sabato 14 novembre 2020

Smettiamo di fingere - breve saggio di Jonathan Franzen

 Pubblichiamo il seguente breve saggio di Jonathan Franzen uscito ormai un anno fa nella pagine della rivista letteraria “The New Yorker” e recentemente ripreso nella collana “Vele” dell’Einaudi come testo a sé stante con titolo "E se smettessimo di fingere?".                                           


 Per chi non lo conoscesse Jonathan Franzen è uno scrittore e saggista statunitense, molto apprezzato in campo letterario per alcuni suoi pluripremiati romanzi fra i quali spiccano “Le correzioni” e “Purity”, e costantemente al centro di varie polemiche per le sue vivaci prese di posizioni spesso molto intransigenti. Da sempre attivamente impegnato in battaglie ambientali ed ecologiche ha immediatamente creato un accesissimo dibattito, qui da noi passato però sotto silenzio, con l’uscita di questo suo brevissimo saggio, nel quale, partendo dalla convinzione che la battaglia per il contenimento del riscaldamento climatico sia ormai sostanzialmente persa, propone prospettive alternative per mantenere un impegno civico e ambientalista. E’ stato quindi attaccato da destra con l’accusa di eccesso di catastrofismo, ma nondimeno da sinistra con quella di aver alimentato, così argomentando, un pericoloso disfattismo e conseguente disimpegno nella battaglia in questione. Si tratta di una questione sicuramente importante che meriterebbe analogo nostro interesse, e sulla quale anche qui nel nostro modesto blog potremmo sicuramente tornare, ma in questo post è un altro aspetto del saggio che ci preme recuperare. In sostanza Franzen ritiene che sia in generale un errore concentrare in modo eccessivo il nostro impegno civile, la nostra sensibilità politica, su poche questioni considerate, anche su basi fondate, “madri di tutte le battaglie” (triste citazione di uno slogan coniato per la guerra in Irak). Franzen in sostanza si e ci chiede, ovviamente sollecitato dal sua timore che quella contro il riscaldamento climatico sia ormai persa, quanto sia giusto riservare tutta la nostra attenzione, la nostra energia, su alcuni ristretti temi con il rischio di non cogliere non solo la sempre presente possibilità di “perdere” ma anche di aggiungere danno a danno avendo in tal modo non colto l’importanza, l’urgenza, di altre questioni, magari strettamente collegate, e quindi di non esserci in tal modo sufficientemente impegnati su di esse ovvero di non essere conseguentemente in grado di gestire gli stessi danni collaterali dell’eventuale sconfitta nella “battaglia madre”. Uno stimolo a riprendere questo breve saggio ci è venuto riflettendo sull’articolo di Chiara Saraceno sulle gravi ricadute dall’eccesso di DaD, Didattica a Distanza, qui pubblicato pochi giorni fa. Va da sé che in questo caso non dobbiamo avere gli stessi timori di Franzen sul riscaldamento climatico: sicuramente quanto prima ci lasceremo in qualche modo alle spalle la pandemia da Covid! Ma la domanda di Franzen, che a noi pare collegarsi al richiamo della Saraceno, vale anche in questo caso: la pur necessaria attenzione al contenimento della pandemia non rischia di farci trascurare altre problematiche, magari direttamente collegate a questo contenimento? Fino a che punto la logica sanitaria della “salute prima di tutto” può prevalere su altre logiche e necessità? Quali e quanti costi saranno accettabili e congrui per sostenerla? Sono domande e dubbi che qua e là già si affacciano, metterli meglio in ordine male comunque non ci farà.

