Il nostro programma autunnale, purtroppo bruscamente
interrotto per le note ragioni pandemiche, prevedeva fra le altre una
conferenza di Gian Giacomo Migone (accademico, in particolare, docente di Storia
dell'America del Nord e di Storia delle relazioni Euro-Atlantiche presso L’università
di Torino, già Senatore per tre legislature) con al centro un’analisi dei risultati delle elezioni presidenziali americane
e delle loro conseguenze per l’Italia e per l’Unione Europea. Nella speranza di recuperare, in
qualche modo, tale iniziativa pubblichiamo un contributo segnalatoci dallo
stesso relatore che, compatibilmente con la preoccupante confusione, in buona
misura creata ad arte, che ancora grava sul percorso post elettorale, inizia a
fissare alcuni importanti elementi di riflessione utili a meglio capire l’evidente
crisi della democrazia americana specchio di una società sempre più segnata da
linee di frattura non tutte riconducibili alla sola contrapposizione fra Joe
Biden e Donald Trump
Usa
2020. Sistema
elettorale pieno di falle. Diseguaglianze feroci. E una società sempre più
atomizzata. Trump potrebbe passare ma la crisi americana probabilmente resterà
anche dopo le elezioni
L’esito di queste elezioni negli Stati Uniti è
totalmente incerto. Sfido chiunque a fare una previsione argomentata. Vittoria
di Biden, vittoria di Trump, con o senza una decisione della Corte Suprema, in
una situazione che rasenta la guerra civile. “Everything goes”, come dicono da
quelle parti. Basta questa semplice constatazione per affermare che dall’altra
parte dell’Oceano si gioca un bel pezzo di democrazia, in crescente sofferenza
nel mondo intero. Anche nostra.
Eppure, anche il più positivo degli esiti –
una vittoria di Biden di dimensioni tali da non poter essere efficacemente
avversata da Trump con mezzi (extra) giudiziari – contiene un gigantesco
paradosso. Come ha giustamente affermato un commentatore moderato e di sicura
fede bideniana quale Frank Bruni (cfr. “New York Times”, 31 ottobre), la stato
di eccezione non può essere attribuito a Trump che, con il suo modo di essere e
di governare, ha soltanto esasperato e resi visibili le falle e il graduale ma
inesorabile declino del modello statunitense. Ne consegue che una presidenza
Biden, accolta con giusto sollievo da amici ed alleati, solo in limitata misura
potrebbe invertirne l’involuzione.
Osserviamo una campagna elettorale profondamente
segnata dal denaro. Costi da sempre elevati, a causa degli spot televisivi a
pagamento, che sono diventati esorbitanti. Ma non per quell’1 % della
popolazione che ormai detiene presso che la metà della ricchezza di un qualsiasi
paese occidentale, in primo luogo gli Stati Uniti. Oltre 2 miliardi di dollari?
Un prezzo ragionevole per quelle tasche, in uno scontro a sangue con il fine di
contendersi la disponibilità di questo o quel presidente, senatore o deputato;
per difendere la continuità di una politica economica che, al di là di qualche
pur significativo ritocco, non intacchi una società ineguale.
Per continuare a sbarrare la strada a
quell’indirizzo socialdemocratico, rappresentato da Bernie Sanders e da una
nuova leva di deputate, che in maniera del tutto improbabile e propagandistica
Trump attribuisce a Biden. Il quale in realtà gli contende i favori di quella
minoranza abbiente, ulteriormente consolidata dai grandi guadagni della
pandemia (Amazon, Google, Facebook, industrie farmaceutiche in primis).
Insomma, partiti politici, addirittura
istituzioni democratiche, per storia tra le più robuste del mondo, sempre meno
capaci di sfondare il tetto di interessi costituiti. Sempre più fragili in
quanto strutturalmente mediocri. Basti osservare i minuti dettagli dei
meccanismi elettorali, pure accumulati nel corso degli anni, per comprendere la
difficoltà oggettiva di un mutamento: elezioni federali governate da regole
diversificate stato per stato, addirittura contea per contea; partecipazione al
voto non garantite dalla semplice cittadinanza; esito finale dipendente dalla
sommatoria di quelli dei singoli stati tramite grandi elettori, non del tutto
vincolati. Insomma, un’eredità apparentemente solida che un Berlusconi de’ voi
altri può utilizzare a suo favore e che un Biden, pur sopravvissuto, potrebbe
non avere interesse a modificare.
Infine, i rapporti col resto del mondo, profondamente
segnati dal bisogno di un nemico indispensabile per giustificare una presenza e
una spesa militare in continua crescita. Tale da nascondere il declino di una
democrazia un tempo egemone al punto tale da trovare proseliti ed alleati,
senza rinunciare a trasformarli in dittature quando ritenuto necessario.
Possiamo seriamente credere che
un Biden, circondato da istituzioni militari e di sicurezza, possa rinunciare
alla Cina e, in misura minore Russia, quali credibili minacce? Al divide et
impera tra alleati europei anziché fare i conti con un’Europa più unita e
sovrana? Ad una politica mediorientale che unifichi il fronte di Netanyahu con
quello degli stati arabi antisciiti, in chiave antiraniana?
In un mondo impegnato in
una caotica e pericolosa transizione verso un multipolarismo non governato,
Biden al posto di Trump potrebbe, nel nome di Wilson e di Roosevelt, imprimere
una sterzata rispetto all’ostilità militante del presidente in carica nei
confronti di una legalità e di un sistema internazionale, che si tratti di ONU,
OMS o UNHCR. Un’altra buona ragione per individuarlo quale male minore in una
gara dall’esito, ripeto, del tutto incerto.
Ma, per tornare a casa nostra,
vi è chi ama giocare sul sicuro. Quando invitato a scegliere tra Trump e Biden,
il ministro della Difesa della Repubblica Italiana, Lorenzo Guerini, ha
risposto: “Sono per il “Deep State”! I servizi, quelli americani, s’intende!
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