martedì 17 novembre 2020

Toccare terra correndo: la transizione elettorale negli USA

 

In attesa di nuovi e più aggiornati contributi di Gian Giacomo Migone propongo questo articolo di Francesco Costa, giornalista, blogger italiano, vicedirettore del giornale on line il Post che dal 2015 segue con attenzione la politica, la società e la cultura degli USA, attraverso una newsletter e successivamente un podcast Da costa a costa in cui racconta lo smarrimento di un paese che considerava speciale e che diventa ogni giorno più normale e problematico. Propongo questo testo perché entra nel merito  del meccanismo complesso della transizione, che solo apparentemente, ci sembrava ben oliato ( già in passato ha creato dei problemi) e che ora per la radicalità e la complessità della situazione attuale, denuncia tutte le sue criticità e  rischia di consegnarci gli Usa non come modello di democrazia, ma come cartina di tornasole delle difficoltà che questa incontra a livello globale. Certo il meccanismo in sé non è la causa dei problemi, ma sicuramente li esaspera in un quadro politico profondamente radicalizzato, segnato dall’acuirsi di enormi disuguaglianze e caratterizzato da una distribuzione del voto che sottolinea la frattura tra città e campagna:  in due “Americhe” che non si riconoscono e non perdono occasione per delegittimarsi.

Massima Bercetti

Toccare terra correndo

La transizione elettorale negli USA

Articolo “on the road” di Francesco Costa (giornalista, vicedirettore del giornale on-line “ilpost.it”) attualmente in viaggio negli USA