 Smettiamo di fingere

di Jonathan Franzen - The New Yorker

C’è molta speranza, infinita speranza”, dice Franz Kafka, “ma non per noi”. Un aforisma adeguatamente mistico da parte di uno scrittore i cui personaggi perseguono obiettivi apparentemente raggiungibili che, in maniera tragica o divertente, non riescono mai a conseguire. Eppure a me sembra, nel nostro mondo dove le tenebre avanzano in fretta, che sia vero anche il contrario della battuta di Kafka: non c’è nessuna speranza, tranne che per noi. Sto parlando, naturalmente, del cambiamento climatico. La lotta per tenere a freno le emissioni globali di anidride carbonica e impedire che il pianeta fonda fa pensare a un racconto di Kafka. L’obiettivo è chiaro da trent’anni e, malgrado la sincerità degli sforzi, siamo ben lontani dal raggiungerlo. Oggi le prove scientifiche sono pressoché irrefutabili. Se avete meno di sessant’anni, avrete buone probabilità di assistere alla totale destabilizzazione della vita sulla Terra: carestie su vasta scala, incendi apocalittici, implosione di intere economie, immani inondazioni, centinaia di milioni di rifugiati in fuga da regioni rese inabitabili dal caldo estremo o dalla siccità permanente. Se avete meno di trent’anni, assisterete a tutto questo. Per chi ha a cuore il pianeta, e le persone e gli animali che lo abitano, ci sono due modi di affrontare il problema. Si può continuare a sperare che la catastrofe sia evitabile, e sentirsi sempre più frustrati o furiosi per l’inerzia del mondo. Oppure si può accettare l’idea che il disastro sta arrivando e cominciare a ripensare il significato della parola speranza. Ancora oggi le espressioni di speranza irrealistica abbondano. Non c’è giorno in cui io non legga che è ora di “rimboccarsi le maniche” e “salvare il pianeta”; che il problema del cambiamento climatico può essere “risolto” facendo appello alla volontà collettiva. Questo messaggio era probabilmente ancora vero nel 1988, quando i dati scientifici diventarono del tutto chiari, ma negli ultimi trent’anni abbiamo immesso nell’atmosfera una quantità di anidride carbonica pari a quella dei precedenti duecento anni di industrializzazione. I fatti sono cambiati, ma in qualche modo il messaggio rimane lo stesso.

Colazione o morte

Da un punto di vista psicologico, questa negazione è comprensibile. Malgrado il deplorevole fatto che presto sarò morto per sempre, vivo nel presente, non nel futuro. Di fronte alla scelta tra un’allarmante astrazione (morte) e la rassicurante evidenza dei miei sensi (colazione!), la mia mente preferisce concentrarsi su quest’ultima. Il pianeta, inoltre, è ancora meravigliosamente intatto, ancora sostanzialmente normale – l’avvicendarsi delle stagioni, un altro anno elettorale in arrivo, nuove commedie su Netflix – e la sua rovina incombente mi risulta ancora più inconcepibile della morte. Altri tipi di apocalisse, religiosa o termonucleare o asteroidale, hanno almeno la nitidezza binaria del morire: il mondo esiste e un istante dopo non esiste più. L’apocalisse climatica, al contrario, è caotica. Prenderà la forma di crisi sempre più gravi che peggioreranno in modo disordinato, finché la civiltà
non comincerà a disgregarsi. Le cose si metteranno molto male, ma forse non troppo presto, e forse non per tutti. Forse non per me. Una parte di questa negazione, tuttavia, è più deliberata. La posizione scellerata del Partito repubblicano statunitense sul clima è risaputa, ma la negazione è radicata anche tra i progressisti, o almeno nella loro retorica. Il new deal verde, il piano che contiene alcune delle proposte più concrete per affrontare il problema, è ancora presentato come la nostra ultima possibilità di scongiurare la catastrofe e salvare il pianeta tramite mastodontici progetti di energia rinnovabile. Molti dei gruppi che sostengono queste proposte parlano di “fermare” il cambiamento climatico, o suggeriscono che ci sia ancora tempo per impedirlo. Al contrario della destra, la sinistra si vanta di ascoltare i climatologi, i quali effettivamente riconoscono che la catastrofe è teoricamente evitabile. Ma non tutti sembrano ascoltare con attenzione. L’accento cade sulla parola teoricamente.
L’atmosfera e gli oceani possono assorbire solo una certa quantità di calore prima che il cambiamento climatico, intensificato da vari cicli di retroazione, diventi del tutto incontrollabile. L’opinione prevalente tra gli scienziati e i politici è che supereremo quel punto di non ritorno se la temperatura media globale aumenterà di più di due gradi (forse un po’ di più, ma forse anche un po’ di meno). Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) dice che per limitare l’aumento a meno di due gradi dobbiamo non solo invertire la tendenza degli ultimi tre decenni, ma anche avvicinarci all’obiettivo zero emissioni, globalmente, nei prossimi tre decenni. Questo è, a dir poco, un compito arduo. Inoltre implica che ci fidiamo dei calcoli dell’Ipcc. Una ricerca presentata recentemente su Scientific American dimostra che i climatologi, lungi dall’ingigantire la minaccia del cambiamento climatico, ne hanno sottovalutato la gravità e la velocità. Per stimare l’aumento della temperatura media globale, gli scienziati si basano su complicati modelli atmosferici. Prendono una grande quantità di variabili e le inseriscono nei supercomputer per generare, diciamo, diecimila simulazioni diverse per il prossimo secolo, allo scopo di ottenere la “migliore” previsione dell’aumento delle temperature. Quando una scienziata prevede un aumento di due gradi, sta solo indicando una cifra di cui è molto sicura: l’aumento sarà di almeno due gradi. Ma in realtà potrebbe essere molto superiore.

