Pubblichiamo il seguente breve saggio di Jonathan Franzen uscito ormai un anno fa nella pagine della rivista letteraria “The New Yorker” e recentemente ripreso nella collana “Vele” dell’Einaudi come testo a sé stante con titolo "E se smettessimo di fingere?".
Smettiamo di fingere
di Jonathan Franzen - The New Yorker
C’è molta speranza, infinita speranza”, dice Franz Kafka, “ma non per noi”. Un aforisma adeguatamente mistico da parte di uno scrittore i cui personaggi perseguono obiettivi apparentemente raggiungibili che, in maniera tragica o divertente, non riescono mai a conseguire. Eppure a me sembra, nel nostro mondo dove le tenebre avanzano in fretta, che sia vero anche il contrario della battuta di Kafka: non c’è nessuna speranza, tranne che per noi. Sto parlando, naturalmente, del cambiamento climatico. La lotta per tenere a freno le emissioni globali di anidride carbonica e impedire che il pianeta fonda fa pensare a un racconto di Kafka. L’obiettivo è chiaro da trent’anni e, malgrado la sincerità degli sforzi, siamo ben lontani dal raggiungerlo. Oggi le prove scientifiche sono pressoché irrefutabili. Se avete meno di sessant’anni, avrete buone probabilità di assistere alla totale destabilizzazione della vita sulla Terra: carestie su vasta scala, incendi apocalittici, implosione di intere economie, immani inondazioni, centinaia di milioni di rifugiati in fuga da regioni rese inabitabili dal caldo estremo o dalla siccità permanente. Se avete meno di trent’anni, assisterete a tutto questo. Per chi ha a cuore il pianeta, e le persone e gli animali che lo abitano, ci sono due modi di affrontare il problema. Si può continuare a sperare che la catastrofe sia evitabile, e sentirsi sempre più frustrati o furiosi per l’inerzia del mondo. Oppure si può accettare l’idea che il disastro sta arrivando e cominciare a ripensare il significato della parola speranza. Ancora oggi le espressioni di speranza irrealistica abbondano. Non c’è giorno in cui io non legga che è ora di “rimboccarsi le maniche” e “salvare il pianeta”; che il problema del cambiamento climatico può essere “risolto” facendo appello alla volontà collettiva. Questo messaggio era probabilmente ancora vero nel 1988, quando i dati scientifici diventarono del tutto chiari, ma negli ultimi trent’anni abbiamo immesso nell’atmosfera una quantità di anidride carbonica pari a quella dei precedenti duecento anni di industrializzazione. I fatti sono cambiati, ma in qualche modo il messaggio rimane lo stesso.
Colazione
o morte
Da un punto di vista psicologico, questa negazione è
comprensibile. Malgrado il deplorevole fatto che presto sarò morto per sempre,
vivo nel presente, non nel futuro. Di fronte alla scelta tra un’allarmante
astrazione (morte) e la rassicurante evidenza dei miei sensi (colazione!), la
mia mente preferisce concentrarsi su quest’ultima. Il pianeta, inoltre, è
ancora meravigliosamente intatto, ancora sostanzialmente normale –
l’avvicendarsi delle stagioni, un altro anno elettorale in arrivo, nuove
commedie su Netflix – e la sua rovina incombente mi risulta ancora più
inconcepibile della morte. Altri tipi di apocalisse, religiosa o termonucleare
o asteroidale, hanno almeno la nitidezza binaria del morire: il mondo esiste e
un istante dopo non esiste più. L’apocalisse climatica, al contrario, è
caotica. Prenderà la forma di crisi sempre più gravi che peggioreranno in modo
disordinato, finché la civiltà
non comincerà a disgregarsi. Le cose si metteranno molto male, ma forse non
troppo presto, e forse non per tutti. Forse non per me. Una parte di questa
negazione, tuttavia, è più deliberata. La posizione scellerata del Partito
repubblicano statunitense sul clima è risaputa, ma la negazione è radicata
anche tra i progressisti, o almeno nella loro retorica. Il new deal verde, il
piano che contiene alcune delle proposte più concrete per affrontare il
problema, è ancora presentato come la nostra ultima possibilità di scongiurare
la catastrofe e salvare il pianeta tramite mastodontici progetti di energia
rinnovabile. Molti dei gruppi che sostengono queste proposte parlano di
“fermare” il cambiamento climatico, o suggeriscono che ci sia ancora tempo per
impedirlo. Al contrario della destra, la sinistra si vanta di ascoltare i
climatologi, i quali effettivamente riconoscono che la catastrofe è
teoricamente evitabile. Ma non tutti sembrano ascoltare con attenzione.