La Georgia non è il più grande degli stati che Joe Biden è riuscito a strappare a Donald Trump, né il più popoloso. Non è il più influente, e non è stato nemmeno decisivo per raggiungere la famosa soglia dei 270 grandi elettori. Ma è probabilmente il più importante. Nonostante la vittoria finale, infatti, questa elezione ha confermato le difficoltà del Partito Democratico nel convincere la classe operaia bianca in quegli stati del Nord che erano un tempo la sua roccaforte: ne parleremo meglio tra poco. Ma ha anche indicato la strada di un altro futuro possibile, attraverso la vittoria in Georgia: uno stato del profondo Sud, con una storia di schiavitù, segregazionismo e razzismo, dominato da decenni dal Partito Repubblicano. La vittoria di Joe Biden in Georgia ha un nome, un cognome e una storia ben precisi: Stacey Abrams. Conoscerli è un ottimo modo per dare uno sguardo al futuro del Partito Democratico e della politica americana. È la storia che vi racconto nella nuova puntata del podcast di Da Costa a Costa, che è uscita stamattina e trovate gratuitamente su tutte le piattaforme, da Spotify a Spreaker, Apple Podcasts a Google Podcasts.  Joe Biden ha ricevuto al Dipartimento di Stato i messaggi di decine di capi di stato e di governo di mezzo mondo, ma non può leggerli. Vorrebbe parlare con Anthony Fauci dei piani per distribuire il vaccino contro il coronavirus, ma Fauci non può dirgli nulla. Dovrebbe ricevere i briefing quotidiani sulla sicurezza nazionale, ma non gli arrivano. Avrebbe bisogno di una linea telefonica sicura per parlare con i leader stranieri e discutere le nomine della sua futura amministrazione, ma non ce l’ha. Gli servirebbero uffici e soldi per gestire questi due mesi di transizione, ma dal governo non gli è arrivato niente. “Hit the ground running” è un’efficace espressione americana che non ha una traduzione equivalente italiana. Qualcuno potrebbe suggerire “partire in quarta”, ma voi avete mai provato a partire in quarta? Letteralmente significa “toccare terra correndo”. Immaginate un uomo che si getta col paracadute, e cadendo lentamente si avvicina al suolo, un metro dopo l’altro… per cominciare a correre dal momento in cui tocca terra. “Hit the ground running” vuol dire partire alla massima velocità. Non avere bisogno di guardarsi intorno, di orientarsi, di partire piano. Essere pronti dal minuto uno del giorno uno: da subito. La principale ragione per cui passano più di due mesi tra l’elezione del nuovo presidente e il suo effettivo insediamento è permettere al suddetto nuovo presidente di hit the ground running. Non è solo una questione di curva di apprendimento: dopo quarant’anni al Senato e otto alla Casa Bianca da vicepresidente, Joe Biden non ha bisogno che qualcuno gli dica dove si trova la sala riunioni. Quando si insedia una nuova amministrazione, però, non cambiano solo il presidente e i ministri: cambiano tutti i dipendenti della Casa Bianca e una buona parte dei dipendenti di ogni ministero. Parliamo di almeno quattromila persone, che Joe Biden deve scegliere e nominare prima di prestare giuramento, così che anche loro possano hit the ground running. La legge prevede che dal momento in cui è “evidente” che le elezioni hanno un vincitore, il capo di un ente che si chiama General Services Administration, e si occupa di tutte le questioni logistiche che riguardano l’operatività del governo americano, firmi una lettera che avvii la fase di transizione. Non serve che il vincitore sia stato ufficialmente certificato, cosa che avverrà soltanto a dicembre: basta che ci sia un vincitore chiaro. Di solito è un momento sancito dal discorso con cui uno dei due candidati ammette la sconfitta o da un risultato netto abbastanza. Quattro anni fa questa lettera fu firmata la mattina dopo le elezioni, e Barack Obama invitò Donald Trump alla Casa Bianca il giorno dopo. Stavolta la lettera non è ancora stata firmata. La firma di questa lettera sbloccherebbe oltre sei milioni di dollari di fondi federali, così da dare al comitato di transizione uffici, linee telefoniche sicure, biglietti aerei e soprattutto stipendi per chi dovrà mettere in piedi un governo da zero in due mesi. Ma non solo: la firma permetterebbe a Biden di ricevere i briefing sulla sicurezza nazionale, di avere accesso ai rapporti del Dipartimento di Stato, di essere messo a conoscenza dei piani per distribuire il vaccino contro il coronavirus. E anche di cominciare a sottoporre all'FBI la lista delle persone che intende nominare agli incarichi che comportano venire a conoscenza di informazioni top secret. Per ognuna di queste persone l'FBI dovrà organizzare uno o più colloqui, esaminare precedenti penali, dichiarazioni patrimoniali, incarichi precedenti e potenziali conflitti di interessi; e dovrà fare lo stesso con i suoi parenti e amici più stretti. Non si mettono informazioni riservate e strategiche in mano a chiunque. Ognuna di queste nomine dovrà poi essere valutata e ratificata dal Senato. È una procedura che richiede tempo. Nel rapporto con cui il Congresso indagò sugli attentati dell'11 settembre del 2001, una delle cause del fallimento dell'intelligence fu individuata nella brevissima transizione che occorse tra l'amministrazione di Bill Clinton e quella di George W. Bush, a causa del famoso contenzioso legale sul voto in Florida tra Al Gore e George W. Bush alle elezioni presidenziali del 2000. L’elezione del 2000 fu effettivamente un’elezione contesa. Tra Gore e Bush finì praticamente pari, e furono decisivi poche centinaia di voti in Florida. Alla fine, dopo molte sentenze e ricorsi, Bush fu riconosciuto vincitore in Florida e arrivò alla Casa Bianca ottenendo 271 grandi elettori. Appena uno in più della maggioranza assoluta. Ma non basta che uno dei due candidati annunci cause legali per considerare un’elezione contesa. E questa del 2020 non lo è stata. Come era chiaro già da almeno una settimana, Joe Biden ha vinto le elezioni presidenziali del 2020 con 306 grandi elettori, gli stessi con cui Donald Trump vinse nel 2016 (all’epoca i suoi alleati e collaboratori definirono una vittoria “storica” e “a valanga. E mentre quattro anni fa Trump vinse pur ottenendo tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton, stavolta la vittoria di Biden si accompagna a un vantaggio nel voto popolare che supererà presto i sei milioni. Non c'è niente che Trump possa fare per ribaltare questo risultato. I riconteggi si terranno solo in stati ormai ininfluenti, e Biden ha un vantaggio tale che non sarà comunque intaccato. I ricorsi che denunciano brogli stanno venendo ritirati o rigettati uno dopo l'altro, perché basati sul nulla (peraltro si sta arricchendo il filone degli elettori morti che non lo erano).