Condizioni necessarie

Non essendo uno scienziato, io faccio un altro tipo di previsioni. Inserisco diversi scenari futuri nel mio cervello, applico i vincoli della psicologia umana e della realtà politica, prendo nota dell’inarrestabile aumento del consumo globale di energia (finora il risparmio di anidride carbonica permesso dalle energie rinnovabili è stato ampiamente controbilanciato dalla domanda dei consumatori) e conto gli scenari in cui l’azione collettiva scongiurerà la catastrofe. Questi scenari, che ricavo dalle ricette di politici e attivisti, hanno in comune alcune condizioni necessarie. La prima condizione è che tutti i paesi più inquinanti del mondo istituiscano draconiane misure di conservazione, chiudano la maggior parte delle loro infrastrutture energetiche e di trasporto e riorganizzino completamente la loro economia. Secondo un articolo pubblicato di recente su Nature, le infrastrutture globali esistenti, se usate per il periodo previsto, produrranno emissioni che supereranno da sole la nostra intera “quota” di emissioni, cioè i miliardi di tonnellate di anidride carbonica che possiamo ancora emettere prima di superare la soglia della catastrofe. Questa stima non include le migliaia di nuovi progetti già approvati. Per rimanere all’interno di quella quota è necessario un intervento dall’alto non solo in ogni paese, ma in ogni parte di ogni paese. Trasformare New York in un’utopia verde non servirà a nulla se i texani continuano a estrarre petrolio e guidare pick-up. Le azioni intraprese da questi paesi devono anche essere quelle giuste. I governi devono spendere enormi somme di denaro senza sprecarle o riversarle nelle tasche sbagliate. Qui è utile ricordare la storia kafkiana della direttiva europea sui biocarburanti, che è servita ad accelerare la deforestazione dell’Indonesia per fare spazio alle piantagioni di palma da olio, e quella dei sussidi statunitensi ai produttori di bioetanolo, che andavano a vantaggio solo dei coltivatori di mais. Infine, moltissimi esseri umani dovranno accettare senza ribellarsi un aumento delle tasse e un forte ridimensionamento del tenore di vita a cui sono abituati. Dovranno accettare che il cambiamento climatico è reale e avere fede nelle misure estreme adottate per combatterlo. Non potranno rifiutare come false le notizie che non gradiscono. Dovranno mettere da parte nazionalismo, classismo e odio razziale. Dovranno fare sacrifici per lontane nazioni in pericolo e lontane generazioni future. Dovranno essere costantemente terrorizzati dalle estati più calde e dai disastri naturali più frequenti, anziché semplicemente abituarcisi. Ogni giorno, invece di pensare alla colazione, dovranno pensare alla morte. Chiamatemi pessimista o chiamatemi umanista, ma non penso che la natura umana cambierà presto in modo sostanziale. Posso inserire diecimila scenari nel mio modello, e in nessuno vedo realizzarsi l’obiettivo dei due gradi. A giudicare da recenti sondaggi, secondo cui la maggioranza degli statunitensi (compresi molti repubblicani) è pessimista sul futuro del pianeta, e dal successo di un libro come lo sconvolgente The uninhabitable Earth di David Wallace-Wells, non sono l’unico a essere arrivato a questa conclusione. Ma continua a esserci