L’accento cade sulla parola teoricamente.
L’atmosfera e gli oceani possono assorbire solo una certa quantità di calore
prima che il cambiamento climatico, intensificato da vari cicli di retroazione,
diventi del tutto incontrollabile. L’opinione prevalente tra gli scienziati e i
politici è che supereremo quel punto di non ritorno se la temperatura media
globale aumenterà di più di due gradi (forse un po’ di più, ma forse anche un
po’ di meno). Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) dice
che per limitare l’aumento a meno di due gradi dobbiamo non solo invertire la
tendenza degli ultimi tre decenni, ma anche avvicinarci all’obiettivo zero
emissioni, globalmente, nei prossimi tre decenni. Questo è, a dir poco, un
compito arduo. Inoltre implica che ci fidiamo dei calcoli dell’Ipcc. Una
ricerca presentata recentemente su Scientific American dimostra che i
climatologi, lungi dall’ingigantire la minaccia del cambiamento climatico, ne
hanno sottovalutato la gravità e la velocità. Per stimare l’aumento della
temperatura media globale, gli scienziati si basano su complicati modelli
atmosferici. Prendono una grande quantità di variabili e le inseriscono nei
supercomputer per generare, diciamo, diecimila simulazioni diverse per il
prossimo secolo, allo scopo di ottenere la “migliore” previsione dell’aumento
delle temperature. Quando una scienziata prevede un aumento di due gradi, sta
solo indicando una cifra di cui è molto sicura: l’aumento sarà di almeno due
gradi. Ma in realtà potrebbe essere molto superiore.
Condizioni
necessarie
Non essendo uno scienziato, io faccio un altro tipo di
previsioni. Inserisco diversi scenari futuri nel mio cervello, applico i
vincoli della psicologia umana e della realtà politica, prendo nota
dell’inarrestabile aumento del consumo globale di energia (finora il risparmio
di anidride carbonica permesso dalle energie rinnovabili è stato ampiamente
controbilanciato dalla domanda dei consumatori) e conto gli scenari in cui
l’azione collettiva scongiurerà la catastrofe. Questi scenari, che ricavo dalle
ricette di politici e attivisti, hanno in comune alcune condizioni necessarie. La
prima condizione è che tutti i paesi più inquinanti del mondo istituiscano
draconiane misure di conservazione, chiudano la maggior parte delle loro
infrastrutture energetiche e di trasporto e riorganizzino completamente la loro
economia. Secondo un articolo pubblicato di recente su Nature, le
infrastrutture globali esistenti, se usate per il periodo previsto, produrranno
emissioni che supereranno da sole la nostra intera “quota” di emissioni, cioè i
miliardi di tonnellate di anidride carbonica che possiamo ancora emettere prima
di superare la soglia della catastrofe. Questa stima non include le migliaia di
nuovi progetti già approvati. Per rimanere all’interno di quella quota è
necessario un intervento dall’alto non solo in ogni paese, ma in ogni parte di
ogni paese. Trasformare New York in un’utopia verde non servirà a nulla se i
texani continuano a estrarre petrolio e guidare pick-up. Le azioni intraprese
da questi paesi devono anche essere quelle giuste. I governi devono spendere
enormi somme di denaro senza sprecarle o riversarle nelle tasche sbagliate. Qui
è utile ricordare la storia kafkiana della direttiva europea sui biocarburanti,
che è servita ad accelerare la deforestazione dell’Indonesia per fare spazio
alle piantagioni di palma da olio, e quella dei sussidi statunitensi ai
produttori di bioetanolo, che andavano a vantaggio solo dei coltivatori di
mais. Infine, moltissimi esseri umani dovranno accettare senza ribellarsi un
aumento delle tasse e un forte ridimensionamento del tenore di vita a cui sono
abituati. Dovranno accettare che il cambiamento climatico è reale e avere fede
nelle misure estreme adottate per combatterlo. Non potranno rifiutare come
false le notizie che non gradiscono. Dovranno mettere da parte nazionalismo,
classismo e odio razziale. Dovranno fare sacrifici per lontane nazioni in
pericolo e lontane generazioni future. Dovranno essere costantemente
terrorizzati dalle estati più calde e dai disastri naturali più frequenti,
anziché semplicemente abituarcisi. Ogni giorno, invece di pensare alla
colazione, dovranno pensare alla morte. Chiamatemi pessimista o chiamatemi
umanista, ma non penso che la natura umana cambierà presto in modo sostanziale.
