Pubblichiamo il seguente articolo
di Carlo Bastasin (accademico, insegna economia alla Luiss School di Roma e alla Brooking
Institution di Washington) uscito oggi nella pagina di commenti politici di La
Repubblica. Pensiamo infatti che sia un eccellente contributo a meglio capire
le dinamiche del voto americano, che Bastasin ben conosce vivendo spesso negli
USA, ed al tempo stesso uno spunto di riflessione importante per aggiornare le
nostre categorie interpretative. Sono infatti sempre di più le vicende,
elettorali e non, in tutto l’Occidente che evidenziano l’insufficienza del
rapporto, stabilito troppo spesso in modo automatico, tra le classiche categorie sociali, etniche,
economiche, culturali e gli orientamenti elettorali, verso le, altrettanto
classiche, destra e sinistra. Nel caso americano repubblicani e democratici. Le
fratture che ormai attraversano la società nei paesi cosiddetti “sviluppati” sono
tali da aver messo in crisi tale automatismo. Già Marco Revelli nel suo libro “Politica
senza politica”, nostro “Saggio” del mese di Marzo 2019, aveva evidenziato,
riflettendo sul voto “populista” statunitense ed europeo, l’importanza della
divisione che attraversa trasversalmente l’intera stratificazione sociale fra i
“premiati” e gli “esclusi” dalla globalizzazione. Dato peraltro condiviso da
molti politologi e fatto proprio dallo stesso Carlo Bastasin nel suo recente
saggio “Viaggio al termine dell’Occidente”
nel quale sottolinea inoltre la
decisiva incidenza del risvolto più propriamente psicologico, individuale e
collettivo, con il quale viene vissuta questa divisione. Se ancora in qualche
modo vale l’assunto che quanto succede negli USA spesso anticipa la comparsa e
l’incidenza di fenomeni che avranno poi diffusione in tutto l’Occidente,
diventa ancora più importante, al di là delle specifiche dinamiche di questa
elezione presidenziale, conoscere e valutare, in aggiunta ad altre spiegazioni
sicuramente presenti e rilevanti, le dinamiche segnalate da Carlo Bastasin
USA: il declino ed il merito
Articolo di
Carlo Bastasin – La Repubblica 19/11/2020
Negli
ultimi dodici anni il reddito medio degli elettori americani del partito
democratico è aumentato di circa il 15%, quello degli elettori repubblicani è
invece diminuito. Non solo i repubblicani sono diventati in media più poveri
dei democratici, ma le circoscrizioni in cui prevalgono i loro candidati
contano per meno di un terzo del reddito totale degli USA. Da qualche tempo gli
elettori repubblicani non sono più la parte ricca del paese che vuole
proteggere le ricchezze dalle tentazioni socialiste dei democratici.
Interpretare secondo i criteri europei convenzionali di destra e sinistra, di
diseguaglianze assolute e relative, la realtà socio-politica americana rischia
di portare fuori strada. Anche le letture di moda sulla geo-economia che
definiscono il benessere dei cittadini principalmente in base al luogo in cui
vivono e lavorano non è sufficiente. La differenza di reddito tra aree “macropolitane”
e paesini di campagna è certo evidente. Tuttavia la distribuzione geografica
del benessere è una conseguenza di qualcosa di più profondo che sta cambiando
in modo silenzioso. Mentre nel 2016 la distinzione tra grandi metropoli e
realtà rurali era ben definita, ora il benessere delle grandi città si sta
allargando ai sobborghi circostanti .Mentre prima il benessere di accentrava
nel centro di singole città, San Francisco, New York, Washington o Boston, in
grado di coniugare nuove tecnologie informatiche, il migliore capitale umano,
servizi professionali di alto livello, università di eccellenza, ora l’onda si
è allargata a servizi e professioni che stanno incorporando le tecnologie
informatiche prendendo vantaggi sulla attività tradizionali. Ecco che i
sobborghi di Atlanta, Phoenix, Las Vegas e Madison, vedono aumentare il loro
reddito e finiscono per votare democratico spostando sorprendentemente la maggioranza
del voto in Georgia, Arizona, Nevada e Wisconsin. Perfino le città di
Pittsburgh e Philadelphia, una volta emblema della decadenza delle vecchie
professioni, stanno lentamente incorporando nuove tecnologie e nuovi lavori a
reddito crescente. Non a caso è stata proprio la Pennsylvania a determinare nel
modo più significativo la nuova maggioranza per il presidente Biden. Può
sembrare che questo sviluppo abbia una sua determinazione storica che i “progressisti”
accoglieranno con sollievo: una popolazione in sviluppo, sempre più colta e
contraria ai richiami isolazionisti, xenofobi, o razzista del presidente Trump.
Ma anche in questo caso – come nella rivisitazione delle identità sociali di
destra e sinistra – è necessario procedere con cautela. Il giorno delle
elezioni presidenziali si è tenuto anche un referendum in California che ha
aperto uno spiraglio inquietante sull’identità politica degli elettori
democratici. I cittadini hanno infatti votato contro la legge statale che
voleva garantire ai “riders” lo stato di lavoratori dipendenti. Forse a
determinare il risultato è stata la propaganda delle piattaforme, come Uber o
Lyst, che hanno coperto il 90% delle spese totali di pubblicità elettorale.
Tuttavia quello stesso giorno i californiani hanno anche respinto le proposte a
favore della “affirmative action” (politiche favorevoli ai meno benestanti) o
del controllo degli affitti (nei quali si riflettono le gravi disuguaglianze di
reddito dello Stato). Se questa è l’impronta politica degli elettori
democratici – ricchi, colti, ma meritocratici – forse bisogna ripensare alcune
classificazioni politiche. In Florida un elettorato prevalentemente
repubblicano ha invece votato con schiacciante maggioranza l’approvazione del
salario minimo senza peraltro che Trump abbia detto una parola in materia. Alla
fine la quota di elettorato di Trump è la stessa di John McCain nel 2008 e di
Mitt Romney nel 2012 (46-47%), ma è l’elettorato che continua a cambiare. Così
come per i democratici sarà difficile tenere insieme l’elettorato dei sobborghi
e quello giovane e radicale delle metropoli. La ragione di quello che sta
succedendo è che da circa venti anni la società americana sta vivendo un
fenomeno diverso dalla sola disuguaglianza e che io chiamo “divergenza secolare”.
Per una parte dei cittadini il declino personale sembra inarrestabile e
immotivato, suscita sentimenti di rabbia e inganno che il presidente Trump
aveva personificato perfettamente. Per l’altra parte, la propria personale
ascesa si identifica con qualità proprie, di istruzione e mobilità, ma sembra
distaccata dalle sorti degli altri e soprattutto da quelle dei perdenti. Queste
componenti non assorbono tutta la realtà dei due partiti, democratico o repubblicano,
ma sono proprio le loro frange che danno voce a sentimenti fortemente antagonistici.
E’ in questo difficile quadro, destinato a cambiare nel tempo, in ragione degli
sviluppi strutturali di tecnologia ed economia, che l’elezione di un presidente
come Joe Biden, con una forte vocazione centrista, con una personalità non
controversa e con poca presa polemica, rappresenta un attimo di respiro di
importanza eccezionale per fare il punto sul rapporti tra capitalismo e
democrazia.
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