliente un sistema sociale, una città, una società intera che si attrezzano per resistere a uno shock che viene dall’esterno. Occorrerà combinare le due dimensioni, ma questa prima è essenziale. Ma la chiave personalistica torna anche nel secondo tema considerato nel libro. Dall’iperconnessione senza limiti da cui veniamo, una modalità che è stata voluta dal globalismo cosmopolitico che è alle nostre spalle, si è infine prodotta come un doloroso contrappasso la necessità del lockdown e del confinamento. Da esso può ora derivare una maggiore “interindipendenza”, termine che viene da Raimon Panikkar a indicare insieme libertà e legame. Si può così passare dall’inter-esse all’ulter-esse, definito un orizzonte comune al di là delle urgenze materiali. Un terzo aspetto considerato è proprio quello della libertà che stiamo perdendo a causa della pandemia, e su cui la società si interroga: come rinunciare alla libertà, quanta nostra libertà (di movimento, di espressione, di convivialità etc.) concedere al potere che protegge e obbliga. Ma qui si tratta della libertà illusoria del neoliberismo che gioca con i nostri desideri per imporre il suo modello di iperconsumismo (cui Magatti aveva dedicato anni fa il suo lavoro maggiore e che ora scopriamo profetico, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli 2009). A quella libertà apparente ha fatto ora seguito la società della sorveglianza ipertecnologica, analizzata spietatamente da Shoshana Zuboff che ne é la principale studiosa contemporanea: siamo entrati nell’età delle macchine intelligenti, che ampliano il “dislivello prometeico” (il termine è di Günther Anders, L’uomo è antiquato, un testo del 1956). Siamo entrati in un’epoca post-umana. Ma di nuovo, suggeriscono i due autori, da questa impasse potrà derivare una maggiore responsività, in cui il soggetto rispondente non è più auto-centrato ma definito da ciò-a-cui-risponde (un’idea di Sergio Manghi). Cui segue la quarta tappa del libro. Alla volontà di potenza delle élites globalizzate, cui ha fatto da contraccolpo una reazione nazionalista e difensiva di massa, può ora rispondere il nuovo orizzonte della cura: una parola di cui gli autori esplorano la radice che viene da saggezza e sapienza, cioè conoscere con la totalità di sé stessi, mente e corpo e non solo intelletto. Cura di sé quindi e degli altri, spinta fino alla custodia e valorizzazione del mondo, ma consapevoli che nella fase precedente sono venute meno le condizioni psichiche e sistemiche che tenevano in qualche modo insieme il mondo. Affermazione drammatica questa, che contrasta con la sottovalutazione da parte di molti. Perfino il rimando all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (brevemente evocata a p. 136) sembra paradossalmente misurare la distanza tra quell’urgenza drammatica di cura e la retorica dei 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile globale, sul cui effettivo raggiungimento crescono i dubbi anche alla luce della stessa emergenza pandemica. Infine, l’ultima tappa del percorso. L’insicurezza produce angoscia, quella che Ernesto De Martino nel suo La fine del mondo ha definito l’Erlebnis (il vissuto) del divenire che perde la sua fluidità, la sua operabilità secondo valori. A questa condizione di angoscia si può rispondere con una pro-tensione, termine ripreso da Husserl a indicare il protendersi del nostro corpo, fare della vita un’avventura e del divenire un avvenire. Una tensione che diviene, nelle conclusioni ispirate a Goethe (“Fa che il principio con la fine si trasfonda in un unico tutto”) nella bella immagine finale del ponte. Questa figura, che è così importante nel pensiero mistico di Simone Weil (lo spazio che sta in mezzo e mette in relazione), è qui quella che Georg Simmel ha visto come simbolo dell’espandersi della nostra volontà sopra lo spazio, verso l’unificazione dei punti separati su cui il ponte stesso poggia. La tastiera come si vede è molto ricca, gli autori convocati sono molti e importanti, tra essi i filosofi francesi Simondon e Stiegler sulla tecnica e l’individuazione (e il possibile “reincantamento” che le nuove tecnologie permettono), i tedeschi Arendt e Anders sulla vita activa e sull’uomo antiquato, e poi i sociologi maggiori di fine secolo scorso come Giddens, Bauman e Beck su intimità, liquidità e rischio; e molti altri. Una vera galleria del miglior pensiero sociologico e filosofico sull’uomo nell’età della tecnica. Forse ci aspettiamo ora, da Giaccardi e Magatti, un ulteriore sforzo teorico: una altrettanto ricca analisi degli attori e dei processi, delle strutture e dei sistemi entro cui il soggetto “conoscente” da essi identificato si muove. La società a causa della catastrofe pandemica sarà più divisa in contrapposizioni: tra chi ha perso molto (i lavoratori manuali soprattutto) e chi ha guadagnato molto (le imprese del digitale soprattutto), tra anziani da proteggere sanitariamente e giovani da promuovere economicamente, etc. Non abbiamo una precisa radiografia dei fenomeni contrapposti a cui i diversi soggetti sociali sono confrontati. Gli autori peraltro sono anche esperti di sociologia dell’economia e dei media, cioè dei meccanismi funzionali e dei dispositivi empirico-pratici di tipo comunicativo e relazionale attraverso cui la società si costruisce e si costituisce. Sono questi che forse andrebbero ora smontati e rimontati nella prospettiva indicata dal libro. Come tutto questo possa avvenire, su quali basi, sulla scorta di quali riserve di fiducia e di condivisione resta un tema aperto all’ulteriore ricerca. Come si risponde alla “società della sfiducia”, un tema reso attualissimo dalla società pandemica ma che viene da autori di inizio Novecento come Max Scheler; quali forme di governo sociale potranno dominare e persino “domare” l’intrinseca anarchia delle società di mercato globalizzato che la pandemia ha reso più evidenti; sono queste alcune tra le grandi domande che restano aperte. Se la società è un tutto secondo la lezione di Durkheim, allora un “fatto sociale totale” come la pandemia non può che essere analizzato tutto intero, soggetto e oggetti, attore e sistemi, azione e re-azioni. Un punto chiave a questo proposito è quello dei sistemi politici che si confrontano in questo scorcio di inizio XXI secolo. Tema non espressamente presente nel libro, ma sollevato brevemente a pag. 107, in cui gli autori vedono in corso nella pandemia la sfida rinnovata tra mercato/democrazia e pianificazione/totalitarismo. Sapranno le società dell’Occidente fare ricorso alle tecnologie digitali senza finire nella società della sorveglianza? E le democrazie avranno la forza di scommettere ancora sulla persona? Non lo sappiamo. In questo momento le società di mercato non ce la fanno ad affrontare l’emergenza pandemica, mentre in Cina il tracciamento individuale con codice sanitario verde-giallo-rosso e i limiti che negano la libertà delle persone stanno portando l’immenso Paese fuori dalla pandemia. Un bel paradosso. Ma anche la democrazia in realtà vaccina, come mostra Sloterdijk citando il Nietzsche della Gaia Scienza. Anch’essa cioè è un regime disciplinare, e anche noi, Occidentali, non siamo più mattoni per una società come suona la profezia nietzschiana. Non sarà che i due regimi avversari, democratico e totalitario, soffrono entrambi – in forme certo diverse – dello stesso male che i due autori mostrano, la mancanza di un sistema centrato sul soggetto “capace” di fare la società, di fare la storia?

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