Posso inserire diecimila scenari nel mio modello, e in nessuno vedo realizzarsi
l’obiettivo dei due gradi. A giudicare da recenti sondaggi, secondo cui la
maggioranza degli statunitensi (compresi molti repubblicani) è pessimista sul
futuro del pianeta, e dal successo di un libro come lo sconvolgente The
uninhabitable Earth di David Wallace-Wells, non sono l’unico a essere arrivato
a questa conclusione. Ma continua a esserci una forte riluttanza a diffonderla.
Alcuni attivisti sostengono che se ammettiamo pubblicamente di non poter
risolvere il problema, la gente si sentirà scoraggiata e non farà più niente
per migliorare le cose. Questa mi sembra una considerazione non solo
paternalistica ma anche debole, visti i pochi progressi che abbiamo fatto
finora. Gli attivisti che la pensano così mi ricordano i leader religiosi
convinti che senza la promessa dell’eterna salvezza la gente non si sforzerebbe
di comportarsi bene. Secondo la mia esperienza, i non credenti amano il loro
prossimo non meno dei credenti. E così mi domando cosa succederebbe se,
anziché negare la realtà, dicessimo le cose come stanno. Prima di tutto, anche
se non possiamo più sperare di salvarci
dai due gradi di riscaldamento,
ci sono ancora ottime ragioni pratiche ed etiche per
ridurre le emissioni di anidride carbonica. A lungo termine probabilmente non
farà differenza di quanto supereremo i due gradi: una volta superato il punto
di non ritorno, il mondo comincerà a trasformarsi da solo. Nel breve periodo,
tuttavia, le mezze misure sono meglio di nessuna misura. Dimezzare le emissioni
renderebbe gli effetti immediati del riscaldamento un po’ meno gravi, e
posticiperebbe un po’ il punto di non ritorno. La cosa più terrificante del
cambiamento climatico è la velocità a cui procede, il continuo superamento dei
record di temperatura. Se l’azione collettiva portasse come risultato anche un
solo devastante uragano in meno o qualche anno di relativa stabilità in più,
sarebbe un obiettivo degno di essere perseguito. In realtà sarebbe degno di
essere perseguito anche se non avesse alcun effetto. Non riuscire a tutelare
una risorsa limitata nonostante i mezzi per farlo siano disponibili, aggiungere
inutilmente anidride carbonica all’atmosfera quando sappiamo benissimo quali
saranno le conseguenze, è semplicemente sbagliato. Anche se le azioni di un
individuo non hanno alcun effetto sul clima, ciò non significa che siano
insignificanti. Ciascuno di noi ha una scelta morale da fare. Durante la
riforma protestante, quando “la fine dei tempi” era solo un’idea e non la
prospettiva orribilmente concreta che è oggi, un’importante questione
dottrinale era se bisognava compiere buone azioni perché garantivano l’accesso
al paradiso o semplicemente perché erano buone: perché, mentre il paradiso è un
punto interrogativo, sappiamo che questo mondo sarebbe migliore se tutti
facessero buone azioni. Posso rispettare il pianeta e avere a cuore le persone
con cui lo condivido, senza per forza credere che questo mi salverà.
Non solo: una falsa speranza di salvezza può rivelarsi realmente dannosa. Se
continuiamo a credere che la catastrofe può essere evitata, ci impegniamo ad
affrontare un problema così immenso che dovrà essere la priorità assoluta di
tutti per sempre. Questo, stranamente, produce una certa noncuranza: se votiamo
per i partiti verdi, andiamo al lavoro in bicicletta ed evitiamo di prendere
l’aereo, potremmo pensare di avere fatto tutto il possibile per l’unica cosa
che vale la pena di fare. Invece, se accettiamo che il surriscaldamento del
pianeta raggiungerà presto livelli tali da minacciare la civiltà, ci
accorgeremo che le cose da fare sono molte di più.