 

La mappa finale delle elezioni presidenziali del 2020. Mancano ancora due o tre milioni di voti da contare, ma in posti dove sono ininfluenti.

La situazione potrebbe sbloccarsi da un momento all'altro, ma se quella benedetta lettera non è ancora stata firmata è perché Donald Trump non ha ancora riconosciuto la sua sconfitta: e ha dato mandato ai dipendenti del governo di comportarsi di conseguenza. Come sapete, per Trump è impossibile decidere semplicemente di non andarsene: i suoi poteri scadono automaticamente il 20 gennaio a mezzogiorno. Un colpo di stato, poi, è tranquillamente da escludere: le forze di polizia sono controllate dai singoli stati, Trump è detestato dai militari, è largamente impopolare e senza alcun controllo sui media, ingredienti fondamentali per questo tipo di operazioni. I recenti licenziamenti al Dipartimento della Difesa si devono a regolamenti di conti e antipatie che Trump aveva notoriamente da mesi, ma che non poteva effettuare prima per evitare polemiche in campagna elettorale. Le ipotesi che portano a trascinare le elezioni in tribunale, o a impedire la nomina dei grandi elettori, o puntare su un tradimento di massa dei grandi elettori di Joe Biden, sono altrettanto implausibili. Ma questo non vuol dire che non ci sia niente di cui preoccuparsi. Per quanto sia resa impossibile dai pesi e contrappesi delle istituzioni, l’evidente volontà del presidente degli Stati Uniti e dei suoi alleati di ribaltare l’esito di un’elezione democratica che li ha visti sconfitti è di per sé un fatto straordinariamente grave, e probabilmente unico nell’intera storia statunitense. Possono esserci gravi conseguenze sul passaggio di consegne tra le due amministrazioni, come abbiamo visto, e non solo: è probabile che un pezzo della popolazione americana rischi di considerare Biden un presidente illegittimo, abusivo, prima ancora che eventualmente un presidente da contestare politicamente. E dire che di cose da fare, per Biden, ce ne sarebbero. Il paese che si appresta a governare è infestato da un virus che in questi mesi ha solo guadagnato forza, ha un tasso di disoccupazione altissimo, un presidente uscente che demolisce deliberatamente la fiducia degli americani nella democrazia, una gravissima crisi climatica e i noti persistenti problemi di giustizia economica  e razziale. Gli Stati Uniti stanno attraversando in questi giorni la terza ondata di contagi da coronavirus, la più grande e grave fin qui. Il numero quotidiano dei nuovi contagi supera sempre i 100.000. Soltanto la settimana scorsa un americano su 400 è risultato positivo al coronavirus. Il numero di persone che muore ogni giorno è sempre superiore a 1.000. Il numero di persone ricoverate è più che raddoppiato rispetto a settembre ed è il più alto dall’inizio della pandemia. Niente di così diverso da quanto accada qui da noi, lo so. E in diversi stati – tra questi North Dakota, Iowa, Oklahoma – il sistema ospedaliero ha già superato il punto di saturazione. Insomma, davvero questo non sembra il momento di giocare. Eppure Trump sta continuando quotidianamente su Twitter a diffondere notizie false e bufale, e a dichiararsi vincitore. Sul piano politico, il suo obiettivo non è restare presidente ma creare una narrazione che gli permetta di rivendicare a vita di essere stato battuto in un’elezione truccata, e provare a lasciare la Casa Bianca senza l’etichetta dello sconfitto. Il Partito Repubblicano non ha interesse a contraddirlo pubblicamente per tre ragioni. La prima è che la base del partito è ancora saldamente dalla parte di Trump: chiunque voglia restare o diventare deputato, senatore, sindaco o governatore con il Partito Repubblicano sa di non poter fare a meno dei voti dei sostenitori di Trump. La seconda è che il comitato elettorale di Trump e il Partito Repubblicano hanno avuto problemi di soldi in campagna elettorale, e si sono molto indebitati: le email con cui i Repubblicani stanno chiedendo fondi per le cause legali spesso servono in realtà a ripianare i debiti. 