una forte riluttanza a diffonderla. Alcuni attivisti sostengono che se ammettiamo pubblicamente di non poter risolvere il problema, la gente si sentirà scoraggiata e non farà più niente per migliorare le cose. Questa mi sembra una considerazione non solo paternalistica ma anche debole, visti i pochi progressi che abbiamo fatto finora. Gli attivisti che la pensano così mi ricordano i leader religiosi convinti che senza la promessa dell’eterna salvezza la gente non si sforzerebbe di comportarsi bene. Secondo la mia esperienza, i non credenti amano il loro prossimo non meno dei credenti. E così mi domando cosa succederebbe se,
anziché negare la realtà, dicessimo le cose come stanno. Prima di tutto, anche se non possiamo più sperare di salvarci
dai due gradi di riscaldamento,ci sono ancora ottime ragioni pratiche ed etiche per ridurre le emissioni di anidride carbonica. A lungo termine probabilmente non farà differenza di quanto supereremo i due gradi: una volta superato il punto di non ritorno, il mondo comincerà a trasformarsi da solo. Nel breve periodo, tuttavia, le mezze misure sono meglio di nessuna misura. Dimezzare le emissioni renderebbe gli effetti immediati del riscaldamento un po’ meno gravi, e posticiperebbe un po’ il punto di non ritorno. La cosa più terrificante del cambiamento climatico è la velocità a cui procede, il continuo superamento dei record di temperatura. Se l’azione collettiva portasse come risultato anche un solo devastante uragano in meno o qualche anno di relativa stabilità in più, sarebbe un obiettivo degno di essere perseguito. In realtà sarebbe degno di essere perseguito anche se non avesse alcun effetto. Non riuscire a tutelare una risorsa limitata nonostante i mezzi per farlo siano disponibili, aggiungere inutilmente anidride carbonica all’atmosfera quando sappiamo benissimo quali saranno le conseguenze, è semplicemente sbagliato. Anche se le azioni di un individuo non hanno alcun effetto sul clima, ciò non significa che siano insignificanti. Ciascuno di noi ha una scelta morale da fare. Durante la riforma protestante, quando “la fine dei tempi” era solo un’idea e non la prospettiva orribilmente concreta che è oggi, un’importante questione dottrinale era se bisognava compiere buone azioni perché garantivano l’accesso al paradiso o semplicemente perché erano buone: perché, mentre il paradiso è un punto interrogativo, sappiamo che questo mondo sarebbe migliore se tutti facessero buone azioni. Posso rispettare il pianeta e avere a cuore le persone con cui lo condivido, senza per forza credere che questo mi salverà.
Non solo: una falsa speranza di salvezza può rivelarsi realmente dannosa. Se continuiamo a credere che la catastrofe può essere evitata, ci impegniamo ad affrontare un problema così immenso che dovrà essere la priorità assoluta di tutti per sempre. Questo, stranamente, produce una certa noncuranza: se votiamo per i partiti verdi, andiamo al lavoro in bicicletta ed evitiamo di prendere l’aereo, potremmo pensare di avere fatto tutto il possibile per l’unica cosa che vale la pena di fare. Invece, se accettiamo che il surriscaldamento del pianeta raggiungerà presto livelli tali da minacciare la civiltà, ci accorgeremo che le cose da fare sono molte di più.