Migliorare
il mondo
Le nostre risorse non sono infinite. Anche se ne investissimo buona parte in una scommessa a lunghissimo termine, riducendo le emissioni nella speranza che questo ci salverà, non sarebbe saggio investirle tutte. Ogni miliardo di dollari speso in treni ad alta velocità è un miliardo che non viene messo da parte per prepararsi ai disastri, per risarcire i paesi inondati o per futuri aiuti umanitari. Ogni megaprogetto di energia rinnovabile che distrugge un ecosistema vivente – il progetto di sviluppo energetico “verde” attualmente in corso nei parchi nazionali del Kenya, i colossali progetti idroelettrici in Brasile, la costruzione di centrali fotovoltaiche negli spazi aperti invece che nelle zone abitate – riduce la resilienza di un mondo naturale che sta già lottando per la sopravvivenza. Il degrado del suolo e delle acque, l’abuso di pesticidi, la devastazione delle riserve ittiche: la volontà collettiva è necessaria anche per questi problemi che, a differenza di quello delle emissioni, abbiamo la possibilità di risolvere. Inoltre molte azioni a bassa tecnologia (ripristinare le foreste, tutelare le praterie, mangiare meno carne) possono ridurre la nostra impronta ecologica con la stessa efficacia di imponenti trasformazioni industriali. Una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono più significato. Prepararsi per gli incendi, le inondazioni e l’afflusso di profughi è un esempio pertinente. Ma la catastrofe che incombe rende più urgente quasi ogni azione che migliora il mondo. In tempi di caos crescente, le gente cerca protezione nel tribalismo e nell’uso delle armi, invece che nello stato di diritto, e la nostra migliore difesa contro questo tipo di distopia è mantenere democrazie funzionanti, sistemi giuridici funzionanti, comunità funzionanti. Sotto questo aspetto, ogni movimento verso una società più giusta e civile può essere considerato un’azione significativa per il clima. Garantire elezioni eque è un’azione per il clima. Combattere l’estrema disuguaglianza economica è un’azione per il clima. Chiudere le macchine dell’odio sui social network è un’azione per il clima. Istituire politiche migratorie umane, sostenere l’uguaglianza razziale e di genere, promuovere il rispetto delle leggi e la loro applicazione, difendere una stampa libera e indipendente, vietare le armi da guerra: sono tutte azioni significative per il clima. Per sopravvivere all’aumento delle temperature ogni sistema, naturale o umano, dovrà essere più forte e sano possibile.
Piccole battaglie
E poi c’è la questione della speranza. Se la vostra
speranza per il futuro si basa su uno scenario estremamente ottimistico, cosa
farete tra dieci anni, quando quello scenario diventerà inattuabile anche in
teoria? Darete il pianeta per perso? Prendendo in prestito il linguaggio dei
consulenti finanziari, consiglierei un portafoglio di speranze più bilanciato,
alcune a lungo termine, la maggior parte a più breve termine. Va bene lottare contro i limiti della natura umana, sperando di mitigare il
peggio di quel che verrà, ma è altrettanto importante combattere battaglie più
piccole e locali che avete qualche realistica speranza di vincere. Continuate a
fare la cosa giusta per il pianeta, sì, ma continuate anche a cercare di
salvare ciò che amate nello specifico – una comunità, un’istituzione, un luogo
selvaggio, una specie in difficoltà – e a rallegrarvi per i vostri piccoli
successi. Ogni cosa buona che fate è presumibilmente una protezione contro un
futuro più caldo, ma la cosa davvero importante è che è buona oggi. Finché
avete qualcosa da amare, avrete qualcosa in cui sperare. A Santa Cruz, dove
vivo, c’è un’organizzazione chiamata Homeless garden project. È una piccola
fattoria alla periferia occidentale della città, che offre lavoro, formazione
professionale, sostegno e un senso di comunità ai senzatetto. Questo progetto
non può “risolvere” il problema dei senzatetto, ma da quasi trent’anni cambia
le loro vite, una alla volta. Finanziandosi in parte con la vendita di prodotti
biologici, contribuisce più in generale a una rivoluzione nel nostro modo di
pensare alle persone bisognose, alla terra da cui dipendiamo e al mondo
naturale che ci circonda. Faccio parte del gruppo d’acquisto e ogni estate mi
godo fragole e cavolo nero provenienti dalla fattoria, e in autunno, dato che
il suolo è vivo e incontaminato, piccoli uccelli migratori trovano
sostentamento nei suoi fossi. Potrebbe arrivare un giorno, prima di quanto ci
piaccia pensare, in cui i sistemi dell’agricoltura industriale e del commercio
globale collasseranno e i senzatetto diventeranno più numerosi delle persone
che hanno una casa. A quel punto, l’agricoltura tradizionale locale e la forza
delle comunità non saranno più solo slogan progressisti. La gentilezza nei
confronti del prossimo e il rispetto per la terra – curare la salute del suolo,
fare buon uso dell’acqua, prendersi cura degli impollinatori – saranno
essenziali in una crisi e in qualunque società che sopravvivrà. Un progetto
come Homeless garden mi offre la speranza che il futuro, anche se indubbiamente
peggiore del presente, possa anche, in qualche modo, rivelarsi migliore.
Soprattutto, però, mi dà speranza per l’oggi.
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