Quanto è costata questa campagna elettorale.

La terza ragione è che il 5 gennaio si terranno in Georgia due ballottaggi decisivi per stabilire chi avrà la maggioranza al Senato: i Repubblicani corrono il rischio che i Democratici controllino contemporaneamente la Camera, il Senato e la Casa Bianca. Riconoscere la sconfitta di Trump rischia di demotivare gli elettori del Partito Repubblicano, secondo alcuni.
Prima di salutarvi, vi anticipo due cose di cui parleremo in modo più approfondito nelle prossime settimane. La prima è come hanno votato gli americani. I dati non sono ancora particolarmente raffinati: i due principali exit poll hanno dato in alcuni casi risultati contraddittori. Ma qualcosa possiamo già dire. La vittoria di Joe Biden è stata una vittoria metropolitana. I Democratici sono sempre andati bene nelle città, ma stavolta sono andati ancora meglio che in passato: e hanno vinto anche in tantissime zone suburbane – per voi non sarà una sorpresa – sottraendo un sacco di voti ai Repubblicani. Inoltre, Biden ha guadagnato qualcosina tra gli anziani e nella classe operaia bianca del Midwest: ma poco, e molto meno di quanto ci si aspettasse. Dall’altra parte, Donald Trump è andato ancora più forte dove era già andato forte quattro anni fa: le zone rurali hanno votato per lui più di quanto avessero fatto nel 2016. E ha guadagnato terreno tra gli afroamericani e i latinoamericani, non solo in Florida ma anche in Texas, nella valle del Rio Grande. Che stesse emergendo qualche fragilità dei Democratici tra i latinoamericani era evidente da mesi, ne avevamo parlato prima del voto: ma quello che è successo è andato oltre le aspettative. Insomma, dove i Democratici andavano bene, stavolta sono andati benissimo; dove i Repubblicani andavano bene, stavolta i Repubblicani sono andati benissimo. Messo tutto insieme, i Democratici hanno avuto la meglio. Ma i Repubblicani hanno fatto qualche passo avanti dove non sembrava fosse possibile, intaccando l’idea che i cambiamenti demografici portino inesorabilmente a favorire i Democratici nel lungo periodo, e che l’etnia rappresenti in qualche modo un destino politico (un’altra cosa che sapete bene, perché vi ripeto da mesi). La seconda cosa è la composizione dell’amministrazione Biden. Tra i personaggi più noti, ci sono in ballo Bernie Sanders al Lavoro, Susan Rice al Dipartimento di Stato, Elizabeth Warren al Tesoro, Amy Klobuchar all'Agricoltura, Pete Buttigieg ai Reduci di guerra o all'ONU, Tammy Duckworth alla Difesa, Jay Inslee all'Energia, Val Demings alla Sicurezza nazionale, Karen Bass alla Casa, Sally Yates alla Giustizia. Ma tutte queste cariche devono essere approvate dal Senato, e per i più progressisti ottenere la ratifica potrebbe essere dura. Un’altra ragione per cui saranno cruciali i ballottaggi del 5 gennaio.


Nessun commento:

Posta un commento