Migliorare il mondo

Le nostre risorse non sono infinite. Anche se ne investissimo buona parte in una scommessa a lunghissimo termine, riducendo le emissioni nella speranza che questo ci salverà, non sarebbe saggio investirle tutte. Ogni miliardo di dollari speso in treni ad alta velocità è un miliardo che non viene messo da parte per prepararsi ai disastri, per risarcire i paesi inondati o per futuri aiuti umanitari. Ogni megaprogetto di energia rinnovabile che distrugge un ecosistema vivente – il progetto di sviluppo energetico “verde” attualmente in corso nei parchi nazionali del Kenya, i colossali progetti idroelettrici in Brasile, la costruzione di centrali fotovoltaiche negli spazi aperti invece che nelle zone abitate – riduce la resilienza di un mondo naturale che sta già lottando per la sopravvivenza. Il degrado del suolo e delle acque, l’abuso di pesticidi, la devastazione delle riserve ittiche: la volontà collettiva è necessaria anche per questi problemi che, a differenza di quello delle emissioni, abbiamo la possibilità di risolvere. Inoltre molte azioni a bassa tecnologia (ripristinare le foreste, tutelare le praterie, mangiare meno carne) possono ridurre la nostra impronta ecologica con la stessa efficacia di imponenti trasformazioni industriali. Una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono più significato. Prepararsi per gli incendi, le inondazioni e l’afflusso di profughi è un esempio pertinente. Ma la catastrofe che incombe rende più urgente quasi ogni azione che migliora il mondo. In tempi di caos crescente, le gente cerca protezione nel tribalismo e nell’uso delle armi, invece che nello stato di diritto, e la nostra migliore difesa contro questo tipo di distopia è mantenere democrazie funzionanti, sistemi giuridici funzionanti, comunità funzionanti. Sotto questo aspetto, ogni movimento verso una società più giusta e civile può essere considerato un’azione significativa per il clima. Garantire elezioni eque è un’azione per il clima. Combattere l’estrema disuguaglianza economica è un’azione per il clima. Chiudere le macchine dell’odio sui social network è un’azione per il clima. Istituire politiche migratorie umane, sostenere l’uguaglianza razziale e di genere, promuovere il rispetto delle leggi e la loro applicazione, difendere una stampa libera e indipendente, vietare le armi da guerra: sono tutte azioni significative per il clima. Per sopravvivere all’aumento delle temperature ogni sistema, naturale o umano, dovrà essere più forte e sano possibile.

Piccole battaglie

E poi c’è la questione della speranza. Se la vostra speranza per il futuro si basa su uno scenario estremamente ottimistico, cosa farete tra dieci anni, quando quello scenario diventerà inattuabile anche in teoria? Darete il pianeta per perso? Prendendo in prestito il linguaggio dei consulenti finanziari, consiglierei un portafoglio di speranze più bilanciato, alcune a lungo termine, la maggior parte a più breve termine. Va bene lottare contro i limiti della natura umana, sperando di mitigare il peggio di quel che verrà, ma è altrettanto importante combattere battaglie più piccole e locali che avete qualche realistica speranza di vincere. Continuate a fare la cosa giusta per il pianeta, sì, ma continuate anche a cercare di salvare ciò che amate nello specifico – una comunità, un’istituzione, un luogo selvaggio, una specie in difficoltà – e a rallegrarvi per i vostri piccoli successi. Ogni cosa buona che fate è presumibilmente una protezione contro un futuro più caldo, ma la cosa davvero importante è che è buona oggi. Finché avete qualcosa da amare, avrete qualcosa in cui sperare. A Santa Cruz, dove vivo, c’è un’organizzazione chiamata Homeless garden project. È una piccola fattoria alla periferia occidentale della città, che offre lavoro, formazione professionale, sostegno e un senso di comunità ai senzatetto. Questo progetto non può “risolvere” il problema dei senzatetto, ma da quasi trent’anni cambia le loro vite, una alla volta. Finanziandosi in parte con la vendita di prodotti biologici, contribuisce più in generale a una rivoluzione nel nostro modo di pensare alle persone bisognose, alla terra da cui dipendiamo e al mondo naturale che ci circonda. Faccio parte del gruppo d’acquisto e ogni estate mi godo fragole e cavolo nero provenienti dalla fattoria, e in autunno, dato che il suolo è vivo e incontaminato, piccoli uccelli migratori trovano sostentamento nei suoi fossi. Potrebbe arrivare un giorno, prima di quanto ci piaccia pensare, in cui i sistemi dell’agricoltura industriale e del commercio globale collasseranno e i senzatetto diventeranno più numerosi delle persone che hanno una casa. A quel punto, l’agricoltura tradizionale locale e la forza delle comunità non saranno più solo slogan progressisti. La gentilezza nei confronti del prossimo e il rispetto per la terra – curare la salute del suolo, fare buon uso dell’acqua, prendersi cura degli impollinatori – saranno essenziali in una crisi e in qualunque società che sopravvivrà. Un progetto come Homeless garden mi offre la speranza che il futuro, anche se indubbiamente peggiore del presente, possa anche, in qualche modo, rivelarsi migliore. Soprattutto, però, mi dà speranza per l’oggi.

                                                                                         

 

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